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:: Ballata per le nostre anime di Mauro Garofalo (Mondadori, 2020) a cura di Eva Dei

19 giugno 2020

Ballata per le nostre animeVolevo solo un posto, uno, nel mondo. E invece ho avuto l’inferno.

Il 13 luglio del 1914 la Val Brembana è scossa da una terribile vicenda. A Camerata Cornello Simone Pianetti imbraccia il fucile e a sangue freddo uccide sette suoi compaesani, uomini e donne che conosce dall’infanzia.
Simone, nato in quelle valli, è il figlio mediano di una famiglia se non benestante, quantomeno agiata. Gente venuta da fuori, che per il solo fatto di aver acquistato delle terre, saper leggere e far di conto, era guardata con sospetto dai locali. Sebbene Giovanni, il padre di Simone, fosse riuscito col tempo a farsi accettare dagli altri paesani, non si può dire lo stesso per suo figlio, irrequieto e testa calda fin da giovane. Simone riesce a ottenere riconoscimento e rispetto soltanto per le sue doti di abile cacciatore, il migliore di tutta la valle.
Dopo aver trascorso alcuni anni in America in cerca di fortuna, Simone torna il Val Brembana, si sposa, ha otto figli e cerca di costruire un futuro solido per la sua famiglia. Forte di quello che aveva visto e appreso in America decide di aprire prima una locanda, che poi converte anche in sala da ballo. Troppa modernità è subito vista come promiscuità dagli occhi invidiosi dei compaesani, tanto che, se inizialmente gli affari vanno bene, dopo l’ostruzionismo dei notabili e del nuovo parroco, il Pianetti è costretto a chiudere la sua attività per mancanza di clienti.
Con i pochi risparmi rimasti lascia Camerata per il vicino paese di San Giovanni Bianco, dove investe tutto quello che ha in un mulino elettrico. Nonostante la modernità abbia raggiunto la valle con la costruzione delle stazioni ferroviarie, il progresso tarda a essere accettato dalla comunità e in poco tempo si sparge la voce che la farina del Pianetti è in realtà “farina del diavolo”. L’uomo finisce sul lastrico e nella sua mente inizia a farsi strada un’unica idea.

Un uomo solo nella sua cucina. Segna nomi su un’agenda nera. Tira linee e conclusioni. Il futuro già scritto.

Così una mattina d’estate Simone con il suo fucile toglie la vita a sette persone responsabili ai suoi occhi di molte delle sue disgrazie. Cadono sotto i suoi colpi il dottor Domenico Morali (colpevole di non aver curato l’appendicite del figlio Aristide), il segretario comunale, Abramo Giudici e sua figlia Valeria (colpevoli di aver ostracizzato a livello comunale le sue attività e di averle giudicate immorali), il calzolaio e giudice conciliatore Giovanni Ghilardi (suo rivale politico), il parroco Don Camillo Filippi (che più volte aveva incitato la comunità a non frequentare la locanda del Pianetti in quanto luogo promiscuo) e il messo comunale Giovanni Giupponi, che quella mattina si trovava con lui; ultima Caterina Milesi, detta Nella, con la quale aveva avuto un contenzioso per un debito mai pagato e che era stata responsabile delle voci sulla nocività della farina del suo mulino.
Dopo i delitti Simone scappa, si rifugia nei boschi, e nonostante le lunghe ricerche, l’uomo sembra svanito, scomparso per sempre.

E dopo aver compiuto il misfatto. Il Pianetti. Semplicemente. Svanì. La minaccia avrebbe aleggiato nei secoli tra le valli Brembana e Seriana, nei villaggi montani, fin giù ai paesi e le città. In alto, sul massiccio del Venturosa, nevai, labirinti di pietra e nebbia. Una figura avvolta da un mantello scompare, mentre un camoscio guarda dalla nostra parte. Che pure, ci si chiede, di un uomo cosa resta? Poco, o forse, il fantasma della sua libertà.

Mauro Garofalo romanza la vicenda di Simone Pianetti nel suo romanzo Ballata per le nostre anime.
Il libro risulta un’ibridazione di fatto storico, volontà narrativa ma anche metrica delle ballate. Se per tutto ciò che concerne le notizie dell’epoca Garofalo ha fatto affidamento sul volume di Denis Pianetti, pronipote di Simone, Cronache di una vendetta (Corponove, Bergamo, 2018), nello stile, come ammette lui stesso nelle note al termine dell’opera, ha basato la scrittura su gli interludi delle musiche di Nick Cave, Tom Waits e Fabrizio De André. Come in una ballata a ogni stanza, in questo caso capitolo che ci racconta cronologicamente (ma con qualche salto temporale) la storia del Pianetti, si alterna un ritornello, rappresentato dalla voce di una delle vittime. Queste ultime compaiono ormai morte nell’ordine in cui sono cadute quel 14 luglio e le loro anime raccontano la loro verità, alternando rabbia e perdono.

Mauro Garofalo è nato a Roma nel 1974, vive a Milano. Scrittore, giornalista e fotoreporter, è autore di due romanzi, entrambi editi per Frassinelli. È titolare del corso di Scrittura del Centro Sperimentale di Cinematografia di Milano, collabora con La Stampa Tuttogreen e tiene il corso di Storytelling alla Civica Scuola Cinema Luchino Visconti.

Source: libro inviato dall’editore, che ringraziamo.

:: Eredità di Vigdis Hjorth (Fazi, 2020) a cura di Eva Dei

10 giugno 2020

EreditàEredità” non è soltanto il titolo del primo libro di Vigdis Hjorth tradotto nel nostro Paese, ma il vero motore della narrazione.
Tutto la vicenda parte da un’eredità e dalla sua divisione tra quattro figli. Come troppo spesso accade non solo amore e unione dominano i legami tra i vari membri della famiglia. Bergljot, la voce narrante, ha interrotto i legami con i suoi genitori da molti anni: tra loro si è creata una frattura insanabile, causata da qualcosa che la protagonista non ha il coraggio di raccontare subito al lettore, ma che rivela poco alla volta.

Il vaso cade per terra una volta e incolli i cocci per rimetterlo insieme, il vaso cade per terra una seconda volta e incolli i cocci per rimetterlo insieme. Non è più così bello, ma in un certo modo funziona, ma quando cade per la terza volta e rimane polverizzato davanti ai tuoi piedi, vedi subito che ormai è da buttare, non lo si può più riparare. Era così. La famiglia era distrutta. La famiglia era persa.

Le dinamiche e gli equilibri familiari cambiano nuovamente quando i genitori, ancora in vita e in buona salute, sebbene anziani, decidono di prendere anticipatamente alcune decisioni in merito al loro patrimonio. Pur dichiarando di voler dividere equamente i loro beni tra i quattro figli, scelgono di intestare le due case al mare esclusivamente alle due figlie minori, Astrid e Åsa, e di versare ai due maggiori, Bård e Bergljot, un corrispettivo in denaro. Le valutazioni delle due case risultano però molto più basse del loro reale valore, mettendo in luce la cattiva fede dei genitori. Bård, sentendosi preso in giro affronta sia i genitori sia le sorelle minori, accusando i primi di essere ingiusti e le seconde di assecondare e difendere la loro volontà. Davanti al loro categorico rifiuto di ammettere una qualsiasi forma di iniquità, decide di tagliare a sua volta i ponti con la famiglia, riavvicinandosi a Bergljot. Quest’ultima che finora ha cercato di tenersi il più possibile ai margini della famiglia, capisce che le rivendicazioni del fratello sono giuste; sostenere Bård è necessario così come afferrare questa occasione per far sentire veramente la sua voce.
Il ricordo di quello che il padre le ha fatto subire da piccola è riaffiorato in età adulta, solo un percorso di psicoanalisi ha aiutato Bergljot ad affrontare il trauma, cercando di costruirsi una vita il più possibile serena. Ma la sua verità non è mai stata accettata né dalla madre né da Astrid, con le quali ha cercato più volte un confronto. Quello che Bergljot racconta loro è qualcosa di grave, di inaccettabile, qualcosa che metterebbe in crisi l’intera famiglia, sconvolgendo la vita di tutti loro; proprio per questo entrambe decidono che sia più comodo crederla solo una bugia, l’allucinazione di una donna da sempre instabile e inaffidabile.
La questione dell’eredità offrirà a Bergljot l’opportunità di mostrare la sua posizione con fermezza e argomentare le sue scelte con lucidità. La sua voce questa volta si staglierà chiara nell’ufficio di un notaio, non sarà, come spesso è successo in passato, offuscata dai fumi dell’alcool o veicolata da un’email rabbiosa e insensata.
La disparità di trattamento in merito all’eredità corrisponde alla netta diversità tra l’infanzia vissuta da Bård e Bergljot, ricca di instabilità e violenze, e quella rassicurante e affettuosa di Astrid e Åsa.

“Sai qual è la prima cosa che mi viene in mente quando penso a mio padre?”, disse Bård, prima di proseguire senza aspettare la risposta. “Avevo nove anni, eravamo sull’altipiano di Hardangervitta per pescare, volevo tornare a casa e mi girai. Papà mi seguì, afferrò un bastone e mi massacrò di botte. Questo è il ricordo più nitido che ho di lui.”

I genitori di questa famiglia appaiono come una coppia di Dottor Jekyll e Mister Hyde: dietro una facciata di avvenenza, ricchezza e perfezione si nascondono un uomo e una donna egoisti, instabili, feroci, incapaci di qualsiasi affetto o empatia, anche nei confronti dei loro stessi figli. Le due sorelle minori non ne escono in maniera migliore: se la minor, Åsa, è il personaggio che viene meno delineato e anche quella che è più esterna alla vicenda, quella che è sempre stata meno in confidenza con i fratelli maggiori. Astrid invece ha ricevuto spesso le confidenze di Bergljot, cercando di diventare un ponte tra lei e Bård e i genitori. La stessa Bergljot le riconosce più di una volta di ricoprire una posizione scomoda, al centro di una disputa in cui ognuna delle due parti racconta una realtà completamente inconciliabile con quella dell’altro. Ma non schierandosi, rifiutando il dolore della sorella e diventando una sorta di intermediario, Astrid prende in realtà una posizione, aiutando il mantenimento dello status quo.

Pareva non capire, o non voler riconoscere, che esistevano conflitti che non erano risolvibili nel modo in cui avrebbe voluto lei, che esistevano contraddizioni che non si potevano cancellare, che si potevano tralasciare o girarci intorno, tra cui bisognava scegliere.

Eredità non è un libro sulla violenza familiare o sugli abusi, quanto più un romanzo sulla sofferenza.
Una sofferenza subita, nascosta e poi elaborata, una sofferenza che ha bisogno di essere riconosciuta e ascoltata da chi quella sofferenza l’ha creata per non rappresentare più una ferita aperta e sanguinante. Questo è quello che Vigdis Hjorth realizza a livello narrativo: cerca di dare voce alla sua Bergljot, in un flusso di coscienza continuo. Episodi scollegati, ricordi, azioni e pensieri riaffiorano e molte volte si ripetono, restituendo l’angoscia e il processo di elaborazione.
Inascoltata dalla sua famiglia la protagonista del libro trova adesso qualcuno disposto ad ascoltarla: il lettore. Traduzione di Margherita Podestà Heir.

Vigdis Hjorth è nata a Oslo nel 1959, è una delle scrittrici norvegesi più conosciute e stimate. Ha esordito nel 1983 con Pelle-Ragnar i den gule gården, grazie al quale il Ministero della Cultura norvegese le ha attribuito il premio per il miglior romanzo d’esordio. Ha pubblicato più di trenta libri, fra cui una ventina di romanzi, conquistando i premi letterari più svariati. Eredità, vincitore del Norwegian Booksellers’ Prize e del Norwegian Critics Prize for Literature – i due principali riconoscimenti norvegesi –, è il romanzo con cui ha ottenuto la fama internazionale, rientrando nella rosa dei finalisti del National Book Award for Translated Literature nel 2019.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Livia Senni dell’Ufficio stampa Fazi.

:: Il figlio di Philipp Meyer (Einaudi, 2014) a cura di Eva Dei

13 Maggio 2020

Il figlioQuando erano arrivati gli spagnoli, lì c’erano i Suma, i Jumano, i Manso, i La Junta, i Concho e i Chiso e i Toboso, gli Ocana e i Cacaxtle, i Couahuilatechi, i Comecrudo…ma nessuno sapeva se avessero spazzato via i Mogollon o discendessero da loro. Vennero tutti spazzati via dagli Apache. Che a loro volta vennero spazzati via, perlomeno in Texas, dai Comanche. Che alla fine vennero spazzati via dagli americani.
Un uomo, una vita: era quasi inutile parlarne. I visigoti avevano distrutto i romani, ed erano stati distrutti dai musulmani. Che erano stati distrutti dagli spagnoli e dai portoghesi. Non serviva Hitler per capire che non era una bella storia. Eppure lei era lì. Respirava, faceva quei pensieri. Il sangue che scorreva nella storia poteva riempire tutti i fiumi e gli oceani, ma nonostante quell’ecatombe, tu eri lì.

Texas, dal 1832 fino agli anni 80 del Novecento. La storia di questa parte d’America si dipana nel secondo libro di Philipp Meyer, Il figlio, attraverso la voce di tre membri della stessa famiglia, i McCullough.
Il capostipite Eli ora è un centenario, conosciuto e rispettato da tutti, soprannominato “il Colonnello”. Quest’uomo è stato il vero motore della fortuna della famiglia. Sempre capace di adattarsi, di seguire i cambiamenti dati dal tempo, ma anche dalla natura stessa. Una volta che il verde e rigoglioso Texas si è trasformato in una terra brulla e arida, non ha dubitato nemmeno un secondo su quanto fosse necessario investire nell’oro nero, il petrolio, invece che portare avanti il tradizionale allevamento di bestiame. Concreto, capace, senza dubbio spietato, probabilmente nessuno conosce il suo passato, che se sovrappone a quello di un giovane guerriero Comanche di nome Tiehteti.
Senza dubbio molto diverso è suo figlio Peter, un uomo di buon cuore, che per primo si interroga su quanto la “legge del più forte” che ha sempre governato quella terra sia giusta. Peter è un uomo sensibile, diviso tra l’appartenenza alla sua famiglia e tra i valori di amicizia e giustizia fortemente radicati nella sua morale.

Sono esule in casa mia, fra i miei parenti, forse anche nel mio paese.

Depositaria della storia della sua famiglia, colei che forse più di tutte ne porta il peso è la pronipote di Eli, Jeanne Anne. Donna in una famiglia patriarcale, donna in una terra che ha attribuito a questa figura solo il ruolo di moglie e madre, Jeanne Anne deve farsi valere, dimostrarsi all’altezza dell’eredità di famiglia e delle scelte che comporta tenerne vivo il prestigio e la ricchezza.
Suo padre non l’aveva mai considerata all’altezza, ma di fatto Jeanne sacrificherà una parte importante della sua vita, quella degli affetti, per rivendicare il suo posto:

Non riusciva proprio a capirla la gente. Gli uomini, con cui aveva tutto in comune, non la volevano tra i piedi. Le donne, con cui non aveva niente in comune, sorridevano troppo, ridevano troppo forte, e in genere le ricordavano i cagnolini, la vita persa dietro l’arredamento e il modo di vestire delle altre. Non c’era mai stato posto per una come lei.

Solo in punto di morte Jeanne Anne capirà se il suo sacrificio è servito a qualcosa.
Nel finale infatti Philipp Meyer tira le fila della storia dei McCullough, riunisce le tre voci narranti in un disegno che non ricostruisce soltanto la loro storia, ma quella del Texas intero. Quella che emerge è la storia di una terra fertile diventata arida perché abusata, governata dalla legge del più forte, che nasconde dietro di sé non solo soprusi e indicibili sofferenze, ma soprattutto grandi contraddizioni. Il confine tra usurpati e usurpatori è in costante mutamento, la terra del Texas è bagnata dal sangue di coloro che urlavano vendetta, prima vinti e poi vincitori, in un circolo vizioso che non sembra mai arrestarsi.
Meyer si rivela sicuramente un abile narratore, capace non solo di alternare e concatenare tre voci diverse e i conseguenti piani temporali sfalsati, ma anche tre diverse tecniche narrative. Per Eli sceglie la prima persona, per Peter il racconto diaristico mentre per Jeanne Anne la terza persona. La lettura non risulta rallentata, inoltre nella tipologia narrativa si rispecchia anche la personalità del personaggio: l’assertività della prima persona riflette tutta la forza e la capacità di imporsi del Colonnello, l’intimità del diario restituisce la sensibilità e la capacità introspettiva di Peter, mentre la narrazione esterna di Jeanne Anne rappresenta l’oggettività dei fatti, privata di qualsiasi sentimentalismo.
Il figlio è al contempo ricostruzione storica minuziosa e spietata di più di cento anni di storia americana, ma anche avvincente saga familiare. Eli, Peter e Jeanne Anne sono personaggi in cui il lettore può riconoscersi o per i quali può provare repulsione, ma che difficilmente una volta conclusa la lettura potrà dimenticare.

Philipp Meyer è cresciuto a Baltimora, Maryland. Ha lasciato il liceo a 16 anni. Dopo aver lavorato per diversi anni in un centro traumatologico, si è iscritto alla Cornell University, dove ha studiato letteratura inglese. Dopo la laurea, ha lavorato in banca, poi come operaio edile, e infine di nuovo in un ospedale. I suoi racconti sono usciti su «The New Yorker», «Esquire», «McSweeney’s», «Salon» e l’«Iowa Review». Ruggine americana (Einaudi 2010 e 2014) è stato nominato Miglior libro del 2009 da «The New York Times», dal «Los Angeles Times» e dall’«Economist» ed è stato inserito nella Newsweek’s list of «Best Books Ever», Amazon Top 100 Books of 2009, Washington Post Top 10 Books of 2009. Philipp Meyer è stato selezionato da «The New Yorker» tra i 20 migliori scrittori sotto i 40 anni.

Source: libro del recensore.

:: Finché il caffè è caldo di Toshikazu Kawaguchi (Garzanti, 2020) a cura di Eva Dei

23 aprile 2020
Finchè il caffè è caldo

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In una caffetteria in Giappone Gorō e Fumiko stanno discutendo di una cosa seria: la rottura del loro fidanzamento. Gorō, stranamente distaccato, liquida in fretta la questione e lascia Fumiko al tavolino di quello strano locale. Fumiko si guarda intorno triste e abbattuta: nella caffetteria non c’è neanche una finestra, si trova all’interno di un seminterrato. A scandire il passare del tempo ci sono tre grossi orologi antichi da parete, che segnano ognuno un orario diverso; il din-don di un campanello segnala l’ingresso e l’uscita dei clienti, che per lo più sembrano abitudinari. Un posto forse non alla moda, ma particolare, proprio come il suo nome, quello che aveva attratto Fumiko, ricordandole una canzone che cantava sempre da piccola.
In realtà quella caffetteria non è particolare solo per il suo aspetto, ma anche per una leggenda metropolitana che qualche anno prima le aveva fatto conquistare una certa fama. Pare infatti che in quel locale sia possibile viaggiare nel tempo. Fumiko non si ricorda immediatamente di questo particolare, ma dopo una settimana dalla rottura con Gorō torna al bancone, pronta a convincere Kazu, la cameriera, a riportarla indietro; purtroppo non è così semplice, non si tratta solo di esaudire un desiderio o pagare un servizio.
Kazu inizia così a elencare a Fumiko le severe regole che già in passato hanno scoraggiato molte persone dal tentare:

  • Una volta tornato nel passato, potrai incontrare solo le persone che sono state nel locale.
  • Una volta tornato nel passato, non puoi fare niente per cambiare il presente.
  • C’è una sola sedia che ti permette di tornare indietro nel tempo e mentre sei nel passato non ti puoi muovere da quella sedia.
  • C’è un limite di tempo: il viaggio inizia appena ti verrà versato il caffè in una tazza e dovrai berlo prima che si raffreddi. Quando finirai il caffè tornerai nel presente.

Quattro storie compongono il romanzo d’esordio di Toshikazu Kawaguchi, ma definirli racconti è riduttivo, si tratta di qualcosa di più organico, meno indipendente. La cornice comune è sicuramente la caffetteria, ma anche i personaggi appaiono e scompaiono dalla scena, giocando talvolta il ruolo di comparse, altre quello di protagonisti. Anche quando un personaggio non è il protagonista della storia racconta qualcosa di sé, un indizio che si riaccenderà come una lampadina nella mente del lettore quando quello stesso personaggio sarà al centro della storia successiva.
Questa struttura ricorre nella letteratura giapponese, ma anche nella produzione cinematografica, basti pensare alla serie di Netflix Midnight Diner, tratta dall’omonimo manga di Yarō Abe: in quel caso tutte le storie ruotano intorno a un ristorante notturno, ma l’andamento è sicuramente simile.
Finché il caffè è caldo riprende però un altro topos letterario, ovvero quello dei viaggi nel tempo, ma lo fa mutilandolo di quella che è la sua attrattiva fondamentale: la capacità di modificare passato e futuro.

In fin dei conti, che uno torni nel passato o viaggi nel futuro, il presente non cambia comunque. E allora sorge spontanea la domanda: che senso ha quella sedia?

All’inizio del libro la domanda è legittima ma proseguendo nella lettura si capisce che, rievocando T. S. Eliot, quello che Kawaguchi vuole sottolineare è che il senso sta tutto in come si affronta il viaggio (metaforicamente nel tempo, realmente nella vita) e non nel viaggio stesso. I suoi personaggi hanno dei rimpianti, dei moti di orgoglio, ma davanti all’impossibilità di modificare quello che la vita ha in serbo per loro, capiscono che la vera chiave di volta si trova nel loro atteggiamento.
Con un libro sui viaggi nel tempo l’autore esalta l’importanza del presente, l’essenza stessa del vivere giorno per giorno, momento per momento, senza dare niente e nessuno per scontato.

Toshikazu Kawaguchi è nato a Osaka, in Giappone, nel 1971, dove lavora come sceneggiatore e regista. Con Finché il caffè è caldo, suo romanzo d’esordio, ha vinto il Suginami Drama Festival.

Source: libro del recensore.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: Ai sopravvissuti spareremo ancora di Claudio Lagomarsini (Fazi, 2020) a cura di Eva Dei

19 febbraio 2020

Ai sopravvissuti spareremo ancoraUn aereo dal Brasile fino all’Italia: è un viaggio di ritorno alle origini quello che compie un giovane uomo per raggiungere un paesino di cui non conosciamo il nome, situato vicino alla costa tra la Toscana e la Liguria. Lì lo attende la casa di famiglia, pronta per essere finalmente venduta.
Il fastidio che gli suscita quel luogo è palpabile dal primo momento, quando imbocca la stradina che lo conduce a quelle tre case che tra loro formano una sorta di ferro di cavallo: la loro, quella della nonna materna e quella del vicino. Dopo le ultime formalità sbrigate con la ragazza dell’agenzia non gli resta che scegliere se salvare qualcosa tra quei pochi oggetti ammassati negli scatoloni.

Il problema è che non ho nessun indirizzo da dare, mia madre non vuole nulla di ciò che si è lasciata alle spalle, e a me, un oceano più in là e un emisfero più in giù, non servono né i set di bicchieri né i vecchi asciugamani o i DVD. (…) Mi aggiro tra le scatole come un angelo della morte, sbuffando come un treno a vapore. L’insofferenza e il fastidio di essere qui prevalgono sulla nostalgia. Segno croci rosse senza misericordia, condanno allo smaltimento vasellame e soprammobili.

Rovistando con fare annoiato tra quelle cianfrusaglie e scuriosando tra vecchi libri di autori sconosciuti, ad attirare la sua attenzione sono cinque piccoli quaderni Monocromo abbandonati sul fondo di una scatola. Dal momento in cui li apre e cerca di decifrarne la scrittura passano alcuni secondi prima che realizzi che quei quaderni sono gli stessi su cui scriveva freneticamente suo fratello Marcello l’estate di quindici anni prima.
Inizia in quel momento la storia vera, quella che permette di dare un nome, seppur di fantasia, a questo giovane uomo. Lui è il Salice, o almeno questo è l’appellativo con il quale Marcello lo identifica nei suoi quaderni. Il “Salice” perché fin da ragazzino era facile al pianto secondo suo fratello, ma al lettore non sfugge quando in realtà sia Marcello il più sensibile tra i due, forse il più fragile proprio perché incapace di esternare tutto quello che invece rilega nei suoi appunti.

Ora so perché Marcello mi chiama il Salice: ero facile al pianto, scrive. Eppure, se a raccontare fossi io, direi l’esatto contrario. Ricordo bene i suoi accessi di disperazione e ira, gli oggetti scagliati a terra (un’arancia, un bicchiere) e il mio spavento e i sospiri di nostra madre. Ma che cos’ha?, le chiedevo quand’ero piccolo. Niente, diceva lei aggiustandomi la scriminatura con le unghie, tuo fratello è solo un po’ nervoso.

Quell’estate Marcello gli aveva parlato sommariamente di lavorare a un romanzo, ma quello che racconta nei suoi quaderni non è altro che la loro vita, dove i protagonisti acquistano in alcuni casi nomi di fantasia: il patrigno è Wayne, a causa della sua passione per i film Western, mentre il vicino con cui la nonna ha una relazione amorosa è il Tordo. Il Salice leggendo ricorda le cene in giardino, dove a tenere banco erano le gesta giovanili del Tordo e le battute a doppio senso, il tutto accompagnato da pessimo vino, ma emerge anche il difficile rapporto tra sua madre e la nonna, la figura problematica di Diego, il figlio di Wayne, le insicurezze di Marcello verso Sara, la ragazza di cui è innamorato, le incomprensioni tra vicini, culminate con quella futile lite per il serbatoio.
Lagomarsini racconta la famiglia e la provincia in tutte le sue contraddizioni, proprio come appare anche nei racconti del Tordo e della nonna: due facce che sembrano opposte, ma che fanno parte della stessa medaglia.

Vorrei prendere la parola e dire che i mondi che mi raccontano – stessa epoca, stessa piccola cittadina, stessi personaggi – sono tra loro incongrui: una specie di Sodoma il mondo del Tordo (…) . Un mondo arcaico, tradizional-patriarcale quello che si dipinge la nonna (…).

Un’opera prima quella di Lagomarsini, forse in alcuni punti un po’ acerba, che scorre facilmente, dove il tono nostalgico porta con sé fin dall’inizio un senso di amara malinconia. Il passato non è il luogo della felicità e della spensieratezza, ma cela zone buie, dove debolezze e insicurezze che singolarmente sarebbero recuperabili o gestibili, se mescolate e agitate insieme portano a una reazione irreversibile.
Vi consigliamo di approfittare del prezzo scontato offerto dall’editore fino al 29 febbraio (10,00 €, contro i 16,00 € di copertina).

Claudio Lagomarsini è ricercatore di Filologia romanza all’Università di Siena. Oltre a diverse pubblicazioni accademiche, suoi articoli di approfondimento sono usciti per Il Post, minima&moralia, Le parole e le cose. Come narratore, ha pubblicato diversi racconti per Nuovi Argomenti, Colla e retabloid, vincendo un contest organizzato dal Premio Calvino nel 2019. Questo è il suo primo romanzo.

Source: libro inviato dall’editore, che ringraziamo.

:: Lontano dagli occhi di Paolo Di Paolo (Feltrinelli, 2019) a cura di Eva Dei

14 gennaio 2020

Lontano dagli occhiUn uomo che sta per diventare padre non lo riconosci da niente.”

Con questa riflessione si apre la storia che ci racconta Paolo Di Paolo nel suo ultimo romanzo Lontano dagli occhi. In effetti non avrebbe senso cedere il posto a sedere sull’autobus a un futuro padre; inoltre lui può fumare, bere, mangiare qualunque cosa senza rischi e sensi di colpa. Può perfino flirtare con una bella ragazza e dimenticarsi, per un momento, di quella dolce attesa che non grava sul suo corpo. Ma qualcosa, se non certamente nel suo fisico, scatta nella sua mente: un cambiamento epocale che dal ruolo di figlio lo eleva a quello non più semplice di genitore.
L’autore prova a indagare questa trasformazione, a ricercare le emozioni e i turbamenti di questo passaggio attraverso le vite di sei personaggi.
A Roma nell’aprile del 1983 tre uomini, l’Irlandese, Ermes e Gaetano, si sentono dire la stessa frase: “sono incinta”. A pronunciarla tre donne: Luciana, Valentina, Cecilia. Coppie completamente diverse per età, lavoro, interessi e problematiche. Le conosciamo in maniera frammentata e alternata. Forse anche parlare di coppie non è esatto: individui che incrociano per un periodo più o meno breve la loro vita; provano qualcosa l’uno per l’altro, questo sì, ma alla voce narrante non interessa indagare il tipo di sentimento o la sua intensità, perché due sono le cose che li accomunano davvero. La prima, quella più ovvia, è che da quell’incontro si genera qualcosa, o meglio qualcuno, una sorta di piccolo alieno che non può essere ignorato, che reclama la loro totale attenzione.

Di indubitabile c’è che, a questo punto, l’Irlandese, Ermes e Gaetano, dispersi nella folla, potrebbero sottrarsi alla parte che a loro spetta nella venuta al mondo di un altro essere umano. Ciò che l’ha determinata è un evento già superato, in una sequenza di eventi che d’ora in avanti li esclude. Perché poi, da qualche parte – visibili, stupefatte, e sole, in quella devastante metamorfosi – ci solo le madri.

Nessuna delle tre donne pensa di mettere fine a quella gravidanza, ma nessuno tra loro sei sembra realmente consapevole di come affrontarla. Inevitabilmente però, e questo è il secondo denominatore comune, nel momento in cui stanno per diventare madre o padre, tutti i protagonisti ripensano al loro essere figli, al rapporto con i loro genitori.
L’autore ci trascina dentro le storie di questi personaggi quel tanto che basta per farci affezionare a loro, per incuriosirci, portandoci a chiedere cosa succederà una volta che gireremo pagina. Ma proprio in quel momento l’artificio letterario si svela in tutta la sua potenza: una pagina grigia ed entra in scena la “Vita”, che dà il titolo all’ultimo capitolo del libro.

“L’alieno ero io. Sono un personaggio di questa storia, un dettaglio nell’angolo in basso della tela. Sono il neonato avvolto nel fagotto di stoffa.”

Queste persone così “possibili”, con le loro storie così verosimili, sono soltanto sei carte in un mazzo infinito di possibilità. Siamo finiti in un gioco “di se e di ma” che potremmo giocare all’infinito, ottenendo realtà sempre diverse ma ugualmente possibili. L’io narrante entra in gioco e immagina di dialogare con i personaggi che ha creato, perché qualcosa delle loro storie potrebbe aver dato origine alla sua.
Con questo romanzo l’autore si interroga sulla genitorialità, fatta non solo di amore e affetto, ma anche di dubbi, incapacità e inadeguatezza. Imprescindibile sembra essere la relazione di un futuro genitore con la sua infanzia: la volontà e insieme la paura di non ripetere gli stessi errori, il vuoto provocato da una perdita, quello causato dalla mancanza di affetto. Scrivendo però Paolo Di Paolo cerca anche di colmare qualcosa, di trovare le risposte a un vuoto, non dato soltanto da un’assenza fisica, ma dalla totale incertezza sulle proprie radici, con le quali tutti arriviamo prima o poi a confrontarci.

Paolo Di Paolo è nato nel 1983 a Roma. Ha pubblicato i romanzi Raccontami la notte in cui sono nato (2008), Dove eravate tutti (2011; Premio Mondello e Super Premio Vittorini), Mandami tanta vita (2013; finalista Premio Strega), Una storia quasi solo d’amore (2016), Lontano dagli occhi (2019), tutti nel catalogo Feltrinelli e tradotti in diverse lingue europee. Molti suoi libri sono nati da dialoghi: con Antonio Debenedetti, Dacia Maraini, Raffaele La Capria, Antonio Tabucchi, di cui ha curato Viaggi e altri viaggi (Feltrinelli, 2010), e Nanni Moretti. È autore di testi per bambini, fra cui La mucca volante (2014; finalista Premio Strega Ragazze e Ragazzi), e per il teatro. Scrive per “la Repubblica” e per “L’Espresso”.

Source: libro del recensore.

:: E per Natale regalate un libro – 2019 🎄

29 novembre 2019

regali natale

Il tempo sembra volato, ma fra poco è già Natale, domenica è il primo giorno di Avvento, e i più previdenti stanno già preparando i regali da fare alle persone a cui vogliono bene. Insomma è qualcosa in più di mero consumismo, è condivisione, comunione, e pensare anche agli altri e non sempre solo a sè. Dunque cosa c’è di meglio che regalare libri, si spende poco, è un regalo che resta, e se il libro non piace lo si regala ad altri. Ma i libri di cui parleremo oggi con i tradizionali consigli dei collaboratori di Liberi sono tutti belli, per cui andate sul sicuro.

Inizio con i primi consigli pervenutimi, poi man mano aggiorno con quelli che arriveranno. Buon Natale e passatelo con chi amate.

Ah, dimenticavo per incartarli usate carta da pacchi ecologica.

Valeria Giola

Ninfee Nere di Michael Bussi
per chi non si accontenta dei gialli

Figlie di una nuova era di Carmen Korn
per chi non crede nel potere dell’amicizia

La vita segreta degli scrittori di G.Musso
dedicato a chi non si accontenta di una bella trama

L’albergo delle donne tristi di Marcela Serrano
per chi ama i grandi classici

La gabbia dorata di Camilla Lackberg
per tutte le donne

Davide Mana

Lucia Berlin – La donna che scriveva racconti – Bollati Boringhieri

Steve Brusatte – Ascesa e caduta dei dinosauri – UTET

Michael Moorcock – Elric – Mondadori

Nnedi Okorafor – Binti – Mondadori

Bram Stoker – Dracula (nuova edizione a cura di Franco Pezzini) – Mondadori

Eva Dei

Pietro e Paolo“, M. Fois, Einaudi

L’inverno di Giona“, F. Tapparelli, Mondadori

Ossigeno“, S. Naspini, E/O

L’ultima intervista“, E. Nevo, Neri Pozza

L’ora di Agatha“, A.C. Bomann, Iperborea

Federica Belleri

Il giardino dei mostri, di Lorenza Pieri

Libera uscita, di Debora Omassi

Ninfa dormiente, di Ilaria Tuti

L’isola delle anime, di Piergiorgio Pulixi

Lei era nessuno, di Letizia Vicidomini

Nicola Vacca

Michel Houellebecq Serotonina La nave di Teseo

Bret Easton Ellis Bianco Einaudi

Luigi di Ruscio Poesie scelte Marcos Y Marcos

Roberto Saporito Come una barca sul cemento Arkadia

J Saramago Diario dell’anno del Nobel Feltrinelli

Giulietta Iannone

Risorgere Paolo Pecere Chiarelettere

Il secondo cavaliere Alex Beer Edizioni EO

Racconti di Pietroburgo Nikolaj Gogol’ Marcos Y Marcos

Racconti del crimine Tanizaki Junichiro Marsilio

Il mio nome è Jack Reacher Lee Child Longanesi

Viviana Filippini

La frontiera, Erika Fatland (Marsilio 2019)

Il terzo matrimonio, Tom Lanoye (Nutimenti 2019)

Bianca, Bart Moeyaret (Sinnos 2019)

Camminare di Henry David Thoreau (Marietti 1820, 2019)

I fantasmi di Darwin Ariel Dorfman (Clichy edizioni 2019)

Maria Anna Cingolo

L’ educazione Tara Westover Feltrinelli

Le ragazze del Pillar Stefano Turconi, Teresa Radice BAO Publishing

I ragazzi della Nickel Colson Whitehead Mondadori

L’onda Suzy Lee Corraini Edizioni

Cento poesie d’amore a Ladyhawke Michele Mari Einaudi

Elena Romanello

Timeless (Il Castoro)

La trilogia di Nevernight (Mondadori)

Il grande libro della fantasy classica (Fanucci)

321 cose utili da sapere sugli animali (Rizzoli)

Il diario della mia scomparsa (J-Pop)

:: E i figli dopo di loro di Nicolas Mathieu (Marsilio, 2019) a cura di Eva Dei

19 ottobre 2019

E i figli dopo di loroTutti costoro furono onorati dai contemporanei,
furono un vanto ai loro tempi.
Di loro alcuni lasciarono un nome,
che ancora è ricordato con lode.
Di altri non sussiste memoria;
svanirono come se non fossero esistiti;
furono come se non fossero mai stati,
loro e i loro figli dopo di essi.

A questa citazione biblica (Siracide 44, 7-9) si ispira Nicolas Mathieu per il titolo del suo nuovo libro, da poco pubblicato in Italia da Marsilio, ma già vincitore del Premio Goncourt 2018.
Le vite che mette nero su bianco l’autore sono proprio quelle che più facilmente si tende a dimenticare, uomini e donne qualunque alle prese con le miserie della vita. Anni Novanta, siamo nella Lorena, regione della Francia del nord-est, vicina al confine con il Lussemburgo; tutto si svolge a Heillange, cittadina immaginaria. Qui nell’arco di quattro estati un osservatore esterno ci racconta la vita di tre giovani: Anthony, Hacine e Stéphanie. Le loro vite si sfiorano e si intrecciano durante il tempo del racconto e il lettore li segue fino al momento della loro crescita, in quel passaggio che segna la fine dell’infanzia e l’inizio dell’età adulta. Dal 1992 al 1998 qualcosa si perde in quelle estati scandite dalle canzoni che danno il ritmo alle loro giornate: è la fine dell’ingenuità e l’inizio delle responsabilità, lo scontro tra aspettative e realtà.
Anthony ha quattordici anni, una palpebra semichiusa che gli conferisce un’aria perennemente imbronciata e un padre alcolizzato; Hacine ha qualche anno in più, è di origine marocchina, vive con il padre in un appartamento delle case popolari, ma pur di non finire come lui, piegato e consumato dal lavoro in fabbrica per pochi franchi, si dedica a qualsiasi tipo di espediente, dallo spaccio al furto. Infine Stéphanie, Steph per tutti, lunghi capelli biondi fermati in una coda di cavallo e un’autentica ossessione per il bello e dannato della scuola, Simon Rotier. Tre ragazzi provenienti da famiglie diverse, alle prese con problematiche tipiche dell’adolescenza, ma anche con differenti disagi affettivi e sociali. Una cosa li accomuna: il desiderio di riscatto, di evadere da quella valle che gli imprigiona, di avere delle vite migliori di quelle dei loro genitori: più felici, più complete, più soddisfacenti. Sì perché nonostante gli sforzi nessuno riesce a riscattarsi completamente: sembra che il loro status sia un marchio indelebile che grava sulle loro esistenze.
La stessa Heillange, un tempo florida per la presenza degli altiforni, sembra adesso ammantata da un velo di decadenza. Agli occhi dei ragazzi la città si fa al tempo stesso culla e prigione. Heillange è il luogo in cui sono nati e cresciuti, ma nei loro sogni il futuro è altrove, in città come Parigi, città più grandi, ricche di prospettive e possibilità. Ma imparare a cavarsela altrove non è così facile e scontato come nei sogni adolescenziali e spesso ogni strada imboccata dai ragazzi sembra riportare all’origine.

Steph pareva cercare qualcosa nel paesaggio. A furia di girare a piedi, in bici, in scooter, in autobus, in macchina, conosceva la valle a memoria. Tutti i ragazzi erano come lei. Lì la vita era una questione di tragitti. Si andava a scuola, dagli amici, in città, in spiaggia, a farsi una canna dietro la piscina, a incontrare qualcuno ai giardinetti. Si tornava a casa, si usciva di nuovo, idem per gli adulti, il lavoro, la spesa la tata, la revisione da Midas, il cinema. Ogni desiderio induceva una distanza, ogni piacere richiedeva carburante. Alla lunga finivi per pensare come una mappa stradale. I ricordi erano necessariamente geografici. (…) Nella valle alcuni uomini si erano arricchiti e avevano costruito case imponenti che on ogni paesino irridevano l’attualità. Bambini erano stati divorati dai lupi, dalle guerre, dalle manifatture; ora lì c’erano Anthony e Stéphanie, a constatare i danni. Sotto la pelle gli correva un brivido intatto. Così come nella città spenta continuava a dipanarsi una storia sotterranea che avrebbe finito per esigere prese di posizione, scelte, movimenti e lotte.

Licenziamenti, lavori faticosi e poco remunerativi: tutto porta a una lotta tra poveri, a una difficoltà di integrazione sempre più inevitabile, a un’incapacità di riuscire che aumenta il divario tra genitori e figli. I primi non si accorgono delle reali conseguenze che le loro parole e azioni esercitano sui figli, mentre questi ultimi spesso perseguono desideri simili ai genitori anche se la volontà di non seguirne l’esempio e le scelte li porta spesso a compiere decisioni affrettate e sbagliate.
Nicolas Mathieu ricostruisce uno spaccato realistico degli anni Novanta, quel decennio che ha segnato e dato vita a molte problematiche dei giorni nostri. Scegliendo di raccontare tre storie qualunque l’autore non si interessa tanto all’eccezionalità della trama: quello che ci racconta sono le lotte e i sacrifici della classe operaia e medio borghese, fino alla sua decadenza. Quello che ne rimane vive nella rabbia e nei desideri dei figli dopo di loro.

Nicolas Mathieu è nato a Épinal, nella regione dei Vosgi, nel 1978 e oggi vive a Nancy. Ha esordito nel 2014 con il noir Aux animaux la guerre, da cui è stata tratta una serie tv. E i figli dopo di loro, suo secondo romanzo, accolto con entusiasmo da critica e pubblico, ha vinto nel 2018 numerosi riconoscimenti letterari, tra i quali il Prix Goncourt, ed è in corso di traduzione in venti paesi.

Source: libro inviato al recensore dall’editore, che ringraziamo.

:: Cocktail d’autore di Petunia Ollister (Slow Food Editore, 2019) a cura di Eva Dei

14 ottobre 2019

cocktail d'autore

Stefania Soma, in arte Petunia Ollister, torna in libreria a due anni di distanza da Colazioni d’autore. È passato molto tempo dal primo post di #bookbreakfast, ma Petunia continua a deliziarci sulla sua pagina instagram (@petuniaollister) con le sue colazioni letterarie, offrendoci foto sempre più impeccabili e “invitanti”.
Negli ultimi tempi fra i tavoli dei suoi set, in mezzo a libri e tazze di caffè, hanno iniziato a fare la loro comparsa bottiglie di Campari, limoncello Villa Massa, rum Zacapa e gin Hendrick’s. Queste bottiglie di alcolici sono comunque legate con un fil rouge ai libri che le accompagnano, a volte perché ne richiamano i contenuti o li citano, altre volte perché frutto di collaborazioni (come per esempio quella con lo Zacapa Noir Festival). Queste foto sono state però anche una sorta anticipazione del secondo libro dell’autrice. Cocktail d’autore uscirà infatti il prossimo 16 ottobre, edito sempre da Slow Food Editore. Con questo nuovo volume Petunia Ollister decide di non darci più il buongiorno, ma preferisce accompagnarci all’ora dell’aperitivo o del dopocena, in un tour letterario dei più famosi cocktail.
La struttura di questo nuovo volume ricorda molto il precedente. La pagina di destra è completamente dedicata alla foto, curata esteticamente in tutti i suoi dettagli: oltre al libro e al cocktail (servito ovviamente nel bicchiere più adatto), compaiono ingredienti, strumenti da barman e altri elementi d’arredo che rievocano le atmosfere del libro. La pagina di sinistra invece è divisa quasi in due metà: quella superiore occupata da una citazione o riflessione sul libro scelto, quella inferiore dedicata alla ricetta del cocktail.
I cocktail presentati sono “d’autore” in una doppia accezione: prima di tutto perché vengono citati o sono ispirati alle opere letterarie a cui sono abbinati. I cocktail abbandonano dunque la loro ambientazione evanescente ed effimera e si materializzano sui tavoli in eleganti bicchieri. Tutto ciò è stato possibile, ed ecco il secondo motivo che li rende “d’autore”, grazie alla collaborazione con alcuni professionisti del settore che hanno regalato le loro ricette a questo progetto.
Sfogliando le pagine di questo libro vi troverete quindi a sorseggiare un Gin Rickey rievocando le suggestive atmosfere di Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, brinderete con Charles Bukowski con un bicchiere di Vodka Sour e assaggerete un Gotto Esplosivo Pangalattico chiedendovi se era così che se lo immaginava Douglas Adams. Un libro che inebrierà il vostro corpo e la vostra mente.

Petunia Ollister nasce qualche anno fa come nom de plume di Stefania Soma. Dal gennaio 2015 scatta e pubblica sul suo account Instagram @petuniaollister i #bookbreakfast, foto di libri sul tavolo della colazione, scattate dall’alto, con una grande attenzione per i colori, i materiali, lo styling. Ha lavorato per quindici anni nel campo della conservazione e valorizzazione dei beni culturali, fotografici e librari. Ha collaborato con Radio Rai e tutte le domeniche è su Robinson, inserto culturale di Repubblica. Scrive per “La Stampa” e racconta Torino con gli occhi di una Marziana. Il suo primo libro Colazioni d’autore #bookbreakfast è uscito per Slow Food Editore.

Source: libro inviato al recensore dall’editore, che ringraziamo.

:: Pietro e Paolo di Marcello Fois (Einaudi, 2019) a cura di Eva Dei

27 settembre 2019

Pietro e PaoloPietro Carta e Paolo Mannoni sono amici fin dall’infanzia. Nati entrambi a Nuoro nel 1899, li unisce un rapporto fraterno, a tratti simbiontico. A separarli però ci ha pensato la vita: il primo figlio di poveri braccianti, l’altro ultimo figlio di una delle famiglie più ricche della città. I due crescono insieme: Paolo tra le agiatezze che gli permette la sua classe sociale, Pietro con gli scarti che rimangono. Ma nonostante tutto i due restano inseparabili: Paolo racconta a Pietro quello che impara a scuola, Pietro dal canto suo lo istruisce sulle cose pratiche della vita. Sapere teorico ed empirico, ricchezza e povertà, “verbi servili e ausiliari” sembrano trovare il loro equilibrio, finché la storia non entra in scena con prepotenza. L’aria nefasta della Prima Guerra Mondiale ha già investito la Sardegna, molti uomini sono stati reclutati, ma dopo la disfatta di Caporetto è arrivato il momento di richiamare i più giovani. Tra questi c’è anche Paolo. A nulla valgono i tentativi di Don Pasqualino, suo padre, di ricorrere ad amicizie e promesse per salvare il figlio dall’arruolamento. Resta solo una cosa da fare, convincere Pietro, l’amico fedele, il ragazzo povero ma di buon cuore, ad arruolarsi come volontario per proteggere Paolo. Don Pasqualino non esita nemmeno un momento a legare a doppio filo la vita di Pietro a quella del figlio: deve diventare la sua ombra, seguirlo e difenderlo dai pericoli. Lo deve fare per riconoscenza, per assicurarsi il benessere della propria famiglia e soprattutto lo deve fare se crede nell’amicizia.
Una volta finita la guerra Pietro e Paolo faranno ritorno a casa, ma niente sarà più come prima.
Dopo il folgorante Del dirsi addio (Einaudi, 2017), Marcello Fois torna in libreria con Pietro e Paolo.
Un romanzo più breve, diciasette capitoli che si sviluppano come una sorta di conto alla rovescia. Il lettore si incammina con Pietro al capitolo sedici, in una passeggiata che lo condurrà indietro nel tempo, nella storia, fino a raggiungere il capitolo zero, la meta finale, che altro non è che l’incontro con Paolo. Una storia più breve, più snella, che probabilmente nella penna di un altro autore non avrebbe reso altrettanto bene.

Il dio dei racconti, quello che sa ogni cosa prima che diventi voce o avvenga sul foglio, avrebbe potuto dichiarare il perché e il percome. Avrebbe potuto cioè rendere inutile qualunque resoconto e di conseguenza, se stesso. Da tempi immemorabili gli dèi omettono i particolari salienti per difendere il proprio significato. Spargendo solo briciole di senso. Sicché agli umani, auditori, lettori, non resta che raccoglierle come quei passeri.

La maestria di Fois, però, viene fuori fin da subito in questo moderno “Il principe e il povero”. L’autore costruisce un microcosmo narrativo; nonostante alcune incursioni di personaggi secondari ma pregnanti, il fulcro dell’intera vicenda, ruota intorno ai due giovani amici. Allo stesso modo un legame intimo e profondo al centro di tutto: l’amicizia. Ma anche Nuoro, il cuore della Sardegna, sembra un luogo rarefatto, dove il paesaggio la fa da padrone, grazie anche alle precise descrizioni naturalistiche dell’autore. A schiacciare questo microcosmo e il suo fragile equilibrio ci pensa qualcosa di esterno, di lontano come la prima grande guerra moderna.
Infine il titolo non può non rievocare l’immagine dei due santi omonimi. Nascosto a un primo sguardo un filo sottile che unisce religione e laicità si muove nel testo di Fois. Si parla di apparizioni note, come quelle di Fatima, che però vengono completamente dissacrate. Fa da contraltare a questa scelta il voto segreto che i due amici fanno a S. Lucia prima della loro partenza per la guerra; un voto che racchiude allo stesso tempo sia il futuro dei due amici, ma che è anche una sorta di simbolo, una promessa, insita nei loro stessi nomi: Paolo, il santo accecato dall’apparizione di Gesù e Pietro, colui che come invisibile, riesce miracolosamente a sfuggire al carcere.

Marcello Fois (Nuoro 1960) vive e lavora a Bologna. Tra i tanti suoi libri ricordiamo Picta (premio Calvino 1992), Ferro Recente, Meglio morti, Dura madre, Piccole storie nere, Sheol, Memoria del vuoto (premio Super Grinzane Cavour, Volponi e Alassio 2007), Stirpe (premio Città di Vigevano e premio Frontino Montefeltro 2010), Nel tempo di mezzo (finalista al premio Campiello e al premio Strega 2012), L’importanza dei luoghi comuni (2013), Luce perfetta (premio Asti d’Appello 2016), Manuale di lettura creativa (2016), Quasi Grazia (2016), Del dirsi addio (2017 e 2018), il libro in versi L’infinito non finire (2018) e Pietro e Paolo (2019).

Source: libro del recensore.

:: Ossigeno di Sacha Naspini (Edizioni E/O, 2019) a cura di Eva Dei

17 settembre 2019

OssigenoUn container, pochi metri quadrati per contenere quattordici anni di vita vissuta, per crescere, passare da essere una bambina a essere un’adolescente, fino a diventare una donna. Dagli otto ai ventidue anni, Laura vive tra quelle mura di metallo prigioniera dello stimato professore di antropologia Carlo Maria Balestri. Per la mente malata del mostro lei è una cavia, un esperimento: tutto è studiato e calcolato per modellare la sua mente, il suo carattere. Per punirla la ignora fino a renderla debole e remissiva, la lascia nel suo brodo in quel container per giorni; invece per indurla a fare quello che vuole usa la tecnica del bastone e della carota. Laura compila album da colorare, risolve rebus matematici, riempie interi quaderni di esercizi e se è abbastanza brava riceve un premio. Quando è più piccola si tratta di biscotti, cioccolata, una bambola, man mano che cresce uno walkman, dei libri, ma anche le sigarette, perché tutto ciò che costituisce un vizio, una dipendenza, la lega ancora di più al suo volere. Crescendo anche gli esercizi a cui la sottopone si fanno più difficili: lezioni di inglese in cassetta, temi da svolgere che si trasformano in veri e propri saggi di antropologia e sociologia. Laura descrive il mondo esterno chiusa in una scatola di ferro e le sue riflessioni finiscono rimaneggiate e rimpolpate nei libri del suo rapitore:

Il professor Balestri si è costruito un allenatore per non uscire dai giochi e spegnersi a poco a poco in vista della pensione (…)”.

Ma un giorno qualcuno apre la porta del container e Laura è libera; il mostro del golfo, come viene definito dai giornali Balestri, viene arrestato e tutto apparentemente potrebbe convergere verso una futura tranquillità, ma in realtà la mano che ha aperto la porta di quella prigione ha scoperchiato il vaso di Pandora: nessuno è più libero, ognuno è prigioniero dei suoi demoni. C’è Luca, che scopre di essere figlio di un mostro e ha paura di averne ereditato il tarlo, Anna, la madre di quella bambina rapita, che si ritrova davanti una figlia che le appare come un’estranea e poi c’è lei, Laura che deve imparare a vivere là fuori, oltre la soglia di quel container. Resta solo una domanda: chi ha rinchiuso chi?

Se c’è qualcosa di sbagliato non riesci a capirlo. Senza la gabbia non sei niente. Tutti credono il contrario, ma la verità è questa: non sei mai uscita da lì.”

Sacha Naspini torna in libreria a più di un anno di distanza dal suo ultimo libro con Ossigeno (Edizioni E/O). Con una storia completamente diversa da Le Case, l’autore ci porta in un universo narrativo che si apre e chiude su sé stesso come delle matrioske. Tutta la narrazione si gioca sullo spazio che si dilata e restringe intorno ai personaggi, dandoci un senso di claustrofobia e tensione crescente.
Ossigeno ha tutti gli elementi per essere un thriller, ma rinuncia a questa definizione nel momento stesso in cui Naspini sposta il focus narrativo. Carlo Maria Balestri, padre affettuoso e stimato professore, ma allo stesso tempo mostro responsabile della segregazione e scomparsa di almeno tre bambine, viene assicurato alla giustizia all’inizio del primo capitolo. Con quel “Vennero a prenderlo alle otto di sera” Balestri entra ed esce di scena, resta ovviamente nei ricordi delle vite che ha segnato, ma Naspini non vuole indagare il lato oscuro di questo nuovo dottor Jeckyll – mister Hyde, capire perché ha agito in questo modo, cosa gli accadrà una volta catturato. No, la sua attenzione è tutta per quelli che restano: Luca, Anna, Martina e ovviamente Laura.
Ritroviamo lo stile narrativo di Naspini che, alternando le voci narranti, frammenta la realtà restituendoci la storia pezzo per pezzo. Quando il puzzle sembra dare forma a un disegno, nell’ultimo capitolo l’autore sparpaglia tutte le tessere, disorientando il lettore e conducendolo in un tempo e in un luogo apparentemente estraneo all’intera vicenda.
Un libro da leggere tutto d’un fiato, che vi lascerà con un puzzle tridimensionale in mano, perché la verità non è mai una sola: ha sempre più facce.

Sacha Naspini è nato a Grosseto nel 1976. Collabora come editor e art director con diverse realtà editoriali. È autore di numerosi racconti e romanzi, tra i quali ricordiamo L’ingrato (2006), I sassi (2007), I Cariolanti (2009), Le nostre assenze (2012), Il gran diavolo (2014), Le Case del malcontento (2018). È tradotto in vari Paesi. Scrive per il cinema.

Source: libro inviato dall’editore, che ringraziamo.

:: E le altre sere verrai? di Philippe Besson (Guanda, 2002) a cura di Eva Dei

27 agosto 2019
besson

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Notte fonda, le strade deserte di una città. In primo piano, all’angolo di una strada, un locale dalle ampie vetrate con un’insegna che recita “Phillies”. All’interno si scorgono un barista e tre avventori: una donna con un vestito rosso e due uomini con completo e cappello. Ognuno di loro sembra assorto nei suoi pensieri, seduto a quel bancone, ma distante, imprigionato nella propria solitudine. Una scena sicuramente familiare, perché rievoca in tutto e per tutto il famoso quadro di Edward Hopper Night Hawks (1942, I nottambuli).
Ma se quelle persone dipinte sulla tela potessero parlarci o anche solo rivelarci alcuni dei loro pensieri, cosa ci racconterebbero? Philippe Besson ha provato a dar loro voce in E le altre sere verrai?, romanzo con cui ha vinto nel 2003 il Grand prix RTL-Lire. Affascinato dal quadro del pittore americano, Besson ne acquista una riproduzione e una sera, osservandolo, la storia di quella donna vestita di rosso e dei tre uomini che la circondano si impone alla sua attenzione.
Abbandoniamo gli anni ’40 e New York, per arrivare in epoca contemporanea nella baia di Cape Cod, dove il Phillies è uno dei tanti locali della costa. È una domenica di settembre, come ogni sera da nove anni a questa parte, Ben sta lustrando il bancone del locale quando vede entrare Louise. La conosce dal suo primo giorno di lavoro, lei è una cliente abituale e tra loro c’è una conoscenza fatta di piccoli gesti, di chiacchiere insignificanti, di confidenze ricavate dai piccoli gesti.

Nessuno dei due direbbe che sono amici, casomai conoscenti, si vogliono bene, ciascuno sa qualcosa della vita dell’altro, hanno reazioni e ricordi in comune.”

Louise indossa l’abito rosso, quello che riserva alle grandi occasioni. In effetti quella sera, sorseggiando il solito Martini bianco, Louise aspetta con ansia la chiamata del suo amante, Norman. Mentre lei è seduta al Phillies lui sta mettendo fine al matrimonio con la moglie. Un atto doloroso, ma necessario che li consentirà di vivere liberamente la loro storia. Assorta in pensieri e fantasie, tutto si aspetterebbe tranne che a varcare la soglia, di lì a pochi minuti, sia Stephen Townsend. Un’ondata di ricordi la inebetisce e la terrorizza lasciandola senza parole davanti a quello che è stato il suo grande amore. Nonostante i cinque anni trascorsi, Stephen non ha perso il suo fascino, ma è a sua volta imbarazzato, forse un po’ a disagio. Cautamente i due si studiano, capiscono come muoversi, iniziano con frasi banali, convenevoli, ma non esitano a riservarsi qualche battuta amara. Se da un lato tutto sembra cambiato nelle loro vite, dall’altro riscoprono il piacere di abbandonarsi a una dolce nostalgia, fatta di atteggiamenti e abitudini familiari.
Spettatore di questo confronto Ben, e noi con lui. Ripercorriamo la storia dei protagonisti, presente e passato, seguendo l’andamento della narrazione, che vira con abilità dal discorso diretto al discorso indiretto libero. Questa tecnica, scelta da Besson, non solo ci restituisce dei personaggi familiari, quasi noti, ma ci cala perfettamente nella notte solitaria dipinta da Hopper.
Louise, Ben e Stephen abitano lo stesso luogo in quel momento ma interagiscono con delicatezza, senza invadere lo spazio dell’altro. Spazio abitato da ricordi e sensazioni troppo intime per essere esibite con ostentazione, ma presenti proprio perché meno evidenti. Privato e pubblico si mescolano nel gioco contraddittorio delle relazioni umane.

Ecco cosa è capitato loro: più nessuno che li aspetti. Sono soli, come lo sono soltanto i vecchi. Hanno lo sguardo perso della solitudine. Hanno il fiato corto di chi è sfinito. Hanno i gesti rallentati dei più inermi. Si rifugiano in un bar improbabile, all’estremità di un continente. Sgranano la loro vita come altri le preghiere, avvolgendo rosari alle dita ossute. Sono giunti al termine di qualcosa, senza essere ancora in grado di discernere quel che potrebbe cominciare per loro. Si sono persi. In quello smarrimento che li unisce, alla fine potrebbero essere capaci di parlarsi chiaramente, e di aprirsi a una sorta di dolcezza.

Philippe Besson è nato nel 1967 a Parigi, dove tuttora risiede. Guanda ha pubblicato i romanzi E le altre sere verrai?, Un amico di Marcel Proust, I giorni fragili di Arthur Rimbaud, Un ragazzo italiano, Come finisce un amore, Non mentirmi e Un certo Paul Darrigrand.

Source: libro del recensore.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.