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:: La voce di Robert Wright di Sacha Naspini (edizioni e/o 2021) recensione a cura di Federica Belleri

24 gennaio 2022

Ho iniziato a leggere questo libro con grande attenzione e curiosità perché non so mai cosa aspettarmi da questo scrittore. Ogni volta mi sorprende con situazioni assurde e originali. Con scene sofferte e dolorose. Con parole che lanciano schiaffi. Ci è riuscito alla grande anche con la storia di Carlo Serafini, che ha una voce particolare. E la usa per doppiare un famoso attore californiano. La sua voce è davvero ascoltata e apprezzata? Lui è davvero un professionista apprezzato e ascoltato? La sua famiglia si preoccupa per lui?  I sentimenti che prova per Carlo sono sinceri o solo dettati dalla fama che lo circonda? E ancora, si può davvero dire che Carlo sia poi così famoso? O è solo un prodotto? Queste sono alcune domande che “di pancia” mi sono venute in mente durante la lettura. Queste e tante altre, legate alla morte dell’attore Robert Wright. Che in qualche modo costringe il suo doppiatore a rimanere senza qualcuno da interpretare. Senza qualcuno da far parlare… Ma chi è davvero Carlo? Cosa vuole per sé? Cosa sogna, come sta? Ha bisogno di qualcosa? Vuole raccontare la sua storia? Sacha Naspini racconta il disagio e la solitudine, i sorrisi mancati e le parole mai espresse. L’affetto e l’amore che andrebbero osservati meglio, per capirli come si deve. L’autore strizza l’occhio al cinema, a quella macchina gigantesca in grado di afferrarti al volo per poi scaraventarti al muro quando non servì più. Punta il dito sulle ombre della mente, su quanto l’uomo sia complesso e contorto. Ma anche su quanto sia semplice condurlo e manipolarlo. Credo che lo scrittore abbia toccato le giuste note e sfumature di una vita particolarmente fragile e spaventata. Appiccicata a una maschera difficile da levare. Bellissima trama. Personaggi speciali e completi in ogni capitolo. Assolutamente da leggere.

Di Sacha Naspini le Edizioni E/O hanno pubblicato Le Case del malcontento, Ossigeno, I Ca­riolanti, Nives. è tradotto o in cor­­so di traduzione in Inghilterra, Canada, Sta­ti Uni­ti, Francia, Grecia, Corea del Sud, Cina, Croazia, Russia e Spagna.

Fonte: acquisto personale del recensore.

 

:: Ossigeno di Sacha Naspini (Edizioni E/O, 2019) a cura di Eva Dei

17 settembre 2019

OssigenoUn container, pochi metri quadrati per contenere quattordici anni di vita vissuta, per crescere, passare da essere una bambina a essere un’adolescente, fino a diventare una donna. Dagli otto ai ventidue anni, Laura vive tra quelle mura di metallo prigioniera dello stimato professore di antropologia Carlo Maria Balestri. Per la mente malata del mostro lei è una cavia, un esperimento: tutto è studiato e calcolato per modellare la sua mente, il suo carattere. Per punirla la ignora fino a renderla debole e remissiva, la lascia nel suo brodo in quel container per giorni; invece per indurla a fare quello che vuole usa la tecnica del bastone e della carota. Laura compila album da colorare, risolve rebus matematici, riempie interi quaderni di esercizi e se è abbastanza brava riceve un premio. Quando è più piccola si tratta di biscotti, cioccolata, una bambola, man mano che cresce uno walkman, dei libri, ma anche le sigarette, perché tutto ciò che costituisce un vizio, una dipendenza, la lega ancora di più al suo volere. Crescendo anche gli esercizi a cui la sottopone si fanno più difficili: lezioni di inglese in cassetta, temi da svolgere che si trasformano in veri e propri saggi di antropologia e sociologia. Laura descrive il mondo esterno chiusa in una scatola di ferro e le sue riflessioni finiscono rimaneggiate e rimpolpate nei libri del suo rapitore:

Il professor Balestri si è costruito un allenatore per non uscire dai giochi e spegnersi a poco a poco in vista della pensione (…)”.

Ma un giorno qualcuno apre la porta del container e Laura è libera; il mostro del golfo, come viene definito dai giornali Balestri, viene arrestato e tutto apparentemente potrebbe convergere verso una futura tranquillità, ma in realtà la mano che ha aperto la porta di quella prigione ha scoperchiato il vaso di Pandora: nessuno è più libero, ognuno è prigioniero dei suoi demoni. C’è Luca, che scopre di essere figlio di un mostro e ha paura di averne ereditato il tarlo, Anna, la madre di quella bambina rapita, che si ritrova davanti una figlia che le appare come un’estranea e poi c’è lei, Laura che deve imparare a vivere là fuori, oltre la soglia di quel container. Resta solo una domanda: chi ha rinchiuso chi?

Se c’è qualcosa di sbagliato non riesci a capirlo. Senza la gabbia non sei niente. Tutti credono il contrario, ma la verità è questa: non sei mai uscita da lì.”

Sacha Naspini torna in libreria a più di un anno di distanza dal suo ultimo libro con Ossigeno (Edizioni E/O). Con una storia completamente diversa da Le Case, l’autore ci porta in un universo narrativo che si apre e chiude su sé stesso come delle matrioske. Tutta la narrazione si gioca sullo spazio che si dilata e restringe intorno ai personaggi, dandoci un senso di claustrofobia e tensione crescente.
Ossigeno ha tutti gli elementi per essere un thriller, ma rinuncia a questa definizione nel momento stesso in cui Naspini sposta il focus narrativo. Carlo Maria Balestri, padre affettuoso e stimato professore, ma allo stesso tempo mostro responsabile della segregazione e scomparsa di almeno tre bambine, viene assicurato alla giustizia all’inizio del primo capitolo. Con quel “Vennero a prenderlo alle otto di sera” Balestri entra ed esce di scena, resta ovviamente nei ricordi delle vite che ha segnato, ma Naspini non vuole indagare il lato oscuro di questo nuovo dottor Jeckyll – mister Hyde, capire perché ha agito in questo modo, cosa gli accadrà una volta catturato. No, la sua attenzione è tutta per quelli che restano: Luca, Anna, Martina e ovviamente Laura.
Ritroviamo lo stile narrativo di Naspini che, alternando le voci narranti, frammenta la realtà restituendoci la storia pezzo per pezzo. Quando il puzzle sembra dare forma a un disegno, nell’ultimo capitolo l’autore sparpaglia tutte le tessere, disorientando il lettore e conducendolo in un tempo e in un luogo apparentemente estraneo all’intera vicenda.
Un libro da leggere tutto d’un fiato, che vi lascerà con un puzzle tridimensionale in mano, perché la verità non è mai una sola: ha sempre più facce.

Sacha Naspini è nato a Grosseto nel 1976. Collabora come editor e art director con diverse realtà editoriali. È autore di numerosi racconti e romanzi, tra i quali ricordiamo L’ingrato (2006), I sassi (2007), I Cariolanti (2009), Le nostre assenze (2012), Il gran diavolo (2014), Le Case del malcontento (2018). È tradotto in vari Paesi. Scrive per il cinema.

Source: libro inviato dall’editore, che ringraziamo.

:: Un’ intervista con Sacha Naspini

3 giugno 2014

il-gran-diavoloBenvenuto Sacha, e grazie per aver accettato questa mia intervista in occasione dell’uscita del tuo nuovo romanzo, Il Gran Diavolo, un romanzo storico questa volta, edito da Rizzoli. Innanzitutto perché non un thriller storico? Sembra sia un genere molto richiesto dagli editori.

Ciao! L’idea (come avremo modo di vedere più avanti) era quella di tratteggiare i contorni di un personaggio particolare. Ma niente di didascalico: cercavo il romanzo, appunto. Con Giovanni de’ Medici ho trovato anche di più. Un’occasione. Per dare un nuovo senso al mio lavoro, soprattutto in termini di sperimentazione.

Come sei giunto all’idea di lasciare momentaneamente il noir, e dedicarti al romanzo storico?

La passione per la storia c’è da sempre, e permea, qua e là, quasi tutta la mia produzione (ne L’ingrato si tocca la Parigi della Belle Époque, per esempio, ne I sassi c’è la Primavera di Praga; poi penso a I Cariolanti, a Le nostre assenze, dove si trovano incursioni nella prima e seconda guerra mondiale. E così via). Ma un romanzo di vera ambientazione storica, non lo avevo mai affrontato. Mi attirava tantissimo l’idea.

Parlaci del tuo arrivo in casa Rizzoli. Come sono andate le cose?

La faccio breve. È la fine del 2012 o giù di lì. Un giorno ricevo una chiamata da Michele Rossi. Dice di aver letto le mie ultime cose, e mi propone un contratto al buio (con tutti i crismi del caso). Io accetto. La cosa stupenda è che entrambi non abbiamo assolutamente idea del libro che uscirà. Entra in campo Stefano Izzo, e ci mettiamo a guardare le bozze che ho in cantiere…

Come è nato il soggetto? Cosa ti ha attratto maggiormente di Giovanni de’ Medici, un ragazzaccio, sulle prime, sempre in mezzo ai guai, tra risse e donne. Bandito più volte.

Stefano, un giorno, mi parla di questo nuovo progetto Rizzoli: la collana de I signori della guerra. E finisce lì. Io sono in giro, per la promozione de Le nostre assenze. Dopo un incontro alla Feltrinelli di Firenze, mi ritrovo in fondo alla galleria degli Uffizi, dove c’è la nicchia di Giovanni delle Bande Nere. E ho una specie di lampo. Nella testa vedo il film di Olmi (che tratta i suoi ultimi giorni), i capitoli di qualche saggio… Ma di romanzi, pensando a lui, non ne ricordo. Tornato a casa, faccio un po’ di ricerche, e mi accorgo di avere ragione: biografie storiche, saggi veloci… Alzo il telefono e chiamo Stefano. Gli dico: «Senti, ricordi quella nuova collana di cui mi hai parlato? Forse ho trovato un personaggio che mi piacerebbe raccontare». Buttai giù un soggetto grezzissimo, e glielo mandai. Due pagine in croce. Stefano mi rispose poco dopo: “Hai carta bianca”.

Non una biografia romanzata, ma proprio un vero romanzo, con una sua atmosfera, un suo filo conduttore. Quali pensi siano le insidie che nasconde questo genere letterario? Gli aspetti più complessi, se non proprio ostici, che hai incontrato e forse non ti aspettavi.

Esatto: un romanzo. Io cercavo quello, ed ero convinto di averlo trovato. Scartabellavo, compravo tomi. Insomma, cercavo di allinearmi con la suggestione che sentivo crescere dentro. Avevo deciso di piazzarmi in terza persona. Volevo un portamento deciso ed evocativo – ma non troppo. E poi i dialoghi, il “taglio” da usare. Non vedevo l’ora di sperimentarlo nella parola in azione. Perché per me erano questi due gli aspetti più insidiosi: l’intenzione del narrato, e la voce dei personaggi. Un equilibrio sottile, che rischiava di rompersi con niente. Naturalmente, il tutto doveva rispettare la mia voce. Okay, era la storia di Giovanni de’ Medici. Ma soprattutto, doveva essere la storia di Giovanni de’ Medici raccontata a modo mio.

Parlaci di lui. È un personaggio sfuggente, e non privo di sfumature controverse. Era un soldato, un leader, capace di farsi amare dai suoi uomini, e spietato in battaglia; i Lanzichenecchi, soldati passati alla storia proprio per la propria ferocia, l’avevano soprannominato il Gran Diavolo. Era un sognatore secondo te, o un uomo concreto, ben integrato nel suo tempo?

Era Medici di nome, ma di sangue faceva Sforza, e di brutto. È una cosa che nel romanzo viene fuori, fin dalle prime pagine. Un figlio di Marte, a tutti gli effetti; e nato esattamente nel contesto storico congeniale alla sua indole. Considerando l’epoca, ha avuto una vita molto “rock”, per così dire (morte prematura compresa). Era un uomo di sangue, ma che seguiva princìpi cavallereschi. In certe occasioni, talmente saldo da sembrare ottuso. Comunque spietato. Il contesto storico lo rendeva feroce, ma lo sforzo era minimo, credo, perché la fibra naturale latrava in quella direzione (se ne ha una prova leggendo i suoi carteggi, per esempio, quelli scritti di suo pugno). E sognava, sì. Pur essendo allineato con la crudeltà del suo tempo, era costantemente spronato da una volontà di affermazione – lo dimostra lo strenuo tentativo di creare un proprio Stato, come la ricerca di un’identità, una conferma. Tutte questioni che ho cercato di toccare nel libro.

Che differenze vedi tra un Cesare Borgia e Giovanni delle Bande Nere?

Sono personaggi profondamente diversi. Se l’uno è un abile calcolatore disposto a ricorrere alle peggiori bassezze pur di raggiungere lo scettro del potere, l’altro si disinteressa totalmente dei giochi di palazzo, e vive all’insegna del furore e del coraggio (cieco, spesso), senza porre le sue amate Bande Nere dietro a niente e nessuno.

Parlaci adesso del tuo co-protagonista Niccolò Durante, il Serparo Marsicano. Si basa su un personaggio storico realmente esistito o è frutto solo della tua fantasia?

Qui c’è il mio romanzo vero. Per molti, è lui il protagonista del libro, ed era proprio questa l’intenzione primordiale: accendere una vista potente su un personaggio di mia invenzione (seppure ispirato da un documento di cui non saprei dire la veridicità). Mi piaceva l’idea di mettere queste due vite a confronto. Il Gran Diavolo si apre con l’infanzia di questi due ragazzi. Estrazioni sociali agli antipodi, e motivazioni diverse per affrontare il mondo. Niccolò Durante (che dopo l’arruolamento nelle Bande diverrà il Serparo Marsicano), oltre a combattere la guerra per la vita, ne vive una più intima, nell’anima. Mi sono divertito tantissimo nel creare questo guerriero negromante, custode di antiche conoscenze. È un personaggio che resta nel cuore dei lettori, e le sue avventure tra le Bande Nere aprono una telecamera sulla vita dei mercenari. La storia segue comunque un solco preciso: le vicende di Giovanni de’ Medici. Chi legge, in un certo qual modo si arruola tra i combattenti di ventura.

Come hai ricostruito i dialoghi tra soldati, da che modello sei partito?

Come dicevo prima, quella è roba mia. Nessun modello, nessuna ispirazione (cosciente). Forse, uno degli obiettivi del romanzo storico è quello di “avvicinare” ai nostri sensi interiori le atmosfere, le suggestioni di epoche ormai andate. Dare voce a quei personaggi è un momento delicatissimo della scrittura: un’intonazione sbagliata, può far cadere il libro di mano. Io avevo la mia idea, in proposito. C’era da riportare la voce di personaggi delle alte sfere del comando (ufficiali, Papi, nobiletti), e quella un po’ “di strada” dei pirati di terra che formavano le Bande. Alla fine, ho solo lasciato che risuonassero sulla pagina per come le sentivo dentro (le avvertivo giuste: né troppo vicine né impaniate in quell’ampollosità arcaica che volevo a tutti i costi evitare). Dovevano essere credibili. Insomma, che rendessero bene “il film”, per capirci.

A proposito di film: davvero nessuna proposta per un adattamento cinematografico?

Questa è una domanda cui non posso rispondere. Per scaramanzia, soprattutto. Quindi, un po’ ho risposto.

Scenario del romanzo, l’Italia rinascimentale di inizio ‘500. Come ti sei documentato? Su che testi, vedendo quali film, documentari?

Prima di tutto, ho recuperato una serie di tomi sul personaggio. Poi ho fatto un tuffo vero e proprio nel 1500, tra saggi e romanzi che spizzicavo qua e là. E i film, certo. Ho già citato Olmi, per esempio. Poi, mi sono imbattuto nel Giovanni dalle Bande Nere di Cesare Marchi (non a caso lo ringrazio, a fine libro). Una biografia storica di cui mi sono innamorato; che ho usato quasi come “guida”.

Il Rinascimento fu un periodo ambiguo, da un lato guerre ferocissime, malattie, tradimenti, congiure; dall’altra l’esplodere dell’arte, della filosofia con al centro l’uomo e le sue sconfinate possibilità. Cosa ti affascina di più di quel periodo?

Be’, un po’ tutto. È un momento storico pieno di contraddizioni, è vero. Ma alla fine, fu un movimento spontaneo. La percezione lucida di un’epoca avviene sempre a posteriori. Quel che puoi tentare di fare con un romanzo, è cercare di accendere certe pulsazioni. Inoltre, c’è da dire che sono toscano, e probabilmente questo fatto ha contribuito. Ho vissuto a Firenze. Voglio dire: se non sei refrattario a certi magnetismi, un po’ ti entra nelle ossa. Intendo quella risonanza, quel fascino. Durante la stesura del romanzo, mi sono trovato spesso a scrivere “con cognizione”. Non solo dal punto di vista delle informazioni.

Il libro è dedicato a Luigi Bernardi. Cosa direbbe del tuo successo se fosse ancora tra noi?

Tocchi un tasto particolare. Da quando Luigi se n’è andato, non ho mai scritto una sola parola su di lui. Sono mesi che mi riprometto di buttare fuori della roba, per provare a dare un nome a tutto questo silenzio che mi ha lasciato addosso. Ancora non ci riesco, ma ci riuscirò. Glielo devo. Me lo devo. Mi piacerebbe non dire di più.

E tra i ringraziamenti figura pure Gordiano Lupi. Lui invece che ne pensa?

È stato il mio primissimo editore, otto anni fa. E a tutt’oggi curo la redazione delle Edizioni Il Foglio (che, come sapete, Gordiano ha fondato e ancora dirige). Ma ormai, è soprattutto un amico. Quando gli dissi che stavo per scrivere un romanzo storico, fece tanto d’occhi. Un po’ perché è un genere che di solito non legge; un po’ perché, pur provandoci, non riusciva a immaginare come io potessi muovermi dal punto di vista narrativo. Per sapere cosa pensa Gordiano Lupi de Il Gran Diavolo, vi rimando al pezzo che ha scritto per Leggere Tutti di questo mese (giugno): http://wp.me/ppUgZ-Aj

L’intervista è finita. Nel ringraziarti ancora della disponibilità, mi piacerebbe sapere se hai altri progetti in cantiere.

Il prossimo romanzo arriva a Natale. Si tratta di Ciò che Dio unisce, lo pubblica Piano B – un editore giovane e con le idee chiare, con cui ho già fatto un racconto lungo (Marito mio, in “Toscani maledetti”, curato da Raoul Bruni). Quindi sarà la volta di una saga per ragazzi, ma è ancora troppo presto per parlarne. Per il momento, mi sto concentrando sul nuovo romanzo. È narrativa pura (con un titolo bellissimo). Inoltre, affianco un regista nella stesura di una serie tv; è un soggetto fotonico, con cui stiamo cominciando a fare sul serio. E c’è un altro storico in vista, di ispirazione gotica… Per il resto, proseguo con il lavoro di redazione. E continuano i laboratori di scrittura. Senza considerare che il tour de Il Gran Diavolo andrà avanti per tutta l’estate. Alcune date: il 5 giugno al Liceo Classico Galilei di Pisa (incontro aperto al pubblico); l’8 giugno c’è la Disfatta di Calcinaia (PI); il 12 giugno al Bahia Mia di Follonica (GR); il 26 giugno alla Notte Bianca di San Gimignano (SI); il 6 luglio a Viterbo, per Caffeina 2014… Tutte le presentazioni saranno comunque riportate di volta in volta qui: www.sachanaspini.eu