“Il successo di un leader dipende da come egli agisce”.
Vi sarà capitato, qualche volta, di focalizzare l’attenzione sui vostri punti deboli, piuttosto che sui punti di forza che vi caratterizzano. Capita a tutti, a volte, senza neppure esserne consapevoli. Fate attenzione, però, perché se dovesse diventare un’abitudine consolidata, un’area del vostro cervello si attiverebbe e causerebbe una serie di condizioni non proprio favorevoli alla vostra crescita professionale.
Questo è soltanto uno dei tanti insegnamenti che si possono trarre dalla lettura di “Essere leader – Guidare gli altri grazie all’intelligenza emotiva”, edito da Rizzoli. Il manuale è un’opera firmata da Daniel Goleman che in questa indagine-studio ha scelto di essere affiancato da Richard E. Boyatzis e Annie McKee.
Daniel Goleman è uno psicologo di fama mondiale che ha al suo attivo numerosi studi – e pubblicazioni – circa un tema che continua a essere uno dei più interessanti, nel settore: l’intelligenza emotiva. L’IE – “la capacità di essere intelligentinella sfera delle emozioni” – è, secondo Goleman e i suoi colleghi, una skills indispensabile se si vuole diventare persone di successo, capaci di ispirare e di trainare un gruppo verso uno stile di lavoro – e di vita – più che soddisfacente.
“Essere leader – Guidare gli altri grazie all’intelligenza emotiva” è dunque centrato sul tema della crescita professionale e personale. Una crescita che leggiamo sotto forma di analisi, consigli, stili e testimonianze atte a intraprendere un viaggio dentro noi stessi. La buona notizia che si apprende, durante la lettura, è che le abilità a cui il testo fa riferimento non sono innate, ma possono essere acquisite durante tutto l’arco della nostra vita.
Le esperienze di vita a cui fanno riferimento gli studiosi sono legate alle relazioni interpersonali, ai fattori motivanti, ai valori e ai sogni, alle regole e alla cultura aziendale – strettamente legata all’uomo che vive al suo interno -, ai programmi di formazione, ai cambiamenti, all’ascolto attivo, al concetto di risonanza e primal leadership, al sequestro emozionale e all’importanza dello humor… giusto per citarne alcune.
Non mancano, nel testo, citazioni e riferimenti bibliografici a piè pagina, e, naturalmente, alcune spiegazioni scientifiche relative alla funzionalità cognitiva ma gli autori, in queste sezioni, hanno semplificato la narrazione affinché sia facilmente comprensibile anche per chi non conosce la materia in maniera approfondita.
In conclusione, “Essere leader – Guidare gli altri grazie all’intelligenza emotiva” potrebbe sembrare una lettura dedicata solo a chi ricopre posizioni lavorative di responsabilità: il leader, appunto. Colui che costruisce, che si mette in gioco e che rischia; che deve ascoltare, che non dà nulla per scontato, che è obbligato a imparare dai suoi errori e che maneggia l’empatia per stabilire connessioni profonde e cambiamenti radicali.
In verità, è una lettura che istruisce tutti noi perché, anche se non ricopriamo posizioni manageriali, siamo costruttori attivi della nostra vita. O meglio, leader della nostra vita.
Daniel Goleman ha insegnato psicologia ad Harvard, collaboratore scientifico del “New York Times” è uno dei più apprezzati consulenti e conferenzieri a livello mondiale. Oltre al bestseller Intelligenza emotiva, in BUR sono disponibili: Menzogna, autoinganno, illusione, Lavorare con intelligenza emotiva, Lo spirito creativo (con Paul Kaufman e Michael Ray), La forza della meditazione, Intelligenza sociale, Intelligenza ecologica, Leadership emotiva, Focus, La forza del bene e Trasparenza (con Warren Bennis e James O’ Toole).
Richard E. Boyatzis è professore e direttore del Dipartimento di Comportamento organizzativo alla Scuola di Management della Case Western Reserve University.
Annie McKee insegna presso l’Università della Pennsylvania e svolge un’intensa attività di consulenza nel campo organizzativo.
Source: libro inviato al recensore dall’editore. Ringraziamo l’Ufficio stampa Rizzoli nella persona di Giulia Magi.
Nascosto tra le dolci colline verdi del Devon, Mallowan Hall combina il meglio della tradizione inglese con le moderne comodità disponibili del 1930. Per un aspetto, tuttavia, Mallowan Hall si distingue dalle altre pittoresche case di campagna fuori città. Il maniero infatti ospita l’archeologo Max Mallowan e la sua famosissima moglie, Agatha Christie. La loro governante, Phyllida Bright, tanto efficiente quanto simpatica, gestisce, sopportando la supervisione del maggiordomo Mr Dobble, la grande casa e la servitù con pugno di ferro in guanto di velluto. Nella vita di Phyllida Bright infatti tutto sembra sempre al suo posto e sotto controllo. Ha accettato la sua più che decorosa occupazione, soprattutto per la vecchia e collaudata amicizia con la padrona di casa, moglie dell’archeologo, che stima come persona dalla quale è molto stimata avendo condiviso in guerra il servizio al fronte per l’organizzazione dei soccorsi ai feriti. Ogni mattina Mrs Bright, ignorando il burbero sguardo di semiriprovazione del maggiordomo, serra la sua bella folta capigliatura biondo rosso, ben pettinata e domata in uno chignon, ma continua a indossare abiti di buon gusto che mettano nel giusto risalto la sua aggraziata figura. Apprezza molto il fatto che la sua datrice di lavoro sia una giallista celebre in tutto il mondo, gode della sua confidenza , approfitta della lettura delle sue pagine in anteprima e proteggendo con rigore la sua privacy,le garantisce il tempo e la discrezione necessaria per scrivere in tranquillità. Appassionata di narrativa poliziesca, Phyllida deve però ancora trovare nella vita reale un gentiluomo affascinante quanto l’eroe belga della signora Agatha, Hercule Poirot. Ma benchè abituata all’omicidio e ai suoi metodi come frequenti argomenti di conversazione, e per aver dovuto sopportare la vista di tanti morti durante la Grande guerra, quella mattina, entrando per prima in biblioteca, sarà costretta ad affrontare un cadavere molto reale e “molto” morto disteso sul pavimento… Un primo impatto retto bene. Intanto non reagisce urlando ma si china invece per appurare l’identità del morto, notando che è coperto di sangue per una penna stilografica conficcata nel collo e riconoscendo in lui Philip Waring, nome con il quale si era presentato la sera prima durante una cena organizzata dai padroni di casa. Il suo nome non figurava sulla lista degli invitati e lui era piombato all’improvviso a Mallowan Hall, dichiarandosi un giornalista pronto a fare l’intervista a suo dire promessagli da Mrs Christie. La successiva tempesta con pioggia e vento nella zona aveva costretto la scrittrice a invitarlo a fermarsi anche per la notte… E ora qualcuno l’aveva ammazzato.
Phyllida sa che di fronte a una situazione del genere bisogna agire bene e in fretta, ragion per cui come prima cosa telefona alla polizia e subito dopo fa chiamare il maggiordomo per organizzare con discrezione gli interrogatori degli ospiti e della servitù, ben diciotto dipendenti. C’è il rischio infatti che la notizia, per forza già rimbalzata in zona via etere, diventi troppo presto di dominio pubblico, mettendo a rischio la privacy della sua amica e padrona. Cosa che non gioverebbe a nessuno e tanto meno a lei con sul groppone una casa piena di ospiti e gran parte dello staff distratto e impaurito. Ma a suo vedere la polizia locale, che fin dai primi passi navigherà nella nebbia più totale, non sapendo da dove cominciare a indagare, tratta il caso con superficialità, lasciando orde di giornalisti affamati di notizie accampati fuori dalle mura della proprietà e che persino sconfinano indecorosamente in giardino. Quando poi verrà scoperto un altro cadavere, una delle sue cameriere stavolta, con la testa fracassata da un corpo contundente, a Phyllida non resterà che impegnarsi in prima persona sulle orme del suo beniamino Monsieur Poirot, e seguire ogni possibile pista per poter incastrare una alla volta tutte le tessere del complicato puzzle . Ciò nondimeno qualcosa nella sua testa le dice che l’assassino è vicino, in agguato e minacciosamente pronto a colpire ancora. Magari si nasconde addirittura tra gli ospiti di Mallowan Hall. Con l’aiuto del bel medico del villaggio, il dottor Bhatt, de maggiordomo, Mr Dobble, di Mr Bradford, nuovo misterioso e atletico autista, e sguinzagliando tutto il personale domestico, non si lascerà fermare. E la nostra Poirot in gonnella dovrà prendere alcune decisioni barcamenandosi tra due omicidi, infedeltà con succose situazioni vicine allo scandalo , false piste, indizi e presagi, il tutto sufficiente per riempire un romanzo di Agatha Christie e qui inserito per sviare il lettore e abbastanza per consentire a quello più intelligente di riflettere. Ma solo la prontezza e l’intelligenza di Phillida, durante un raduno di potenziali sospetti, la porteranno a rivelare il nome di chi ha ucciso… Omicidio a Mallowan Hall, con l’ambientazione a casa della scrittrice di gialli più amata di sempre, è l’ indovinato atout di questo romanzo fresco, ironico e denso di colpi di scena, il primo della serie con Phillida Bright come protagonista, che l’autrice l’americana Cambridge dedica alla società inglese anni trenta . Quella stessa società che molti tra i lettori avranno già imparato a conoscere attraverso l’ormai famosissimo Downton Abbey. L’autrice ha “studiato” e descrive molto bene, con i giusti toni e particolari il mondo e i protagonisti collocati in quell’epoca. La sua eroina è una detective improvvisata ma dall’intuito brillante, inquadrata in una elegante cornice che appassionerà i fan di Agatha Christie.
Colleen Cambridge, è lo pseudonimo che Colleen Gleason prolifica e ben nota scrittrice americana ha utilizzato per la sua nuova serie dai calibrati toni Inghilterra anni 30, dedicata al personaggio (immaginario) di Phyllida Bright, governante di Agatha Christie (1890 – 1976).
Spesso la nozione di genere è un fardello, un qualcosa di troppo se forzatamente applicato a determinate narrazioni. Allo stesso modo, esistono romanzi che, pur esondando da etichette e mode, rispondono con intelligenza alla logica di genere ma rifiutando di accoglierla in toto e piuttosto facendone uso soltanto laddove lo si ritiene utile. Mi sembra che l’esordio della giovane (classe ’89) quanto talentuosa Violet Kupersmith si muova proprio in questa direzione. Innanzitutto, il titolo, bellissimo e labirintico: Costruisci la tua casa intorno al mio corpo, un titolo interlocutorio e assertivo e insieme una sorta di invocazione al gesto pensante del lettore. Il romanzo di Kupersmith (d’ora in poi per comodità taglio il titolo riducendolo alla prima parola, Costruisci) lavora ostinatamente sul concetto di confine. Non sono confini geografici, che sarebbe il minimo, visto che Winnie, la ragazza al centro della storia, lascia l’America per raggiungere il Vietnam e spostarsi occasionalmente in Cambogia. Il confine che più significativamente tratta Kupersmith è un confine fisico e riguarda il proprio corpo, l’ultimo strato di pelle che ci protegge dalle insidie del mondo; il confine della propria scatola cranica che segna il passo prima che pensieri impossibili si impadroniscano della nostra volontà raziocinante. Ho cominciato parlando di genere perché qui abbiamo topoi fieramente branditi ma anche questi a rischio di continuo sconfinamento. Il romanzo di formazione si fonde con l’horror o con una più generica atmosfera da urban fantasy e allo stesso tempo non credo sarebbe sbagliato definire Costruisci come una lunga e stratificata ghost story in cui i fantasmi, tale è la potenza della prosa di Kupersmith, sembrano principalmente trovarsi fra le persone vive.
La scrittura dell’autrice, americana di origine vietnamita esattamente come la sua protagonista, è rarefatta e vischiosa; leggere le vicende di Winnie in terra straniera restituisce a noi lettori lo stesso spaesamento della ragazza e in questo senso l’autrice raggiunge vette di autentico virtuosismo descrittivo: l’evocazione della routine vietnamita, gli scorci di uno Saigon a tratti immobile a tratti sincopata, sono punti di forza del romanzo e forse rappresentano anche il mezzo più efficace per tenere insieme una trama che tende naturalmente alla digressione se non addirittura alla dissipazione. Se infatti possiamo rintracciare in Winnie e la sua improvvisa scomparsa il cuore della narrazione, dobbiamo tenere a mente che Costruisci è un romanzo corale, una storia di storie, che attraversa almeno settant’anni di cronaca vietnamita, colonialismo, guerra, assetti politici mutati e soprattutto un profondissimo senso del folklore che apre la porta a visioni orrorifiche. Bisogna fare attenzione a parlare di Costruisci e non perché, banalmente, si rischia di spoilerare parti della trama, quanto perché i colpi di scena non sono messi lì per sorprendere il lettore ma semmai per misurare la tenuta della sua sospensione dell’incredulità, la sua propensione a lasciarsi trascinare da un continuum di avvenimenti radicati in una cultura di cui tutto sommato, almeno nelle nostre contrade, si sa poco. Violet Kupersmith, infatti, attraverso l’odissea di Winnie, sembra voler fare i conti con le proprie radici a tutti i livelli, culturali ma anche naturali e in questo senso non può essere un caso l’insistenza con cui ci viene descritta la natura vietnamita. Organizzato per imponenti blocchi narrativi, sostenuti da una suspense discreta quanto ammorbante, Costruisci definisce il ritratto di una giovane donna a partire dal suo scomparire. Da lì in poi sarà solo indagine, ricordo, rievocazione, il tutto incastrato in almeno altre tre linee narrative di pari importanza e teletrasportate lungo il novecento asiatico per oltre quattrocento pagine. È un romanzo, Costruisci la tua casa intorno al mio corpo, che pretende attenzione dal suo lettore ma che sa rifonderlo con gli interessi in termini di suggestione e malìa.
Violet Kupersmith (1989) è una scrittrice americana di origine vietnamita. Tra il 2011 e il 2015 ha vissuto in diverse città del Vietnam, e nel 2014 ha esordito con la raccolta di racconti The Frangipani Hotel. Tra il 2015 e il 2016 è stata “creative writing fellow” alla University of East Anglia, mentre nel 2022 ha ricevuto la fellowship del National Endownment for the Arts. Selezionato per il First Novel Prize del Center for Fiction, per il Women’s Prize for Fiction, e vincitore del Bard Fiction Prize, Costruisci la tua casa intorno al mio corpo è il suo primo romanzo.
Source: libro inviato dall’editore al recensore. Ringraziamo Francesca Ufficio stampa NN.
Giovanni Turi fondando Terrarossa Edizioni ha portato una bella ventata di aria pulita e nuova nel mondo della narrativa italiana contemporanea. Tra le brillanti intuizioni dell’editore c’è Fondanti, una collana che ripropone opera che hanno segnato un’epoca o hanno rappresentato un tassello fondamentale nel percorso narrativo di autori di talento.
Ultimo arrivato è Cuori di nebbia, il romanzo di Licia Giaquinto. Il libro fu pubblicato da Flaccovio nel 2007 e fu fortemente voluto da Luigi Bernardi, indimenticato direttore editoriale, ma soprattutto scrittore e intellettuale libero e lontano sempre dal mercimonio del mercato editoriale. E soprattutto, in virtù del suo essere sempre corsaro e irriverente, Luigi quando decideva di pubblicare un libro non sbagliava mai un colpo.
Cuori di nebbia è un romanzo nero che al suo interno contiene altrettante storie nere e personaggi oscuri che si muovono nella notte disillusa della pianura emiliana negli anni novanta.
Lungo la via Emilia sembra muoversi l’intera nazione. Infatti nella quarta di copertina il lettore ideale di questo libro è colui che cerca uno spaccato disilluso e vero dell’Italia degli ultimi decenni, chi leggendo vuole costeggiare le tenebre e non ama il lieto fine.
Cuori di nebbia è un noir nelle cui pagine troviamo lo stesso spaesamento che ammiriamo in una fotografia di Luigi Ghirri.
E la nebbia in cui sono immersi tutti i personaggi con le loro storie è una metafora del degrado morale e dello squallore esistenziale che Licia Giaquinto ci mostra con una lingua affilata che sanguina.
Mirella, Filippo, Nicola, Natascia, Mirco, Francesco, Patrizia. Questi sono i personaggi che con i loro demoni attraverso la grande notte e le loro esistenze sono avvolte da una nebbia che è portatrice di dilemmi e drammi.
Tutti danno vita a un puzzle a un romanzo corale in cui fragilità, disincanto e rabbia sono i simboli di vite disilluse che nella località di Bruciata precipitano nei loro personali abissi dove l’inconscio incontra le tenebre e la menzogna è una verità capovolta.
La scena in cui si svolge il romanzo assomiglia molto a una terra desolata. L’autrice prima di immergersi nella vita dannata dei sette personaggi la consegna al lettore con parole spiazzanti.
«Una distesa di campi piatti e sterili, glassati dalla galaverna, e tagliati dalla ferita grande della strada, con la slabbratura degli argini, e dei tanti graffi dei viottoli». Un paesaggio anemico e malinconico in cui il giorno avanza a fatica fa da sfondo a Cuori di nebbia, un romanzo in cui sette persone con le loro storie fanno i conti con i loro lati oscuri fino all’annientamento.
Licia Giaquinto ci conduce in un viaggio al termine della notte: i sette personaggi brancolano nella nebbia, sanno che si sono persi per sempre.
Le loro vite disilluse ci faranno sentire un freddo addosso e anche noi insieme ci perderemo nella nebbia, spaesati con i nostri lati oscuri ci sentiremo coinvolti da una anatomia dell’irrequietezza, che ci porteremo addosso, accorgendoci a lettura ultimata che questo libro ci ha cambiato per sempre.
Licia Giaquinto è nata in Irpinia, dove ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza, ora vive a Bologna. Ha esordito nella narrativa con Fa così anche il lupo (Feltrinelli 1993), a cui sono seguiti È successo così (Theoria 2000), Cuori di nebbia (Dario Flaccovio 2007, ora riproposto da TerraRossa Edizioni), La ianara (Adelphi 2010), La briganta e lo sparviero (Marsilio 2014). Ha scritto anche testi teatrali, l’ultimo è Carmine Crocco e le sue cento spose. È ideatrice e anima dell’associazione Aterrana – Ater Ianua che vuole contrastare il degrado e lo stato di abbandono del borgo storico di Aterrana (Av).
Source: libro inviato dall’Ufficio stampa al recensore.
Corpo a corpo si svolge nell’arco di diciotto ore, durante lo scorrere e più, di una giornata di una palestra della periferia milanese, ad Arluno, luogo in apparenza fuori dal tempo, dove cerca appoggio e asilo Stefano, oggi giovane professore di Italiano al liceo, ex promessa del pugilato che qualcosa ha obbligato ad abbandonare i guantoni… Come una belva ferita fa ritorno al suo antro, così Stefano Santi si rifugia in quella palestra , un tempo quasi sua casa e famiglia per confessare a Mario, proprietario della sala e suo ex allenatore, tutta la sua storia. Durante la sua lunga e sofferta confessione, Stefano legge alcuni estratti del diario di Marta, perché “serve conoscere la voce di lei per arrivare alla disfatta di lui”. Marta che, a suo dire, voleva a tutti i costi salvare la sorella Ada dalla condanna della sua perfezione. Ada che di nascosto si allenava sfogandosi e picchiando con la boxe alla ricerca dell’autenticità e per non esplodere, imprigionata nei canoni di un’assoluta eccellenza. Ada che, arrivata al culmine di ogni desiderata, ovverosia essere una stella della danza, si era uccisa ma nessuno aveva mai capito il perché, quali fossero i motivi di quel terribile gesto di disperazione. Drammatico e al contempo folle diario di Marta, ragazza ventenne che si sentiva troppo normale per essere notata, ma sempre pronta a riconoscere ogni eccesso altrui e immaginarne la sofferenza e troppo severa con se stessa per non rischiare di impazzire. Marta con l’intollerante convinzione di essere una mediocre e l’insofferente attaccamento nei confronti della sorella, vuole con le sue parole solo giustificare le sue azioni. Azioni lucide e deleterie con per vittime Ada e Stefano che lei, nella sua contorta e malata fissazione, è sicura di aver salvato da una vita perfetta, perché solo la mediocrità ha il diritto di sopravvivere… Ada e Marta, due sorelle che non avrebbero dovuto mai essere divise … e invece quell’orribile fatalità. Con la morte di Ada che ha scatenato solo angoscianti dubbi, rimorsi e ineluttabili conseguenze. Mario, il pugile, la roccia, il vero punto fermo e stabile della narrazione, orecchio attento che non giudica o condanna ma tramite le ferree regole del suo sport e il richiamo ad alcuni campioni del passato come Joe Louis, Willy Pep e James Walter Braddock – quasi sull’ altare della storia della boxe – e la concretezza dei fatti, aiuterà Stefano, stretto nella morsa del tormento, a comprendere quale dovrà essere “la cosa giusta da fare”. Ma la sua scelta sarà davvero giusta? Potrà forse esserlo solo se il farlo gli servirà a dare un significato a un’esistenza ormai rovinata per quanto irrimediabilmente accaduto e a imboccare la strada dell’espiazione . Elena Mearini che con la sua intensa e consueta capacità di scrittura, spesso ogni sua frase nasconde un pensiero e in questo suo romanzo affronta problematiche crude e scottanti , racconta del bene e del male insito in noi tutti. Per farlo si serve di una perfetta metafora pugilistica, la “nobile arte” utilizzata sia come libertà da parte delle donne che indirettamente come simbolo di lotta e implicità accusa all’eccesso di conformistica perfezione reclamato oggi dalla società. Quella costante pretesa di dover piacere a tutti, di voler essere migliore a ogni costo senza riuscire ad accettare i limiti di una ragionevole normalità, che costringe a trovare a ogni costo la colpa e sfogarsi su qualcuno da punire, rischiando di scivolare in rapporti di dipendenza che penalizzano e tolgono la libertà. Una costrizione che obbliga a coinvolgersi in qualcosa di pericolosamente malsano, in grado di ferire e far male. E di rischiare il diretto confronto conpersone con pregresse turbe mentali mai individuate , che magari nascondono i loro malessere o addirittura una peculiare patologia. Con un complesso reticolo di vite che si avversano, affrontandosi come sul ring, Elena Mearini ci narra con coinvolgente ma tragico realismo, la crudezza del bene e del male, stavolta fulcro trainante del suo “Corpo a corpo” con le conseguenze di amori talmente snaturati da trasformarsi in fatali. Amori snaturati che conducono ineluttabilmente alla audistruzione, ma contemporaneamente esalta come impagabile e insostituibile, il valore di vere affinità elettive allacciate all’ombra della comune passione sportiva, in questo caso la boxe, assimilata al perenne lottare, insito nella vita di ciascuno di noi qui simbolico emblema dell’incontro-scontro della vita. Pian piano la trama, sovrapponendo il senso della vita al pugilato, sviluppa il suo colto intreccio di sentimenti e azioni in una speciale atmosfera descritta con linguaggio chiaro e preciso. E sarà proprio la lineare forza della parola e del racconto a svelare alla fine tutta la verità.
Proposto da Ilaria Catastini al Premio Strega 2023 con la seguente motivazione:
«Corpo a corpo, di Elena Mearini, è un noir psicologico costruito come una sequenza di round, quasi fosse un incontro di boxe, sport che fa da sfondo e da elemento strutturale del romanzo e che lega l’allenatore di pugilato Mario, il protagonista Stefano e le due figure femminili, centrali nella trama ma di sfondo nel chiaroscuro della narrazione. Il ring che rappresenta la vita, con l’attacco e la difesa, lo stare in guardia, lo studio dell’avversario. Catturare il momento giusto per assestare il colpo, non fermarsi mai. Nel ring della vita si sfidano anche l’amore e la volontà di controllare l’altro; si sfidano il fato e la capacità di governare il proprio destino. È in questo ring simbolico della vita che Marta sfida in un corpo a corpo la sorella Ada, la ragazza perfetta e inarrivabile, andata incontro a un tragico destino. E un ring diventa il rifugio di Stefano dopo aver ucciso Marta; su quel ring altrettanto simbolico Stefano lotta con se stesso svelando al lettore, attraverso le pagine di un diario, il colpo di scena inquietante che metterà in luce la mente psicologicamente disturbata di Marta e il gesto sconsiderato e irreversibile di Stefano. Gli incidenti che cambiano il destino delle persone, individui che si crede di conoscere e che si rivelano diversi da come pensavamo: Corpo a corpo è un romanzo che riesce a cogliere una quantità di sfumature che non comprendono solo il noir, attraversando diversi generi letterari e che tiene il lettore sospeso in una condizione psicologica nella quale ognuno di noi potrebbe ritrovarsi.»
Elena Mearini vive a Milano ed è autrice e docente di scrittura creativa e poesia. Dirige la Piccola Accademia di Poesia fondata nel 2020. Ha pubblicato una raccolta di poesia per LiberAria Editrice, Strategie dell’addio, e due per Marco Saya Editore, Per silenzio e voce e Separazioni. Nella narrativa ha esordito con 360 gradi di rabbia (Excelsior 1881), cui ha fatto seguito A testa in giù (Morellini Editore), Undicesimo comandamento (Perdisa pop editore), Bianca da morire (Cairo Editore, selezionato al Premio Campiello), e È stato breve il nostro lungo viaggio (Cairo Editore, selezionato al Premio Strega 2018 e finalista nella cinquina per il Premio Scerbanenco). Il romanzo I passi di mia madre è stato candidato al Premio Strega 2021 con la presentazione di Lia Levi. Nel 2019 ha pubblicato per Perrone Editore Felice all’infinito. Ha curato l’antologia Tra Uomini e Dei, storie di rinascita e riscatto attraverso lo sport (Morellini Editore) ed è presente in diverse antologie di narrativa, tra cui Lettere alla madre e Lettere al padre (Morellini Editore) e Nel mare di Lombardia (Les Flaneurs Edizioni).
Sembra una sera come tante, nelle strade e i nei vicoli di Latina che conserva ancora i segni del suo passato fascista, quando tornerà in pista Paolo Santarelli lo strano piemme in servizio presso la procura di Latina, quello con alla destra Palazzo Emme, storico edificio costruito al battesimo della nuova città che, a quell’epoca si chiamava, Littoria. Lui, Paolo Santarelli , che Giorgio Bastonini ci aveva già presentato nel suo precedente giallo uscito due anni fa. Strano personasggio ma soprattutto completamente diverso dall’immagine formale che uno può aspettarsi da un magistrato. Paolo Santarelli infatti è una persona che si presenta tutti i giorni in ufficio, con ai piedi le Converse e indossando una felpa colorata. Uno poi che, ignorando la macchina di servizio con qualunque tempo va in giro pedalando in bicicletta e con uno strano rapporto con l’universo femminile: ha una ex alle spalle, attualmente è impegnato con un’accomodante fidanzata con la quale mantiene soprattutto un rapporto a distanza, anche a ore impossibili, fatto soprattutto di messaggi. Mantiene una rispettosa e proficua convivenza con il commissario Bertoni, acuto funzionario della mobile, ma in città, visto che lo si considera ancora un estraneo perché campano di origine, ha pochi amici. Tra loro Livio, padrone del bar Piccolino dove subito, più veloce del vento, arrivano tutte le notizie di quanto succede a Latina… Fine novembre, dopo aver adempiuto con rassegnazione al sacrificio del suo sangue preteso dall’implacabile nugolo delle locali zanzare autunnali, Santarelli ha raggiunto a piedi il bar Piccolino per accordarsi con il proprietario su una cacio e pepe serale. Ma appena arrivato verrà informato da Livio di una sparatoria appena avvenuta in città, e dopo aver ricuperato il cellulare, come al solito dimenticato in ufficio, ci troverà dentro l’avviso che anche una telefonata anonima ha segnalato il fattaccio. Non gli resta che saltare in bicicletta e pedalare verso il luogo del delitto. dove il commissario Bertoni è già al lavoro con i suoi uomini. A prima vista, parrebbe trattarsi di un regolamento di conti e dunque per Santerelli vorrebbe dire un’ indagine di routine. Sul litorale, infatti, qualcuno ha sparato al giovane rampollo del clan Romano, a Gianluca, detto “Spaghetto”, il giovane e viziato virgulto della famiglia mafiosa di rom stanziali con il monopolio di spaccio, usura ed estorsioni”. Famiglia che da tempo Santarelli prova in ogni modo a incastrare. Ma non si tratta di un regolamento di conti e il nostro piemmelo scoprirà presto, mentre torna a piedi a casa, dalle parole di Raffaele Locatelli, grassoccio chimico e ricercatore scientifico trentenne con tanti segreti e troppi nemici… che l’avvicina per strada per rivelargli di aver sparato a Spaghetto proprio nella piazzola e di temere la vendetta dei Romano. Ma avrà appena il tempo di ammettere una furibonda lite con Spaghetto, causata da divergenze per la comune società e accennare a un casale in campagna dove sta sperimentando le sue ricerche, prima che la sua voce venga sopraffatta dal rumore di una accelerata e da una 500 bianca, comparsa all’improvviso dal nulla, qualcuno gli sparerà, uccidendolo. Due delitti ma anche due colpevoli prontamente individuati: con Raffaele Locatelli, reo confesso del primo delitto e presumibilmente assassinato per vendetta nel secondo . E il suo carnefice verrà facilmente identificato tramite le intercettazioni dei membri del clan. Tanti piemme si fregherebbero le mani davanti all’occasione di chiudere in un solo colpo due casi, ma Paolo Santarelli è “uno strano pubblico ministero”: lui vuole vederci più chiaro, andare più a fondo a tutta la faccenda. Tanto per cominciare scoprire cosa combinava Locatelli, un giovane chimico nella società con il clan dei Romano, che campano con l’usura e la vendita di droga? L’approfondita perquisizione della sua casa si rivelerà un buco nell’acqua, nonostante la vicinanza di una conturbante amica della vittima, una cartomante che sicuramente lo conosceva bene. Più interessante si rivelerà la visita fatta in bicicletta da Santarelli all’azienda agricola di cui Raffaele era titolare: all’interno di un capannone scoprirà infatti una meravigliosa serra con dentro piccoli stagni con una rigogliosa flora acquatica affollata da piccole rane. Ma quale interesse avevano Locatelli e Spaghetto a trapiantare nell’Agro Pontino quello che pare un piccolo pezzo di Amazzonia? Per sbrogliare il mistero, che potrebbe avere lunghissimi e ramificati tentacoli internazionali, Paolo Santarelli dovrà darsi da fare e affrontare con determinazione e coraggio – e, se necessario, facendo anche uso di sostanze particolari –, un’ intricata e molto pericolosa situazione che affonda le sue radici addirittura oltreoceano. Ma Santarelli è una persona prima di un magistrato. Una persona in grado di vivere e vedere la vita con un’ottica diversa , in grado di applicare la legge ma anche di farlo bene. Talvolta infatti non si possono giudicare le persone, valutando supinamente le loro azioni. Bisogna saper interpretare le regole con giustizia ed equità. Una trama brillante con un protagonista brillante e ironico, un giovane quarantenne anticonformista aperto, intelligente e colto, che ogni tanto incespica un filino nei suoi rapporti al femminile. L’incertezza della rana è una conferma per Giorgio Bastonini di saper raccontare con il giusto mix di commedia e tragedia una certa vita di provincia italiana, creando un’altra storia non comune, divertente e che non ha scordato in questo caso di rifarsi persino a un fatto di cronaca realmente accaduto. Santarelli infatti verrà chiamato a sostituire un collega nel dibattito finale di un processo in cui sono imputati alcuni giovani accusati di aver pestato a morte un ragazzo, colpevole volere far da paciere in una rissa. Chiari i riferimenti alla tragica storia del povero Willi Monteiro, ucciso a Colleferro due anni fa.
Giorgio Bastonini è nato nel 1961 a Parigi e vive fra Latina e Milano. Ama il caffè, il vin brulé e il suono del ticchettio della tastiera. Per pagare le bollette fa il commercialista. Il Giallo Mondadori ha pubblicato nel 2021 la prima avventura con protagonista il piemme Paolo Santarelli, Uno strano pubblico ministero.
25 dicembre 800. Roma. Quel Natale il Papa sta per proclamare un nuovo sovrano, a ricevere la corona è Carlo Magno (742 – 814), primogenito della stirpe dei Carolingi, immerso in una storia di coraggio e amori, sangue e dubbi, battaglie e trionfi, complotti e intrighi, rimpianti e perdite. E segreti! In “Karolus”, attingendo a sterminate storiografia e bibliografia, l’ottimo scrittore, sceneggiatore e giornalista Franco Forte (Milano, 1962), direttore editoriale delle collane da edicola Mondadori (compreso Il Giallo), narra lungamente e intensamente le gesta del celebre reggente unico del Sacro Romano Impero, dalla primissima infanzia agli ultimi istanti di vita. Dopo la dedica (alla famiglia), l’albero genealogico della “stirpe”: prima da Pipino il Breve a Carlo e ai suoi tanti fratelli e sorelle minori; poi dalle cinque mogli agli innumerevoli figli, soprattutto di Ildegarda (la terza, sposata nel 771 e morta nel 783). Seguono ascesa e dominio, attraverso sei godibili capitoli.
Franco Forte è nato a Milano nel 1962. Scrittore, sceneggiatore e giornalista, per Mondadori ha pubblicato, tra gli altri, Carthago, Roma in fiamme, Caligola, Cesare l’Immortale e Romolo, il primo di una serie di libri dedicati ai sette re di Roma.
“Eccola che torna alla carica col ricatto degli affetti. Nonostante il conforto della bianchetta, il freddo che sale lungo la schiena sta diventando un tormento, avverto i primi brividi ed è tempo di chiudere questa conversazione senza capo né coda. Magari il modo di aiutare quella sciaccæla della Rubia, una vera stupida, la trovo…”
Come si misura l’umanità di una persona? È una caratteristica innata o la si acquisisce per esperienza? E, ancora, è legata a gesti quotidiani, parole pronunciate, stili di vita o, forse, si tratta più di una faccenda di legalità, coerenza, equilibrio?
Domande simili nascono spontanee, durante la lettura dell’ultimo romanzo di Bruno Morchio, “La fine è ignota”, edito da Rizzoli. La figura di Mariolino Migliaccio – il protagonista – e la sua complessa personalità costituiscono una fonte interessante per riflettere sul tema.
Andiamo con ordine, però.
Iniziando dal titolo, si avverte un altro concetto che ritorna spesso, nell’opera: una specie di contrapposizione, simile a un effetto bilancia. La fine, un atto che è legato a un fatto certo e definitivo, viene qui associata all’incognita, a qualcosa di incerto e sconosciuto. Il Bene e il Male, dunque, vengono miscelati, legati, potrebbero sembrare indissolubili.
Un altro segnale interessante, che anticipa molto della trama, è la copertina. È una grafica che rappresenta i caruggi tipici della Liguria, un’insegna sbiadita di un hotel e un uomo che cammina. Il viso dell’uomo è voltato: sembra scrutare e controllare, come se temesse un pericolo. L’atmosfera shady è percepibile e, anche in questo, le luci e le ombre si accostano, convivono l’una accanto all’altra.
Il racconto ruota attorno alla scena iniziale: Luigi il Vecchio, un boss senza scrupoli, assume Mariolino per ritrovare una delle sue “ragazze” che è sparita dalla casa di tolleranza che gestisce sotto forma di centro benessere. Da questo fatto, l’autore muove i suoi personaggi tra le vie di Genova, i locali promiscui, l’illegalità di una società “parallela”, storie di violenza e disperazione che coinvolgono ragazze arrivate nel nostro paese con la speranza di poter vivere una vita dignitosa.
Gli occhi del lettore vengono catturati da Mariolino che si presenta nudo e crudo. È un uomo solo – la mamma, una lucciola, è stata uccisa da un cliente -; è disoccupato, per la società, ma un lavoratore – investigatore privato senza licenza – dei bassifondi; vive in una stanza fredda e quando ha qualche soldo in tasca si concede un pasto caldo in trattoria. Ha una buona cultura – ha frequentato il liceo classico –, ama la buona musica, ed è dotato di un’intelligenza fine e spontanea, nonché di un grado di umanità e attenzione verso i problemi degli altri che colpisce, in positivo.
L’intera opera è narrata dal punto di vista di Mariolino: il lettore entra in contatto con il personaggio, le sue azioni, il suo pensiero, la sua solitudine, il suo disagio (che esprime spesso), quel suo modo di restare ancorato alla vita, le amicizie di strada e la solidarietà che si costruisce in questi legami, le strategie che improvvisa, il suo straordinario talento nell’ascoltare e nel comprendere gli Uomini. In sostanza, è tutto il suo mondo a essere messo in esposizione, in maniera semplice ma diretta. È con i suoi occhi che conosciamo la disperazione che regna nella realtà a luci rosse che gli sta intorno ed è grazie a lui che scopriamo gli angoli più bui della Genova nel periodo natalizio. E poi, ci sono i soprannomi e quel suo modo originale di analizzare le persone. Un modo unico e inconfondibile.
“È un tipo tozzo e robusto, fisico da palestrato, sui cinquant’anni portati con orgoglio e prëzumìn: capelli brizzolati tagliati cortissimi, da ex ufficiale dei marines, e mascella squadrata da picchiatore fascio. Indossa abiti eleganti e in molte fotografie, anziché la cravatta, sfoggia uno sgargiante papillon rosso. Dà l’impressione del personaggio che conta, conscio e fiero della propria condizione di uomo di potere. Il Vecchio e Coscialunga devono tenerlo in grande considerazione …”
Altra caratteristica che emerge è l’uso del dialetto. Lo si trova soprattutto nei dialoghi, ma chi non ha dimestichezza con le espressioni dialettali non deve preoccuparsi perché affianco c’è la traduzione. Un ulteriore conferma, questa, di quanto lo stile narrativo di Bruno Morchio sia aperto, diretto ed efficace, quasi confidenziale. Uno stile fresco e originale che si contrappone efficacemente alla tematica trattata e che conferma l’equilibrio dell’intera opera.
Bruno Morchio è nato nel 1954 a Genova, dove vive e ha lavorato come psicologo e psicoterapeuta. È autore, tra l’altro, di una fortunata serie gialla che ha per protagonista l’investigatore privato Bacci Pagano. Per Rizzoli ha pubblicato anche Il testamento del Greco e Un piede in due scarpe, disponibili in BUR, e La fine è ignota (2023).
Source: libro inviato al recensore dall’editore. Ringraziamo Ambretta Senes Ufficio Stampa Rizzoli.
Dopo avere raccontato Roma e Milano, Enrico Vanzina chiude con una zampata da leone par suo la sua trilogia noir dedicata alle città italiane, tornando indietro nel tempo nel 1700, a Venezia in laguna e arrivando a coinvolgere addirittura il mitico Giacomo Casanova. Vanzina scrive ma si diverte e si vede. Gioca con i modelli del Settecento, si lascia contagiare dal primo Dumas e dalla crudele malizia di Laclos , senza tuttavia dimenticare Goldoni e le Memorie di Casanova , poi arricchisce persino la sua trama con una carambolesca fuga dal sapore di spaghetti western alla Kill Bill 2 di Tarantino. Insomma Il cadavere del Canal Grande è un singolare e provocante romanzo storico, intrigante, sanguinario quanto gli piace (un bel po’ direi), denso di colpi di scena, dotato uno stuzzicante congegno narrativo giallo e popolato da memorabili personaggi, dominati dalla locandiera Ginevra Trevisan, fascinosa protagonista femminile… Jean de Briac, giovane venticinquenne alto biondo e bello, di nobili origini bretoni, aveva un sogno, diventare un pittore. Ma suo padre, squattrinato aristocratico di campagna, molto più interessato a fare rendere i suoi terreni e alla salute delle mucche che alla vocazione artistica della progenie, non ci sentiva da quell’orecchio. Ragion per cui il giovanotto saltato in sella a un robusto cavallone della paterna scuderia, dopo un lungo e periglioso a viaggio era riuscito ad arrivare a Venezia. Là con la benevola lettera di intercessione del cugino, Mathieu de Briac, monsignore a Würzburg, dove il maestro Giambattista Tiepolo aveva affrescato la residenza del principe vescovo Karl Philipp von Greiffenclau, era stato preso a bottega, entrando a far parte del gruppetto di volenterosi allievi del grande pittore veneziano. Tiepolo, uomo di buon cuore, mosso forse da ammirazione o pietà per quel ragazzo che per un sogno era scappato dalle comodità di casa, l’aveva messo due mesi prima a mischiar colori, mentre lui stava lavorando all’affresco dell’Incoronazione di Maria Immacolata nella chiesa della Pietà. Nonostante i pochi spiccioli in tasca garantiti dalla paterna grettezza, che gli consentivano appena di alloggiare in una stanzuccia in una locanda vicino al Ponte di Rialto e di riempirsi la pancia in bettole malfamate, Jean de Briac finora si era sentito appagato dalla sua vita veneziana. Ma una sera, dopo cena ormai diretto a piedi al suo giaciglio, con la luna che si rifletteva nelle acque del Canal Grande, mentre camminava scansando l’eterogenea folla notturna che animava le calli, verrà travolto da una dama che correva all’impazzata tra la gente. Pur scaraventato a terra riuscirà ad afferrare la gonna della bellissima ed esotica sconosciuta sollecitando scuse. Ma l’immediato rapido, vivace e successivo scambio verbale, si chiuderà con il passaggio di un sacchetto di velluto, da parte della bellezza alla sbalordito giovanotto, unito alla preghiera di consegnarlo prima possibile alla signora Ginevra, padrona della locanda Alle due spade. La curiosità, par logico, che spingerà il giovanotto ad aprirlo gli consentirà di scoprire che contiene uno splendido smeraldo di straordinarie dimensioni. L’ora tarda tuttavia gli suggerirà di rimandare all’indomani la consegna richiesta. Però, ripresa la sua strada, passati pochi minuti dopo aver imboccato il Ponte di Rialto, verrà raggiunto da un vociare e affacciandosi alla balustra, vedrà in acqua una gondola dalla quale un robusto barcaiolo stava tirando su il corpo di una donna annegata, riconoscerà dagli abiti indossati dalla ragazza che gli ha appena consegnato lo smeraldo e riuscirà a sentire il gondoliere gridare sconvolto: «Maria Vergine, le hanno tagliato la gola». Ma la storia veneziana di Vanzina non si limiterà a far da teatro a un unico delitto. Dopo una lunga notte insonne o quasi, passata rigirandosi tra le coltri del suo letto, Jean de Briac si recherà alla locanda Alle due spade. Là incontrerà e conoscerà, anche carnalmente, Ginevra Trevisan, la fascinosa, sensuale femme fatale e, cavallerescamente finirà da lei compromesso in un diabolico e misterioso intrigo, destinato a coinvolgere sbirri, signori e non, alti prelati, e persino artisti come Tiepolo, addirittura alcuni tra i potenti d’ Europa e con loro l’intrigante e famosissimo, forse il più celebre veneziano tra tutti: il cavalier Giacomo Casanova. A ben vedere tutta la trama gravita intorno al misterioso smeraldo del sacchetto, e non spoileremo certo dicendovi cosa sarà della misteriosa e fulgente pietra dal valore incalcolabile . Ciò nondimeno il fulcro portante della storia è lei e resterà solo lei, la seducente locandiera Ginevra Trevisan. Lei che, avvalendosi del suo irresistibile fascino saprà condurre doppi, triplici e quadruplici giochi, manovrando abilmente con il sesso e confrontandosi senza scrupoli con uomini influenti, unanimemente riveriti ma sempre da lei ridotti a succubi delle sue grazie. Con il sesso, usato come utile strumento per raggiungere il potere, e quel sesso a cui nessuno dimostra di saper resistere. Succede anche al giorno d’oggi? Che dire? Certo è che niente cambia su questa terra e certamente non certe fragilità della natura umana. Con per scenario la Venezia di Carlo Goldoni, quella per intendersi con le sue magiche calli, con le acque torbide dei canali solcate dalle nere gondole, con la folla chiassosa che popola le sue giornate e con le brutte soprese di certi movimentati scorci notturni. Un’irrinunciabile Venezia che anche stavolta riesce a ritagliarsi un ruolo da protagonista. Una città da sempre senza tempo e fuori dal tempo, a fare da cornice a una storia ambientata nel secondo Settecento. Una storia che si dilata e scivola via lontano, veloce come cavalli e carrozze che percorrono avanti e indietro la campagna veneta (portandosi a Mestre e poi nel vicentino fino a raggiungere il trevigiano per un funambolico succedersi di avventurosi colpi di scena). Un libro che ancora una volta ci dimostra le capacità e l’eclettico e straordinario talento del narrare di Enrico Vanzina.
Enrico Vanzina è figlio del grande regista Steno, uno dei fondatori della commedia italiana. Nel 1976 ha iniziato a scrivere sceneggiature e da allora ha collaborato con i maggiori esponenti del nostro cinema. Nel corso degli ultimi quarant’anni ha firmato, insieme al fratello Carlo, alcuni dei più grandi successi al botteghino italiano. Ha realizzato anche moltissime fiction televisive. Ma il cinema e la tv non sono la sua unica occupazione. Ha collaborato con il Corriere della Sera e scrive come editorialista su Il Messaggero. Ha pubblicato diversi libri, tra cui i recenti La sera a Roma (Mondadori, 2018) e, con HarperCollins, Mio fratello Carlo (2019), Una giornata di nebbia a Milano (2021), Diario diurno (2022). Ha vinto, in tutti questi ambiti, numerosi premi tra cui il Nastro d’argento, la Grolla d’oro, il Premio De Sica, il Premio Biagio Agnes, il Premio Flaiano e il Premio Casinò di Sanremo – Antonio Semeria.
L’hitlerismo si nutre di disperazione, sembra questo l’humus in cui è sorto, in cui hanno germogliato i suoi gangli mefitici. A questa conclusione è giunto, come premessa, Robert D’Harcourt, intellettuale cattolico e germanista, autore di un libro profetico uscito nel 1936 in Francia dal titolo Il vangelo della forza (L’Evangile de la force, 1936) ora ripubblicato da San Paolo edizioni con la prefazione di Valerio De Cesaris e tradotto da Luigi Albani.
Disperazione in cui sono da ricercare le origini di questa psicosi sorta nel primo dopo guerra, sulle ceneri appunto della Prima Guerra Mondiale. Se gli adulti hanno aderito al nazismo per opportunismo, i giovani, catturati nella gioventù hitleriana, hanno aderito per fede. Una fede distorta, manipolata, ben lontana dalla fede autentica, una fede che ha sostuito con la svastica la croce di Cristo. Tuttavia hanno aderito con entusiasmo e purezza di intenti. E in questa generosità di animo sta il dramma che ha amplificato l’orrore.
Quando un regime indottrina i suoi giovani nel culto della terra e del sangue, per farne dei soldati perfetti che combattano per la rigenerazione del paese non si può che assistere a questa disgregazione etica e morale conseguenza diretta di questo dramma.
Facile arrivare di conseguenza alla soppressione degli improduttivi che ostacolano la crescita economica di un paese votato al progresso e all’autoaffermazione. E così si può capire l’eugenetica così lontana da ogni riflessione umana, quello che ci è di intralcio lo si elimina, i vecchi, i malati, gli ebrei, gli stranieri tutti coloro che non incarnano lo spirito della razza. In questo caso la ariana, la pura razza tedesca .
O la violenza contro gli oppositori come evidenzia il capitolo ottavo intitolato La guerra di logoramento contro la gioventù cattolica. Ma chiunque si opponeva diventava automaticamente un nemico da abbattere e distruggere.
Robert D’Harcourt, come sentinella avvisò del pericolo, e della gravità delle conseguenze ideologiche di quel regime che si stava consolidando ai confini del suo paese. Pagò a caro prezzo la sua se vogliamo definirla preveggenza, due dei suoi figli furono deportati a Buchenwald e la sua opera fu censurata costringendolo a continuare ad operare nella clandestinità.
Due sono le rilfessioni profonde a cui l’autore arriva: una nel non identificare la Germania, ovvero il popolo tedesco, con il nazismo, l’altra nel non demonizzare i giovani che vi hanno aderito, ma i loro maestri che li hanno indottrinati sfruttando il loro entusiasmo e la loro ricerca di un leader che gli prospettasse un futuro luminoso ben lontano dall’oscuro presente in cui vivevano.
ROBERT D’HARCOURT (1881-1965) gravemente ferito durante la Prima guerra mondiale, dove perse l’uso del braccio destro, iniziò a insegnare lingua e letteratura tedesca nel 1920 presso l’Istituto Cattolico di Parigi. Nel 1936, a seguito di più di una visita nella Germania di Hitler, lanciò l’allarme a proposito della vera natura di quel regime nel libro Il vangelo della forza. Il 28 settembre 1940 l’opera fu censurata dall’occupante, come altri due suoi libri. Si unì alla Resistenza attraverso numerosi articoli clandestini, dando l’esempio ai suoi figli: due di loro furono deportati a Buchenwald. Al loro rilascio, presentò la sua candidatura all’Accademia di Francia, dove fu eletto nel febbraio 1946. Fino alla sua morte si adoperò per ricostruire i legami tra la sua patria e la Germania, Paese tanto caro al suo cuore, che non aveva mai confuso con il nazismo.
VALERIO DE CESARIS è Rettore dell’Università per Stranieri di Perugia, dove insegna Storia contemporanea nel Dipartimento di Scienze umane e sociali. Si occupa prevalentemente di storia politica e religiosa, con particolare attenzione alla storia d’Italia, i rapporti tra cattolici ed ebrei, l’antisemitismo e il razzismo, i fenomeni migratori, la storia della Chiesa cattolica. Per Edizioni San Paolo ha pubblicato Seduzione fascista (2020) e La battaglia per le coscienze (2022), due libri dedicati alla ricostruzione del rapporto tra la Chiesa cattolica italiana e il regime fascista.
Source: libro inviato dall’editore. Ringraziamo Gabriele Ufficio stampa San Paolo edizioni.
L’isolamento insulare e la detenzione sono un binomio che fin dall’antichità, pensiamo all’Antica Grecia, ha trovato stretti legami e ripercussioni sul vivere civile e sociale. Allontanare dal consorzio umano determinati soggetti rei di gravi crimini, o perlomeno, anche se innocenti, accusati di averli commessi, è diventata un’aggravante dell’eventuale punizione, un inacidirsi coercitivo di una pena non volta al recupero del condannato, ma al suo allontanamento, anche dalla vista, dal contesto civile, quando non si vuole giungere a una vera e propria condanna a morte. Una crudeltà in più, insomma, che rende più difficile la fuga certo, ma anche solo, tramite l’isolamento più assoluto, rende più doloroso e crudele il castigo a volte inferto a oppositori politici, persone sgradite, o semplicemente scomode. Nel saggio Isole carcere. Geografia e storia Valerio Calzolaio analizza, con un approccio multidisciplinare, questa materia di per sé complessa e sottostimata. Forse non tutti sanno che esistono isole carcere ancora attive anche attualmente, insomma non è una vestigia delle barbarie del passato, anche in Italia. Le riflessioni sulle ripercussioni psicologiche e sociali dell’isolamento detentivo diventano occasione di riflessioni sul sistema detentivo stesso, e sulla sua utilità, oltre alla scarsa volontà politica di trovare pene sostitutive più costruttive per la società e l’individuo. Il saggio si compone di tre parti: la prima dal titolo Un doppio isolamento con riflessioni sugli aspetti storici, biologici e socioculturali del fenomeno. La seconda parte è composta da una serie di schede che descrivono alcune isole carcere, forse le più famose, da Alcatraz, all’Asinara, dall’Isola d’If, all’Isola del Diavolo, a Lampedusa. Infine nella terza parte c’è un tentativo, per quanto sperimentale, di classificazione globale di tutte le isole carcere esistenti nel mondo. Tra l’altro il lavoro non è solo il frutto di consultazioni di dati, tabelle, archivi, saggi scientifici, ma anche analizza le ripercussioni sull’immaginario: quanti libri, film, poesie hanno per tema la detenzione su un’isola, pensiamo al film Papillon, o al romanzo Il Conte di Montecristo, in cui il personaggio letterario di Edmond Dantes, dopo una prigionia di 15 anni, fu l’unico a poter scappare dall’Isola d’If, grazie alla fantasia di Dumas. Ricco l’apparato bibliografico e di approfondimento che rende il lavoro utile anche a coloro che vogliono intraprendere uno studio serio e articolato sulla materia.
Valerio Calzolaio, giornalista e saggista, è stato deputato dal 1992 al 2006 e sottosegretario al Ministero dell’ambiente tra il 1996 e il 2001. Tra le varie pubblicazioni è autore di Ecoprofughi (Nda 2010), Da Moro a Berlinguer (con Carlo Latini, Ediesse, 2016), La specie meticcia (People, 2019), Libertà di migrare (con Telmo Pievani, Einaudi, 2016).
Source: libro inviato dall’editore. Ringraziamo Christian Ufficio Stampa Edizioni Gruppo Abele.
“Ottocento” è il romanzo di Cristiano Caracci, edito da Gaspari Editore. Il titolo fa da subito capire al lettore l’epoca di ambientazione e non a caso la narrazione si sviluppa nel XIX secolo, tra la caduta di Napoleone, il Congresso di Vienna, la fine della Repubblica di Venezia e il successivo riequilibrarsi del mondo europeo. In realtà, nel romanzo, accanto alle vicende che si svolgono nelle grandi città europee è presente anche un’altra località, un microcosmo sito lì nel nord est dell’Italia, Ajello del Friuli, nella bassa pianura friulana, dove si trovano alcuni dei protagonisti. Qui vive Lorenzo Natali che sperimenterà da vicino la trasformazione dell’epoca nella quale si trova. Natali non è un personaggio reale, è una creatura letteraria nata dalla penna di Caracci, e lui vive a Ragusa di Dalmazia (Dubrovnik per intenderci), la conosce in ogni suo aspetto e se il tempo passa per lui, il protagonista vedrà trasformarsi un po’ alla volta la località dove abita. Natali noterà anche cambiare le persone che vivono in quel posto, perché ci sono coloro che arrivano, ma anche tanti che si imbarcano sulle navi e vanno verso un mondo nuovo e sconosciuto, lontano lontano, nella speranza del cambiamento: l’America. Accanto a questo protagonista nato dalla fantasia, l’autore mette anche altri personaggi che si alternano nello sviluppo dell’intreccio narrativo. Ci si imbatte, per esempio, nel mestri di contà che tiene aggiornato chi legge sulle caratteristiche, eventi e accadimenti che succedono e si susseguono a Ajello e nelle zone limitrofe. Poi ci sono gli esponenti della famiglia ragusea dei de Bona che narrano le loro vicissitudini di vita sempre più di frequente intrecciati ai grandi fatti che hanno cambiato la Storia. Non a caso, la famiglia dei de Bona è realmente esistita, ed è stata presente la Congresso di Vienna, al lavoro per la ricostituzione della Repubblica di Ragusa abolita da Napoleone nel 1808. Non solo, perché ad un certo punto ci si imbatte anche in Andrea (Francesco) Altesti, pure lui è un personaggio realmente esistito (Caracci gli ha dedicato un romanzo nel 2020 dal titolo “Altesti il raguseo”) nato a Ragusa di Dalmazia. In “Ottocento” riecheggiano un po’ le sue avventure e impegni lavorativi in Russia (a San Pietroburgo), dove prestava servizio all’intendenza della zarina Caterina e che, una volta tornato in Italia, si rimboccò le maniche per fondarela Compagnia assicurativa delle Generali. Questi accostamenti tra verità e fantasia, creano una perfetta amalgama tra elementi della realtà e della finzione, sentimenti, azioni diplomatiche, amicizie e contrasti, i quali convivono in perfetto equilibrio in “Ottocento”, un libro nel quale il tempo narrativo trasporta il lettore a stretto contatto con la Storia, usi e costumi di un passato lontano, ma non troppo. “Ottocento” di Cristiano Caracci, è quindi un grande affresco storico di una parte d’Italia (Friuli e circostante territorio), composto da eventi e personaggi che, a modo loro, con le loro storie quotidiane hanno contribuito al farsi e trasformarsi della Storia.
Cristiano Caracci, (1948) è avvocato in Udine. Ha pubblicato diverse opere storiche e storico-narrative riguardanti la Repubblica marinara di Ragusa, l’Adriatico e il Mediterraneo orientale, tra cui “La luce di Ragusa”, “Il tramonto di Ragusa”, “L’Adriatico insanguinato” e “Il capitano della torre di Galata”. Per la Gaspari ha pubblicato “Altesti il raguseo” (2020).
Source: richiesto dal recensore. Grazie all’ufficio stampa 1A.