
Dopo la recensione di Kallocaina di Karin Boye (Iperborea 2023), facciamo un ulteriore passo nella letteratura distopica scandinava. L’occasione ci viene offerta dall’uscita de L’uomo che voleva essere colpevole (Manden der ville være skyldig, 1973) di Henrik Stangerup per i tipi di Iperborea, ritornato in libreria dal 19 aprile 2023. Il romanzo era stato precedentemente pubblicato nel 1990 da Iperborea e nel 2001 da Guanda, con traduzione dal danese di Anna Cambieri e una postfazione di Anthony Burgess, in cui l’autore di Arancia meccanica lo definisce «un romanzo che merita l’attenzione di tutti» (p. 167). Da questo romanzo è stato tratto anche un film del 1990, The Man Who Wanted to Be Guilty del regista danese Ole Roos.
Protagonista indiscusso del romanzo è Torben, scrittore ex sessantottino che vive in uno dei tanti supercondimini di una futuribile Copenaghen assieme alla moglie Edith e al figlio Jesper. Lavora all’INRL (Istituto Nazionale per la Razionalizzazione della Lingua), un ente statale che si occupa di impoverire la lingua danese all’insegna dell’eufemismo trasformando parole con «connotazioni negative» in parole con «connotazioni positive». Si noti, per inciso, come l’impoverimento della lingua si rifletta sempre nell’inaridimento culturale, nella perdita di identità, nello straniamento del singolo: il riferimento al Newspeak orwelliano sorge spontaneo, ma come nota Anthony Burgess nella sua Prefazione, «mentre lo scopo della Nuovalingua di Orwell è l’eliminazione di taluni elementi altamente sovversivi, quello perseguito un questa Danimarca è di togliere dalla lingue tutte le sue componenti negative ovvero, in altre parole, di promuovere una generalizzazione dell’eufemismo» (p. 170).
Una sera, in preda all’alcol e in un accesso d’ira, Torben uccide la moglie. Ma non è solo l’alcolismo a giustificare un atto così violento, perché a esasperare Torben è anche l’apatia della moglie – un tratto, questo, riscontrabile anche nell’atteggiamento di Mildred, moglie del pompiere Montag, protagonista di Fahrenheit 451, capolavoro distopico di Ray Bradbury. Ma lo stato danese qui immaginato – un’evoluzione delle socialdemocrazie scandinave – anziché riconoscerlo colpevole lo manda in un ospedale psichiatrico dove gli viene fatto credere che si è trattato di un incidente e che non è assolutamente responsabile dell’omicidio. Torben può così tornare alla normalità, ma in una società in cui il concetto di colpa è stato abolito l’unico desiderio del protagonista è quello di essere riconosciuto colpevole dell’uccisione di sua moglie e di espiare la propria colpa. Vedendo il suo desiderio negato, non gli resta altra via che sprofondare nella follia.
«Lui era colpevole. Non erano state le circostanze a spingerlo a uccidere Edith. Ma non desiderava essere punito, desiderava solo questo: che si riconoscesse che quella sera era perfettamente consapevole di ciò che faceva, anche se era pieno di whisky. Se invece insistevano che era stato spinto dalle circostanze, allora cos’altro erano quelle circostanze se non il prodotto di una società che non permetteva di parlare d’altro che di circostanze, e che negava all’individuo il diritto a una vita propria, ai propri sogni e alla propria inviolabile identità?» (p. 136)
Il romanzo proietta in un futuro non troppo remoto problemi come nevrosi, paranoie, depressione e crisi di coscienza, tutti profondamente indagati sotto il profilo psicologico dall’autore danese, che racconta il senso di noia e impotenza di fronte al crescente conformismo di un welfare state che dice di prendersi cura dei suoi cittadini «dalla culla alla tomba». In questo «processo kafkiano alla rovescia», come lo ha definito l’editore, seguiamo le vicende di Torben, l’uomo che voleva essere colpevole: lo stato in cui vive non punisce gli assassini, ma li sottopone a trattamenti psichiatrici per poi reinserirli nella società. Si tratta, come si è detto, di un futuro distopico in cui le ideologie sono ormai un ricordo del passato, in cui il denaro contante non esiste più, l’inquinamento è imperante, il governo incoraggia le case editrici a pubblicare esclusivamente “romanzi sociali”, e in cui l’autore si spinge persino a immaginare test obbligatori per gli aspiranti genitori… Nelle prime pagine si assiste inoltre a un dibattito sulla revisione delle fiabe di Hans Christian Andersen – ebbene sì, proprio lui, «l’intoccabile, il sacro gioiello della nazione» (p. 16). Lette oggi, queste pagine risuonano familiari e non possono che far pensare alla recentissima polemica sorta intorno alla proposta di revisionismo linguistico ai danni di autori come Roald Dahl o Agatha Christie.
Molti sono infine gli elementi tipici della distopia: si è già notata la manipolazione della lingua, ma si possono riscontrare anche la somministrazione di pillole tranquillanti ai soggetti considerati “squilibrati” – similmente al soma, la droga funzionale al controllo della popolazione ne Il mondo nuovo di Aldous Huxley – o la sterilizzazione dell’aggressività attraverso le cosiddette attività AA (Anti-Aggressività) – che presenta punti di contatto con Ritorno dall’universo di Stanisław Lem. Questi esercizi AA, che vedono impegnati gli inquilini dei supercondomini, consistono nel picchiare con violenza manichini di pezza e insultare figure mostrate in diapositive, incitati da funzionari che svolgono appositamente questa mansione, detti Assistenti: «“A morte! A morte! Spara! Uccidi!” All’inizio magari qualcuno esitava, ma a poco a poco si lasciava travolgere da quell’onda di odio collettivo» (p. 111). Questo rituale collettivo sembra echeggiare i quotidiani due minuti d’odio presenti in 1984 di George Orwell, in cui il nemico dello Stato, Emmanuel Goldstein, appare sugli schermi causando la reazione incontrollata del pubblico.
«Torben […] non riuscì a liberarsi dall’idea che era stato predestinato a fare del male e che vi era un legame preciso tra il giorno in cui aveva colpito il figlio del calzolaio e la sera in cui aveva sbattuto la testa di Edith contro il muro e il pavimento. Esistevano dunque uomini che nascevano cattivi? E lui era di quelli?» (p. 151)
Tutto il romanzo è incentrato attorno al concetto di colpa ed espiazione: Anthony Burgess parla di «pelagianesimo scandinavo» (p. 167), rifacendosi al movimento ereticale del V secolo che negava il peccato originale, in contrapposizione all’agostinismo: «Sant’Agostino sosteneva che l’uomo è peccatore e succhia il peccato insieme al latte materno. Al contrario, Pelagio, originario delle isole britanniche, afferma che l’uomo viene al mondo in una condizione, per così dire, neutra, ovvero che non ha bisogno della grazia divina e che è in grado di accedere al regno dei cieli grazie ai suoi soli sforzi e senza l’aiuto di nessuno» (p. 168). Nel romanzo il «pelagianesimo» di cui parla Burgess viene definito da Stangerup «mediocre pietismo nordico» (p. 29). Per concludere, particolarmente efficace è il giudizio di Anthony Burgess su questo romanzo che merita davvero di essere letto: «[a]l contrario di quelle visioni di orrori futuri, che amo leggere nei libri perché so che è impossibile che il futuro le realizzi, l’invenzione di Stangerup riesce a raggelare come da anni nessun altro libro, proprio perché è già quasi una realtà» (p. 172).
L’autore, Henrik Stangerup, nato a Copenaghen nel 1937 e morto a Langebæk nel 1998, di professione giornalista, si afferma in campo letterario con una trilogia ispirata a Søren Kierkegaard (non è un caso se L’uomo che voleva essere colpevole si apre con una citazione del filosofo danese): Lagoa Santa, definito alla sua uscita dal Chicago Tribune «il miglior libro straniero dell’anno»; Il seduttore (Iperborea 1989); e Fratello Jacob (Iperborea 1993). È stato inoltre autore di una vasta produzione saggistica e regista di cinque film.
Source: inviato dall’editore. Si ringrazia l’Ufficio Stampa Iperborea per aver gentilmente inviato una copia del libro al recensore.