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:: La sinagoga degli zingari di Ben Pastor (Sellerio 2021) a cura di Giulietta Iannone

10 gennaio 2022

La sinagoga degli zingari, (The Gipsy Synagogue 2021), edito in Italia da Sellerio e tradotto dall’inglese da Luigi Sanvito, è il tredicesimo libro di Ben Pastor che ha per protagonista l’affascinante e tormentato Martin Bora, aristocratico ufficiale dell’esercito tedesco, in forze ai servizi di controspionaggio, durante la Seconda Guerra Mondiale.

Agosto 1942-marzo 1943. Due sono i misteri al centro di questo romanzo, complesso e difficile forse ancora più dei romanzi precedenti dell’autrice: scoprire chi ha ucciso due famosi scienziati romeni, e scoprire il significato di un sogno ricorrente in cui appare la Sinagoga degli zingari, sempre sfuggente, che oltre a dare il titolo al romanzo è anche il titolo di un’opera musicale scritta dal padre di Bora.

Un doppio mistero: un’indagine poliziesca, con le sue ripercussioni politiche, economiche, morali, e un’indagine nell’animo e nel subconscio di Bora, mai come in questo libro nudo difronte al lettore.

Sullo sfondo l’assedio di Stalingrado, una delle pagine più dolorose e terribili della Seconda Guerra Mondiale, descritta da Pastor con una tale dovizia di particolari e una tale sensibilità da apparirci in tutto il suo agghiacciante orrore, tanto che Bora pure sopravvivendo ne uscirà sdoppiato, una frattura insanabile infatti avverrà nella sua anima, una frattura che gli farà prendere coscienza di essere morto anche lui con i suoi uomini in quell’inferno, e che il Bora che uscirà da Stalingrado non potrà che essere l’ombra di sé stesso, un golem, un feticcio proiettato verso l’insensatezza delle fasi finali di una guerra ormai perduta. Di un mondo ormai perso per sempre, la cui condanna è il vuoto e l’annientamento.

La sinagoga degli zingari è senz’altro il più drammatico e oscuro romanzo della serie, non solo per le pagine di guerra, ma per quello scavo nella mente devastata del protagonista, andato ben oltre ai limiti umani, tra malattia, freddo, ben oltre i trenta gradi sotto zero, la paura, la disperazione.

Tra la narrazione in terza persona e le parti in prima persona tratte dai diari e dalle lettere si compone un puzzle di straordinario nitore, un affresco che ho veduto scorrere sotto i miei occhi e mi ha ricordato l’impressione che ho avuto sfogliando Unternehmen Barbarossa im Bild: Der Russlandkrieg fotografiert von Soldaten di Paul Carell, che vi consiglio anche se è in tedesco, è una collezione di fotografie di cui ne ricordo soprattutto una in cui un soldato con la testa fasciata in una benda macchiata di sangue si accende una sigaretta. Lo regalò mio zio a mio nonno, generale in pensione, che trascorse la Seconda Guerra Mondiale prigioniero in India degli inglesi e ricordava che di tutti i suoi colleghi quelli che furono mandati sul fronte russo non fecero più ritorno.

Una pagina di storia, un ritratto psicologico e morale di indubbia intensità, che portano un nuovo tassello nella saga di Bora, e confermano Ben Pastor come uno dei più significativi e profondi scrittori di romanzi storici ambientati durante la Seconda Guerra Mondiale.

Ben Pastor, nata a Roma, docente di scienze sociali nelle università americane, ha scritto narrativa di generi diversi con particolare impegno nel poliziesco storico. Della serie di Martin Bora Sellerio ha già pubblicato Il Signore delle cento ossa (2011), Lumen (2012), Il cielo di stagno (2013), Luna bugiarda (2013), La strada per Itaca (2014), Kaputt Mundi (2015), I piccoli fuochi (2016), Il morto in piazza (2017), La notte delle stelle cadenti (2018) e La sinagoga degli zingari (2021).

Source: libro inviato dall’editore. Ringraziamo l’ufficio stampa Sellerio.

:: Ben Pastor torna in libreria

5 febbraio 2020

Ben PastorUn aggiornamento per i molti amici di Ben Pastor che mi chiedono notizie delle sue prossime pubblicazioni in Italia.

Allora causa emergenza Covid 19 l’uscita prevista per metà marzo per Mondadori della prossima avventura di Elio Sparziano, dal titolo “La grande caccia“, è stata posticipata al 12 maggio.

Trama e cover blindatissime, ma appena so qualcosa vi aggiorno.

Poi l’autrice sta scrivendo proprio in questi giorni il nuovo libro della serie dedicata a Martin Bora. Come ci aveva precedentemente anticipato avrà al centro il dramma militare e umano che ha coinvolto centinaia di migliaia di soldati subito prima, durante e immediatamente dopo l’epocale battaglia di Stalingrado. Tedeschi, italiani, russi, romeni, ungheresi versarono il loro sangue in Russia tra il Don e il Volga nei sei mesi dall’agosto 1942 al gennaio 1943.

Dunque sarà La sinagoga degli zingari (sempre che confermino questo titolo), il prossimo libro della serie Bora in ordine di pubblicazione. Per la trama e i tempi naturalmente è ancora prematuro. Una volta terminato sarà necessario farlo tradurre in italiano, (ricordiamo l’autrice scrive in inglese) quindi così a grandi linee se ne parlerà verso l’autunno.

Per ora è tutto, ci sentiamo presto.

:: Ben Pastor – La canzone del cavaliere (Sellerio 2019) a cura di Giulietta Iannone

5 settembre 2019

10611-3Esce oggi, 5 settembre, la nuova edizione Sellerio de “La canzone del cavaliere”, che ho avuto modo di leggere nell’edizione precedente, in cui troviamo un giovane, e ancora inesperto, Martin Bora sullo sfondo della sanguinosa guerra civile spagnola,  una sorta di battesimo del fuoco per il giovane tenente ancora idealista e non temprato dalle asperità della vita militare.
Ma già alle prese con un delitto eccellente: quello di Federico Garcìa Lorca.
Siamo nel 1937, Bora viene mandato in Spagna tra le file di Francisco Franco, ed è qui che si trova a indagare sulla morte del celebre poeta. Una morte scomoda, per molti versi, sia per i fascisti che per i repubblicani. Ma a Bora non interessa strumentalizzare l’omicidio come arma politica, lui molto più filosoficamente vuole scoprire la verità, e per quanto possibile consegnare il colpevole alla giustizia.
E in questa lotta contro il tempo si troverà un insolito alleato in Philip «Felipe» Walton, americano, maggiore delle Brigate Internazionali, anche lui impegnato, per la parte avversa, a cercare di capire cosa sia successo.
Sotto il sole rovente della Spagna, Bora farà anche un altro incontro inaspettato che influenzerà la sua vita futura, quello con Remedios, donna enigmatica e misteriosa, che almeno nei ricordi resterà sempre legata a Bora.
Come il paesaggio è una storia aspra e ruvida, che rappresenta bene la giovane età del protagonista, in cui vediamo già presente però la tenacia e l’impulsività che caratterizzeranno poi la sua età adulta. Se amate la serie di Martin Bora da non perdere. Traduzione dall’inglese di Paola Bonini. Titolo originale: The Horseman’s Song.

Ben Pastor, nata a Roma, docente di scienze sociali nelle università americane, ha scritto narrativa di generi diversi con particolare impegno nel poliziesco storico. Della serie di Martin Bora Sellerio ha già pubblicato Il Signore delle cento ossa (2011), Lumen (2012), Il cielo di stagno (2013), Luna bugiarda (2013), La strada per Itaca (2014), Kaputt Mundi (2015), I piccoli fuochi (2016), Il morto in piazza (2017) e La notte delle stelle cadenti (2018). Premio Flaiano 2018.

:: Un’intervista con Martin Bora, grazie alla gentile collaborazione di Ben Pastor a cura di Giulietta Iannone

1 gennaio 2019

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Se Martin Bora fosse esistito veramente…

Martin Bora benvenuto su Liberi di scrivere. È un vero piacere poterla incontrare dopo aver letto tanto di Lei nei libri di Ben Pastor. Ci parli di Lei, della sua infanzia, dei suoi studi, ci racconti qualche suo pregio e qualche suo difetto.

Grazie a Lei per l’invito a raccontarle qualcosa di me. Come sa, la mia famiglia è sassone, anche se da parte materna conto antenati scozzesi. Sono nato l’11 novembre 1913, e avendo perso mio padre Friedrich a sei mesi di età, sono stato cresciuto dal generale Sickingen, secondo marito di mia madre Nina. Avevo un fratello minore (poco più di quattro anni di differenza), Peter, poi caduto nei cieli di Russia durante il 1943. Da bambino ho frequentato con profitto dapprima le scuole cattoliche e poi il liceo classico. Dopo la maturità (Abitur), sono entrato ancora diciassettenne alla facoltà di filosofia dell’Università di Lipsia, insieme ad Heidelberg il più antico ateneo tedesco. Mi sono laureato con lode sostenendo una tesi sull’Averroismo Latino e l’Inquisizione, per poi entrare nella Scuola di Guerra di Dresda. Ho quindi frequentato la Scuola di Cavalleria ad Hannover e la Scuola di Fanteria a Dresda. Questo mi ha permesso di accedere alla prestigiosa Accademia di Guerra nella capitale, da cui, dopo un permesso ottenuto per combattere come volontario in Spagna, mi sono diplomato con onore nel 1939. Era l’educazione tipica di un ufficiale destinato allo Stato Maggiore, ma il mio interesse è sempre rimasto quello del servizio di prima linea. L’addestramento nel controspionaggio militare (Abwehr) mi ha portato poi sia all’impiego di ambasciata (Mosca) che al lavoro di ricognizione e intelligence. Parte dell’educazione in famiglia (anche per controllare gli impulsi sessuali di noi ragazzi) era lo sport. Prima fra tutti l’equitazione: con Nina e il generale a volte cavalcavamo per giorni dalla tenuta di Trakehnen a quelle dei vicini e più in là, fin oltre il confine con la Lituania. E poi nuoto, canottaggio, tennis, scalata libera e corsa di montagna (fell running), senza contare le scazzottate infantili e le lunghe gite in bicicletta. Quanto a pregi e difetti, mi risulta difficile (e Nina disapproverebbe) parlare dei miei pregi. Prima bisognerebbe identificarli, mentre i miei demeriti saltano subito agli occhi. Cominciando dai difetti, dunque, posso dire di avere un carattere rigido, spesso perentorio, a volte scostante, e di aspettarmi che gli altri si adeguino. Essendone cosciente, cerco di mitigare queste tendenze. Non accordo facilmente fiducia, e so che posso apparire introverso fino alla chiusura. Si tratta (anche) di timidezza, ma questo non mi giustifica. Severità e ambizione professionale sono qualcosa che ho dovuto imparare a posporre a principi più elevati. Sul versante dei pregi, direi che ho un forte senso della pietas (termine che non si traduce esattamente come pietà o indulgenza; è piuttosto amore per la giustizia nei confronti dei vivi, come pure dei morti). Sono – credo – coraggioso e determinato; mi definirei leale e di parola. La pazienza che mi accompagna da tempo è – per come sono andate le cose – da ascrivere sia tra i pregi che tra i difetti, dal punto di vista politico come da quello personale.

Parliamo di musica, Lei è anche un valente musicista, quali sono i suoi compositori preferiti, le musiche che ama di più ascoltare?

È vero, ho sempre amato la musica. Avendo cominciato a studiare piano a cinque anni, mi sono presentato con successo come esterno agli esami di conservatorio a Lipsia, e ho continuato a suonare fino all’incidente di guerra che nell’autunno del 1943 mi ha privato della mano destra. Pur apprezzandoli, non ho mai desiderato cimentarmi con altri strumenti. Il mio padre biologico era un famoso direttore d’orchestra e compositore. La famiglia ha mantenuto per anni un palco al Festival wagneriano di Bayreuth. Da tredicenne, grazie alla grande tradizione musicale di Lipsia, ebbi modo di ascoltare dal vivo Richard Strauss. Quattro anni dopo vennero Igor Stravinsky, il fanciullo prodigio Yehudi Menuhin, e Arturo Toscanini con la Filarmonica di New York. Naturalmente Bach, Händel e Mendelssohn facevano parte del nostro ascolto tutto l’anno.
Amo la musica classica (barocca, romantica, ma anche gli esperimenti di fine Ottocento) e operistica (Lohengrin, il Ciclo dell’Anello, L’Olandese Volante – quest’ultimo un cavallo di battaglia di Friedrich von Bora); fra gli italiani prediligo Puccini (specie il suo ultimo periodo). Non disdegno affatto la musica leggera, i ballabili, Cole Porter e certi chansonniers francesi.

Ne La notte delle stelle cadenti incontra finalmente Claus Philipp Maria Schenk Graf von Stauffenberg, avete molto in comune, ma anche molto vi divide. Che sensazioni ha provato incontrandolo e in realtà non potendo fare niente per aiutarlo?

Il colonnello conte von Stauffenberg ed io ci conoscevamo appena, prima del nostro incontro nell’estate 1944. La nostra comune passione per l’equitazione ci aveva portato ad affrontarci sportivamente nove anni prima, quando lui era già sposato con un figlio e io un ufficialetto fresco di nomina ma già, come lui, esperto cavaliere. Incontrarlo nel luglio ’44 a Berlino ci ha posto dinanzi ai nostri ideali condivisi, come pure alle nostre divergenze su come attuare un piano di resistenza. Stauffenberg era un brillante amministratore militare, in campagna come pure – dopo le gravi menomazioni subite in Nord Africa – in patria, in qualità di capo di stato maggiore dell’Esercito di Riserva. Io avevo combattuto in prima linea e come interrogatore su diversi fronti. Conoscevo fin troppo bene quelle che in inglese si definiscono sportivamente “the odds”, ovvero le possibilità di riuscita di un’impresa. In coscienza, non potevo appoggiare un piano confuso, piuttosto dilettantesco e privo di sponde politiche presso gli Alleati; un progetto che sapevo destinato a un fallimento dalle conseguenze potenzialmente disastrose. Mi sono sentito impotente sia davanti all’inflessibilità di Stauffenberg (che mi considerava già politicamente “bruciato” per i miei trascorsi diverbi con Gestapo e SS), sia davanti al suo oggettivo bisogno di un aiuto che non potevo offrire. La conversazione ha rappresentato un momento particolarmente difficile, per non dire tragico: uno dei peggiori della mia vita.

La sua famiglia è di origini aristocratiche, Lei perché ha scelto la carriera militare e non ha seguito le orme di suo padre dedicandosi a qualche attività artistica?

La duplice tradizione professionale a casa nostra era legata al servizio nei confronti dello Stato (come militari e diplomatici) e alla cultura (l’editoria, il patronato delle arti, la musica). La nonna paterna Louise Dorothea von und zu Langenstein teneva un noto salotto letterario-intellettuale a Lipsia, che includeva fra gli altri il pittore Ernst Ludwig Kirchner della scuola Die Bruecke, lo psicologo Hermann Ebbinghaus, studioso della memoria, il romanziere realista Theodor Fontane, e il linguista Karl Brugmann. Mio padre, Il Maestro, frequentava il fiore della musica a lui contemporanea. Il ramo scozzese conta soldati di grande valore, fra cui George William Robert Ashworth-Douglas, eroe di Khartoum insieme a Gordon, e James Alexander Carrick, comandante durante la Ribellione dei Sepoys e nella Seconda Guerra dell’Oppio, nonché consigliere militare dell’Esercito Confederato durante la Guerra di Secessione americana. Date le frequentazioni culturali dei miei, non ha stupito la mia scelta di studiare filosofia; forse la famiglia si aspettava che avrei rilevato a tempo debito la casa editrice dei Bora (Bora Verlag), specializzata appunto in testi di filosofia e letteratura, o che avrei amministrato le nostre proprietà, specie quelle della Prussia Orientale. In realtà avevo già deciso di abbracciare la carriera militare, per cui provavo interesse e affinità. Le arti, specialmente la musica, sarebbero state una possibile alternativa. Mi sembrava tuttavia che la Patria necessitasse di buoni ufficiali ancor più che di capaci musicisti. Esibirmi in pubblico è, fra l’altro, qualcosa in cui non mi riconosco affatto.

Martin Bora e la cucina. Lei come tedesco ha gusti alimentari piuttosto vari, non beve birra, cosa notevole, ed è un po’ difficile vedere sua madre Nina o Dikta ai fornelli. Quali sono i suoi piatti preferiti?

Non corrispondo proprio a ciò che voi italiani definireste “una buona forchetta”. Ammetto di essere piuttosto indifferente al cibo, per ragioni di professione e perché ho spesso la mente altrove mentre mangio. Ciò non vuol dire che non sappia apprezzare una buona portata. Non amo i dolci. La mia ex moglie Benedikta (Dikta) per sua stessa ammissione non è mai stata un tipo “domestico”, e per di più, da provetta cavallerizza, ha sempre badato alla dieta. A casa sua, le signore servivano solo il tè, e affidavano tutto il resto al personale. Quanto a Nina – e alla nonna materna Ashworth-Douglas –, hanno sempre supervisionato la cucina di casa, e, da buone tradizionaliste, hanno eccelso nella preparazione di conserve e di marmellate. Peter e io siamo cresciuti facendo merenda con confetture rigorosamente fatte in casa. Quanto al bere, ha ragione: la birra non mi ha mai affascinato, e neanche il sidro. Bevo vino (prediligo quelli francesi) e liquori alcolici con moderazione, tranne quando – ed è capitato – sono frustrato o gravemente preoccupato. Il mio sangue scozzese mi permette di tenere bene l’alcol (whisky, gin, cognac) mantenendo una passabile lucidità. Ma sono ben conscio di quanto i superalcolici abbassino il livello di attenzione ai dettagli, un rischio per chiunque, ma particolarmente per un soldato e un operativo del controspionaggio. Ho passato perciò diversi periodi astenendomi dall’alcol e dal fumo – e, fatalmente, anche da altri passatempi. Una lezione in autodisciplina!

Ama il suo paese non c’è dubbio, ma vi visse in un periodo molto difficile dopo l’avvento di Hitler e del nazismo. Il mondo in cui era nato e cresciuto stava cadendo a pezzi. Ha mai pensato di dedicarsi a un’opposizione attiva al regime? Quale è stato il suo rapporto con il potere?

La domanda sulla resistenza al regime hitleriano è più che legittima. Devo ammettere che da ragazzo, cresciuto nell’ambiente nazionalista e conservatore di una famiglia guidata dal mio patrigno prussiano, ho accolto con entusiasmo la rinascita della Germania dalle ceneri della Grande Guerra (avevo cinque anni alla fine di quel conflitto). La partecipazione del Generale ai Corpi Franchi durante i disordini degli Anni Venti ha fatto in modo che vedessi nel patriottismo armato l’unica risposta all’internazionalismo spartachista e di stampo sovietico. Con l’avvento del Nazionalsocialismo, e il quasi immediato potenziamento delle Forze Armate, tutti noi soldati ci siamo sentiti vendicati dopo l’ultra-punitivo Trattato di pace di Versailles, che accollava tutta la responsabilità della Grande Guerra alla Germania, e la trattava di conseguenza. Già dal 1937, tuttavia, come volontario nella legione straniera spagnola (franchista), ho cominciato a capire che sotto il nazionalsocialismo si celavano ben più che eccessi passeggeri giustificati come lotta per ristabilire l’ordine interno. Il mio lavoro nel controspionaggio estero mi ha parzialmente risparmiato ciò cui hanno assistito i colleghi della Sezione Interni. Dalla Campagna di Polonia (1939) in poi, è cominciata la mia resistenza attiva, con la denuncia all’Ufficio Crimini di Guerra dei delitti perpetrati da Gestapo e SS, ma anche dall’esercito tedesco, di cui venivo a conoscenza. Ho anche rifiutato di obbedire ad ordini palesemente contrari all’etica, al buon costume militare e alle leggi internazionali promulgate a Ginevra. Questo non comportava un rischio oggettivo per la mia carriera e anche per la vita? Certo. Sapevo che ne avrei pagato il prezzo, ma lo consideravo poca cosa confronto ai crimini commessi da troppi dei miei connazionali. Ho sempre privilegiato l’opposizione quotidiana e capillare al gesto eclatante, attenendomi al detto latino secondo cui la goccia scava la pietra.

Il 6 agosto del 1945 alle 8:15 l’aeronautica militare statunitense sganciò l’atomica su Hiroshima e tre giorni dopo su Nagasaki, causando un numero di vittime, esclusivamente civili, stimato tra le cento e le duecento mila. Dove era, cosa faceva quando successe? Quali sono stati i suoi primi pensieri quando ne è venuto a conoscenza?

In tutta sincerità, ho avvertito un forte sentimento di orrore e di rabbia. L’idea di sperimentare una nuova arma dagli effetti apocalittici su una popolazione inerme (compresi non pochi prigionieri di guerra americani!), era quanto di più lontano ci fosse dalla mia coscienza morale. E il fatto che a suo tempo i miei connazionali si fossero macchiati non di rado della stessa colpa, non attenua le responsabilità di chi ha fatto decollare l’Enola Gay e il suo gemello.

Martin Bora e le donne. Oltre a Dikta c’è stato spazio per un’altra donna? Come è la sua donna ideale? E quanto Remedios ha significato nella costruzione del suo ideale?

Come lei sa, Dikta non è stata la mia prima donna, né io il suo primo uomo. Eravamo indifferenti a tali pregiudizi borghesi. Ci frequentavamo intimamente nonostante e forse anche a causa della feroce opposizione che il Generale (molto più di Nina) faceva al nostro idillio. All’epoca lei aveva vent’anni, e io quasi ventitré. Siamo rimasti sposati dal 1941 fino all’annullamento (non per mia richiesta) del nostro matrimonio, ai primi del 1944. È un argomento doloroso di cui forse ho già parlato troppo altrove, e su cui mi è ancora difficile soffermarmi. Le mie prime esperienze amorose sono state in Italia, e ne serbo un grato ricordo. All’università ho avuto qualche avventuretta con compagne di studi disinibite o con signore che frequentavano Nina o le mie zie. In Spagna, però, il termine di paragone è stato apposto da Remedios, la giovane strega di Mas del Aire. Prima di lei ero un ragazzino cattolico che, essendo entrato nell’esercito, si considerava se non esperto almeno emancipato. Dopo Remedios, che dire? Mi ha reso l’uomo che sono, e l’amante che sono. Il complimento più alto che posso farle è che penserò a lei nel momento della mia morte. Dopo la fine del rapporto con Dikta, non mi sono mai del tutto ripreso emotivamente. Non ho un carattere facile, e certo ho le mie colpe (fra cui le assenze prolungate da casa, che tradizionalmente i militari di carriera si aspettano di poter infliggere alle mogli). In seguito ho preso comunque delle solenni sbandate, per Nora Murphy, moglie di un diplomatico americano a Roma, come per Anna Maria (Annie) Tedesco sul lago di Garda. Ce ne sono state altre, ma – come insegna Garcia Lorca nel suo poema “La sposa infedele,” – Non dirò, da vero uomo, le cose che mi disse. Posso aggiungere che per me, tranne nel caso di Dikta, le donne in qualche modo inaccessibili hanno rivestito sempre più fascino di quanto esprimesse la loro disponibilità. Solo una volta sono arrivato vicino al rifiuto, da parte di Nora Murphy. Spesso per scelta – e durante il mio matrimonio per fedeltà – ho rinunciato a diverse possibili avventure galanti. La mia donna ideale è proprio ciò che il termine indica. Appartiene al mondo delle idee, e come tale, probabilmente non esiste nella realtà. Forse è un errore da parte mia sperare di incontrarla. Direi che fino ai trent’anni circa ho cercato meramente una compagna di letto e di interessi. La mia definizione di amore? Dedizione, fedeltà. Mi rendo conto che dovrei imparare a mostrare apertamente l’affetto, come faceva mio fratello Peter, ma mi riesce davvero difficile.

Le sarebbe piaciuto avere figli? Lasciare una parte di sé in questo mondo anche quando non ci sarà più?

Quanto ai figli, ho attraversato periodi in cui riprodurmi sembrava l’unico modo di giustificare la precarietà della mia esistenza di soldato in guerra. Probabilmente era il modo sbagliato di desiderare la paternità, e forse anche egoistico. Dopo la scelta ripetuta di abortire da parte di Dikta, ho cominciato a pensare che il mondo in cui mi muovevo non fosse comunque adatto a una nuova vita. Allora ho desiderato di essere completamente privo di legami e di responsabilità che non riguardassero direttamente la Patria e mia madre Nina. Le morti tragiche in famiglia (il bisnonno, il prozio, due zii, il mio unico e amatissimo fratello), come pure il mio grave ferimento, mi hanno riconciliato con l’idea di vivere giorno per giorno. Ho cominciato a dirmi: “Se i figli verranno, bene. Altrimenti, i Bora finiscono qui, e cercherò di farli finire onorevolmente”. Non mi sono mai visto attorniato dai nipoti – ma dopotutto non immaginavo nemmeno di sopravvivere all’inferno di Stalingrado, eppure è successo…

Lei ha avuto un’educazione cattolica, per attitudine e formazione ha vissuto seriamente anche questa sua dimensione religiosa, rispettando riti e credi. Ma ora c’è più amarezza nelle sue riflessioni, come vive il rapporto con Dio?

Sono cresciuto in una famiglia di cattolici osservanti, in una Sassonia dove meno del 20% della popolazione era fedele a Roma. Inoltre, e paradossalmente, i Bora discendono dalla ex suora Katharina von Bora, moglie del grande riformatore Martin Lutero. Hanno attraversato lunghi periodi di persecuzione durante le Guerre di Religione, quando adottarono il motto paolino Fidem Servavi: ho mantenuto la fede. I miei antenati ospitarono segretamente sacerdoti quando a Lipsia non esistevano più chiese cattoliche in cui celebrare la Messa. Sono stato educato nella fedeltà al Papa, e ho avuto fin da bambino maestri spirituali e confessori degli ordini gesuita ed agostiniano. Tutto ciò che si dice riguardo l’educazione cattolica – sensi di colpa, frustrazione sessuale, ansia di redenzione – è tristemente vero e ha fatto parte della mia giovinezza. Non che non abbia tralignato od opposto forti riserve filosofiche nei confronti della Chiesa, ma in fondo sono sempre restato un credente e un cattolico, sia pure “non allineato” e con qualche sfumatura protestante. Quanto alla figura di Dio, quello che noi tedeschi chiamiamo Herr Gott, da laureato in filosofia ho difficoltà a ridurla ad una dimensione contabile e fiscale. Ho sempre sperato e spero ancora che, quali che siano le mie apparenze, Lui mi legga nel cuore.

Rischierebbe la vita per salvare un amico? È già successo che l’abbia fatto?

Quando si combatte in prima linea, o anche in avanscoperta, si è frequentemente sotto il tiro nemico. Capita che un collega, un tuo soldato, o anche un superiore, ti salvi la vita, o che accada il contrario. Nella concitazione del momento non ci si fa praticamente caso. Dopo, si è grati sia quando siamo stati noi a scamparla, sia quando abbiamo aiutato un fratello combattente a evitare la morte. Questa interdipendenza ci lega in modo indissolubile gli uni agli altri; nessuna amicizia, e direi quasi nessun tipo di amore, è come questa cieca fiducia. Nel Vangelo di Giovanni si legge, Maiorem hac dilectionem nemo habet… Non c’è amore più grande di quello che ci fa offrire la nostra vita per la salvezza del prossimo. Nello specifico, mi sento solo di ricordare due episodi di quanto altri hanno fatto per me: in Spagna il sergente Indalecio Fuentes mi ha salvato la pelle quando ero un tenentino irruento e scapestrato, mentre a Roma furono i buoni uffici del controverso Feldmaresciallo Kesselring (già sotto il comando del mio patrigno nel 1914) a evitarmi la fucilazione da parte della Gestapo di Herbert Kappler.

Va mai al cinema, a teatro? C’è un’attrice, una cantante di cabaret di cui è ammiratore?

Da ragazzino frequentavo il cinema ogniqualvolta i miei me lo permettevano (e a volte anche senza il loro permesso). Il mio liberalissimo zio Reinhardt-Thoma mi portò a vedere con mia gioia e terrore Il gabinetto del dottor Caligari nel 1920, e Nosferatu nel 1922. Avevo poco più di dodici anni quando La corazzata Potemkin giunse nei cinema di Lipsia, e da adolescente ho cominciato a frequentare anche il teatro. Durante le vacanze romane, la mia madrina Donna Maria Ascanio chiudeva un occhio sulle mie scappatelle; nonostante fossi bambino, cominciai presto a intrufolarmi nei varietà, anche quando lo spettacolo non era adatto ai minori. Un esempio? Si vede tutto del 1929. Contavo sul fatto di essere straniero, avere qualche soldo per il biglietto, e di essere già alto un metro e settanta a tredici anni. Fra le mie attrici e cantanti preferite in quegli anni spiccavano Marlene Dietrich (ero diciottenne quando me ne innamorai vedendola come la perversa Lola Lola ne L’Angelo Azzurro), e in Italia Anna Fougez e Milly. Negli ultimi tempi ho apprezzato molto certo cinema russo, da Mikhalkov a Konchalovskij, da Sokurov ad Aleksej German junior, autore quest’ultimo di uno dei film più intensi e intelligenti sulla sciagurata operazione Barbarossa – Poslednij Poezd (2003) -, una pellicola purtroppo quasi introvabile.

Martin Bora legge? Quali sono i suoi libri preferiti?

Sono sempre stato un forte lettore. In tutte le case in cui la mia famiglia risiedeva in vari periodi dell’anno (Lipsia, Borna, Trakehnen) c’erano fornitissime biblioteche. Con una tradizione centenaria di editoria in famiglia, leggere per noi era come respirare. Fin da piccolo leggevo in ogni momento libero, e anche di notte. Essendo stato educato in tre lingue, ho avuto fin da subito il privilegio di poter conoscere i grandi autori tedeschi, inglesi, americani e francesi nell’originale. Quando ho aggiunto per ragioni personali e di lavoro l’italiano, lo spagnolo e il russo, ho allargato ulteriormente l’ambito delle mie letture. A Roma da piccolo mi piacevano i romanzi d’avventura di Salgari e di Motta, a cui di volta in volta ho aggiunto i classici, ma anche saggi e romanzi contemporanei. Tra i miei favoriti personali sono Moby Dick di Melville, Cuore di Tenebra di Conrad, e La signora di Wiechert. Ho conosciuto personalmente ed ho letto i lavori di Ernst Jünger e Martin Heidegger, di cui ho seguito alcuni corsi sui presocratici. Per chi ha avuto la bontà di seguire le mie indagini in tempo di guerra, non sarà una novità che nel ’37, in Spagna, ho imparato ad apprezzare la poesia e il teatro di Federico Garcia Lorca. Sul fronte russo ho letto Il placido Don e riletto L’Armata a cavallo, senza però abbandonare la filosofia greca, Goethe e Hölderlin. Perfino durante la difesa di Lipsia contro gli americani nella primavera del ’45, passando di corsa da casa dei miei, ho afferrato un paio di libri, che però non ho avuto tempo di finire.

Infine per concludere, nel ringraziarla della sua disponibilità, mi piacerebbe chiederle un’ultima cosa: può dirci qualcosa della sua prossima indagine, successiva a La notte delle stelle cadenti?

Sono io che ringrazio Lei per le sue domande attente e puntuali. Perdoni se mi sono dilungato nel rispondere, ma sono pur sempre tedesco e un po’ grafomane. Quanto alle mie investigazioni, cronologicamente dopo i fatti di Berlino e del fallito attentato del luglio ’44 (illustrati ne La notte delle stelle cadenti), viene il resoconto della mia permanenza sul Lago di Garda (La Venere di Salò). Credo però che, prima di narrare la fine della mia guerra a Lipsia nella primavera del ’45, sia giunto il momento di dare spazio al dramma militare e umano che ha coinvolto centinaia di migliaia di noi subito prima, durante e immediatamente dopo l’epocale battaglia di Stalingrado. Tedeschi, italiani, russi, romeni, ungheresi versarono il loro sangue tra il Don e il Volga nei sei mesi dall’agosto 1942 al gennaio 1943. Altrove ho già accennato alla mia esperienza a Stalingrado, ma in proposito ho ancora molte cose da dire. Quindi sarà questo, ovvero La sinagoga degli zingari, il prossimo libro in ordine di pubblicazione, quantomeno in Italia.

:: La notte delle stelle cadenti di Ben Pastor (Sellerio 2018) a cura di Giulietta Iannone

21 ottobre 2018

9294-3Berlino, luglio del 1944.
Martin Bora lascia il fronte italiano, e i suoi uomini, per l’ ingrato compito di partecipare al funerale di uno zio, da lui molto amato in gioventù, importante medico contrario alle pratiche naziste di eugenetica e eutanasia, suicidatosi, in modo non troppo volontario, con un’ iniezione letale di morfina. La tristezza del lutto è un po’ stemperata dall’ incontro con sua madre, Nina, anche lei a Berlino per le esequie, ma quello che lo tormenta ancora, e a cui non riesce a rassegnarsi, è l’abbandono dalla moglie Dikta, (l’unica donna che abbia davvero amato) stanca della guerra e di avere un marito sempre lontano e in pericolo di vita. Mentre Bora pensa a come ritornare al fronte succede un fatto imprevisto: il capo della Kripo, la polizia criminale di Berlino, Arthur Nobe, lo manda a chiamare e lo incarica di indagare sulla morte di un presunto veggente, illusionista e ipnotizzatore ammanicato col vertice del Terzo Reich.
Non potendosi certo rifiutare, accetta, e intanto si domanda perché abbiano scelto proprio lui, e perché la vittima è così importante da meritare un’ indagine di un membro addirittura dell’esercito e non della polizia comune. Il capo della Kripo non gli dà spiegazioni e intanto lo affianca con un losco aiutante Florian Grimm, un picchiatore della prima ora, che più che aiutarlo nelle indagini sembra sorvegli ogni sua mossa. La comparsa di una lettera compromettente, e tanti piccoli tasselli che finalmente hanno un senso, portano Bora a capire che c’è ben altro che cova sotto le ceneri di Berlino, martoriata dai bombardamenti. L’incontro con Claus von Stauffenberg, in una afosa stanza di una casa privata, gli confermerà infine che tutte le sue peggiori supposizioni hanno reale fondamento. Uscire vivo da Berlino diventerà per lui una vera e propria scommessa col destino.
La notte delle stelle cadenti, (The Night of the Shooting Stars, 2018), edito da Sellerio e tradotto dall’ inglese da Luigi Sanvito, è il dodicesimo libro di Ben Pastor che ha per protagonista Martin Bora, aristocratico ufficiale dell’esercito tedesco, in forze ai servizi di controspionaggio.
La particolarità dei sui mystery investigativi è il fatto che ci presenta una rivisitazione, storiograficamente ineccepibile, dei fatti salienti che caratterizzarono il Secondo Conflitto Mondiale, per molti versi ancora oscuri o controversi. Si appropria insomma del lavoro dello storico, nel lungo processo di elaborazione del testo, confrontando memorie, lettere, biografie, atlanti, mappe, saggi di diversa provenienza e argomento, a volte contenenti anche tesi o testimonianze contrapposte. E il lavoro dello storico è proprio quella di scegliere la via più probabile, più coerente con tutti i fatti, gli umori e il materiale raccolti (armonizzandola inoltre con il tessuto narrativo senza apparire didattica o peggio forzata). Insomma un passo oltre al semplice mystery storico dove è la fantasia dell’autore a prevalere.
Altra componente rilevante è l’approfondita analisi psicologica e la complessità umana dei personaggi, soprattutto di Bora di cui conosciamo i pensieri, il diario, e i fatti salienti della sua vita narrati in terza persona. E attraverso di lui conosciamo la Germania di allora, la vita comune, i dettagli più minimi, e a volte sordidi, di una quotidianità spesso drammatica e precaria.

Berlin in 1945 1

In La notte delle stelle cadenti è infatti Berlino al centro della scena, con i suoi quartieri bombardati, l’odore dell’aria, il suo sentore di fuliggine e intonaco sbriciolato; gli alberghi, i caffè, i ristoranti, i locali notturni un tempo eleganti, che sopravvivono a fatica, tra mille difficoltà, ormai solo l’ombra dello sfarzo di un tempo. La penuria di generi alimentari, il surrogato a posto del caffè, le ricche signore che rubano una saponetta in un albergo per farsene dare una seconda dal consierge. La mancanza di sicurezza, la paura, la rassegnazione. Le ragazze malvestite in una città dove è già difficile lavarsi, dormire, respirare, accanto alle mantenute, le sole che possono permettersi un paio di calze di seta, un profumo, un cappello di sartoria.
Il non potersi fidare di nessuno, perché spie e delatori possono essere nascosti in ogni angolo, tra informatori della Gestapo, e picchiatori di ogni risma.

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La storia è nota e Claus Philipp Maria Schenk Graf von Stauffenberg, personaggio storico veramente esistito, è forse uno dei congiurati più famosi tra coloro che attentarono alla vita di Hitler, nel luglio del 1944. Ed è anche uno dei personaggi più significativi de “La notte delle stelle cadenti“. Ad un certo punto Martin Bora e Stauffenberg si incontrano, non vi dico cosa succede nel dettaglio, ma insomma si confrontano a tu per tu. Se pensiamo che Ben Pastor si ispirò proprio a Stauffenberg per creare il suo personaggio, è dunque come assistere a uno sdoppiamento, stile cortocircuito temporale: personaggio storico e narrativo nella stessa stanza. Straniante.
La peculiarità dell’autrice è dare luce ai particolari minimi, a un accendino, a un granello di polvere, a un raggio di sole, senza sprecare parole, in un’ economia narrativa affascinante e coinvolgente.
Lo stile è colto, alto, letterario, pieno di riferimenti non solo storici ma filosofici, poetici, morali.
L’attenzione alla spiritualità di Bora, sofferta e autentica, travalica l’assunto personale, per proiettare le difficoltà e l’angoscia esistenziale di tutti coloro che dovettero fare i conti con la propria coscienza e l’adeguamento ai dettami nazisti. E questo stridente contrasto illumina la già complessa peculiarità che Martin Bora racchiude. La consapevolezza che tutto è perduto, che una uscita onorevole dalla scena è impensabile, come è impensabile ormai, dopo i milioni di morti, il perdono di Dio. Quest’ ultimo dubbio, quest’ ultimo tormento emerge prepotente durante l’incontro con Stauffenberg che a contrario di lui sente ancora la necessità di fare qualcosa, di agire, di porsi contro se non con reali possibilità di successo, almeno per la Storia, o per l’aldilà.
Inoltre l’autrice si occupa anche della sfera come dire sentimentale e sessuale del protagonista, per cui l’abbandono della moglie pesa come una condanna insostenibile, pur vendendola con tutti i sui limiti e difetti. L’incontro con una ragazza, il cui compagno giace in coma in un sanatorio, diventa un’ aggrapparsi alla vita e all’amore, così diverso in tempo di guerra. Anche qui l’attenzione psicologica è massima, e una certa tenerezza emerge pur in un uomo non portato a provarla, fino a un disperato patto che i due amanti suggellano, non ve lo anticipo, ma lo troverete anche voi disperato e struggente. E soprattutto impossibile. In un lampo di autocoscienza successiva Bora realizzerà che era frutto solo di disperazione e egoismo maschile.
Martin Bora comunque resta un investigatore abile e interessato solo alla verità, scoprire chi è l’assassino del veggente non gli passerà di mente, seppure la Storia, con il suo respiro irrevocabile, supera la sua visione contingente.
Alla fine sapremo il destino di ogni personaggio, forse non è quello che vorremmo per loro, ma niente molte volte nella vita lo è.

Ben Pastor, nata a Roma, docente di scienze sociali nelle università americane, ha scritto narrativa di generi diversi con particolare impegno nel poliziesco storico. Della serie di Martin Bora Sellerio ha già pubblicato Il Signore delle cento ossa (2011), Lumen (2012), Il cielo di stagno (2013), Luna bugiarda (2013), La strada per Itaca (2014), Kaputt Mundi (2015) I piccoli fuochi (2016),  Il morto in piazza (2017), La notte delle stelle cadenti (2018).

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo l’Ufficio Stampa Sellerio e l’autrice.

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Un’ intervista con Ben Pastor

:: Il morto in piazza di Ben Pastor (Sellerio 2017) a cura di Giulietta Iannone

2 febbraio 2018

Il morto in piazza

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Il carteggio segreto tra Benito Mussolini e Winston Churchill durante la Seconda Guerra Mondiale è al centro di Il morto in piazza (The Dead in the Square, 2004) di Ben Pastor edito originariamente in Italia nel 2005 per Hobby & Work, e nel 2017 riproposto nella nuova traduzione di Luigi Sanvito per Sellerio.
Cronologicamente, almeno per i fatti trattati, segue Kaputt Mundi di cui parlai alcuni anni fa, spero di poter recensire tutta la serie, ed è il quinto romanzo in ordine di scrittura dedicato a Martin Bora, ufficiale dell’esercito tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale.
Tornando al carteggio è uno dei misteri più ben dissimulati, tra depistaggi, false dichiarazioni e cortine di reticenza, del secondo conflitto mondiale, tanto che per alcuni storici non sarebbe in realtà mai esistito. Ne Il morto in piazza, troviamo Martin Bora incaricato di recuperarlo, dalle mani di un confinato, l’avvocato Luigi Borgonovo, e possibilmente distruggerlo, essendo il contenuto una spina nel fianco per molti alti ufficiali tedeschi, e per l’Italia, poiché se si dimostrasse un possibile “tradimento” di Mussolini e un suo tentativo di alleanza con gli inglesi, rischierebbe rappresaglie e ritorsioni senza fine.
Ma naturalmente Martin Bora non sarà solo occupato in questa delicata missione di intelligence, dal pittoresco nome in codice di Elster – gazza ladra –, durante il suo soggiorno a Faracruci, piccolo paesino (immaginario) dell’ Abruzzo, alle pendici del Gran Sasso, si troverà anche ad indagare su due morti, una avvenuta nel passato e una recente, avvenuta al suo arrivo, trovandosi come inaspettato alleato e aiutante nelle indagini proprio Borgonovo, con cui inizierà una inattesa quanto impossibile amicizia.
Il morto in piazza è un romanzo dolente, forse minore rispetto alla produzione dell’autrice italoamericana, meno ricco di azione se vogliamo. Tutto si svolge nel microcosmo rarefatto di un paesino abruzzese abitato da povera gente, perlopiù contadini. E’ una tappa di passaggio per Bora. Abbandonata in tutta fretta Roma, siamo nell’estate del 1944, e diretto a Bolsena, per prendere il comando del 960mo Reggimento Granatieri, si trova inaspettatamente rallentato da questa missione segreta da cui dipende la vita di innumerevoli persone, sia tedesche che italiane.
Bora è perfettamente conscio di ciò, e nella drammaticità della ritirata dell’esercito tedesco dall’ Italia centrale, gli Alleati ormai incalzano da tutti i lati (lo sbarco in Normandia è prossimo) non perde la testa né il sangue freddo e trova il tempo per indagare su un omicidio diciamo minore sullo sfondo dei grandi fatti storici che lo stanno travolgendo, lui come il suo paese ormai destinato alla sconfitta. Omicidio che sembra avere collegamenti con un altro fatto di sangue avvenuto nel 1919, in un paesino tranquillo in cui queste cose non succedono.
La vita di paese è descritta con tocchi leggeri, il bar ristorante principale, con le sue sedie all’aperto che ospitano anziani molto informati sui fatti, che spettegolano e ricordano il passato, la caserma dei carabinieri, le case che si affacciano sulla piazza, i campi tutt’ intorno, la povertà, la saggezza, la forza di questa gente che quasi vive in un’ oasi protetta lontana dal conflitto.
Belli i personaggi minori, tutti identificati con pseudonimo, come si usava nei piccoli centri dove tutti conoscevano tutti: Pipistròlle, il balordo, il matto del paese, dalla mente danneggiata dalla Grande Guerra, personaggio tenero e dolcissimo, a cui forse Bora si affeziona tanto da bere un sorso di gazzosa da lui offerta; Fissa-Fissa, proprietario del Caffè Adua, un fascista nostalgico, reduce dall’ Africa, che ama ascoltare i vecchi dischi di propaganda, a cui Bora regala il disco di Lili Marlene; e poi Don Fifì, il primo morto, Dindalò, Usagne, Caitène, Presentosa, la moglie di Fissa-Fissa.
Insomma tutta una compagnia di personaggi ben affiatati e ben caratterizzati, dove ognuno ha le sue peculiarità, i suoi vezzi e le sue debolezze. Oltre a Bora naturalmente spicca il personaggio di Borgonovo, il prigioniero politico confinato a Faracruci, che scrive lettere al figlio (e qui si nasconde un piccolo colpo di scena, che non vi anticipo, ma capace di toccare nel profondo il lettore). L’amicizia nata tra i due, sarà più forte per Bora del dovere all’ ottemperanza agli ordini ricevuti? Tutta la narrazione è tesa da questa questione morale, non un principio di secondo piano per il nostro, la cui posizione non è affatto facile.
L’apparizione, quasi spettarle, del suo acerrimo nemico Harald Cziffra, anticiperà la rocambolesca fuga di Bora dalle SS, e l’inattesa solidarietà di tutto il paesino, unito nel coprirlo.
Il morto in piazza, si conferma un giallo storico di sicuro interesse, curato nell’ambientazione, accurato nella documentazione storica, sorretto da una scrittura letteraria e poetica, oltre che molto attenta alle sfumature morali e psicologiche. Il tipo di libri che non ti stancheresti mai di leggere, per cui sono felice di anticiparvi, con il permesso dell’autrice, che la traduzione del prossimo Bora Night of the Shooting Stars, è pronta. Uscirà in Italia sempre per Sellerio tra la primavera e l’estate del 2018 (anche se non c’è ancora una data precisa), con il titolo La notte delle stelle cadenti. Cito le parole dell’autrice:

sarà ambientato nella Berlino pre-20 luglio 44, dove il Nostro, mentre indaga sulla strana morte di un veggente (o presunto tale) ammanicato col vertice del Terzo Reich, verrà coinvolto nell’attentato a Hitler e conoscerà (finalmente) il suo alter ego storico, Claus von Stauffenberg. Ma, conoscendo i due, non è detto che sarà un rapporto così facile…

Dunque che dire buona lettura e speriamo che l’estate arrivi presto.

Ben Pastor, nata a Roma, docente di scienze sociali nelle università americane, ha scritto narrativa di generi diversi con particolare impegno nel poliziesco storico. Della serie di Martin Bora Sellerio ha già pubblicato Il Signore delle cento ossa (2011), Lumen (2012), Il cielo di stagno (2013), Luna bugiarda (2013), La strada per Itaca (2014), Kaputt Mundi (2015) I piccoli fuochi (2016) e Il morto in piazza (2017).

Nota: In copertina Olio su tela di Aleksandr Deineka 1934 (particolare). collezione privata.

Source: acquisto personale.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: I piccoli fuochi, Ben Pastor (Sellerio, 2016) a cura di Giulietta Iannone

20 dicembre 2016

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Francia occupata, autunno 1940.
Proseguono le indagini di Martin Bora, ufficiale della Wehrmacht, prestato al Abwehr, servizio di controspionaggio militare del Terzo Reich. Personaggio complesso, creato dalla scrittrice italiana, naturalizzata americana, Ben Pastor, di cui in questa avventura conosceremo nuove sfumature e sfaccettature.
L’ordine non cronologico delle storie ci permette infatti di andare avanti e indietro nel tempo, sempre nel lasso temporale che vide l’Europa trasformarsi in un cumulo di macerie durante la Seconda Guerra Mondiale, e questa volta ci consente di approfondire la psicologia giovanile di Bora, ancora non temprata da anni e anni di guerra, sempre combattuta sul fronte interno, a indagare su singoli delitti, che quasi svaniscono sullo sfondo dei milioni di morti della guerra vera, quella di trincea, quella del deserto dell’Africa, o dello sconfinato e gelido fronte russo.
Ma le storie di Ben Pastor più che essere storie belliche di grandi battaglie militari sono storie di personaggi, di tormenti interiori, di battaglie etiche e morali per la maggior parte combattute nell’animo del protagonista, Martin Bora, di cui, anche grazie all’espediente interno della scrittura del diario, stiamo imparando a conoscere ogni piega, anche la più nascosta e poco marziale.
Dopo aver recensito Il cielo di stagno, Luna bugiarda, La strada per Itaca, e Kaputt Mundi, è la volta di I piccoli fuochi (The Little Fires, 2016) edito sempre da Sellerio e tradotto dall’inglese da Luigi Sanvito.
Credo che i romanzi di Ben Pastor creino dipendenza, e soprattutto si fanno rileggere sempre con vivo interesse data la complessità che racchiudono, che non si esaurisce con la classica scoperta del colpevole.
Finita la lettura de I piccoli fuochi, già mi chiedo quale sarà il prossimo, quale periodo tratterà quasi con la lente di ingrandimento sempre sviluppando l’evolversi del personaggio, cosa non facile se consideriamo appunto che va avanti e indietro nel tempo, creando uno svolgimento in fieri, di stampo sperimentale. Un gioco che si presta a nuove revisioni e approfondimenti e se vogliamo adeguamenti per omogeneizzare le trame passate a quelle presenti.
Questo sforzo narrativo, sempre sul filo teso del funambolo, credo faccia dei Ben Pastor una degli autori più interessanti e originali del panorama contemporaneo, sia italiano, che straniero, considerata anche la sua peculiarità di essere a cavallo dei due mondi. Ciò che colpisce, in modo netto e vivido, è la grande verosimiglianza psicologica del protagonista, che forse solo chi ha vissuto con un militare può percepire pienamente in tutta la sua portata.
Niente è trattato con leggerezza o superficialità, e questa è senz’altro la parte che maggiormente apprezzo, che quasi relega a una dimensione incidentale la parte poliziesca della trama. Sì, certo ci sono delitti, ci sono indagini, più o meno ostacolate, ci sono i colpevoli, ma soprattutto ci sono i luoghi, le atmosfere, le ricostruzioni minuziose, e certosine, e lo studio dei caratteri, dei personaggi, che fanno dei suoi romanzi non mera letteratura gialla, alla maniera classica.
Non che sia facile leggere i suoi libri, ho perso il filo parecchie volte, un po’ perché la vita di tutti i giorni ci assorbe, e i suoi libri sarebbe meglio leggerli quando si ha tempo continuativo da dedicargli. Magari in queste vacanze di Natale, perché no. Ho forse divagato troppo scrivendo questa recensione, tralasciando la trama, ma cercherò di rimediare, senza dare troppe indicazioni su chi possa essere l’assassino o gli assassini.
Dunque Bora è a Parigi, sulla strada per il quartier generale dell’ Abwehr su boulevard Raspail, in arrivo dalla Germania. Ad accoglierlo, in modo quasi dimesso, la Francia occupata dell’ottobre del 1940. Molto diversa dalla Parigi gioiosa della sua giovinezza cosmopolita.
La missione che lo porta a Parigi è da lui definita di routine, di mera sorveglianza. Deve pedinare Ernst Junger, capitano dell’esercito e famoso scrittore dell’epoca, inviso al regime hitleriano. Missione che accetta quasi controvoglia, per l’autentica ammirazione che prova per Der Krieger, (Il Guerriero), begnamino tra gli eroi della Grande Guerra.
Ma per spirito di dovere, e stanca accettazione, è lì a Parigi, senza avere ben chiara l’idea di cosa consistano davvero i suoi compiti: mera sorveglianza, raccolta di indizi, tentativo di screditarlo e ucciderlo, per lo meno socialmente?
Il primo che incontra è il colonnello dell’Abwehr Hans Kinzel, sempre in abiti civili, che lo aspetta in una libreria, e al quale dovrà riferire per tutta l’indagine, alla quale si aggiunge una missione, questa puramente investigativa, sull’omicidio della moglie bretone del commodoro della Marina Militare Arno Hansen-Jacobi, il brutto incidente di Landernau.
Prima di lasciare Parigi per la Bretagna (dove anche Junger sembra essersi rifugiato) Bora incontra un misterioso polacco (terza indagine che dovrà seguire, anche se questa più sfumata), Zawadski, rigattiere proprietario di un negozio di Strumenti d’epoca, brocantage e spartiti che gli parlerà dei fatti di Katyń.
Tanti sono i piccoli fuochi che Bora incontrerà sul suo cammino, non ve li cito, vi lascio il piacere di scoprirli durante la lettura, posso invece dire che in questo romanzo la Pastor sperimenta anche nuove vie narrative, utilizzando sfumature horror, (L’uomo di Mont Velerien giaceva nella fossa, con barba e le unghie che crescevano ancora), una punta di sovrannaturale, con gli inspiegabili rumori notturni a Les Trepasses, tra leggende bretoni, e mitologia, e una più forte connotazione erotica, specie nelle scene che vedono Bora e la cantante Mome Chouette, (al secolo Nadine Lisieux, cantante di Cabaret e informatrice della Gestapo), protagonisti.
Che dire d’altro, dicevo che sono romanzi che creano dipendenza, e io infatti, con ancora l’eco dei mondi creati da questo romanzo, aspetto il prossimo. Buona lettura.

Ben Pastor, nata a Roma, docente di scienze sociali nelle università americane, ha scritto narrativa di generi diversi con particolare impegno nel poliziesco storico. Della serie di Martin Bora Sellerio ha già pubblicato Il Signore delle cento ossa (2011), Lumen (2012), Il cielo di stagno (2013), Luna bugiarda (2013), La strada per Itaca (2014) e Kaputt Mundi (2015).

Nota: In copertina Acquarello e gouache su carta di Aleksandr Deineka 1934 (particolare). Collezione privata.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo l’Ufficio Stampa Sellerio e l’autrice.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: Kaputt Mundi, Ben Pastor (Sellerio, 2015) a cura di Giulietta Iannone

22 gennaio 2016

Copertina Ben pastor

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Kaputt Mundi, (Kaputt Mundi, 2002), di Ben Pastor uscì in edizione italiana nel 2003, ormai 13 anni fa, per Hobby & Work Publishing tradotto da Paola Bonini. Terzo romanzo in ordine di scrittura, in realtà cronologicamente situato ben dopo La canzone del cavaliere, Il signore delle cento ossa, Lumen, Il cielo di stagno, Luna bugiarda, e The Little Fires appena terminato in inglese, attualmente in fase di traduzione in italiano, (la pubblicazione da noi è prevista per la tarda primavera o l’estate di quest’anno), Kaputt Mundi si colloca in un punto di svolta della vita del maggiore Martin Bora, appena promosso tenente colonnello, e del volgere della Seconda Guerra Mondiale, verso una inevitabile e tragica disfatta tedesca.
Seguiranno Il morto in piazza e La Venere di Salò e i prossimi romanzi che ci porteranno a scoprire il destino dell’ ufficiale della Wehrmacht liberamente ispirato alla figura reale del colonnello Claus Schenk von Stauffenberg. Ora l’autrice sembra più interessata al passato del suo personaggio, tanto che il suo nuovo romanzo è ambientato in Bretagna nel 1940, (indipendentisti bretoni, preti in odore di satanismo, marinai, latifondisti, povera e umile gente…). Kaputt Mundi invece è ambientato a Roma tra l’8 gennaio del 1944 e il 4 giugno dello stesso anno. La nuova edizione di Sellerio oltre ad avere lo stesso precedente traduttore, Paola Bonini, presenta alcune modifiche del testo, qualche correzione e molte parti nuove che ne aumentano la lunghezza.
Per prima cosa penso sia giusta una precisazione: le vittime dell’attentato di Via Rasella appartenevano al Polizeiregiment “Bozen” (Reggimento di polizia “Bolzano”) i soldati erano altoatesini mentre ufficiali e sottoufficiali erano tedeschi. L’autrice è perfettamente a conoscenza di questo fatto, ma per motivi artistici e narrativi trasforma questo reggimento in un manipolo di SS. Detto questo, che sottolinea quanto un romanzo si discosti inevitabilmente dalla realtà, va comunque sottolineata la precisa e attenta ricostruzione storica a cui la Pastor ha dedicato una certosina cura dei particolari, dalle marche di medicine, al titolo delle riviste, alle canzoni che si sentivano per radio.
I ritratti dei personaggi realmente esistiti (c’è pure una fugace apparizione di Erich Priebke) si confondono con i ritratti dei personaggi di pura invenzione e a entrambi l’autrice dedica la stessa profondità e coerenza narrativa, sebbene su tutti spicchi il protagonista, Martin Bora, per il quale è molto difficile non provare empatia. L’affresco corale è omogeneo e vivido e impreziosito dal clima che realmente si visse a Roma in quei mesi di occupazione nazista, emerso probabilmente dai racconti familiari che l’autrice poté ascoltare, oltre che dalla documentazione in suo possesso.
In sottofondo due indagini poliziesche: una per scoprire il reale svolgersi delle ultime ore di Magda Reiner, un’addetta dell’Ambasciata tedesca precipitata dalla finestra della sua abitazione, una per scoprire cosa si cela dietro la morte del cardinale tedesco Hohmann e della nobildonna Martina Fonseca. Tutto precipita, ma a Bora interessa solo scoprire la verità, unica consolazione in uno scenario desolante e desolato di violenza che non abbraccia nè condivide, in cui il destino non sembra risparmiagli nulla: l’abbandono della adorata Dikta, una nuova operazione al braccio menomato, il definitivo addio a donna Maria e all’amico ispettore Guidi, il fronte e la morte che sembra attenderlo a breve.
Romanzo di una bellezza melanconica e struggente, Kaputt Mundi è capace di affrontare una pagina della storia italiana (l’attentato di via Rasella a cui seguì, per rappresaglia, l’eccidio delle Fosse Ardeatine) con rigore e serietà storica e nello steso tempo parlandoci dei sentimenti e delle anime di coloro che vi parteciparono. E poi Roma è un altro personaggio accostabile ai bellissimi personaggi femminili che compaiono nel racconto dalla signora Murphy (di cui Bora si innamora), a Francesca, alla signora Carmela, alla prostituta romana Pompilia, pettegola ma capace di riservare sorprese, alla madre di Francesca e a Donna Maria, una madre per Bora.
Oltre alle pagine dedicate all’occupazione, alla vita sfavillante fatta di feste e mondanità degli occupanti negli alberghi del centro, si contrappongono pagine in cui vengono descritti il razionamento e le privazioni della popolazione, e le brutalità nelle carceri. E in questo clima una spia, in cambio di denaro, denuncia gli ebrei della capitale ancora nascosti destinandoli alla deportazione e alla morte.
Se Bora rappresenta la coscienza di un popolo, quello tedesco di fronte alla barbarie nazista, lo fa senza dubbio con caratteristiche peculiari sue proprie: Bora ama l’arte, la musica, si commuove per la bellezza di Roma dalla quale a malincuore si allontana all’arrivo degli americani, prova tenerezza, lealtà, è capace di vera amicizia pur non sottraendosi ai suoi obblighi di militare, quando nelle ultime ore si dedica allo smantellamento e alla distruzione di edifici e postazioni militari, o quando è costretto a uccidere. Fa riavere alla Croce Rossa derrate di latte in polvere per i bambini, fa liberare senza ammetterlo il professore Maiuli, cerca di fare di tutto per sottrarre Foà a Keppler, e si adopera in tutti i modi, pronto ad essere catturato e ucciso, per neutralizzare la spia che si appresta a denunciare alla Gestapo gli ebrei di Roma.
Riuscirà a coronare il suo sogno d’amore con la signora Murphy? Glielo auguriamo, curiosi di scoprire quale sarà il suo destino, probabilmente diverso da quello di Claus Schenk von Stauffenberg.

Ben Pastor, nata a Roma, docente di scienze sociali nelle università americane, ha scritto narrativa di generi diversi con particolare impegno nel poliziesco storico. Della serie di Martin Bora Sellerio ha già pubblicato Il Signore delle cento ossa (2011), Lumen (2012), Il cielo di stagno (2013), Luna bugiarda (2013) La strada per Itaca (2014).

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo l’Ufficio Stampa Sellerio.

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:: La strada per Itaca, Ben Pastor, (Sellerio, 2014) a cura di Giulietta Iannone

25 dicembre 2014

4717-3La strada per Itaca, (The Road to Ithaca, 2014), edito da Sellerio e tradotto dall’inglese da Luigi Sanvito, è il nono romanzo dedicato da Ben Pastor al personaggio di Martin Bora, capitano della Wehrmacht, prestato all’Abwehr, il servizio di controspionaggio tedesco.
Ambientato tra la fine di maggio e gli inizi di giugno del 1941, il romanzo si pone cronologicamente tra Lumen e Il cielo di stagno facendo luce sulla “vacanza” cretese che Bora si prese poco prima dell’invasione nazista dell’ Unione Sovietica, che sciolse di fatto il patto Ribbentrop-Molotov e diede il via all’ Unternehmen Barbarossa. (Operazione suicida con il senno di poi, ma già la storia aveva dato le sue lezioni, pensiamo solo a Napoleone).
Bora si trova a Mosca al seguito della delegazione diplomatica tedesca, quando riceve da Berija in persona il compito di recarsi a Creta, appena conquistata dai tedeschi, e sottratta agli inglesi, per procurarsi alcune casse di Dafni e Mandilaria, due pregiati vini cretesi da sfoggiare nei ricevimenti da ambasciata, anche se la richiesta più che altro poteva suonare come un memento, che il capo dell’NKVD poteva tutto, disponendo a piacimento della vita delle persone fossero anche state ufficiali tedeschi trasformati in suoi servitori.
Bora accetta l’incarico (non che abbia scelta) con una certa irritazione, ma quando si trova sotto l’accecante sole di Creta scopre suo malgrado che un altro incarico l’attende. Una strage di civili avvenuta in una villa poco lontano da Iraklion, sulla costa settentrionale di Creta, sembra avere ripercussioni quantomeno inquietanti. La vittima principale era un cittadino svizzero, (per cui l’incidente diplomatico con un paese neutrale non è una prospettiva tanto remota), per giunta membro dell’associazione Ahnenerbe di Himmler. Presunti colpevoli, un gruppo di paracadutisti tedeschi, che alcune foto, reperite in modo avventuroso, collocano sul luogo della strage al momento in cui fu perpetrata. Chiamato in causa, l’Ufficio Crimini di Guerra, onde evitare l’intervento della Croce Rossa Internazionale, e pure la curiosità di Himmler, incarica Bora di indagare sul caso, e possibilmente discolpare i paracadutisti coinvolti.
Aiutato dal commissario di polizia greco Vairon Kostaridis, personaggio solo apparentemente buffo, che riserverà parecchie sorprese, e da una recalcitrante archeologa americana, Frances L. Allen, “costretta” ad accompagnarlo all’interno delle isola sulle tracce di un testimone della strage, Bora dipanerà un’intricatissima matassa, illuminato da una singola parola, “prestigio”, causa di un suo litigio quando aveva solo dodici anni, che in realtà fa emergere nella sua coscienza (oltre all’intuizione risolutiva per la soluzione del caso) i germi di un’inquietudine che maturerà negli anni successivi. La coscienza del divario tra la sua Germania, alla quale si sente fedele e lealmente ne persegue gli interessi, e la Germania nazista, in mano a uomini nuovi come “Waldo” Preger, il ragazzino con cui si era accapigliato e che ora ritrova come capitano dei paracadutisti.
La strada per Itaca, si pone quindi come un romanzo di passaggio, dalle forti valenze psicologiche, capace di far luce sull’animo complesso e tormentato di Bora, novello Ulisse, (è l’omonimo romanzo di Joyce che si porta dietro tra i suoi pochi effetti personali assieme all’immancabile diario), sulla via di casa. Forse l’eccessiva complessità, rende la lettura meno scorrevole di altre letture, ma la bellezza della scrittura della Pastor, mai banale, mai scontata, dalle forti valenze letterarie, rende il testo ricco di fascino. La ricostruzione storica come sempre è accurata, e ricca di aneddoti e apparizioni (pensiamo solo allo scrittore americano Erskine Caldwell) e ci riporta al periodo della Seconda Guerra Mondiale, ancora controverso, ancora poco approfondito.
La Pastor sceglie di parlarci della storia, (l’aspetto investigativo è solo una sfumatura della narrazione, forse nemmeno quella più rilevante) dal punto di vista di un perdente, un ufficiale tedesco della Germania nazista (sebbene definirlo lui stesso nazista è sicuramente impreciso), e i rischi di questa scelta sono numerosi. Consideriamo solo l’apparente scarso coinvolgimento emotivo del personaggio per una strage di civili, difficile da considerare positivo per una sensibilità moderna. O l’accettare l’inganno (anche crudele) ai danni dell’archeologa americana, come naturale e giustificabile. (L’astuzia di Ulisse).
Ciò non toglie che un personaggio più noir di così è difficile immaginarlo e forse proprio questo rende la lettura una sfida. La mentalità, la concezione del suo stato sociale, i suoi ideali, la sua educazione, sono ricostruiti in modo degno di ammirazione, anche quando si contrappongono ai corrispettivi moderni. Martin Bora è un uomo del suo tempo, con limiti ed eroismi, e questa umanizzazione del personaggio è sicuramente la parte più riuscita del romanzo e dell’intera serie.

Ben Pastor, nata a Roma, docente di scienze sociali nelle università americane, ha scritto narrativa di generi diversi con particolare impegno nel poliziesco storico. Della serie di Martin Bora Sellerio ha già pubblicato Il Signore delle cento ossa (2011), Lumen (2012), Il cielo di stagno (2013), Luna bugiarda (2013) La strada per Itaca (2014).

:: Luna bugiarda di Ben Pastor (Sellerio, 2013) a cura di Giulietta iannone

20 febbraio 2014

8. cover SELLERIOLa BMW era parcheggiata in fondo alla via. Cominciò a percorrere il tratto di strada che lo separava dalla macchina con il passo rigido e claudicante, grato al buio e al freddo che lo circondavano, quasi fossero un liquido denso in cui poter immergersi, fuggire, sprofondare. Dall’oscurità alzò lo sguardo verso il nastro di cielo che si intravedeva a fatica tra i piani alti dei caseggiati. I suoi occhi indugiarono per una manciata di istanti su quella cintura incastonata di stelle, che si allungava da un cornicione all’altro. La luna si era assottigliata in una falce consunta, ma la sua lama scintillava straordinariamente luminosa sul colmo di un tetto. Era la stessa luna chiara e impassibile che aveva visto dal balcone dell’elegante casa dei suoi genitori a Lipsia e , più tardi, dalla sconfinata, mortale immensità della pianura russa, così densa di insidie. Luna bugiarda, pensò. Una luna bugiarda. Bora si lasciò sfuggire un sospiro. Era un soldato, senza figli, e solo.

Luna bugiarda (Liar Moon, 2001) di Ben Pastor, rieditato da Sellerio nell’ottobre del 2013, a più di dieci anni dalla prima pubblicazione in Italia, avvenuta nel 2002 per Hobby & Work, e sempre tradotto da Maria Emilia Piccone, ci porta cronologicamente subito dopo i fatti narrati in Cielo di stagno. Dalla Russia del 1943 dunque, all’Italia settentrionale del dopo 8 settembre e della repubblica di Salò, in una continuità di tematiche e suggestioni, resa omogenea da un opportuno lavoro di rivisitazione del testo, rispetto all’originale del 2002, ricco di ampliamenti e integrazioni.
L’autrice ha da sempre preferito alla progressione cronologica una personale rivisitazione dei fatti e dei personaggi, che le permette per esempio ora di lavorare ad una storia di Martin Bora, ambientata nella Creta del 1941, a ridosso dell’invasione dell’isola da parte delle truppe aviotrasportate tedesche. Questa scelta, sicuramente legata alla complessità del personaggio principale, permette all’autrice una rielaborazione in progress dell’intera esperienza di vita del giovane ufficiale della Wermacht, ispirato alla figura storica del colonnello Claus von Stauffenberg attentatore della vita di Hitler, e nella mia esperienza di lettrice è una scelta narrativa piuttosto anomala, anche se affascinante, che seguo con interesse.
Luna bugiarda ci porta nell’Italia del Nord, in Veneto, in piena occupazione nazista, e colloca il protagonista in una delicata e dolorosa fase della sua vita di soldato e più estesamente di tedesco, che pian piano prende coscienza, non solo della drammatica situazione storica, ma proprio delle scelte morali ed etiche necessarie per conservare la propria dignità umana. E sembra proprio questo il nucleo centrale che all’autrice interessa, più ancora della dimensione unicamente investigativa, che fa appunto di Bora uno strumento della detection più classica, alle prese con indagini, morti violente e assassini.
Mai come in Luna bugiarda, molto più sicuramente rispetto a La canzone del cavaliere, Il Signore delle cento ossa, Lumen, o lo stesso Cielo di stagno, ci troviamo davanti ad una crisi umana, alla dissoluzione di certezze e speranze, al dolore non mitigato o lenito da credi religiosi, o ideologici, spogliato di ogni eroicità. Nel prologo il protagonista sopravvive a stento ad un attentato, riportando gravi ferite, tra cui l’amputazione della mano sinistra. Fatto questo che oltre al dolore fisico in sé racchiude, per chi conosce il personaggio, e il suo talento e la sua sensibilità di pianista, una sorta di condanna, di fine della bellezza sopraffatta dalla violenza e dalla brutalità della guerra.
Oltre al dolore fisico dicevamo, che Bora non vuole alleviare in alcun modo con oppiacei che ne minerebbero la lucidità, la morte del fratello, la consapevolezza che la moglie non lo ama più e il conseguente senso di abbandono (“Mia cara Nina” fu l’unica risposta che scrisse sulla pagina bianca, “chiedi a Dikta se mi vuole ancora bene”), il senso di colpa legato alla deportazione degli ebrei, di cui si fa in una certa misura strumento, sebbene non con l’ invasamento e l’ accanimento prescritto e voluto dal Reich e dalle SS suoi strumenti. (La sua caduta in disgrazia è già prossima, e Bora lacerato tra paura e coraggio, si interroga più volte sul dove i suoi doveri di soldato cessano di esistere contrapponendosi a quelli di essere umano, anche se il sacerdote che salva dalla deportazione,  assieme gli ebrei affidati alla sua custodia [l’SS senza nome arriva a lamentarsi ” Se non avese le spalle protette da certi pezzi grossi in alto loco, direi che lei maggiore Bora è un amico dei giudei“] ben diventano simbolo degli atti di coraggio che il personaggio sa comunque ancora compiere, quasi a conferma che la sua umanità non è morta del tutto). Tutto insomma contribuisce a infondere alle pagine di questo libro una patina di triste amarezza, e controllata disperazione, che infonde nel lettore una particolare empatia e compassione nei confronti del protagonista, la cui caratura umana tuttavia non viene mai meno.
Comunque Luna bugiarda è anche la storia di un’indagine, di un delitto, della scoperta di un colpevole. Seppure non morirà solo il gerarca Vittorio Lisi, investito sulla sedia a rotelle, da un auto, nel giardino davanti casa. Altri morti costelleranno la trama, alcuni legati al dramma di un assassino solitario che ruba le scarpe alle proprie vittime, che riporta Bora in Russia facendogli rivivere il ricordo di un altro pazzo, che vedeva nelle sue allucinazioni la gente scalza, poco prima della sua morte. Ben Pastor mostra la chiave per risolvere il delitto scopertamente, ma a volte proprio ciò che è più chiaramente in evidenza sfugge alla nostra vista e infatti sarà difficile collegare l’unico indizio lasciato dalla vittima morente all’assassino. Io non l’ho fatto, ma fidando nell’intuito di Martin Bora, mi sono sbagliata solo in parte. Buona lettura.

Ben Pastor è nata a Roma nel marzo del 1950. Laureata in Lettere con indirizzo archeologico presso l’università La Sapienza di Roma, subito dopo aver terminato gli studi si trasferisce negli Stati Uniti. Accanto alla sua attività di docente di Scienze Sociali presso numerose Università americane, si cimenta nel giallo storico scrivendo decine di racconti per le principali riviste di letteratura poliziesca. Nel 2000 pubblica negli USA Lumen, il primo romanzo poliziesco della serie di Martin Bora, tormentato ufficiale-investigatore tedesco ispirato alla figura di Claus von Stauffenberg, l’attentatore di Hitler nel 1944. Escono poi  Luna Bugiarda, Kaputt Mundi, La canzone del cavaliere, Il morto in piazza, La Venere di Salò, La Morte, il Diavolo e Martin Bora, Il signore delle cento ossa e Il cielo di stagno.

:: Recensione di Il cielo di stagno di Ben Pastor (Sellerio, 2013) a cura di Giulietta Iannone

5 Maggio 2013

stagnoQuel pomeriggio aveva completato i piani per attraversare il Donez, e poi marciare a nord. Al mattino seguente avrebbe convocato i sottoufficiali anziani, parlato ai tedeschi etnici, controllato ancora una volta l’equipaggiamento. Come attività di previsione, bastava così: aveva imparato a non guardare oltre il domani.
, gli venne da congratularsi, sono impeccabilmente lucido. Svitò il tappo della borraccia. Dottor Bernoulli, alla sua salute.
C’era solo acqua nella borraccia, ma prima di bere Bora l’alzò con un gesto moderato verso il cielo di stagno, già estivo, mentre scendeva la sera.

Ucraina, maggio del 1943. A Merefa, nei pressi di Kharkov, il maggiore Martin Bora, dopo aver trascorso un mese di convalescenza in un ospedale di Praga, sta faticosamente cercando di riprendersi e di tornare alla normalità, per quanto sia possibile in tempi di guerra, ancora segnato dagli strascichi della disfatta di Stalingrado. Fiaccato dal caldo, dalle mosche, dalla febbre tifoidea che ogni sera lo tormenta, sebbene abbia conservato oltre alla vita anche una dolorosa lucidità, quasi un miracolo se si pensa a quanti suoi colleghi si sono suicidati, o sono impazziti, Martin sente di aver perso non solo la fede in Dio e la certezza nella vittoria finale, ma anche l’amore di sua moglie Benedikta, dopo la sua decisione di tornare volontario sul fronte russo.
Questa dolorosa consapevolezza, sommata alla certezza che un limite ormai è stato valicato e mai più si potrà tornare indietro, non arrivano però a far vacillare il suo codice etico e la sua capacità di discernere il bene dal male, e di continuare a perseguire la verità e la giustizia ovunque siano nascoste, ed è così che in questo clima di confusione, di corruzione, di lotta di potere tra organi della Germania hitleriana, conserva la determinazione e la volontà di scoprire quale segreto è nascosto nel bosco di Krasny Yar, mistero che sembra strettamente connesso alla morte di due generali dell’ Armata Rossa finiti in mano tedesca: Platonov e Tibyetsky, detto Khan.
Von Bentivegni, comandante della Abwehr, ordina a Martin Bora proprio di indagare su queste morti, e di ripulire tutto, con la colpevolezza che molte cose devono continuare a restare segrete e bisogna nascondere ogni traccia, ed è così che inizia Il cielo di stagno (Tin Sky, 2013) edito da Sellerio e tradotto dall’inglese da Luigi Sanvito.
Ben Pastor già autrice di 6 romanzi dedicati al personaggio di Martin Bora, maggiore della Wehrmacht e in forza all’Abwehr, il servizio segreto tedesco, durante la Seconda guerra mondiale,  tra cui Lumen, La canzone del cavaliere e Il signore delle cento ossa e una raccolta di racconti La Morte, il Diavolo e Martin Bora, con questo nuovo romanzo, cronologicamente precedente a Luna Bugiarda, che narra la campagna italiana, ci permette di gettare uno sguardo sul delicato passaggio che costituisce la presa di coscienza definitiva del protagonista sul fatto che il piano hitleriano di predominio sia destinato inesorabilmente a trasformarsi in tragedia.
Molti sono i passaggi che sottolineano questa consapevolezza, sia presenti nel diario che Martin Bora scrive, sia nei capitoli più oggettivi e discorsivi. Fondamentale è lo scoprire le scorte alimentari di marca americana presenti nel carro armato T-34, con il quale Tibyetsky raggiunge le linee tedesche.

Nell’ interno ristretto del T- 34, da cui l’entusiasta Scherer era uscito di malavoglia, Bora fu meno colpito di vedere il sangue dei carristi uccisi che il numero di munizioni e obici in dotazione. Quel che lo impressionò di più furono i viveri di marca americana di cui godevano i russi. Il ricordo della penuria di Stalingrado, specie da parte tedesca, lo turbò, come se le scatolette, le razioni D ricche di calorie e il latte in polvere indicassero – ancor più del contenitore corazzato in cui si trovavano – che la Germania non poteva vincere la guerra.

Si può leggere questo romanzo unicamente mossi dall’interesse per la trama investigativa, infatti c’è un’ indagine, ci sono due morti eccellenti e molti altri legati al mistero nascosto nel bosco di Krasny Yar. Il protagonista segue indizi, interroga testimoni e personaggi chiave, raccoglie informazioni e collega i fatti fino a raggiungere la verità. Lo schema giallo è rispettato e logico, funzionale al racconto.
Ma si può leggere Il cielo di stagno anche come un romanzo storico tout court. La ricostruzione è minuziosa, e molto accurata, con un grande amore per i dettagli e per l’atmosfera che si respira.
Siamo su un fronte di guerra, in un periodo di apparente calma prima di una grande offensiva estiva. L’attesa, il clima di sospensione si percepiscono palpabili, e è ben descritta oltre alla routine militare, anche la vita dei civili russi occupati.
L’autrice opta per un registro narrativo lineare e nello stesso tempo empatico e coinvolgente. I dubbi, gli scrupoli, le riflessioni del protagoniste arrivano al lettore filtrate da una calma compositiva e introspettiva che rende la lettura piacevole, sebbene i temi trattati siano drammatici.
Il ritmo della trama è sicuramente avvincente e va di pari passo con l’approfondimento dei personaggi e la coerenza con la quale sono tratteggiati.
L’ambiguità del personaggio di Benedikta, soprattutto, colorisce di riflesso di luci e di ombre anche il protagonista, e usando questa tecnica l’autrice arricchisce sicuramente lo spessore psicologico di entrambi i personaggi.
Alcuni elementi noir sono presenti e stridono inequivocabilmente con l’ideologia ottimista e fanatica del periodo, alla quale il protagonista non si adegua, restando una voce critica e quasi distaccata, e soprattutto l’angosciosa intermittenza della memoria, che porta il personaggio a ricordare come era il passato e l’uomo che era, del quale ormai ha perduto ogni traccia di innocenza, dona autenticità ad un romanzo già di per sé interessante.
Da segnalare in copertina l’immagine di Olio su tela di Alexander Deineka, 1943. Museo Russo di Stato, San Pietroburgo.

Ben Pastor è nata a Roma nel marzo del 1950. Laureata in Lettere con indirizzo archeologico presso l’università La Sapienza di Roma, subito dopo aver terminato gli studi si trasferisce negli Stati Uniti. Accanto alla sua attività di docente di Scienze Sociali presso numerose Università americane, si cimenta nel giallo storico scrivendo decine di racconti per le principali riviste di letteratura poliziesca. Nel 2000 pubblica negli USA Lumen, il primo romanzo poliziesco della serie di Martin Bora, tormentato ufficiale-investigatore tedesco ispirato alla figura di Claus von Stauffenberg, l’attentatore di Hitler nel 1944. Escono poi  Luna Bugiarda, Kaputt Mundi, La canzone del cavaliere, Il morto in piazza, La Venere di Salò, La Morte, il Diavolo e Martin Bora, Il signore delle cento ossa e Il cielo di stagno.