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:: La Venere di Salò di Ben Pastor (Sellerio 2022) a cura di Valerio Calzolaio

22 novembre 2022

14 ottobre – 17 dicembre 1944. Salò e dintorni. Martin-Heinz Douglas Wilhelm Frederick von Bora, molto alto con capelli scuri e occhi verdi, nobile famiglia sassone, diplomatici militari proprietari terrieri, pure editori da un paio di secoli, genitori cugini di primo grado con una differenza d’età di trent’anni, padre direttore d’orchestra morto e madre anglo-scozzese risposatasi con un autorevole generale, sta per compiere 31 anni (l’11 novembre) ed è colonnello dell’Abwehr (servizio segreto militare) destinato a Brescia. Improvvisamente agenti della Gestapo lo prelevano in modo intimidatorio portandolo in auto a Salò, sulle rive del lago di Garda, con l’apparente ruolo di ufficiale di collegamento tra la Wehrmacht e la Repubblica Sociale Italiana. Il generale Sohl e il maggiore Lipsky gli affidano un ulteriore incarico: ritrovare un prezioso quadro di Tiziano, rubato dal palazzo ove avevano stabilito la loro sede. Sia la villa requisita che il quadro appartengono al ricco industriale Giovanni Pozzi, che come risarcimento ottiene l’esclusiva sulla fornitura di telerie all’esercito. Il traffico di opere d’arte appare ampio, inoltre Bora intuisce che una o più donne considerate suicide potrebbero essere vittime di omicidio, tutte in qualche modo legate a Pozzi. L’antiquario ebreo Mosé Conforti gli mostra la bella copia del quadro, Martin sempre più affascinato da Anna Maria, figlia di Pozzi, con la quale inizia una breve intensa relazione. Ma l’agente della Gestapo Jacob Mengs lo bracca completando il dossier a suo carico, materiale sufficiente all’arresto e all’incriminazione. Lui risolve i casi ma lo portano a Milano. Gli vengono imputati aiuti forniti a ebrei, traduzioni di opere straniere (di cui a Lipsia si occupa la casa editrice di famiglia), i rapporti diplomatici stabiliti con i russi, oltre ad altre note storie “segrete” e “doppie” del passato.

La bravissima docente universitaria americana Ben Pastor, di gioventù italiana (Maria Verbena Volpi, Roma 1950), pubblicò nel 1999 negli Stati Uniti il primo romanzo della splendida serie di Martin Bora. Bilingue, preferisce scrivere in inglese. Accanto a decine di altri romanzi storici e racconti gialli e a saggi di scienze sociali, da allora ne sono seguiti ben undici della serie, questo come uscita è il sesto (2006) ma cronologicamente quello finora più vicino a noi e all’epilogo. La complicata biografia scelta per il ricco severo protagonista (si tratta di un soldato fedele, contrario ai “metodi” nazisti; ha perso la mano sinistra in un attacco dei partigiani l’anno prima, ora ha una protesi) consente all’autrice di andare avanti e indietro nei tempi e nei luoghi del secondo conflitto mondiale, dagli antefatti spagnoli all’evoluzione della Germania nazista, approfondendo con cura storica ecosistemi geografici distanti e contesti sociali differenti. Non a caso per Bora si è parzialmente ispirata all’identità di Claus Philipp Maria Schenk Graf von Stauffenberg (Jettingen-Scheppach, 15 novembre 1907 – Berlino, 21 luglio 1944), il militare tedesco autore dell’attentato del 20 luglio contro Adolf Hitler, la nota Operazione Valchiria (evocata e appena fallita in realtà rispetto ai tempi del romanzo). L’avvincente narrazione è in terza, alternando rivali e altri protagonisti; il protagonista talora anche in prima e corsivo, grazie agli appunti che qui ricomincia a scrivere sul diario in minuto corsivo gotico. Il titolo fa riferimento al sensuale quadro dell’investigazione “gialla”, si tratta comunque nell’insieme di una tragica vicenda noir sull’animo umano di alleati e nemici, ladri e onesti, capi e subalterni, donne e colleghi, all’interno di un dramma storico globale. All’inizio l’elenco dei personaggi, tedeschi e italiani; in fondo un breve glossario, i ringraziamenti e la cronologia delle “inchieste” di Bora.

Ben Pastor, nata a Roma, docente di scienze sociali nelle università americane, ha scritto narrativa di generi diversi con particolare impegno nel poliziesco storico. Della serie di Martin Bora Sellerio ha già pubblicato Il Signore delle cento ossa (2011), Lumen (2012), Il cielo di stagno (2013), Luna bugiarda (2013), La strada per Itaca (2014), Kaputt Mundi (2015), I piccoli fuochi (2016), Il morto in piazza (2017), La notte delle stelle cadenti (2018) e La sinagoga degli zingari (2021).

Source: libro del recensore.

:: Un’intervista con Ben Pastor a cura di Giulietta Iannone

23 gennaio 2022

Bentornata Ben su Liberi di scrivere e grazie di averci concesso questa nuova intervista, parleremo del tuo nuovo libro La sinagoga degli zingari e dei tuoi progetti futuri. Iniziamo con il chiederti: La sinagoga degli zingari è davvero l’ultimo libro della serie dedicata a Martin Bora, o è una classica fake news?

Direi che si tratta di una fake news. Infatti, ho in programma almeno altri due, forse tre, romanzi con Martin Bora. Del resto, Bora deve ancora confrontarsi con gli ultimi, drammatici mesi della Seconda guerra mondiale. Il ciclo, quindi, non finirà con La Venere di Salò, ambientata nella Repubblica Sociale Italiana alla fine del 1944, ma andrà avanti fino alla battaglia di Lipsia (primavera 1945).

La sinagoga degli zingari, (The Gipsy Synagogue 2021), edito in Italia da Sellerio e tradotto dall’inglese da Luigi Sanvito, è il tredicesimo libro che hai dedicato a Martin Bora. Siamo nell’agosto del 1942 ad un passo dall’assedio di Stalingrado, città che come la sinagoga degli zingari sembra più un sogno o meglio un incubo irraggiungibile. Si può dire che l’esercito di Hitler fu sconfitto sul campo russo, che fu già fatale a Napoleone?

Certo, l’esercito tedesco, analogamente a quello napoleonico, fu sconfitto da un insieme di fattori che nel corso di qualche mese si rivelarono decisivi. Cito i principali: condizioni climatiche estreme, eccessivo allungamento delle linee di rifornimento, scarsa conoscenza della reale consistenza delle forze nemiche. Un altro fattore che si rivelò funesto per le fortune tedesche a Stalingrado fu la scarsissima capacità strategica e l’imperdonabile irresolutezza di Paulus, comandante in capo della VI Armata. Persona sbagliata al posto sbagliato nel momento sbagliato, commise errori su errori, si rifiutò di disobbedire agli ordini hitleriani di tenere la città a ogni costo, precludendosi così ogni via di fuga dalla Sacca quando era ancora possibile, e condannando a morte (o nei migliori dei casi alla prigionia) centinaia di migliaia dei suoi sottoposti.

La campagna di Russia fu devastante sia per i tedeschi che per i suoi alleati, come ti sei documentata?

Be’, il lavoro di ricerca è stato estremamente complesso. È durato quasi due anni e ho dovuto impiegare parecchie lingue per impadronirmi delle fonti primarie e secondarie: non solo italiano, ma anche inglese, tedesco, russo, romeno e francese. In proposito, mi permetto di citare quel che ho scritto nella nota finale al romanzo:

“Nel corso di più di un settantennio, innumerevoli storici, analisti, saggisti e romanzieri hanno scritto decine di migliaia di pagine sulla battaglia di Stalingrado, tra i punti di svolta della Seconda guerra mondiale e tragedia umana di proporzioni apocalittiche (oltre un milione di perdite tra morti, dispersi e prigionieri). Talvolta la ricostruzione di quei drammatici giorni non è andata esente da errori materiali, distorsioni propagandistiche e grossolane manipolazioni ex post, sia da parte tedesca che da parte sovietica. Attraverso il dipanarsi dell’intreccio giallo, quello che ho cercato di restituire ne La sinagoga degli zingari, grazie all’analisi di un’amplissima messe di fonti primarie e secondarie, è esattamente il contrario: un ritratto realistico, credibile e antiretorico – giacché esiste, assai discutibilmente, sia la retorica della vittoria che quella della sconfitta – di uno degli eventi nel contempo più sanguinosi e tragicamente assurdi del Secondo conflitto mondiale. Naturalmente non spetta a me stabilire di esserci riuscita, bensì, come sempre, a chiunque abbia avuto, o avrà, la bontà di leggermi. Ciò premesso, devo tuttavia assolvere al piacevole obbligo di ringraziare una serie di amici, storici e cultori di discipline militari che ho letteralmente scomodato ai quattro angoli del mondo, dall’Italia alla Federazione Russa, dalla Germania all’Australia, subissandoli di domande, interrogativi e richieste di chiarimenti…”

Ho avuto modo di sfogliare Unternehmen Barbarossa im Bild: Der Russlandkrieg fotografiert von Soldaten di Paul Carell e mi ha colpito davvero la piccolezza dell’uomo paragonato ai grandi spazi della campagna russa. Hai visto anche tu questo albo fotografico? Altre documentazioni fotografiche?

Sì, conosco il testo che citi. Ma a parte Carell, ho esaminato letteralmente migliaia di foto (e qualche decina di filmati), nel tentativo di ricostruire con la più grande esattezza possibile gli ambienti, gli uomini e il territorio che ha fatto da sfondo alla battaglia di Stalingrado. Da questo punto di vista, si sono rivelati molto utili gli archivi fotografici dell’attuale esercito tedesco. Peraltro, non mancano neppure copiose raccolte di fotografie gestite da privati. Ho cercato di mettere a buon frutto entrambe queste fonti.

A Bora viene dato l’incarico di scoprire il destino di due coniugi romeni, scienziati con importanti studi sull’atomo, colleghi di Fermi e Majorana. Se Hitler fosse arrivato per primo ai progetti di una bomba atomica, secondo te saremmo ancora qui? L’umanità sarebbe sopravvissuta?

Quella della bomba atomica di Hitler è una delle tante leggende sinistramente suggestive della Seconda guerra mondiale, ma la realtà storica è ben diversa, e, se vogliamo, più banale. Infatti, anche se il Reich poteva avvalersi di fisici del calibro di Heisenberg, alla Germania mancavano tuttavia sia le materie prime (uranio-plutonio in quantità sufficiente e acqua pesante per un reattore), sia le competenze ingegneristiche per assemblare un congegno atomico che fosse davvero in grado di fare il suo apocalittico lavoro. Né va dimenticato che Hitler credeva assai poco nell’arma nucleare; preferiva affidarsi alle V-1 / V-2 e ai caccia a reazione.

Un doppio mistero: un’indagine poliziesca, con le sue ripercussioni politiche, economiche, morali, e un’indagine nell’animo e nel subconscio di Bora. Ce ne vuoi parlare?

Come sempre nel ciclo di Martin Bora, all’indagine su un caso criminale si accompagna un’esplorazione dell’interiorità del protagonista. Ne La sinagoga degli zingari Bora, in maniera inaspettata, si ritrova a fare i conti con alcuni fantasmi del suo passato, a partire dall’ingombrante figura del suo padre naturale, tanto più presente nella sua anima quanto più è restato assente nella sua vita. E poi c’è la componente psicologica legata al durissimo assedio di Stalingrado, che progressivamente porta Bora sull’orlo della follia, mentre i suoi compagni cadono uno dopo l’altro, le condizioni climatiche si fanno sempre più proibitive, e ogni ragionevole speranza di salvezza sembra svanire grazie alle indecisioni di Paulus. Così, fuggire da Stalingrado e risolvere il doppio caso di omicidio che mesi prima gli era stato affidato, significa per Bora non solo sciogliere un mistero, ma anche e soprattutto ricostituire la sua identità psichica, ricomporre le tessere del suo mondo interiore, sopravvivere al trauma e ritrovare una ragione per andare avanti. Anche se certe ferite interiori legate a quell’esperienza allucinante non si rimargineranno mai del tutto.

In questi giorni sto leggendo in occasione de Il Giorno della Memoria, Il vescovo che disse “no” a Hitler di Gunter Beaugrand, sulla vita e il pensiero di Clemens August von Galen, come Bora nobile, cattolico, strenuo oppositore del nazismo. Hai pensato di farlo diventare un personaggio dei tuoi romanzi, magari coinvolto con Bora in qualche indagine?

Non lo escludo affatto!

Grazie, della disponibilità e per il tempo che mi hai dedicato, a rileggerti presto.

:: La sinagoga degli zingari di Ben Pastor (Sellerio 2021) a cura di Giulietta Iannone

10 gennaio 2022

La sinagoga degli zingari, (The Gipsy Synagogue 2021), edito in Italia da Sellerio e tradotto dall’inglese da Luigi Sanvito, è il tredicesimo libro di Ben Pastor che ha per protagonista l’affascinante e tormentato Martin Bora, aristocratico ufficiale dell’esercito tedesco, in forze ai servizi di controspionaggio, durante la Seconda Guerra Mondiale.

Agosto 1942-marzo 1943. Due sono i misteri al centro di questo romanzo, complesso e difficile forse ancora più dei romanzi precedenti dell’autrice: scoprire chi ha ucciso due famosi scienziati romeni, e scoprire il significato di un sogno ricorrente in cui appare la Sinagoga degli zingari, sempre sfuggente, che oltre a dare il titolo al romanzo è anche il titolo di un’opera musicale scritta dal padre di Bora.

Un doppio mistero: un’indagine poliziesca, con le sue ripercussioni politiche, economiche, morali, e un’indagine nell’animo e nel subconscio di Bora, mai come in questo libro nudo difronte al lettore.

Sullo sfondo l’assedio di Stalingrado, una delle pagine più dolorose e terribili della Seconda Guerra Mondiale, descritta da Pastor con una tale dovizia di particolari e una tale sensibilità da apparirci in tutto il suo agghiacciante orrore, tanto che Bora pure sopravvivendo ne uscirà sdoppiato, una frattura insanabile infatti avverrà nella sua anima, una frattura che gli farà prendere coscienza di essere morto anche lui con i suoi uomini in quell’inferno, e che il Bora che uscirà da Stalingrado non potrà che essere l’ombra di sé stesso, un golem, un feticcio proiettato verso l’insensatezza delle fasi finali di una guerra ormai perduta. Di un mondo ormai perso per sempre, la cui condanna è il vuoto e l’annientamento.

La sinagoga degli zingari è senz’altro il più drammatico e oscuro romanzo della serie, non solo per le pagine di guerra, ma per quello scavo nella mente devastata del protagonista, andato ben oltre ai limiti umani, tra malattia, freddo, ben oltre i trenta gradi sotto zero, la paura, la disperazione.

Tra la narrazione in terza persona e le parti in prima persona tratte dai diari e dalle lettere si compone un puzzle di straordinario nitore, un affresco che ho veduto scorrere sotto i miei occhi e mi ha ricordato l’impressione che ho avuto sfogliando Unternehmen Barbarossa im Bild: Der Russlandkrieg fotografiert von Soldaten di Paul Carell, che vi consiglio anche se è in tedesco, è una collezione di fotografie di cui ne ricordo soprattutto una in cui un soldato con la testa fasciata in una benda macchiata di sangue si accende una sigaretta. Lo regalò mio zio a mio nonno, generale in pensione, che trascorse la Seconda Guerra Mondiale prigioniero in India degli inglesi e ricordava che di tutti i suoi colleghi quelli che furono mandati sul fronte russo non fecero più ritorno.

Una pagina di storia, un ritratto psicologico e morale di indubbia intensità, che portano un nuovo tassello nella saga di Bora, e confermano Ben Pastor come uno dei più significativi e profondi scrittori di romanzi storici ambientati durante la Seconda Guerra Mondiale.

Ben Pastor, nata a Roma, docente di scienze sociali nelle università americane, ha scritto narrativa di generi diversi con particolare impegno nel poliziesco storico. Della serie di Martin Bora Sellerio ha già pubblicato Il Signore delle cento ossa (2011), Lumen (2012), Il cielo di stagno (2013), Luna bugiarda (2013), La strada per Itaca (2014), Kaputt Mundi (2015), I piccoli fuochi (2016), Il morto in piazza (2017), La notte delle stelle cadenti (2018) e La sinagoga degli zingari (2021).

Source: libro inviato dall’editore. Ringraziamo l’ufficio stampa Sellerio.

:: La sinagoga degli zingari di Ben Pastor (Sellerio 2021) esce oggi 21 ottobre

26 settembre 2021

Ecco in anteprima la copertina:

In anticipo, era prevista l’uscita il 31 ottobre, esce oggi La sinagoga degli zingari di Ben Pastor per i tipi della Sellerio, Martin Bora nell’inferno dell’assedio di Stalingrado. Ecco a voi la trama dal sito Sellerio:

Agosto 1942-marzo 1943. Martin von Bora, uomo tormentato e diviso, ufficiale tedesco dominato da un senso dell’onore che lo imprigiona, è sul fronte di Stalingrado. Riceve l’ordine dal comandante supremo, generale Paulus, di indagare, in quanto agente esperto del controspionaggio, sulla scomparsa nella steppa (incidente, assassinio?) dei coniugi romeni Nicolae Tincu e Bianca Costin, venuti in visita privata al quartier generale delle forze tedesche. L’ordine è strano sotto tutti i punti di vista, in un momento come quello; e i so-spetti si infittiscono presto, quando scopre che i due romeni sono tutt’altro che ospiti banali, ma importanti scienziati che hanno collaborato con Enrico Fermi ed Ettore Majorana. L’indagine si trascina per mesi, nel caos infernale dell’assedio. Bora trova l’aiuto, e forse la vicinanza umana, di un maggiore italiano, Amerigo Galvani, con il quale intravede nel delitto una complicata catena che lega e confonde guerra, interessi privati, spionaggio di alleati e di nemici. Ma tutto affoga in un teatro di ferocia che a Martin appare ogni giorno che passa più catastrofico e rivelatore. E lascia in lui, molto più che una delusione, un senso di nulla.
Le tante avventure del detective dell’Abwehr Martin von Bora, un aristocratico spirito d’artista chiuso dentro la divisa della Wehrmacht, un uomo giusto costretto da un perverso giuramento di fedeltà, corrono dalla Guerra di Spagna alla fine della Resistenza, e spaziano dall’Aragona all’Unione Sovietica. Romanzo dopo romanzo, vanno narrando, in chiave poliziesca, con un’esattezza che conosce gli umori dei comandanti così come le smorfie dei cecchini, la Seconda guerra mondiale, vissuta da un altro, estremamente solitario, punto di vista. Gialli con all’interno un lacerante quesito storico-morale.

:: La grande caccia di Ben Pastor (Mondadori 2020) a cura di Giulietta Iannone

23 luglio 2020

La grande cacciaLa brava e talentusosa Ben Pastor è molto conosciuta sul nostro blog specialmente per la sua serie dedicata a Martin Bora, aristocratico ufficiale dell’esercito tedesco, in forze ai servizi di controspionaggio durante la Seconda Guerra Mondiale.
Ma è anche autrice di una serie ambientata nell’Antica Roma che ha per protagonista Elio Sparziano, personaggio storico veramente esistito, militare e storico di cui sappiamo in verità ben poco, lasciando grande spazio a Ben Pastor per creare il suo personaggio.
La grande caccia è il quinto episodio della serie con Sparziano protagonista e ci porta nella Palestina del IV° secolo dopo Cristo, al tempo dei quattro co-imperatori, tra cui Galerio e Massimino Daia in Oriente, sulle tracce di un immenso tesoro.
Apparentemente infatti Sparziano viene incaricato di censire i cristiani della provincia, possibili fautori di disordini (si rifiutano ostinatamente di bruciare incenso nei templi romani, tra le loro tante eccentricità), ma in realtà la sua grande missione è appunto trovare questo grande tesoro.
E non sarà facile, innanzitutto perché è ben nascosto, poi perché in molti lo vogliono e sono pronti a tutto per ottenerlo. La sua strada infatti sarà presto costellata di morti, e fin da subito Sparziano si rende conto che salvare la pelle sarà forse il suo compito più importante e difficile.
Misteri, tesori nascosti, pericoli, intrighi, insomma l’avventura al suo meglio, in un grande affresco storico pieno di dettagli, curiosità, e scene di vita vissuta.
Ben Pastor dopo aver abbandonato per un po’ l’Europa della Seconda Guerra Mondiale, ci porta nell’Antica Roma, ricostruendo il periodo in cui si muove Sparziano con grande passione e meticolosità, come ci ha da sempre abituato.
Poi di bello c’è che tutto sembra così vivido, colorito, vitale, anche attuale per certi versi, gli splendori dell’epoca dei Cesari sta volgendo al termine, e la crisi e già nell’aria. Troppe forze contrapposte si muovono nell’ombra e sembrano minare dalle fondamenta l’Impero, non da ultimo questa “strana” religione dei seguaci di Cristo. L’editto di Costantino sarà promulgato a breve nel 313 d. C.
Elio Sparziano è un bel personaggio, un uomo del suo tempo, un militare fedele a Roma e nello stesso tempo amante della storia e delle culture e tradizioni dei popoli. Scambia una fitta corrispondenza epistolare con la madre e con una prostituta che gli racconta le sue preoccupazioni per la figlia di un suo antico amore.
La grande caccia è un romanzo lungo, ad ampio respiro, fitto di scrittura densa e storicamente documentatissima, in cui emerge un mondo perduto in cui ambizioni, avidità e sete di potere spingono le persone a compiere i peggiori eccessi.
Interessante.
(The great chase, 2019), Mondadori editore, 2020, traduzione di Luigi Sanvito.

Ben Pastor, nata a Roma, docente di scienze sociali nelle università americane, ha scritto narrativa di generi diversi con particolare impegno nel poliziesco storico con le serie di Martin Bora, di Praga e di Elio Sparziano, tradotte in molti Paesi. Della serie di Martin Bora Sellerio ha già pubblicato Il Signore delle cento ossa (2011), Lumen (2012), Il cielo di stagno (2013), Luna bugiarda (2013), La strada per Itaca (2014), Kaputt Mundi (2015), I piccoli fuochi (2016), Il morto in piazza (2017) e La notte delle stelle cadenti (2018). Premio Flaiano 2018. Della serie di Sparziano ha pubblicato Il ladro d’acqua, La Voce del fuoco, Le Vergini di Pietra, La traccia del vento, e La grande caccia.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Anna dell’Ufficio stampa Mondadori.

:: La grande caccia di Ben Pastor (Mondadori 2020)

19 Maggio 2020

La grande caccia306 d.C., anno 1059 dalla fondazione di Roma. L’imperatore Galerio decide di censire i cristiani dell’irrequieta provincia di Palestina con lo scopo di indurli a riconoscere la religione ufficiale e dà l’incarico a Elio Sparziano, fidato ufficiale di cavalleria, storico e biografo. Questo sulla carta, perché ciò che preme davvero a Galerio è mettere le mani sul leggendario tesoro dei Maccabei, nascosto in un luogo segreto circa vent’anni prima. E soprattutto, deve impedire che il tesoro cada nelle mani dell’ambizioso Costantino, pronto a succedere al trono. Mentre si diletta a “censire” anche i migliori bordelli dell’Impero, Sparziano si mette sulle tracce del prezioso bottino. Ma non è il solo: con lui Elena, madre di Costantino, donna intrigante e priva di scrupoli, disposta a tutto per promuovere l’ascesa del figlio ai vertici dell’Impero.

Città arroventate dal sole, villaggi sperduti, un marinaio ossessionato da una misteriosa creatura marina sono gli anelli di una catena in cui si snoda una frenetica caccia all’oro tra morti misteriose, inganni, passioni, speranze, fedeltà, coraggio. Essere pedina o mossiere, preda o predatore può dipendere da un battito di ciglia; è un gioco spietato in cui il premio finale non è l’oro, ma la vita stessa.

(The great chase, 2019), Mondadori editore, 2020, traduzione di Luigi Sanvito.

Ben Pastor, nata a Roma, docente di scienze sociali nelle università americane, ha scritto narrativa di generi diversi con particolare impegno nel poliziesco storico con le serie di Martin Bora, di Praga e di Elio Sparziano, tradotte in molti Paesi. Della serie di Martin Bora Sellerio ha già pubblicato Il Signore delle cento ossa (2011), Lumen (2012), Il cielo di stagno (2013), Luna bugiarda (2013), La strada per Itaca (2014), Kaputt Mundi (2015), I piccoli fuochi (2016), Il morto in piazza (2017) e La notte delle stelle cadenti (2018). Premio Flaiano 2018. Della serie di Sparziano ha pubblicato Il ladro d’acqua, La Voce del fuoco, Le Vergini di Pietra, La traccia del vento, e La grande caccia.

:: Ben Pastor torna in libreria

5 febbraio 2020

Ben PastorUn aggiornamento per i molti amici di Ben Pastor che mi chiedono notizie delle sue prossime pubblicazioni in Italia.

Allora causa emergenza Covid 19 l’uscita prevista per metà marzo per Mondadori della prossima avventura di Elio Sparziano, dal titolo “La grande caccia“, è stata posticipata al 12 maggio.

Trama e cover blindatissime, ma appena so qualcosa vi aggiorno.

Poi l’autrice sta scrivendo proprio in questi giorni il nuovo libro della serie dedicata a Martin Bora. Come ci aveva precedentemente anticipato avrà al centro il dramma militare e umano che ha coinvolto centinaia di migliaia di soldati subito prima, durante e immediatamente dopo l’epocale battaglia di Stalingrado. Tedeschi, italiani, russi, romeni, ungheresi versarono il loro sangue in Russia tra il Don e il Volga nei sei mesi dall’agosto 1942 al gennaio 1943.

Dunque sarà La sinagoga degli zingari (sempre che confermino questo titolo), il prossimo libro della serie Bora in ordine di pubblicazione. Per la trama e i tempi naturalmente è ancora prematuro. Una volta terminato sarà necessario farlo tradurre in italiano, (ricordiamo l’autrice scrive in inglese) quindi così a grandi linee se ne parlerà verso l’autunno.

Per ora è tutto, ci sentiamo presto.

:: Ben Pastor – La canzone del cavaliere (Sellerio 2019) a cura di Giulietta Iannone

5 settembre 2019

10611-3Esce oggi, 5 settembre, la nuova edizione Sellerio de “La canzone del cavaliere”, che ho avuto modo di leggere nell’edizione precedente, in cui troviamo un giovane, e ancora inesperto, Martin Bora sullo sfondo della sanguinosa guerra civile spagnola,  una sorta di battesimo del fuoco per il giovane tenente ancora idealista e non temprato dalle asperità della vita militare.
Ma già alle prese con un delitto eccellente: quello di Federico Garcìa Lorca.
Siamo nel 1937, Bora viene mandato in Spagna tra le file di Francisco Franco, ed è qui che si trova a indagare sulla morte del celebre poeta. Una morte scomoda, per molti versi, sia per i fascisti che per i repubblicani. Ma a Bora non interessa strumentalizzare l’omicidio come arma politica, lui molto più filosoficamente vuole scoprire la verità, e per quanto possibile consegnare il colpevole alla giustizia.
E in questa lotta contro il tempo si troverà un insolito alleato in Philip «Felipe» Walton, americano, maggiore delle Brigate Internazionali, anche lui impegnato, per la parte avversa, a cercare di capire cosa sia successo.
Sotto il sole rovente della Spagna, Bora farà anche un altro incontro inaspettato che influenzerà la sua vita futura, quello con Remedios, donna enigmatica e misteriosa, che almeno nei ricordi resterà sempre legata a Bora.
Come il paesaggio è una storia aspra e ruvida, che rappresenta bene la giovane età del protagonista, in cui vediamo già presente però la tenacia e l’impulsività che caratterizzeranno poi la sua età adulta. Se amate la serie di Martin Bora da non perdere. Traduzione dall’inglese di Paola Bonini. Titolo originale: The Horseman’s Song.

Ben Pastor, nata a Roma, docente di scienze sociali nelle università americane, ha scritto narrativa di generi diversi con particolare impegno nel poliziesco storico. Della serie di Martin Bora Sellerio ha già pubblicato Il Signore delle cento ossa (2011), Lumen (2012), Il cielo di stagno (2013), Luna bugiarda (2013), La strada per Itaca (2014), Kaputt Mundi (2015), I piccoli fuochi (2016), Il morto in piazza (2017) e La notte delle stelle cadenti (2018). Premio Flaiano 2018.

:: Un’intervista con Martin Bora, grazie alla gentile collaborazione di Ben Pastor a cura di Giulietta Iannone

1 gennaio 2019

gregory-peck

Se Martin Bora fosse esistito veramente…

Martin Bora benvenuto su Liberi di scrivere. È un vero piacere poterla incontrare dopo aver letto tanto di Lei nei libri di Ben Pastor. Ci parli di Lei, della sua infanzia, dei suoi studi, ci racconti qualche suo pregio e qualche suo difetto.

Grazie a Lei per l’invito a raccontarle qualcosa di me. Come sa, la mia famiglia è sassone, anche se da parte materna conto antenati scozzesi. Sono nato l’11 novembre 1913, e avendo perso mio padre Friedrich a sei mesi di età, sono stato cresciuto dal generale Sickingen, secondo marito di mia madre Nina. Avevo un fratello minore (poco più di quattro anni di differenza), Peter, poi caduto nei cieli di Russia durante il 1943. Da bambino ho frequentato con profitto dapprima le scuole cattoliche e poi il liceo classico. Dopo la maturità (Abitur), sono entrato ancora diciassettenne alla facoltà di filosofia dell’Università di Lipsia, insieme ad Heidelberg il più antico ateneo tedesco. Mi sono laureato con lode sostenendo una tesi sull’Averroismo Latino e l’Inquisizione, per poi entrare nella Scuola di Guerra di Dresda. Ho quindi frequentato la Scuola di Cavalleria ad Hannover e la Scuola di Fanteria a Dresda. Questo mi ha permesso di accedere alla prestigiosa Accademia di Guerra nella capitale, da cui, dopo un permesso ottenuto per combattere come volontario in Spagna, mi sono diplomato con onore nel 1939. Era l’educazione tipica di un ufficiale destinato allo Stato Maggiore, ma il mio interesse è sempre rimasto quello del servizio di prima linea. L’addestramento nel controspionaggio militare (Abwehr) mi ha portato poi sia all’impiego di ambasciata (Mosca) che al lavoro di ricognizione e intelligence. Parte dell’educazione in famiglia (anche per controllare gli impulsi sessuali di noi ragazzi) era lo sport. Prima fra tutti l’equitazione: con Nina e il generale a volte cavalcavamo per giorni dalla tenuta di Trakehnen a quelle dei vicini e più in là, fin oltre il confine con la Lituania. E poi nuoto, canottaggio, tennis, scalata libera e corsa di montagna (fell running), senza contare le scazzottate infantili e le lunghe gite in bicicletta. Quanto a pregi e difetti, mi risulta difficile (e Nina disapproverebbe) parlare dei miei pregi. Prima bisognerebbe identificarli, mentre i miei demeriti saltano subito agli occhi. Cominciando dai difetti, dunque, posso dire di avere un carattere rigido, spesso perentorio, a volte scostante, e di aspettarmi che gli altri si adeguino. Essendone cosciente, cerco di mitigare queste tendenze. Non accordo facilmente fiducia, e so che posso apparire introverso fino alla chiusura. Si tratta (anche) di timidezza, ma questo non mi giustifica. Severità e ambizione professionale sono qualcosa che ho dovuto imparare a posporre a principi più elevati. Sul versante dei pregi, direi che ho un forte senso della pietas (termine che non si traduce esattamente come pietà o indulgenza; è piuttosto amore per la giustizia nei confronti dei vivi, come pure dei morti). Sono – credo – coraggioso e determinato; mi definirei leale e di parola. La pazienza che mi accompagna da tempo è – per come sono andate le cose – da ascrivere sia tra i pregi che tra i difetti, dal punto di vista politico come da quello personale.

Parliamo di musica, Lei è anche un valente musicista, quali sono i suoi compositori preferiti, le musiche che ama di più ascoltare?

È vero, ho sempre amato la musica. Avendo cominciato a studiare piano a cinque anni, mi sono presentato con successo come esterno agli esami di conservatorio a Lipsia, e ho continuato a suonare fino all’incidente di guerra che nell’autunno del 1943 mi ha privato della mano destra. Pur apprezzandoli, non ho mai desiderato cimentarmi con altri strumenti. Il mio padre biologico era un famoso direttore d’orchestra e compositore. La famiglia ha mantenuto per anni un palco al Festival wagneriano di Bayreuth. Da tredicenne, grazie alla grande tradizione musicale di Lipsia, ebbi modo di ascoltare dal vivo Richard Strauss. Quattro anni dopo vennero Igor Stravinsky, il fanciullo prodigio Yehudi Menuhin, e Arturo Toscanini con la Filarmonica di New York. Naturalmente Bach, Händel e Mendelssohn facevano parte del nostro ascolto tutto l’anno.
Amo la musica classica (barocca, romantica, ma anche gli esperimenti di fine Ottocento) e operistica (Lohengrin, il Ciclo dell’Anello, L’Olandese Volante – quest’ultimo un cavallo di battaglia di Friedrich von Bora); fra gli italiani prediligo Puccini (specie il suo ultimo periodo). Non disdegno affatto la musica leggera, i ballabili, Cole Porter e certi chansonniers francesi.

Ne La notte delle stelle cadenti incontra finalmente Claus Philipp Maria Schenk Graf von Stauffenberg, avete molto in comune, ma anche molto vi divide. Che sensazioni ha provato incontrandolo e in realtà non potendo fare niente per aiutarlo?

Il colonnello conte von Stauffenberg ed io ci conoscevamo appena, prima del nostro incontro nell’estate 1944. La nostra comune passione per l’equitazione ci aveva portato ad affrontarci sportivamente nove anni prima, quando lui era già sposato con un figlio e io un ufficialetto fresco di nomina ma già, come lui, esperto cavaliere. Incontrarlo nel luglio ’44 a Berlino ci ha posto dinanzi ai nostri ideali condivisi, come pure alle nostre divergenze su come attuare un piano di resistenza. Stauffenberg era un brillante amministratore militare, in campagna come pure – dopo le gravi menomazioni subite in Nord Africa – in patria, in qualità di capo di stato maggiore dell’Esercito di Riserva. Io avevo combattuto in prima linea e come interrogatore su diversi fronti. Conoscevo fin troppo bene quelle che in inglese si definiscono sportivamente “the odds”, ovvero le possibilità di riuscita di un’impresa. In coscienza, non potevo appoggiare un piano confuso, piuttosto dilettantesco e privo di sponde politiche presso gli Alleati; un progetto che sapevo destinato a un fallimento dalle conseguenze potenzialmente disastrose. Mi sono sentito impotente sia davanti all’inflessibilità di Stauffenberg (che mi considerava già politicamente “bruciato” per i miei trascorsi diverbi con Gestapo e SS), sia davanti al suo oggettivo bisogno di un aiuto che non potevo offrire. La conversazione ha rappresentato un momento particolarmente difficile, per non dire tragico: uno dei peggiori della mia vita.

La sua famiglia è di origini aristocratiche, Lei perché ha scelto la carriera militare e non ha seguito le orme di suo padre dedicandosi a qualche attività artistica?

La duplice tradizione professionale a casa nostra era legata al servizio nei confronti dello Stato (come militari e diplomatici) e alla cultura (l’editoria, il patronato delle arti, la musica). La nonna paterna Louise Dorothea von und zu Langenstein teneva un noto salotto letterario-intellettuale a Lipsia, che includeva fra gli altri il pittore Ernst Ludwig Kirchner della scuola Die Bruecke, lo psicologo Hermann Ebbinghaus, studioso della memoria, il romanziere realista Theodor Fontane, e il linguista Karl Brugmann. Mio padre, Il Maestro, frequentava il fiore della musica a lui contemporanea. Il ramo scozzese conta soldati di grande valore, fra cui George William Robert Ashworth-Douglas, eroe di Khartoum insieme a Gordon, e James Alexander Carrick, comandante durante la Ribellione dei Sepoys e nella Seconda Guerra dell’Oppio, nonché consigliere militare dell’Esercito Confederato durante la Guerra di Secessione americana. Date le frequentazioni culturali dei miei, non ha stupito la mia scelta di studiare filosofia; forse la famiglia si aspettava che avrei rilevato a tempo debito la casa editrice dei Bora (Bora Verlag), specializzata appunto in testi di filosofia e letteratura, o che avrei amministrato le nostre proprietà, specie quelle della Prussia Orientale. In realtà avevo già deciso di abbracciare la carriera militare, per cui provavo interesse e affinità. Le arti, specialmente la musica, sarebbero state una possibile alternativa. Mi sembrava tuttavia che la Patria necessitasse di buoni ufficiali ancor più che di capaci musicisti. Esibirmi in pubblico è, fra l’altro, qualcosa in cui non mi riconosco affatto.

Martin Bora e la cucina. Lei come tedesco ha gusti alimentari piuttosto vari, non beve birra, cosa notevole, ed è un po’ difficile vedere sua madre Nina o Dikta ai fornelli. Quali sono i suoi piatti preferiti?

Non corrispondo proprio a ciò che voi italiani definireste “una buona forchetta”. Ammetto di essere piuttosto indifferente al cibo, per ragioni di professione e perché ho spesso la mente altrove mentre mangio. Ciò non vuol dire che non sappia apprezzare una buona portata. Non amo i dolci. La mia ex moglie Benedikta (Dikta) per sua stessa ammissione non è mai stata un tipo “domestico”, e per di più, da provetta cavallerizza, ha sempre badato alla dieta. A casa sua, le signore servivano solo il tè, e affidavano tutto il resto al personale. Quanto a Nina – e alla nonna materna Ashworth-Douglas –, hanno sempre supervisionato la cucina di casa, e, da buone tradizionaliste, hanno eccelso nella preparazione di conserve e di marmellate. Peter e io siamo cresciuti facendo merenda con confetture rigorosamente fatte in casa. Quanto al bere, ha ragione: la birra non mi ha mai affascinato, e neanche il sidro. Bevo vino (prediligo quelli francesi) e liquori alcolici con moderazione, tranne quando – ed è capitato – sono frustrato o gravemente preoccupato. Il mio sangue scozzese mi permette di tenere bene l’alcol (whisky, gin, cognac) mantenendo una passabile lucidità. Ma sono ben conscio di quanto i superalcolici abbassino il livello di attenzione ai dettagli, un rischio per chiunque, ma particolarmente per un soldato e un operativo del controspionaggio. Ho passato perciò diversi periodi astenendomi dall’alcol e dal fumo – e, fatalmente, anche da altri passatempi. Una lezione in autodisciplina!

Ama il suo paese non c’è dubbio, ma vi visse in un periodo molto difficile dopo l’avvento di Hitler e del nazismo. Il mondo in cui era nato e cresciuto stava cadendo a pezzi. Ha mai pensato di dedicarsi a un’opposizione attiva al regime? Quale è stato il suo rapporto con il potere?

La domanda sulla resistenza al regime hitleriano è più che legittima. Devo ammettere che da ragazzo, cresciuto nell’ambiente nazionalista e conservatore di una famiglia guidata dal mio patrigno prussiano, ho accolto con entusiasmo la rinascita della Germania dalle ceneri della Grande Guerra (avevo cinque anni alla fine di quel conflitto). La partecipazione del Generale ai Corpi Franchi durante i disordini degli Anni Venti ha fatto in modo che vedessi nel patriottismo armato l’unica risposta all’internazionalismo spartachista e di stampo sovietico. Con l’avvento del Nazionalsocialismo, e il quasi immediato potenziamento delle Forze Armate, tutti noi soldati ci siamo sentiti vendicati dopo l’ultra-punitivo Trattato di pace di Versailles, che accollava tutta la responsabilità della Grande Guerra alla Germania, e la trattava di conseguenza. Già dal 1937, tuttavia, come volontario nella legione straniera spagnola (franchista), ho cominciato a capire che sotto il nazionalsocialismo si celavano ben più che eccessi passeggeri giustificati come lotta per ristabilire l’ordine interno. Il mio lavoro nel controspionaggio estero mi ha parzialmente risparmiato ciò cui hanno assistito i colleghi della Sezione Interni. Dalla Campagna di Polonia (1939) in poi, è cominciata la mia resistenza attiva, con la denuncia all’Ufficio Crimini di Guerra dei delitti perpetrati da Gestapo e SS, ma anche dall’esercito tedesco, di cui venivo a conoscenza. Ho anche rifiutato di obbedire ad ordini palesemente contrari all’etica, al buon costume militare e alle leggi internazionali promulgate a Ginevra. Questo non comportava un rischio oggettivo per la mia carriera e anche per la vita? Certo. Sapevo che ne avrei pagato il prezzo, ma lo consideravo poca cosa confronto ai crimini commessi da troppi dei miei connazionali. Ho sempre privilegiato l’opposizione quotidiana e capillare al gesto eclatante, attenendomi al detto latino secondo cui la goccia scava la pietra.

Il 6 agosto del 1945 alle 8:15 l’aeronautica militare statunitense sganciò l’atomica su Hiroshima e tre giorni dopo su Nagasaki, causando un numero di vittime, esclusivamente civili, stimato tra le cento e le duecento mila. Dove era, cosa faceva quando successe? Quali sono stati i suoi primi pensieri quando ne è venuto a conoscenza?

In tutta sincerità, ho avvertito un forte sentimento di orrore e di rabbia. L’idea di sperimentare una nuova arma dagli effetti apocalittici su una popolazione inerme (compresi non pochi prigionieri di guerra americani!), era quanto di più lontano ci fosse dalla mia coscienza morale. E il fatto che a suo tempo i miei connazionali si fossero macchiati non di rado della stessa colpa, non attenua le responsabilità di chi ha fatto decollare l’Enola Gay e il suo gemello.

Martin Bora e le donne. Oltre a Dikta c’è stato spazio per un’altra donna? Come è la sua donna ideale? E quanto Remedios ha significato nella costruzione del suo ideale?

Come lei sa, Dikta non è stata la mia prima donna, né io il suo primo uomo. Eravamo indifferenti a tali pregiudizi borghesi. Ci frequentavamo intimamente nonostante e forse anche a causa della feroce opposizione che il Generale (molto più di Nina) faceva al nostro idillio. All’epoca lei aveva vent’anni, e io quasi ventitré. Siamo rimasti sposati dal 1941 fino all’annullamento (non per mia richiesta) del nostro matrimonio, ai primi del 1944. È un argomento doloroso di cui forse ho già parlato troppo altrove, e su cui mi è ancora difficile soffermarmi. Le mie prime esperienze amorose sono state in Italia, e ne serbo un grato ricordo. All’università ho avuto qualche avventuretta con compagne di studi disinibite o con signore che frequentavano Nina o le mie zie. In Spagna, però, il termine di paragone è stato apposto da Remedios, la giovane strega di Mas del Aire. Prima di lei ero un ragazzino cattolico che, essendo entrato nell’esercito, si considerava se non esperto almeno emancipato. Dopo Remedios, che dire? Mi ha reso l’uomo che sono, e l’amante che sono. Il complimento più alto che posso farle è che penserò a lei nel momento della mia morte. Dopo la fine del rapporto con Dikta, non mi sono mai del tutto ripreso emotivamente. Non ho un carattere facile, e certo ho le mie colpe (fra cui le assenze prolungate da casa, che tradizionalmente i militari di carriera si aspettano di poter infliggere alle mogli). In seguito ho preso comunque delle solenni sbandate, per Nora Murphy, moglie di un diplomatico americano a Roma, come per Anna Maria (Annie) Tedesco sul lago di Garda. Ce ne sono state altre, ma – come insegna Garcia Lorca nel suo poema “La sposa infedele,” – Non dirò, da vero uomo, le cose che mi disse. Posso aggiungere che per me, tranne nel caso di Dikta, le donne in qualche modo inaccessibili hanno rivestito sempre più fascino di quanto esprimesse la loro disponibilità. Solo una volta sono arrivato vicino al rifiuto, da parte di Nora Murphy. Spesso per scelta – e durante il mio matrimonio per fedeltà – ho rinunciato a diverse possibili avventure galanti. La mia donna ideale è proprio ciò che il termine indica. Appartiene al mondo delle idee, e come tale, probabilmente non esiste nella realtà. Forse è un errore da parte mia sperare di incontrarla. Direi che fino ai trent’anni circa ho cercato meramente una compagna di letto e di interessi. La mia definizione di amore? Dedizione, fedeltà. Mi rendo conto che dovrei imparare a mostrare apertamente l’affetto, come faceva mio fratello Peter, ma mi riesce davvero difficile.

Le sarebbe piaciuto avere figli? Lasciare una parte di sé in questo mondo anche quando non ci sarà più?

Quanto ai figli, ho attraversato periodi in cui riprodurmi sembrava l’unico modo di giustificare la precarietà della mia esistenza di soldato in guerra. Probabilmente era il modo sbagliato di desiderare la paternità, e forse anche egoistico. Dopo la scelta ripetuta di abortire da parte di Dikta, ho cominciato a pensare che il mondo in cui mi muovevo non fosse comunque adatto a una nuova vita. Allora ho desiderato di essere completamente privo di legami e di responsabilità che non riguardassero direttamente la Patria e mia madre Nina. Le morti tragiche in famiglia (il bisnonno, il prozio, due zii, il mio unico e amatissimo fratello), come pure il mio grave ferimento, mi hanno riconciliato con l’idea di vivere giorno per giorno. Ho cominciato a dirmi: “Se i figli verranno, bene. Altrimenti, i Bora finiscono qui, e cercherò di farli finire onorevolmente”. Non mi sono mai visto attorniato dai nipoti – ma dopotutto non immaginavo nemmeno di sopravvivere all’inferno di Stalingrado, eppure è successo…

Lei ha avuto un’educazione cattolica, per attitudine e formazione ha vissuto seriamente anche questa sua dimensione religiosa, rispettando riti e credi. Ma ora c’è più amarezza nelle sue riflessioni, come vive il rapporto con Dio?

Sono cresciuto in una famiglia di cattolici osservanti, in una Sassonia dove meno del 20% della popolazione era fedele a Roma. Inoltre, e paradossalmente, i Bora discendono dalla ex suora Katharina von Bora, moglie del grande riformatore Martin Lutero. Hanno attraversato lunghi periodi di persecuzione durante le Guerre di Religione, quando adottarono il motto paolino Fidem Servavi: ho mantenuto la fede. I miei antenati ospitarono segretamente sacerdoti quando a Lipsia non esistevano più chiese cattoliche in cui celebrare la Messa. Sono stato educato nella fedeltà al Papa, e ho avuto fin da bambino maestri spirituali e confessori degli ordini gesuita ed agostiniano. Tutto ciò che si dice riguardo l’educazione cattolica – sensi di colpa, frustrazione sessuale, ansia di redenzione – è tristemente vero e ha fatto parte della mia giovinezza. Non che non abbia tralignato od opposto forti riserve filosofiche nei confronti della Chiesa, ma in fondo sono sempre restato un credente e un cattolico, sia pure “non allineato” e con qualche sfumatura protestante. Quanto alla figura di Dio, quello che noi tedeschi chiamiamo Herr Gott, da laureato in filosofia ho difficoltà a ridurla ad una dimensione contabile e fiscale. Ho sempre sperato e spero ancora che, quali che siano le mie apparenze, Lui mi legga nel cuore.

Rischierebbe la vita per salvare un amico? È già successo che l’abbia fatto?

Quando si combatte in prima linea, o anche in avanscoperta, si è frequentemente sotto il tiro nemico. Capita che un collega, un tuo soldato, o anche un superiore, ti salvi la vita, o che accada il contrario. Nella concitazione del momento non ci si fa praticamente caso. Dopo, si è grati sia quando siamo stati noi a scamparla, sia quando abbiamo aiutato un fratello combattente a evitare la morte. Questa interdipendenza ci lega in modo indissolubile gli uni agli altri; nessuna amicizia, e direi quasi nessun tipo di amore, è come questa cieca fiducia. Nel Vangelo di Giovanni si legge, Maiorem hac dilectionem nemo habet… Non c’è amore più grande di quello che ci fa offrire la nostra vita per la salvezza del prossimo. Nello specifico, mi sento solo di ricordare due episodi di quanto altri hanno fatto per me: in Spagna il sergente Indalecio Fuentes mi ha salvato la pelle quando ero un tenentino irruento e scapestrato, mentre a Roma furono i buoni uffici del controverso Feldmaresciallo Kesselring (già sotto il comando del mio patrigno nel 1914) a evitarmi la fucilazione da parte della Gestapo di Herbert Kappler.

Va mai al cinema, a teatro? C’è un’attrice, una cantante di cabaret di cui è ammiratore?

Da ragazzino frequentavo il cinema ogniqualvolta i miei me lo permettevano (e a volte anche senza il loro permesso). Il mio liberalissimo zio Reinhardt-Thoma mi portò a vedere con mia gioia e terrore Il gabinetto del dottor Caligari nel 1920, e Nosferatu nel 1922. Avevo poco più di dodici anni quando La corazzata Potemkin giunse nei cinema di Lipsia, e da adolescente ho cominciato a frequentare anche il teatro. Durante le vacanze romane, la mia madrina Donna Maria Ascanio chiudeva un occhio sulle mie scappatelle; nonostante fossi bambino, cominciai presto a intrufolarmi nei varietà, anche quando lo spettacolo non era adatto ai minori. Un esempio? Si vede tutto del 1929. Contavo sul fatto di essere straniero, avere qualche soldo per il biglietto, e di essere già alto un metro e settanta a tredici anni. Fra le mie attrici e cantanti preferite in quegli anni spiccavano Marlene Dietrich (ero diciottenne quando me ne innamorai vedendola come la perversa Lola Lola ne L’Angelo Azzurro), e in Italia Anna Fougez e Milly. Negli ultimi tempi ho apprezzato molto certo cinema russo, da Mikhalkov a Konchalovskij, da Sokurov ad Aleksej German junior, autore quest’ultimo di uno dei film più intensi e intelligenti sulla sciagurata operazione Barbarossa – Poslednij Poezd (2003) -, una pellicola purtroppo quasi introvabile.

Martin Bora legge? Quali sono i suoi libri preferiti?

Sono sempre stato un forte lettore. In tutte le case in cui la mia famiglia risiedeva in vari periodi dell’anno (Lipsia, Borna, Trakehnen) c’erano fornitissime biblioteche. Con una tradizione centenaria di editoria in famiglia, leggere per noi era come respirare. Fin da piccolo leggevo in ogni momento libero, e anche di notte. Essendo stato educato in tre lingue, ho avuto fin da subito il privilegio di poter conoscere i grandi autori tedeschi, inglesi, americani e francesi nell’originale. Quando ho aggiunto per ragioni personali e di lavoro l’italiano, lo spagnolo e il russo, ho allargato ulteriormente l’ambito delle mie letture. A Roma da piccolo mi piacevano i romanzi d’avventura di Salgari e di Motta, a cui di volta in volta ho aggiunto i classici, ma anche saggi e romanzi contemporanei. Tra i miei favoriti personali sono Moby Dick di Melville, Cuore di Tenebra di Conrad, e La signora di Wiechert. Ho conosciuto personalmente ed ho letto i lavori di Ernst Jünger e Martin Heidegger, di cui ho seguito alcuni corsi sui presocratici. Per chi ha avuto la bontà di seguire le mie indagini in tempo di guerra, non sarà una novità che nel ’37, in Spagna, ho imparato ad apprezzare la poesia e il teatro di Federico Garcia Lorca. Sul fronte russo ho letto Il placido Don e riletto L’Armata a cavallo, senza però abbandonare la filosofia greca, Goethe e Hölderlin. Perfino durante la difesa di Lipsia contro gli americani nella primavera del ’45, passando di corsa da casa dei miei, ho afferrato un paio di libri, che però non ho avuto tempo di finire.

Infine per concludere, nel ringraziarla della sua disponibilità, mi piacerebbe chiederle un’ultima cosa: può dirci qualcosa della sua prossima indagine, successiva a La notte delle stelle cadenti?

Sono io che ringrazio Lei per le sue domande attente e puntuali. Perdoni se mi sono dilungato nel rispondere, ma sono pur sempre tedesco e un po’ grafomane. Quanto alle mie investigazioni, cronologicamente dopo i fatti di Berlino e del fallito attentato del luglio ’44 (illustrati ne La notte delle stelle cadenti), viene il resoconto della mia permanenza sul Lago di Garda (La Venere di Salò). Credo però che, prima di narrare la fine della mia guerra a Lipsia nella primavera del ’45, sia giunto il momento di dare spazio al dramma militare e umano che ha coinvolto centinaia di migliaia di noi subito prima, durante e immediatamente dopo l’epocale battaglia di Stalingrado. Tedeschi, italiani, russi, romeni, ungheresi versarono il loro sangue tra il Don e il Volga nei sei mesi dall’agosto 1942 al gennaio 1943. Altrove ho già accennato alla mia esperienza a Stalingrado, ma in proposito ho ancora molte cose da dire. Quindi sarà questo, ovvero La sinagoga degli zingari, il prossimo libro in ordine di pubblicazione, quantomeno in Italia.

:: Un’ intervista con Ben Pastor, autrice de “La notte delle stelle cadenti” a cura di Giulietta Iannone

30 ottobre 2018

9294-3Bentornata Ben su Liberi di Scrivere e grazie di aver accettato questa nuova intervista. Sei in Italia per un tour letterario che toccherà diverse città. Quante tappe ancora mancano? Puoi raccontare ai nostri lettori come si svolgeranno gli incontri: ci sono attori che leggeranno stralci del tuo libro?, domande dirette del pubblico in sala?, firmacopie?, spazi in cui sarà possibile vedere foto o filmati d’epoca?

R. In effetti sono impegnata in un tour promozionale piuttosto articolato: Milano, Torino, Novara, Firenze, Bologna, Piacenza, Roma, Pescara etc. Sarò su e giù per l’Italia fino ad almeno metà dicembre. Ecco le prossime date:
7 novembre VERONA (Feltrinelli h. 18)
8 novembre BOLOGNA Libreria Coop Zanichelli h.18
16 novembre BERGAMO (Ponte Ranica, biblioteca comunale, rassegna Sellerio h. 20:45)
17 novembre MILANO Bookcity h. 17
18 novembre PIACENZA Palazzo Farnese Festival Profondo Giallo – h. 16:00
23 novembre VOGHERA – Festival Le forme dell’anima h 18
30 novembre PESCARA (Premio Flaiano)
8/9 dicembre ROMA (Più libri più liberi)
I luoghi delle presentazioni sono tra i più vari: librerie, biblioteche, fondazioni, circoli privati (ma aperti al pubblico) e persino un castello medievale. Quel che maggiormente mi piace è l’interplay coi lettori. Se appena posso, mi fermo a chiacchierare con gli astanti mentre firmo copie, e rimango sempre colpita dall’affetto inossidabile che dimostrano nei confronti dei miei personaggi. Ormai ci sono parecchi lettori (e lettrici) che su Martin Bora praticamente ne sanno più di me!

I tuoi romanzi, mi riferisco alla serie legata al personaggio di Martin Bora che conosco, sono opere molto particolari, da alcuni critici addirittura definite vicine al postmodernismo, sicuramente sperimentali per struttura narrativa, per circolarità (non andando in senso cronologico hai modo di utilizzare il tempo come un ulteriore personaggio), per il lavoro di ricerca nel confronto delle fonti più simile a quello dello storico che del romanziere, per la scrittura alta, letteraria, tridimensionale, polifonica, sebbene il personaggio di Bora predomini tra le tante voci. Di lui conosciamo i pensieri, gli scritti del diario, e lo vediamo dall’esterno filtrato da una narrazione in terza persona. Tutta questa complessità come si armonizza con l’apparente semplicità, freschezza, spontaneità che le tue storie trasmettono? In sintesi, come fai?

R. Come dico di frequente, confido nel “brodo primordiale”. I miei romanzi nascono spesso da un’immagine, una sensazione, o persino da un dialogo immaginario. Tutto apparentemente caotico. Ma poi questa materia magmatica inizia lentamente a ruotare, a raffreddarsi, a solidificarsi. Così, comincio a scorgere la statua nella pietra. Il resto, per citare Edison, è 10% ispirazione e 90% traspirazione, cioè un duro lavoro di ricerca, documentazione e ripetuta stesura. E se essere postmoderni significa abbattere steccati di genere che ormai non hanno più senso, perseguendo una contaminazione narrativa che però non sia gratuita e badi anche alla qualità stilistica, allora sì, sono postmoderna. Quanto al mio rifiutare l’ordine cronologico, è perché non credo nella linearità del tempo, tanto più che, per citare Freud, nell’interiorità dell’essere umano il tempo non esiste.

Sempre tornando alla documentazione, al lavoro di confronto delle fonti, ti sei mai trovata davanti a  fatti o circostanze, importanti per l’economia del tuo romanzo, narrate o interpretate in modo contrapposto o antitetico da testimoni d’epoca, storici, scrittori. Come ti sei regolata?

R. La contradditorietà delle fonti è un fenomeno piuttosto frequente nella ricerca storica. Naturalmente è necessario un forte senso critico per vagliare e valutare qualunque informazione; tuttavia occorre anche una certa dose di quel quid impalpabile che si chiama “fiuto”. Talvolta anche le fonti più accreditate e in apparenza super partes nascondono reticenze e manipolazioni dei fatti di cui bisogna tener conto. Dopo qualche decennio di pratica storiografica (come nel mio caso), non è però difficile intuire dove la fonte voglia andare davvero a parare, e regolarsi di conseguenza.

È uscito il 4 ottobre, La notte delle stelle cadenti, il tuo ultimo libro, un libro bellissimo che ho avuto modo di leggere e che mi ha fatto venire voglia di ricominciare la serie da La canzone del cavaliere. Cosa ti ha ispirato a scriverlo?, quale è stato il lampo creativo che ti ha portato a volere far incontrare Martin Bora e Claus von Stauffenberg, capo della cosiddetta “Operazione Valchiria”?

R. Be’, è presto detto. Dopo quasi un ventennio di vita editoriale del personaggio (Lumen uscì per la prima volta negli Stati Uniti nel 1999), era giunto il momento che la fonte primaria di ispirazione per Martin Bora incontrasse il suo alter ego finzionale. Certo, nel romanzo Bora e Stauffenberg, pur rispettandosi, non vanno poi molto d’accordo, ma ritengo che questo dissidio fosse assolutamente necessario. Prima o poi bisogna dire addio ai propri maestri e incamminarsi sulla strada di una piena autonomia esistenziale, pur non dimenticandosi delle lezioni che questi ci hanno impartito.

Bora e Claus von Stauffenberg si incontrano (accenni a un precedente incontro a una gara ippica) un’unica volta nel romanzo, per pochi minuti. Bora vuole conferme e Claus von Stauffenberg anche (di non essere tradito). Bora non crede all’utilità di questo colpo di stato. Né pensa che abbia grandi possibilità di andare a buon fine. Come sei arrivata a far pensare questo al tuo personaggio? Una pace separata con gli Alleati non avrebbe potuto anche solo evitare l’invasione della Germania, e quindi altre morti e dolore per il popolo tedesco? Bora pensa che gli Alleati non avrebbero mai accettato, anche morto Hitler, per una colpa ormai collettiva, slegata dalla follia del Cancelliere del Reich?

R. Temo (e Martin Bora con me, oltre a parecchi storici) che la congiura del 20 luglio non avrebbe mai potuto avere successo. Questo per svariati motivi. Cito i principali: i congiurati erano divisi tra loro sulle prospettive future; non esisteva alcuna sponda politica presso gli Alleati; quest’ultimi non avevano alcun interesse ad accordarsi con un eventuale governo post-nazista (ormai era questione di qualche mese per vincere la guerra); non pochi dei cospiratori avevano fatto carriera grazie al regime hitleriano, sicché il loro tardivo risveglio anti-dittatoriale era scarsamente credibile. No, era davvero troppo tardi per tutto, sotto ogni punto di vista. Sicuramente resta l’esempio morale di Stauffenberg e compagni, ma tale esempio, purtroppo, non è servito assolutamente a nulla sul piano storico e politico.

Siamo nel luglio del 1944. Bora, lasciato il fronte italiano, è a Berlino, una città di macerie non solo fisiche ma anche morali, una città devastata dai bombardamenti alleati, dagli incendi frequenti che ne seguono, dalla penuria di beni e prodotti di prima necessità. Quando anche solo un pezzo di sapone diventa un bene di lusso. Come ti sei documentata per ricrearla? Hai visto anche documentari o film d’epoca come Germania Anno Zero di Rossellini?

R. Non sono andata a Berlino (città che peraltro conosco piuttosto bene), perché ormai non è rimasto praticamente nulla che risalga a quel periodo. Dopo un bel po’ di ricerche presso archivi e librerie specializzate, mi sono avvalsa di cartine topografiche risalenti all’estate del 1944, cercando di capire con la massima precisione cosa era ancora in piedi e cosa no, cosa funzionava ancora e cosa no. Ho sfruttato anche le cognizioni di alcuni storici della città, che ho doverosamente citato nei ringraziamenti. Devo però ammettere che è stato tutt’altro che facile. Sono occorsi mesi di lavoro per ricreare quella Berlino con la dovuta esattezza storica e documentaria.

L’amore in tempo di guerra ha valenze sue proprie: la precarietà della vita la si tocca con mano, come la provvisorietà, l’incertezza, la paura, i disagi, e tutto ciò fa sì che ci si aggrappi anche a persone incontrate per caso, che non si conoscono neanche bene. Penso al legame tra Bora e Emmy Pletsch e al loro folle progetto, che solo le circostanze renderà impossibile da realizzare. Bora ancora soffre per l’abbandono della moglie e vuole disperatamente ritornare ad amare, anche se alla fine bolla il tutto come un atto di egoismo maschile. Che importanza ha nell’economia del romanzo questa avventura?

R. Un’importanza fondamentale. Il mondo in cui Bora è nato e cresciuto sta cadendo a pezzi; il suo disgusto nei confronti del nazismo ha ormai toccato l’apice; i suoi principi morali sembrano non interessare più a nessuno; la sua fede nel cattolicesimo è vicina al grado zero. Date queste premesse, in lui si è fatalmente insinuato un istinto di morte; un fantasma nichilista che gli suggerisce che forse la soluzione migliore è farla finita una volta per tutte. Saranno proprio sua madre e la giovane Emmy Pletsch a trattenerlo da questo lato della barricata, dandogli almeno un barlume di speranza. In parole molto semplici, quando tutto ti crolla addosso l’unica ancora a cui puoi aggrapparti è l’affetto che gli altri provano per te.

Una domanda che ho sempre voluto farti è: perché scrivi questi romanzi in inglese? Hai un traduttore in italiano fantastico (Luigi Sanvito), ma non hai mai avuto la tentazione di scrivere una storia di Bora nella tua lingua madre?

R. Dopo oltre trentacinque anni di quotidianità negli Stati Uniti, la mia vera lingua madre è l’inglese, che oltretutto preferisco stilisticamente all’italiano. Detto questo, non mi auto-traduco per un motivo molto importante. È che mi conosco: se lo facessi, fatalmente mi metterei a riscrivere il romanzo, immergendomi in un mare di dubbi, incertezze e ripensamenti: questo passaggio funziona bene in inglese, ma in italiano lascia a desiderare… questo capitolo mi piace in inglese, ma mi sembra zoppicare in italiano… questa frase in inglese suona benissimo, ma in italiano la devo spezzare almeno in due… e così via. Il risultato sarebbe un romanzo diverso rispetto alla versione inglese, forse nel bene ma più probabilmente nel male. E poi i tempi di consegna all’editore si allungherebbero a dismisura! Ho ottimi traduttori non solo in italiano ma anche in altre lingue. Mi fido di loro, del loro sguardo esterno, della loro capacità di calare il mio inglese in un’altra lingua assai meglio di come potrei fare io, riducendo ai minimi termini (l’inevitabile) tasso di “tradimento” rispetto al dettato e allo spirito originali.

Ci sono progetti cinematografici all’orizzonte?

R. Allo stato attuale c’è un certo interesse in Paesi non italiani (Gran Bretagna, Stati Uniti e Canada). Parlo soprattutto della possibilità di una miniserie televisiva. All’estero, il fatto che Martin Bora sia un’antinazista che però milita fedelmente nell’esercito del Reich non desta alcun problema. In Italia, per motivi di ordine storico e culturale, ci sono ancora molte resistenze ad eleggere ad “eroe” un ufficiale della Wehrmacht. Il fatto è che il mio Martin Bora è… come dire… caratterialmente piuttosto lontano da Don Matteo, come pure da quel cinema “ombelicale” e campanilistico – senza offesa per nessuno – che sembra piacere in sommo grado ai produttori della Penisola.

Un’ultima domanda, ringraziandoti della tua disponibilità: stai scrivendo un nuovo romanzo con Martin Bora protagonsita? o anche solo puoi farci qualche anticipazione, in esclusiva, almeno sul periodo in cui si svolgerà?

R. Sì, ho iniziato la stesura di un nuovo romanzo con Bora. Il titolo provvisorio è “La sinagoga degli zingari” e l’azione si svolge nel 1942 sul fronte del Don, non lontano da Stalingrado. La storia è divisa in tre parti, con quella centrale situata durante l’assedio della città e un epilogo collocato qualche mese più tardi in territorio non sovietico. Accanto all’intreccio giallo e alle dinamiche del mondo privato di Bora (la madre, il patrigno, la moglie che non l’ha ancora lasciato), largo spazio verrà riservato ai rapporti problematici tra i principali “attori” presenti su quel fronte: tedeschi, italiani e romeni. Scherzando, potrei dire che per qualche verso si tratterà di un romanzo… multietnico!

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Recensione de “La notte delle stelle cadenti”

:: La notte delle stelle cadenti di Ben Pastor (Sellerio 2018) a cura di Giulietta Iannone

21 ottobre 2018

9294-3Berlino, luglio del 1944.
Martin Bora lascia il fronte italiano, e i suoi uomini, per l’ ingrato compito di partecipare al funerale di uno zio, da lui molto amato in gioventù, importante medico contrario alle pratiche naziste di eugenetica e eutanasia, suicidatosi, in modo non troppo volontario, con un’ iniezione letale di morfina. La tristezza del lutto è un po’ stemperata dall’ incontro con sua madre, Nina, anche lei a Berlino per le esequie, ma quello che lo tormenta ancora, e a cui non riesce a rassegnarsi, è l’abbandono dalla moglie Dikta, (l’unica donna che abbia davvero amato) stanca della guerra e di avere un marito sempre lontano e in pericolo di vita. Mentre Bora pensa a come ritornare al fronte succede un fatto imprevisto: il capo della Kripo, la polizia criminale di Berlino, Arthur Nobe, lo manda a chiamare e lo incarica di indagare sulla morte di un presunto veggente, illusionista e ipnotizzatore ammanicato col vertice del Terzo Reich.
Non potendosi certo rifiutare, accetta, e intanto si domanda perché abbiano scelto proprio lui, e perché la vittima è così importante da meritare un’ indagine di un membro addirittura dell’esercito e non della polizia comune. Il capo della Kripo non gli dà spiegazioni e intanto lo affianca con un losco aiutante Florian Grimm, un picchiatore della prima ora, che più che aiutarlo nelle indagini sembra sorvegli ogni sua mossa. La comparsa di una lettera compromettente, e tanti piccoli tasselli che finalmente hanno un senso, portano Bora a capire che c’è ben altro che cova sotto le ceneri di Berlino, martoriata dai bombardamenti. L’incontro con Claus von Stauffenberg, in una afosa stanza di una casa privata, gli confermerà infine che tutte le sue peggiori supposizioni hanno reale fondamento. Uscire vivo da Berlino diventerà per lui una vera e propria scommessa col destino.
La notte delle stelle cadenti, (The Night of the Shooting Stars, 2018), edito da Sellerio e tradotto dall’ inglese da Luigi Sanvito, è il dodicesimo libro di Ben Pastor che ha per protagonista Martin Bora, aristocratico ufficiale dell’esercito tedesco, in forze ai servizi di controspionaggio.
La particolarità dei sui mystery investigativi è il fatto che ci presenta una rivisitazione, storiograficamente ineccepibile, dei fatti salienti che caratterizzarono il Secondo Conflitto Mondiale, per molti versi ancora oscuri o controversi. Si appropria insomma del lavoro dello storico, nel lungo processo di elaborazione del testo, confrontando memorie, lettere, biografie, atlanti, mappe, saggi di diversa provenienza e argomento, a volte contenenti anche tesi o testimonianze contrapposte. E il lavoro dello storico è proprio quella di scegliere la via più probabile, più coerente con tutti i fatti, gli umori e il materiale raccolti (armonizzandola inoltre con il tessuto narrativo senza apparire didattica o peggio forzata). Insomma un passo oltre al semplice mystery storico dove è la fantasia dell’autore a prevalere.
Altra componente rilevante è l’approfondita analisi psicologica e la complessità umana dei personaggi, soprattutto di Bora di cui conosciamo i pensieri, il diario, e i fatti salienti della sua vita narrati in terza persona. E attraverso di lui conosciamo la Germania di allora, la vita comune, i dettagli più minimi, e a volte sordidi, di una quotidianità spesso drammatica e precaria.

Berlin in 1945 1

In La notte delle stelle cadenti è infatti Berlino al centro della scena, con i suoi quartieri bombardati, l’odore dell’aria, il suo sentore di fuliggine e intonaco sbriciolato; gli alberghi, i caffè, i ristoranti, i locali notturni un tempo eleganti, che sopravvivono a fatica, tra mille difficoltà, ormai solo l’ombra dello sfarzo di un tempo. La penuria di generi alimentari, il surrogato a posto del caffè, le ricche signore che rubano una saponetta in un albergo per farsene dare una seconda dal consierge. La mancanza di sicurezza, la paura, la rassegnazione. Le ragazze malvestite in una città dove è già difficile lavarsi, dormire, respirare, accanto alle mantenute, le sole che possono permettersi un paio di calze di seta, un profumo, un cappello di sartoria.
Il non potersi fidare di nessuno, perché spie e delatori possono essere nascosti in ogni angolo, tra informatori della Gestapo, e picchiatori di ogni risma.

claus

La storia è nota e Claus Philipp Maria Schenk Graf von Stauffenberg, personaggio storico veramente esistito, è forse uno dei congiurati più famosi tra coloro che attentarono alla vita di Hitler, nel luglio del 1944. Ed è anche uno dei personaggi più significativi de “La notte delle stelle cadenti“. Ad un certo punto Martin Bora e Stauffenberg si incontrano, non vi dico cosa succede nel dettaglio, ma insomma si confrontano a tu per tu. Se pensiamo che Ben Pastor si ispirò proprio a Stauffenberg per creare il suo personaggio, è dunque come assistere a uno sdoppiamento, stile cortocircuito temporale: personaggio storico e narrativo nella stessa stanza. Straniante.
La peculiarità dell’autrice è dare luce ai particolari minimi, a un accendino, a un granello di polvere, a un raggio di sole, senza sprecare parole, in un’ economia narrativa affascinante e coinvolgente.
Lo stile è colto, alto, letterario, pieno di riferimenti non solo storici ma filosofici, poetici, morali.
L’attenzione alla spiritualità di Bora, sofferta e autentica, travalica l’assunto personale, per proiettare le difficoltà e l’angoscia esistenziale di tutti coloro che dovettero fare i conti con la propria coscienza e l’adeguamento ai dettami nazisti. E questo stridente contrasto illumina la già complessa peculiarità che Martin Bora racchiude. La consapevolezza che tutto è perduto, che una uscita onorevole dalla scena è impensabile, come è impensabile ormai, dopo i milioni di morti, il perdono di Dio. Quest’ ultimo dubbio, quest’ ultimo tormento emerge prepotente durante l’incontro con Stauffenberg che a contrario di lui sente ancora la necessità di fare qualcosa, di agire, di porsi contro se non con reali possibilità di successo, almeno per la Storia, o per l’aldilà.
Inoltre l’autrice si occupa anche della sfera come dire sentimentale e sessuale del protagonista, per cui l’abbandono della moglie pesa come una condanna insostenibile, pur vendendola con tutti i sui limiti e difetti. L’incontro con una ragazza, il cui compagno giace in coma in un sanatorio, diventa un’ aggrapparsi alla vita e all’amore, così diverso in tempo di guerra. Anche qui l’attenzione psicologica è massima, e una certa tenerezza emerge pur in un uomo non portato a provarla, fino a un disperato patto che i due amanti suggellano, non ve lo anticipo, ma lo troverete anche voi disperato e struggente. E soprattutto impossibile. In un lampo di autocoscienza successiva Bora realizzerà che era frutto solo di disperazione e egoismo maschile.
Martin Bora comunque resta un investigatore abile e interessato solo alla verità, scoprire chi è l’assassino del veggente non gli passerà di mente, seppure la Storia, con il suo respiro irrevocabile, supera la sua visione contingente.
Alla fine sapremo il destino di ogni personaggio, forse non è quello che vorremmo per loro, ma niente molte volte nella vita lo è.

Ben Pastor, nata a Roma, docente di scienze sociali nelle università americane, ha scritto narrativa di generi diversi con particolare impegno nel poliziesco storico. Della serie di Martin Bora Sellerio ha già pubblicato Il Signore delle cento ossa (2011), Lumen (2012), Il cielo di stagno (2013), Luna bugiarda (2013), La strada per Itaca (2014), Kaputt Mundi (2015) I piccoli fuochi (2016),  Il morto in piazza (2017), La notte delle stelle cadenti (2018).

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo l’Ufficio Stampa Sellerio e l’autrice.

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Il morto in piazza

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Il carteggio segreto tra Benito Mussolini e Winston Churchill durante la Seconda Guerra Mondiale è al centro di Il morto in piazza (The Dead in the Square, 2004) di Ben Pastor edito originariamente in Italia nel 2005 per Hobby & Work, e nel 2017 riproposto nella nuova traduzione di Luigi Sanvito per Sellerio.
Cronologicamente, almeno per i fatti trattati, segue Kaputt Mundi di cui parlai alcuni anni fa, spero di poter recensire tutta la serie, ed è il quinto romanzo in ordine di scrittura dedicato a Martin Bora, ufficiale dell’esercito tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale.
Tornando al carteggio è uno dei misteri più ben dissimulati, tra depistaggi, false dichiarazioni e cortine di reticenza, del secondo conflitto mondiale, tanto che per alcuni storici non sarebbe in realtà mai esistito. Ne Il morto in piazza, troviamo Martin Bora incaricato di recuperarlo, dalle mani di un confinato, l’avvocato Luigi Borgonovo, e possibilmente distruggerlo, essendo il contenuto una spina nel fianco per molti alti ufficiali tedeschi, e per l’Italia, poiché se si dimostrasse un possibile “tradimento” di Mussolini e un suo tentativo di alleanza con gli inglesi, rischierebbe rappresaglie e ritorsioni senza fine.
Ma naturalmente Martin Bora non sarà solo occupato in questa delicata missione di intelligence, dal pittoresco nome in codice di Elster – gazza ladra –, durante il suo soggiorno a Faracruci, piccolo paesino (immaginario) dell’ Abruzzo, alle pendici del Gran Sasso, si troverà anche ad indagare su due morti, una avvenuta nel passato e una recente, avvenuta al suo arrivo, trovandosi come inaspettato alleato e aiutante nelle indagini proprio Borgonovo, con cui inizierà una inattesa quanto impossibile amicizia.
Il morto in piazza è un romanzo dolente, forse minore rispetto alla produzione dell’autrice italoamericana, meno ricco di azione se vogliamo. Tutto si svolge nel microcosmo rarefatto di un paesino abruzzese abitato da povera gente, perlopiù contadini. E’ una tappa di passaggio per Bora. Abbandonata in tutta fretta Roma, siamo nell’estate del 1944, e diretto a Bolsena, per prendere il comando del 960mo Reggimento Granatieri, si trova inaspettatamente rallentato da questa missione segreta da cui dipende la vita di innumerevoli persone, sia tedesche che italiane.
Bora è perfettamente conscio di ciò, e nella drammaticità della ritirata dell’esercito tedesco dall’ Italia centrale, gli Alleati ormai incalzano da tutti i lati (lo sbarco in Normandia è prossimo) non perde la testa né il sangue freddo e trova il tempo per indagare su un omicidio diciamo minore sullo sfondo dei grandi fatti storici che lo stanno travolgendo, lui come il suo paese ormai destinato alla sconfitta. Omicidio che sembra avere collegamenti con un altro fatto di sangue avvenuto nel 1919, in un paesino tranquillo in cui queste cose non succedono.
La vita di paese è descritta con tocchi leggeri, il bar ristorante principale, con le sue sedie all’aperto che ospitano anziani molto informati sui fatti, che spettegolano e ricordano il passato, la caserma dei carabinieri, le case che si affacciano sulla piazza, i campi tutt’ intorno, la povertà, la saggezza, la forza di questa gente che quasi vive in un’ oasi protetta lontana dal conflitto.
Belli i personaggi minori, tutti identificati con pseudonimo, come si usava nei piccoli centri dove tutti conoscevano tutti: Pipistròlle, il balordo, il matto del paese, dalla mente danneggiata dalla Grande Guerra, personaggio tenero e dolcissimo, a cui forse Bora si affeziona tanto da bere un sorso di gazzosa da lui offerta; Fissa-Fissa, proprietario del Caffè Adua, un fascista nostalgico, reduce dall’ Africa, che ama ascoltare i vecchi dischi di propaganda, a cui Bora regala il disco di Lili Marlene; e poi Don Fifì, il primo morto, Dindalò, Usagne, Caitène, Presentosa, la moglie di Fissa-Fissa.
Insomma tutta una compagnia di personaggi ben affiatati e ben caratterizzati, dove ognuno ha le sue peculiarità, i suoi vezzi e le sue debolezze. Oltre a Bora naturalmente spicca il personaggio di Borgonovo, il prigioniero politico confinato a Faracruci, che scrive lettere al figlio (e qui si nasconde un piccolo colpo di scena, che non vi anticipo, ma capace di toccare nel profondo il lettore). L’amicizia nata tra i due, sarà più forte per Bora del dovere all’ ottemperanza agli ordini ricevuti? Tutta la narrazione è tesa da questa questione morale, non un principio di secondo piano per il nostro, la cui posizione non è affatto facile.
L’apparizione, quasi spettarle, del suo acerrimo nemico Harald Cziffra, anticiperà la rocambolesca fuga di Bora dalle SS, e l’inattesa solidarietà di tutto il paesino, unito nel coprirlo.
Il morto in piazza, si conferma un giallo storico di sicuro interesse, curato nell’ambientazione, accurato nella documentazione storica, sorretto da una scrittura letteraria e poetica, oltre che molto attenta alle sfumature morali e psicologiche. Il tipo di libri che non ti stancheresti mai di leggere, per cui sono felice di anticiparvi, con il permesso dell’autrice, che la traduzione del prossimo Bora Night of the Shooting Stars, è pronta. Uscirà in Italia sempre per Sellerio tra la primavera e l’estate del 2018 (anche se non c’è ancora una data precisa), con il titolo La notte delle stelle cadenti. Cito le parole dell’autrice:

sarà ambientato nella Berlino pre-20 luglio 44, dove il Nostro, mentre indaga sulla strana morte di un veggente (o presunto tale) ammanicato col vertice del Terzo Reich, verrà coinvolto nell’attentato a Hitler e conoscerà (finalmente) il suo alter ego storico, Claus von Stauffenberg. Ma, conoscendo i due, non è detto che sarà un rapporto così facile…

Dunque che dire buona lettura e speriamo che l’estate arrivi presto.

Ben Pastor, nata a Roma, docente di scienze sociali nelle università americane, ha scritto narrativa di generi diversi con particolare impegno nel poliziesco storico. Della serie di Martin Bora Sellerio ha già pubblicato Il Signore delle cento ossa (2011), Lumen (2012), Il cielo di stagno (2013), Luna bugiarda (2013), La strada per Itaca (2014), Kaputt Mundi (2015) I piccoli fuochi (2016) e Il morto in piazza (2017).

Nota: In copertina Olio su tela di Aleksandr Deineka 1934 (particolare). collezione privata.

Source: acquisto personale.

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