L’isolamento insulare e la detenzione sono un binomio che fin dall’antichità, pensiamo all’Antica Grecia, ha trovato stretti legami e ripercussioni sul vivere civile e sociale. Allontanare dal consorzio umano determinati soggetti rei di gravi crimini, o perlomeno, anche se innocenti, accusati di averli commessi, è diventata un’aggravante dell’eventuale punizione, un inacidirsi coercitivo di una pena non volta al recupero del condannato, ma al suo allontanamento, anche dalla vista, dal contesto civile, quando non si vuole giungere a una vera e propria condanna a morte. Una crudeltà in più, insomma, che rende più difficile la fuga certo, ma anche solo, tramite l’isolamento più assoluto, rende più doloroso e crudele il castigo a volte inferto a oppositori politici, persone sgradite, o semplicemente scomode. Nel saggio Isole carcere. Geografia e storia Valerio Calzolaio analizza, con un approccio multidisciplinare, questa materia di per sé complessa e sottostimata. Forse non tutti sanno che esistono isole carcere ancora attive anche attualmente, insomma non è una vestigia delle barbarie del passato, anche in Italia. Le riflessioni sulle ripercussioni psicologiche e sociali dell’isolamento detentivo diventano occasione di riflessioni sul sistema detentivo stesso, e sulla sua utilità, oltre alla scarsa volontà politica di trovare pene sostitutive più costruttive per la società e l’individuo. Il saggio si compone di tre parti: la prima dal titolo Un doppio isolamento con riflessioni sugli aspetti storici, biologici e socioculturali del fenomeno. La seconda parte è composta da una serie di schede che descrivono alcune isole carcere, forse le più famose, da Alcatraz, all’Asinara, dall’Isola d’If, all’Isola del Diavolo, a Lampedusa. Infine nella terza parte c’è un tentativo, per quanto sperimentale, di classificazione globale di tutte le isole carcere esistenti nel mondo. Tra l’altro il lavoro non è solo il frutto di consultazioni di dati, tabelle, archivi, saggi scientifici, ma anche analizza le ripercussioni sull’immaginario: quanti libri, film, poesie hanno per tema la detenzione su un’isola, pensiamo al film Papillon, o al romanzo Il Conte di Montecristo, in cui il personaggio letterario di Edmond Dantes, dopo una prigionia di 15 anni, fu l’unico a poter scappare dall’Isola d’If, grazie alla fantasia di Dumas. Ricco l’apparato bibliografico e di approfondimento che rende il lavoro utile anche a coloro che vogliono intraprendere uno studio serio e articolato sulla materia.
Valerio Calzolaio, giornalista e saggista, è stato deputato dal 1992 al 2006 e sottosegretario al Ministero dell’ambiente tra il 1996 e il 2001. Tra le varie pubblicazioni è autore di Ecoprofughi (Nda 2010), Da Moro a Berlinguer (con Carlo Latini, Ediesse, 2016), La specie meticcia (People, 2019), Libertà di migrare (con Telmo Pievani, Einaudi, 2016).
Source: libro inviato dall’editore. Ringraziamo Christian Ufficio Stampa Edizioni Gruppo Abele.
“Ottocento” è il romanzo di Cristiano Caracci, edito da Gaspari Editore. Il titolo fa da subito capire al lettore l’epoca di ambientazione e non a caso la narrazione si sviluppa nel XIX secolo, tra la caduta di Napoleone, il Congresso di Vienna, la fine della Repubblica di Venezia e il successivo riequilibrarsi del mondo europeo. In realtà, nel romanzo, accanto alle vicende che si svolgono nelle grandi città europee è presente anche un’altra località, un microcosmo sito lì nel nord est dell’Italia, Ajello del Friuli, nella bassa pianura friulana, dove si trovano alcuni dei protagonisti. Qui vive Lorenzo Natali che sperimenterà da vicino la trasformazione dell’epoca nella quale si trova. Natali non è un personaggio reale, è una creatura letteraria nata dalla penna di Caracci, e lui vive a Ragusa di Dalmazia (Dubrovnik per intenderci), la conosce in ogni suo aspetto e se il tempo passa per lui, il protagonista vedrà trasformarsi un po’ alla volta la località dove abita. Natali noterà anche cambiare le persone che vivono in quel posto, perché ci sono coloro che arrivano, ma anche tanti che si imbarcano sulle navi e vanno verso un mondo nuovo e sconosciuto, lontano lontano, nella speranza del cambiamento: l’America. Accanto a questo protagonista nato dalla fantasia, l’autore mette anche altri personaggi che si alternano nello sviluppo dell’intreccio narrativo. Ci si imbatte, per esempio, nel mestri di contà che tiene aggiornato chi legge sulle caratteristiche, eventi e accadimenti che succedono e si susseguono a Ajello e nelle zone limitrofe. Poi ci sono gli esponenti della famiglia ragusea dei de Bona che narrano le loro vicissitudini di vita sempre più di frequente intrecciati ai grandi fatti che hanno cambiato la Storia. Non a caso, la famiglia dei de Bona è realmente esistita, ed è stata presente la Congresso di Vienna, al lavoro per la ricostituzione della Repubblica di Ragusa abolita da Napoleone nel 1808. Non solo, perché ad un certo punto ci si imbatte anche in Andrea (Francesco) Altesti, pure lui è un personaggio realmente esistito (Caracci gli ha dedicato un romanzo nel 2020 dal titolo “Altesti il raguseo”) nato a Ragusa di Dalmazia. In “Ottocento” riecheggiano un po’ le sue avventure e impegni lavorativi in Russia (a San Pietroburgo), dove prestava servizio all’intendenza della zarina Caterina e che, una volta tornato in Italia, si rimboccò le maniche per fondarela Compagnia assicurativa delle Generali. Questi accostamenti tra verità e fantasia, creano una perfetta amalgama tra elementi della realtà e della finzione, sentimenti, azioni diplomatiche, amicizie e contrasti, i quali convivono in perfetto equilibrio in “Ottocento”, un libro nel quale il tempo narrativo trasporta il lettore a stretto contatto con la Storia, usi e costumi di un passato lontano, ma non troppo. “Ottocento” di Cristiano Caracci, è quindi un grande affresco storico di una parte d’Italia (Friuli e circostante territorio), composto da eventi e personaggi che, a modo loro, con le loro storie quotidiane hanno contribuito al farsi e trasformarsi della Storia.
Cristiano Caracci, (1948) è avvocato in Udine. Ha pubblicato diverse opere storiche e storico-narrative riguardanti la Repubblica marinara di Ragusa, l’Adriatico e il Mediterraneo orientale, tra cui “La luce di Ragusa”, “Il tramonto di Ragusa”, “L’Adriatico insanguinato” e “Il capitano della torre di Galata”. Per la Gaspari ha pubblicato “Altesti il raguseo” (2020).
Source: richiesto dal recensore. Grazie all’ufficio stampa 1A.
Per chi ama l’avventura, quella vera, quando il mondo era ancora una terra inesplorata che poteva riservare sorprese, e il concetto di ignoto aveva intatto il suo fascino arcano, c’è un libro uscito l’anno scorso che potrebbe riservare molte sorprese.Si intitola Piemontesi ai confini del mondo – 22 storie di esploratori atipici e navigatori irrequieti di Davide Mana ed oltre a essere ricco di aneddoti, dettagli di viaggio, tradizioni, paesi e culture è arricchito da mappe, timeline, fotografie e illustrazioni che lo rendono un piccolo tesoro da collezione. Protagonisti di questo libro sono piemontesi avventurosi di Ottocento e Novecento che dall’Antartide all’Oceania, dall’Africa all’Asia, passando per l’Africa, hanno vissuto storie straordinarie ai confini con l’incredibile. Esploratori, mercanti, archeologi, missionari, militari di carriera, nobili, avventurieri tanti sono i piemontesi che hanno lasciato il loro paese e sono andati all’estero in cerca di fortuna, fama, avventura. Il lavoro d’archivio dell’autore e curatore dell’opera è poderoso: archivi, fondazioni, collezioni private, biblioteche sono stati setacciati in cerca di notizie, storie, reperti, fotografie. Un libro davvero ben fatto, che si legge in un soffio, interessante e ricco di rare foto d’epoca, i piemontesi descritti, quasi a contraddire la vulgata popolare di piemontesi bugia nen, sono invece perlopiù intraprendenti, coraggiosi, e soprattutto ingegnosi. Sì arrangiano, anche in situazioni estreme e pericolose, come in Artide e Antartide o durante guerre e insurrezioni. Una curiosità: un paragrafo è dedicato al mio bisnonno Luigi Paolo Piovano, militare di carriera nella Cina dei Boxer.
Davide Mana, classe 1967, è un paleontologo, blogger, traduttore e autore freelance. Ha pubblicato racconti, articoli e scenari per giochi di ruolo in Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone. Dal 2013, affianca alle sue pubblicazioni tradizionali, racconti e saggi autoprodotti in formato elettronico. Fra i suoi lavori, la serie di racconti autoconclusivi Gli Orrori della Valle Belbo, e il ciclo di avventure sword & sourcery Aculeo & Amunet. Il suo primo romanzo The Mynistry of Thunder è stato pubblicato nel 2014 da Acheron Books.
Source: libro inviato dall’editore che ringraziamo.
L’Introduzione alla teologia quale studio sul Mistero di Cristo nasce, come disciplina teologica, con il Concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965) nel XX secolo, veniamo a sapere leggendo Introduzione alla teologia e al mistero di Cristo di padre Gianluigi Pasquale edito nel 2023 da Armando editore. Una disciplina dunque relativamente recente come branca del discorso su Dio che è la teologia. Oltre a interessare ai giovani studenti universitari di teologia, è un testo che può essere utile anche a chi vuole approfondire la sua conoscenza su Dio, perlomeno il Dio rivelato da Gesù Cristo, e il modo con cui questa conoscenza è compresa dalla ragione umana, ove considerando che fede e ragione non si contraddicono ma si integrano e si completano. Dato come assunto e premessa l’esistenza di Dio, e la religiosità naturale insita nell’uomo, che dagli albori dell’esitenza ha sentito l’esigenza di proiettarsi oltre la pura materialità, accostandosi al mistero, il mistero di Cristo nella storia della salvezza ha un ruolo che esula da facili semplificazioni e apre alla grazia che rende possibile a questa disciplina mentre la si studia di conferire la salvezza. Il Dio rivelato da Gesù Cristo è infatti un Dio che salva, che non è indifferente al dolore alla caducità umana. Passiamo dunque da una “storia sacra” a una storia tesa alla salvezza, perchè scopo principale di Dio è il bene ultimo dell’uomo. Inoltre la teologia deve essere razionalmente comunicabile sia a chi crede che a chi non crede, sempre considerando che la teologia è a tutti gli effetti classificabile come una disciplina scientifica. Discorso a parte possiamo considerare la differenza tra mito e rito, nella classificazione delle diverse forme di religiosità anche antica. Nel terzo capitolo il testo parla del Dio dei filosofi, da Pascal, Kierkegaard a Anselmo d’Aosta, per poi risalire alle origini della teologia per arrivare alla Scolastica, a San Tommaso d’Acquino. Nel capitolo quarto approfondiamo il Dio della fede e in ultimo nel capitolo finale il Dio di Gesù Cristo cuore della Introduzione, l’essenza della carità, e del dono gratuito con cui Dio ama e salva l’uomo.
Gianluigi Pasquale (1967), è Dottore di Ricerca in Sacra Teologia (SThD, PUG) e Dottore di Ricerca in Filosofia (PhD, Università di Venezia). È stato Assistente Scientifico presso la Facoltà di Teologia della Pontificia Università Gregoriana (1999-2001), Preside (2001-2010) dello Studio Teologico affiliato «Laurentianum» di Venezia, dove è Docente stabile nella sede centrale di Venezia e in quella parallela di Milano. Dal 2001 è, inoltre, Professore Incaricato presso l’ISSR «San Lorenzo Giustiniani» dello «Studium Generale Marcianum» di Venezia e, dal 2007, Professore Incaricato di Cattedra nella Facoltà di Sacra Teologia della Pontificia Università Lateranense.
Source: libro inviato dall’autore, che ringraziamo.
Non è un libro di ricette, più che altro è un saggio, ben argomentato e di facile lettura, rivolto a quei genitori, ma diciamo a chiunque, vuole rendere l’esperienza dei pasti una cosa piacevole e non una battaglia fonte di stress e preoccupazioni, che ricordiamolo anche esse fanno male alla salute. Mangiare, nutrirsi, con calma e serenità e magari allegria, è più o meno l’aspirazione di tutti, soprattutto quando i più piccoli per comportamenti nostri scorretti potrebbero essere danneggiati. Il rifiuto del cibo, di determinati cibi selettivi, è una cosa naturale, capita, un cibo può non piacere al bambino, ma questo non vieta al genitore di ripresentarglielo nel piatto in un altro momento, servito diversamente, cucinato diversamente. Questi e altri consigli pratici sono contenuti in questo interessante libro che se vogliamo completa Ricette per i bimbi buone per tutta la famiglia – Tante idee per il post svezzamento di Elisa De Filippi già recensito su queste pagine. Mangiare male può provocare obesità o malnutrizione, con gravi danni alla salute e alla qualità della vita, e non tutti sanno che i bambini hanno orologi interni che li avvisano quando è stata raggiunta la sazietà, imparare, o rimparare ad ascoltare il nostro corpo, è uno dei consigli fondamentali di questo interessante libro diviso in sei parti: Bambini che mangiano bene, Una visione a lungo termine, Le più comuni difficoltà nell’alimentazione dei bambini, Come parlare del cibo in famiglia, Come parlare del corpo in famiglia, Come supportare l’autoregolazione. Instaurare un buon rapporto col cibo ci salva dal cadere in diete o comportamenti scorretti che dovrebbero indicarci quando e se abbiamo mangiato abbastanza. Ma il nostro corpo lo sa e naturalmente ci avverte quando qualosa non va. La salute passa dalla tavola ed è importante capire quando scattano i campanelli di allarme che fanno diventare un comportamento un disturbo alimentare. Dietista, ma mamma Ileana Gervasi ha anche una pagina su Instagram e un blog che promuovono la cultura della prevenzione.
ILEANA GERVASI, dietista, dopo la laurea presso l’Università degli Studi di Brescia ha conseguito un master annuale in Alimentazione e dietetica vegetariana e un master in Diagnosi e trattamento dei disturbi alimentari e dell’obesità. Diventare mamma è stato lo stimolo per approfondire le sue conoscenze nell’ambito della nutrizione pediatrica. Sulla sua pagina Instagram (@mamma.insegnami.a.mangiare) e sul suo blog racconta un nuovo modo di intendere l’alimentazione nell’infanzia, promuovendo una cultura della prevenzione in grado di favorire una vita in salute e lo sviluppo di un rapporto equilibrato con il cibo.
Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Davide dell’Ufficio Stampa.
Torino le cinque e ventisei, l’alba. Il commissario Vincenzo Arcadipane, già protagonista dei precedenti romanzi di Longo, tutti da leggere se non l’avete ancora fatto, viene svegliato dal suo vice Pedrelli. A Clot, borgo sperduto nel cuneese quasi ai confini con la Francia, un uomo è stato trovato morto nella sua Jaguar. Una telefonata anonima dopo le 23 ha segnalato luogo e delitto e poco dopo la macchina con al volante il cadavere è stata avvistata dai carabinieri abbandonata in una radura. Roba da prendere con le pinze, perché pare sia una faccenda che scotta, è fuori sede, non sarebbe di sua competenza ma il dirigente generale ha richiesto la sua presenza e se vuole saperne di più deve darsi una mossa e recarsi in loco… Apprenderà subito dopo l’ arrivo a Clot , “un grumo di case più vecchie che antiche” vegliato a monte da una mastodontica diga, che devono raggiungere Gias Vej e la chiesa con il cimitero. La vittima, che secondo il medico legale Sarace, è stata strangolata con del vecchio filo elettrico tipo piattina, era Terenzio Fuci, ottantasette anni, residente in via del Babuino a Roma, titolare della casa di produzione cinematografica Veronica Film, fratello del politico Amilcare Fuci, eminenza grigia della Democrazia cristiana fino alla morte nel 1988 e tuttora molto ben ammanigliato con il Vaticano. La moglie, arrivata a Clot con lui, è Vera Ladich un’ex famosissima attrice che aveva fatto innamorare un’intera generazione, ribattezzata allora da Godard : Mademoiselle le look, invece è scomparsa. Morta anche lei? Ferita, sperduta per i boschi ? O forse rapita? Ma allora l’ipotesi più probabile sarebbe che sia stata rapita dall’assassino. Bisogna dare il via tutto intorno a ricerche a tappeto e magari cercare di capire meglio perché marito e moglie erano venuti a Clot? Intanto avevano prenotato tutte le stanze dell’unico albergo del paese. Perché? Amore della privacy? Tanto per cominciare Arcadipane appurerà che Clot era il paese d’origine di Vera Ladich (all’anagrafe Anna Mattalia ), dove aveva conosciuto e sposato Fuci. Con l’inchiesta tutta sulle sue spalle, il commissario Arcadipane per tentare di venire a capo di un rebus da paura deve trasferirsi temporaneamente a Clot, tra gente chiusa, cauta e ruvida, la cui esistenza e sopravvivenza paiono indissolubilmente legate all’enorme diga che circonda la valle, stringendola come un cappio. Arcadipane, con in più il carico di Trepet, il suo cane a tre zampe, non riuscendo a trovare in fretta il bandolo della matassa, dovrà chiedere aiuto al vecchio amico, mentore ed ex capo Corso Bramard e all’indisciplinata ma indispensabile agente Isa Mancini, nessuno dei due al massimo di forma perché coinvolti in problemi personali di salute. Ma le brutte sorprese non sono finite perché si scoprirà che anche di un’altra donna, coetanea della Ladich, anch’essa di Clot, si sono prese le tracce… Non sarà una passeggiata arrivare alla verità, nascosta tra le pieghe di segreti antichi e di nuovi egoismi protetti da poteri apparentemente inviolabili. Si dovrà riuscire a scavare a fondo, districando una fitta trama tessuta a piú mani. La vita paga il sabato, edito da Einaudi, è il quarto libro che vede come protagonisti il Commissario Arcadipane e il suo ex capo Corso Bramard. La coppia, collaudata e perfettamente caratterizzata da Davide Longo, questa volta allarga i propri orizzonti territoriali e umani. La Torino di Arcadipane, dolce e amara come i sucai (caramelle gommose con liquerizia), sua insopprimibile droga, stavolta lascia il posto alla rustica diffidenza della montagna piemontese, aspra e poco incline all’utilizzo della parola, cadenzata da propri ritmi, soprattutto se composta da borghi e paesi molto piccoli dove e spesso i cognomi sono tutti uguali. Dove come secondo un ancestrale codice le difficoltà o i problemi si risolvono insieme nella pubblica piazza e tutti sanno tutto degli altri ma l’omertà è d’obbligo. E tuttavia pian piano, Archidipane, costretto a spingersi fino a Roma e a calarsi nella dissolutezza del caos capitolino, riuscirà a decifrare particolari e fatti precisi con radici nel passato , ispirati da personaggi pubblici reali. Intrigo e mistero. Un contesto realistico, per la nuova avventura di Archidipane ma, e si sarebbe dovuto capire subito dall’ambientazione nello sperduto comune di Clot, contrariamente alle apparenze, non reale. Clot non esiste, così come non esiste il vicino comune di Assiglio, Sì, certo, esistono due frazioni Clot, rispettivamente nei comuni di Inversa Pinasca e di Perrero, in provincia di Torino ma non sono quelle descritte da Longo. Anche la chiesa di Clot, quella del romanzo e il suo ciclo di affreschi cinquecenteschi nella realtà non esistono o forse sì, ma in un diverso contesto. Longo scrive: sulla facciata sono disposti “piccoli volti in rilievo dagli occhi ciechi” e, sul lato della chiesa, “due volti, un animale a quattro zampe, un albero e uno stemma”. Chiesa della fantasia quella della Clot di Longo mentre è reale la chiesa di Santa Maria Assunta a Elva, in Valle Maira con i suoi bassorilievi e il suo interno affrescato dal pittore fiammingo Hans Clemer. Ma non con tutti gli elementi descritti da Longo in La vita paga il sabato . Altri però paiono collegare la finzione di Clot alla realtà di Elva. Hans Clemer fu attivo nel Cuneese negli stessi anni in cui sarebbe stata affrescata la chiesa di Clot, “fiammingo” e reduce dalla Francia come Johannes Van Drift nel romanzo, e viene chiamato il Maestro di Elva, così come Johannes è il Maestro di Clot. Inoltre, sia a Elva che a Clot, sotto gli affreschi compaiono delle scritte. Possibile che Longo vi abbia tratto ispirazione anche per i versi in langue d’oc? E anche a Elva, come a Clot, i personaggi locali hanno “strani” cognomi come Dao, Claro, Mattalia, Lunel, Dro.. L’identificazione di Clemer , negli anni Settanta del secolo scorso, come l’anonimo Maestro d’Elva, è stata confermata da un documento contabile del 1494 in cui i membri del comune di Revello (Cn) lo cercano per commissionargli un retablo. La sua attività in zona si colloca tra questa data e la morte, avvenuta attorno al 1511. Il ciclo per la parrocchiale di Elva con la Crocefissione e storie della Vergine è databile agli anni attorno al 1500. Viene da qui la felice creazione di un pittore mai esistito dal nome Johannes Van Drift, ispirato da un vero Clemer che si dice anche fosse di origine piccarda? Attribuendogli, attraverso le memorie dell’allievo del Maestro di Clot, la leggenda del contenuto maledetto del ciclo di affreschi. Iconografia straordinaria che coinvolge e colpisce Bramard spingendolo ad approfondire ogni particolare con Isa Mancini. Niente è caso. Il romanzo di Longo, ambientato in un paesaggio montano dove il clima e le scabrosità del territorio hanno plasmato gente chiusa, solitaria, porta il lettore a non distinguere la finzione dalla realtà. Certo è un mixer geniale quello di tre personaggi tanto diversi ma perfettamente funzionali alla trama come Bramard, Arcadipane e Mancini: Arcadipane, tozzo, sanguigno, con un’intelligenza pratica, “umana”; Bramard, osservatore acuto, riservato e con un’intelligenza ricercata; Mancini, “brigantessa”, solida, sostanziale e con un’intelligenza intuitiva. Bramard, l’ex commissario, che sembra sempre voler sfidare la morte, e invece ha quel lampo di genio che lo tiene sempre più ancorato alla vita. Arcadipane, prima suo collega, ora colui che ha preso il suo posto di commissario di polizia, è un uomo che, vuoi per il lavoro, vuoi per la sua incertezza, si è fatto sfuggire la famiglia, i figli, la moglie di cui era distrattamente innamorato. Ora ha Ariel, psicoterepeuta, forse la cosa migliore che gli poteva capitare, e nell’inchiesta a fianco anche stavolta Isa, poliziotta determinata, iper tecnologica, con un passato problematico ma, in realtà, perfetto elemento di connessione tra Bramard e Arcadipane. Accumunati tuttavia dalla complice e basilare capacità di discernere dietro ogni orizzonte quanto serve: per arrivare alla scoperta che per tutti, o quasi, la vita paga il sabato.
Davide Longo è uno scrittore italiano nato a Carmagnola, che vive a Torino dove insegna scrittura presso la Scuola Holden. Tiene corsi di formazione per gli insegnanti su come utilizzare le tecniche narrative nelle scuole di ogni grado. Tra i suoi romanzi ricordiamo, Un mattino a Irgalem (Marcos y Marcos, 2001), Il mangiatore di pietre (Marcos y Marcos 2004), L’uomo verticale (Fandango, 2010), Maestro Utrecht (NN 2016), Ballata di un amore italiano (Feltrinelli 2011). Nel 2014 ha scritto il primo romanzo della serie che ha come protagonisti Arcadipane-Bramard Il caso Bramard (Feltrinelli 2014, Einaudi 2021), cui è seguito il secondo Le bestie giovani (Feltrinelli 2018, Einaudi) e il terzo Una rabbia semplice (Einaudi 2021).
“Ho capito che, anche perdendo tutto, si può ricominciare da zero”.
Alzi la mano chi non ha mai subito il fascino della cultura giapponese… Un paese, il Giappone, che per usanze e tradizioni ha ancora molto da raccontare, al mondo: un’ottima base, insomma, per l’arte in genere che ha saputo sfruttare al massimo la curiosità che questo paese ha saputo suscitare.
Un esempio è certamente “Come petali nel vento” di Haki Harada, edito da Garzanti e tradotto da Daniela Guarino.
Miho e Maho sono sorelle: la prima lavora per una grande azienda, vive da sola e una coincidenza la spinge a rivedere ciò che credeva certo, nella sua vita. Capisce che ha bisogno di un cambiamento, e per farlo, deve rivedere le sue pratiche di risparmio, le spese giornaliere, i costi fissi, il budget per gli extra. Ha bisogno di pianificare sé stessa, di entrare nel mondo di chi guarda un po’ più in là del presente. Maho ha una figlia e ha smesso di lavorare quando ha deciso di sposarsi. La sua vena “economica”, quell’istinto di sopravvivenza e di ordine che ha imparato nella società di brokeraggio dove ha lavorato, è rimasta viva e attiva: la donna, infatti, ha organizzato spese ed entrate in maniera strutturata e strategica, prendendo spunto anche dagli insegnamenti della nonna Kotoko.
La nonna Kotoko è figlia di un sistema di analisi dei costi e del risparmio che ha applicato e trasmesso alla sua famiglia: il Quaderno per la contabilità della domestica. Il Quaderno è un sistema infallibile, nato nel secolo scorso, e divenuto uno strumento giudicato indispensabile per la programmazione delle spese di una famiglia. Un metodo che ha spiegato alle nipoti, quando erano ragazze, e che ritorna nella loro vita adulta.
Un altro personaggio che si incontra, nel mezzo della narrazione, è Tomoko (mamma delle ragazze e nuora di Kotoko). Inizialmente, questo personaggio potrebbe sembrare marginale, ma nel corso della narrazione acquista un posto strategico: la donna, attraverso la sua vicenda personale, introduce una buona parte dei temi che l’autrice ha raccontato.
“Come petali nel vento” potrebbe sembrare un romanzo al femminile – e in parte lo è -, ma la presenza maschile è indispensabile per comprendere meglio i tanti significati che questo romanzo ha consegnato al lettore. Significati e temi universali, senza confini di stato e senza tempo, pur riuscendo a mantenere il racconto ancorato alla cultura giapponese.
Il primo tra tutti è certamente l’indipendenza economica. Haki Harada ha saputo costruire un’intera trama – non intricata ma lineare e ben strutturata – sull’economia domestica che riguarda tutti, non solo chi ha figli, famiglia, casa di proprietà. Il risparmio sembra essere un metodo da studiare e applicare, e in esso si racchiudono valori e ideali, doti e obiettivi. Un insegnamento eterno che conduce a risultati personali e tangibili; un’arte vera e propria, insomma.
Il secondo tema che emerge, strettamente legato al precedente, è il lavoro. Questo tema si apre come un ventaglio e lascia emergere sottotemi, tutti di particolare interesse: posizione lavorativa, licenziamento, mobbing, ricerca attiva, soddisfazioni e meriti. Il ruolo della donna è un protagonista e viene accompagnato da un bell’excursus nella ricerca del lavoro in età pensionabile e nel long life learning. Non solo. Si evidenzia il ruolo della donna nella famiglia: il senso del dovere, del sacrificio e un pizzico di colpa che, seppur ingiustificato, si presenta puntualmente.
Un ulteriore messaggio che ho trovato rilevante, in questo romanzo, è legato alla sanità. Grazie a nonna Kotoko e mamma Tomoko emerge il tema dell’insicurezza economica, del divario e della preoccupazione che la mancanza di salute genera e che pesa sui risparmi della persona (e della famiglia).
In ultimo, ma non per ordine di importanza, “Come petali nel vento” ci permette uno sguardo sulla sicurezza economica e sociale, sul debito scolastico, sul matrimonio (e l’impegno che questo genera), sui legami familiari e sulla solidarietà tra donne.
Hika Harada ha scelto di affidare la narrazione a una voce onnisciente che, dalla sua posizione, riesce a dar spazio ai tanti personaggi che appaiono e che determinano l’andamento della narrazione; un narratore che, inoltre, ha voluto raccontare il presente mostrando i fatti salienti del passato attraverso dialoghi e brevi ma precise descrizioni.
HIKA HARADA (1970) è nata nella prefettura di Kanagawa, nel sud del Giappone. Dopo la laurea in Lettere moderne, ha lavorato come sceneggiatrice e scrittrice, vincendo numerosi premi. Vive a Tokyo con il marito e la famiglia. Come petali nel vento è stato uno dei più grandi successi editoriali degli ultimi anni, diventando un bestseller e rimanendo in classifica per mesi.
Source: libro inviato al recensore dall’editore. Ringraziamo l’Ufficio Stampa Garzanti e Alice per la disponibilità e la cortesia.
Il professor Corradi, docente universitario di chimica e scienziato di fama mondiale, è stato trovato morto nel suo appartamento per avvelenamento da arsenico. Ma non c’è traccia di lettera d’addio, niente suono di trombe o di campane. Era partito un giovedì notte senza far rumore e tutto attorno a lui gridava al suicidio, a partire dalla casa chiusa dall’interno e dalle serrature che non mostravano segni di scasso. E anche i primi riscontri investigativi paiono confermare quell’ipotesi. Ma perché si sarebbe suicidato? La mancata assegnazione del premio Nobel potrebbe essere il motivo , ma tutti, colleghi, collaboratori, moglie separata con la quale ha sempre mantenuto rapporti civili , amici e conoscenti hanno già categoricamente escluso che Corradi ne avesse fatto un dramma o mostrasse sintomi di depressione. Più semplicemente non ci aveva contato davvero . E anche altre possibili cause quali problemi economici, pene d’amore o malattie incurabili dai primi controlli risulteranno da bocciare in toto . Corradi viaggiava molto, si godeva i lucrosi frutti di contratti di consulenza con aziende , amministrava ricchi finanziamenti europei finalizzati alla ricerca, non si era mai fatto mancare la piacevolezza di amicizie femminili. Un quadro che non combacia certo con la voglia di suicidarsi. E infatti, secondo il commissario Negroni, (l’alcolico bevitore di whisky torbato, fumatore di toscano e raffinata forchetta, eroe e protagonista degli altri libri di Falleti), in quella morte c’è qualcosa che non convince. Primo particolare intanto la finestra spalancata nonostante il gelo notturno, secondo, e di peso, perché diavolo Corradi avrebbe scelto di ammazzarsi con l’arsenico, il più classico veleno da topi. E farlo addirittura ingoiandone una dose esagerata che per di più provoca atroci dolori e peggio. Costringendo il morituro, che so, a piegarsi in due, a contorcersi, mentre invece eccolo là: rilassato comodamente sdraiato in poltrona come una persona che dorme? Gatta ci cova. Insomma secondo il commissario Negroni, c’è ben più di qualche particolare che non quadra e se si vuole dare per acquisita l’ipotesi del suicidio non resta che sollecitare un completo esame tossicologico sul defunto. E anche se il magistrato che, preoccupato dalla cassa di risonanza dei media, non sogna altro di arrivare a chiudere l’inchiesta e nicchia, finalmente gliela darà vinta. E l’esame tossicologico deluciderà come prima cosa che il “suicida” Corradi oltre all’arsenico ha ingoiato una dose da cavallo di benzedrina in grado solo quella di spedirlo all’altro mondo. Faccenda indubbiamente molto, ma molto sospetta, ragion per cui l’ipotesi suicidio va a farsi benedire. Ma quando un giovane giornalista free lance, anche lui dubbioso sul suicidio di Corradi , che nel frattempo aveva portato avanti una sua inchiesta, contattando Negroni e proponendogli addirittura di scambiarsi le informazioni, mentre attraversava sulle strisce pedonali è vittima di un incidente, investito da un auto pirata, rubata poche ore prima, Negroni, accende un toscano, drizza le antenne e si mette in caccia. Scava, scava, comincia ad affiorare un complicato intreccio che vede in pista rivalità accademiche, intrighi e gelosie di amanti, ma anche complicati semifantascientifici brevetti industriali pericolosamente legati a grandi interessi economici di enormi aziende con basi anche in tutta Italia. Tante e ben ammanicate a ogni livello. Con l’indagine che si allarga pericolosamente tra Roma, Napoli e Monaco di Baviera, i morti aumentano a vista d’occhio. Ahinoi! Ma pian piano alcune tessere del puzzle, anche per il prezioso supporto di un collega commissario tedesco ma per metà italiano, che ha ben coltivato ogni anno la lingua passando le vacanze nella campagna toscana, cominciano a incastrarsi : ma il prezioso manoscritto del professore sul quale lavorava da tempo non si trova. Nello scenario sempre più ampio e farraginoso che vede coinvolte grandi lobby industriali strettamente legate a clan camorristici campani, le dimensioni dell’affare si dilatano in lungo e largo, compromettendo anche le teste di persone considerate insospettabili. Emergono qua e là ovunque tracce precise di favoreggiamenti e connivenze, di tradimenti e la tristezza di tanta morti ignorate o annegate nei velenosi gorghi di criminali sabbie mobili. Delitti che in qualche modo devono essere puniti con i colpevoli assicurati alla giustizia. Con il manoscritto perduto ricomparso, gelosamente custodito in una chiavetta, bisogna ingegnarsi a spiegare l’omicidio suicidio di Corradi e trovare le prove concrete di tutte le macchinazioni orchestrate con il suo autorevole avallo ma, anche se sporcizia è ben tutelata dall’omertà, il commissario Negroni non si arrende e, seguendo la labile traccia rimasta, riesce a decifrare la macchinazione di unapremeditata, duplice vendetta. E non solo poi, perché a conti fatti visto che tutto era collegato, diventa persino quasi un gioco da ragazzi infilare un’ardita trappola nel perverso ingranaggio di alterazione e bloccare finalmente il diabolico traffico internazionale.
Dario Falleti è nato a Roma nel novembre 1954 ed è laureato in chimica. Il romanzo d’esordio, La virtù del cerchio, prima avventura del commissario Negroni, è stato finalista al Premio Azzeccagarbugli 2008 e ha vinto il Premio Raffaele Crovi per la migliore opera prima. La seconda avventura del commissario Negroni, Le regole dell’anagramma (Hobby & Work), una spy story con prefazione di Luca Crovi, è stata pubblicata nel 2010. Nel 2011, il racconto I Macellai di Montevideo ha contribuito all’antologia garibaldina Camicie rosse, storie nere (Hobby & Work). Altri racconti sono comparsi in e-book e antologie. Aperitivo all’arsenico a Roma è stato finalista al premio Tedeschi 2018.
Oggi vi racconto due libri interessanti, giunti dal passato, dal XIX secolo, che sono l’ideale lettura per gli amanti dell’horror, grazie alle atmosfere gotiche e misteriose. In realtà i due volumi sono ideali ance per coloro che sono affascinati dal mistero. Nella storia di “Il primo vampiro” e “Lo sposo fantasma e Racconti di un viaggiatore – Parte terza e quarta”, entrambi editi da Gallucci, il lettore si trova alle prese con vampiri, fantasmi, esseri misteriosi protagonisti delle vicende dove la suspense è presente in ogni singola pagina. Opere letterarie del passato che si sono poste come un punto di riferimento importante per i tanti estimatori del genere giunti di seguito. “Il primo vampiro” è una raccolta all’interno della quale diversi autori vissuti tra 1700 e 1800 hanno reso protagonisti di racconti e componimenti in versi il principe delle tenebre: il vampiro. Il volume ha in sé un frammento narrativo di Lord Byron; “Il vampiro” di John William Polidori, “Christabel”, ballata di Samuel Taylor Coleridge; “Lamia”, poemetto in di John Keats; “L’ospite di Dracula” di Bram Stoker. Queste sono le prime storie che hanno per protagonista la figura del vampiro, uomo o donna che sia, che si è poi consolidata nel tempo fino ad arrivare a noi lettori di oggi. Dai libri, ai fumetti, al teatro e al cinema, la figura del vampiro o vampira assetata di sangue è una costante che intimorisce e, allo stesso tempo, affascina il fruitore per la sensualità che questa figura nata in epoca romantica, esercita da sempre su coloro che si imbattono in essa. (Traduzione dall’inglese di Stella Sacchini e Mirko Esposito).
L’altro libro, vero che non ha vampiri, ma “Lo sposo fantasma e Racconti di un viaggiatore – Parte terza e quarta” di Washington Irving ha atmosfere dark, lugubri e cupe con personaggi- lo sposo fantasma del titolo per esempio- che solo all’apparenza sono vivi e vegeti ma hanno un piano ben preciso da compiere, tipo il portarsi nell’aldilà la fidanzata ancora viva. Poi si passa ai “Racconti di un viaggiatori” dove il fruitore, grazie alla sapiente penna di Irving, si muove in diversi luoghi e tempi, perché dalla Germania del periodo Medievale, si passa all’Italia del 1800, in particolare nella campagna dove famiglie e giovani coppie di sposi sono vittime dei briganti, uomini spietati e senza scrupoli, per arrivare all’America, ad una parte di New York – Manhattan – molto diversa da quella che conosciamo. La zona cittadina è colma di bucanieri e di individui poco rassicuranti, pronti a tutto pur di arricchirsi e far man bassa dei tesori nascosti. Quelle create da Irving sono storie avventurose, a tratti cupe e con un’alta tensione riguardo a quello che potrebbe accadere nella pagina successiva, perché nelle sue storie convivono umili persone, loschi individui pronti a tutto e creature misteriose tutte da scoprire. Traduzione dall’inglese di Adriana Cicalese e Riccardo Duranti)
Source: inviato dall’editore. Grazie all’ufficio stampa Gallucci e a Marina Fanasca.
Roma, anni 2000. Il giudice La Spina viene freddato davanti al portone di casa con cinque colpi di pistola, l’ultimo, fatale, alla nuca. A rivendicare l’attentato un sedicente gruppo di estrema destra, Falange Nera, che con un comunicato alla stampa accusa il giudice di essere stato complice e responsabile dell’assoluzione dell’infoibatore Josip Strčić. Diego Zandel ho scelto per immedesimarsi meglio nel suo nuovo romanzo/fiction di prestare all’autobiografia del protagonista il vero tracciato della sua vita , dove e come lui è nato, la personalità dei suoi genitori, di sua nonna che l’ha cresciuto, insomma tutti i suoi veri ricordi. Ha cucito infatti addosso i suoi panni a Guido Lednaz, giornalista e scrittore, che descrive come lui figlio di profughi fiumani, per sopravvivere partiti abbandonando tutto dietro di sé, nato a Fermo mentre la famiglia sopravviveva nel campo profughi di Servigliano nella Marche per poi passare al Villaggio Giuliano Dalmata di Roma ex Villaggio E42. Non solo, per meglio completare la sua finzione gli presta, in toto e con generosità oltre al suo vissuto, la carriera letteraria, per poi regalare al suo ideale gemello un’avvincente avvventura, un giallo d’indagine neppure tanto velatamente mascherato da spy story giallo noir . Quindi Guido Lednaz alter ego dell’autore, fin dall’inizio emotivamente coinvolto vuole solo approfondire le circostanze e le motivazioni dell’omicidio del giudice La Spina, prima crivellato per strada a pistolettate per poi essere finito con un colpo alla nuca da un motociclista, un irriconoscibile centauro in tuta e casco integrale in sella a una moto da cross. . Unici testimoni la moglie affacciata alla finestra e un commerciante che stava alzando la serranda del suo negozio. Brutale omicidio che verrà rivendicato con una lettera al Quotidiano la Repubblica da un fantomatico gruppo di estrema destra “Falange nera” adducendo la motivazione: complicità del magistrato con gli infoibatori titini. “Onore ai martiri”. Colpa attribuita alla vittima: l’assoluzione per difetto di giurisdizione per il non luogo a procedere – in pratica un’assoluzione- nel processo intentato contro dell’imputato, il criminale di guerra titino Josip Strčić (personaggio liberamente ispirato a Oskar Piškulić, capo della polizia politica di Tito, reale autore degli eccidi nelle foibe). Prima di lui il pubblico ministero era stato addirittura sollevato dall’incarico. C’era qualcosa? Cosa? Dietro la determinazione di insabbiare il tutto, di non consegnare un criminale alla giustizia? Così prende il via l’ardita fiction, basata per altro su puntelli ben documentati che, seguendo varie piste e rintracciando meticolosamente alcune delle tante figure di una lontano passato ci costringe a ripercorrere una delle pagine tanto misconosciute quanto sanguinose della storia del Novecento, legate sia alle atrocità della Seconda guerra mondiale che al successivo esodo di un intero popolo, quello istriano. Un’avvincente indagine dalle tenebrose tinte noir, una lunga minuziosa e rischiosa investigazione, che finirà per tramutarsi in un sofferto e frammentario viaggio verso una tremenda conclusione , condotta faticosamente tra Roma e Trieste pur con l’indiretto ma fattivo apporto delle forze dell’ordine (non è il primo delitto del fantomatico centauro che ha già colpito, ma non c’è il via libera per scavare di più ), di un inviato speciale in caccia di indizi, tracce, documenti sepolti in polverosi archivi semidimenticati per arrivare a volti e nomi. Seguendo variegate piste esplorative, senza lasciarsi fuorviare, riprendendo contatto con alcune figure del suo passato, in grado di offrire indizi, fornire prime spiegazioni e proporre altre complicate piste da seguire, Lednaz dovrà ripercorrere una delle pagine più sanguinose della storia, cercare di scardinare la quasi inviolabile cassaforte del resoconto delle peggiori atrocità della Seconda guerra mondiale nei confronti di essere umani innocenti e il conseguente esodo di un intero popolo che viveva sereno e ha dovuto rinunciare per sempre alle proprie radici. Un’avvincente indagine dalle tenebrose tinte noir, anche insozzate da un’insanabile forma di razzismo e atroce disumanità, condotta tra Roma e Trieste, che porterà il protagonista a raggiungere una drammatica verità. Un’indagine dura, molto dura e rischiosa anche per chi gli sta vicino, ma Guido Lednaz non si lascerà fermare dai consigli o dalle minacce. Una difficile e ingarbugliata inchiesta che tuttavia alla fine gli consentirà di rialzare quei veli calati a tombale copertura di una storia, arrivando al nocciolo di una triste e tragica e crudele realtà, nata, provocata, , mai dimenticata e soprattutto tenacemente coltivata fino alla vendetta.
Diego Zandel, figlio di esuli fiumani, è nato nel campo profughi di Servigliano nel 1948. Ha all’attivo una ventina di romanzi, tra i quali Massacro per un presidente (Mondadori 1981), Una storia istriana (Rusconi 1987), I confini dell’odio (Aragno 2002, Gammarò 2022), Il fratello greco (Hacca 2010), I testimoni muti (Mursia 2011). Esperto di Balcani, è anche uno degli autori del docufilm Hotel Sarajevo, prodotto da Clipper Media e Rai Cinema (2022).
Pianeta. Gli ultimi decenni. Il diritto deve contribuire in maniera decisiva a rafforzare e a dar corpo alle istanze di tutela ambientale, ormai sempre più presenti nelle società contemporanee, e a superare quell’impasse culturale, politica ed economica che le ha costantemente frenate. Finora non ha raggiunto i risultati sperati, in particolare quello ambientale, collezionando una serie di sconfitte sui piani sia della repressione dei comportamenti dannosi sia della delineazione di un quadro normativo efficace (anche nello stimolare comportamenti virtuosi). Per riuscirvi occorre recuperare la dimensione biologica ed ecologica della vita dell’uomo sulla terra e nella terra, partendo dai testi aggiornati o da aggiornare delle costituzioni, dalla trasformazione in senso ambientale degli ordinamenti giuridici nazionali, da una svolta nelle agende politiche di parlamenti e governi. La nozione di Antropocene comporta un superamento oggettivo della distinzione natura-cultura, non si può più aprioristicamente escludere la possibilità di conferire personalità giuridica a elementi naturali, passando dall’individualismo liberale di stampo sette-ottocentesco al concetto di autonomia cooperativa della persona. Ci si sta provando: nel 2022 più di tre quarti degli ordinamenti mondiali riconoscono testualmente la tutela ambientale nelle proprie costituzioni (grazie soprattutto alla spinta propulsiva di molti paesi appartenenti al sud del mondo), la maggior parte degli altri li tutela attraverso la giurisprudenza delle proprie corti supreme. Un nuovo integrale costituzionalismo ambientale non può che constatare che le tre nozioni connesse all’individuale, al sociale e al biologico sono indissociabili: è una bella sfida per tutti.
Il bravo docente universitario napoletano Domenico Amirante disegna un interessante ricco atlante costituzionale comparato di diritto ambientale, che mostra e analizza le più importanti tendenze in atto a livello globale. Nel primo capitolo del bel volume l’autore spiega la metodologia di diritto comparato come bussola per la rivoluzione copernicana imposta dalla nozione di Antropocene. Nel secondo delinea i fondamenti del costituzionalismo ambientale come disciplina multilivello, opzione che consente di evitare i rischi sia dell’approccio universalistico e unificante del diritto internazionale, sia dell’estremo particolarismo e tecnicismo del diritto amministrativo. Nel terzo affronta i relativi percorsi storici, segnalando come siano protagonisti dell’attuale fase adulta molti testi costituzionali di Africa, America Latina e Asia, promulgati o fortemente emendati negli ultimi trent’anni. Nel quarto, anche con l’ausilio di tabelle riepilogative, esamina dettagliatamente i dati quantitativi e qualitativi, globali e accorpati per continente. Il quinto e ultimo capitolo individua le prospettive più innovative, dalle teorie sul costituzionalismo ecologico al nascente costituzionalismo climatico, concentrando l’attenzione sui paradigmi economici, politici e giuridici basati sui concetti di responsabilità e interdipendenza tra l’essere umano e la natura. Si nota talora (anche nelle note bibliografiche e nell’indice dei nomi) una certa approssimazione nei riferimenti alla cultura scientifica proveniente da quello che Amirante chiama “il mondo delle cosiddette scienze esatte”, evidente per esempio nell’idea che “in epoche passate gli esseri umani hanno vissuto in modo sostenibile, in armonia con la natura, rispettando i limiti dei confini planetari e delle regole ecologiche”, in cui si confermano giustamente i danni del modo di produzione degli ultimi secoli ma si rintraccia ancora poco delle culture evoluzionistica, biologica, ecologica, antropologica e demografica che hanno descritto la vita bipede per i milioni di anni delle specie umane e i centinaia di migliaia dei sapiens, nelle nicchie dei vari ecosistemi, globale e specifici. Parziale ma utile l’accenno (nella postfazione) alle recenti modifiche costituzionali italiane degli articoli 9 e 41, anche sulla base di una personale esperienza e competenza.
Domenico Amirante insegna Diritto pubblico comparato e Diritto dell’ambiente nell’Università della Campania «Luigi Vanvitelli» e Diritto ambientale italiano e comparato nell’Università Suor Orsola Benincasa. È stato membro del Comitato internazionale di esperti del Global Pact for the Environment e della Commissione ministeriale italiana per la riforma costituzionale dell’ambiente. Tra i suoi lavori «Ambiente e Costituzione» (Franco Angeli, 2000), «Diritto ambientale comparato» (Jovene, 2003), «La forza normativa dei principi» (Cedam, 2007). Con il Mulino ha pubblicato «India» (2007).
Quando tutto il resto pare inaccettabile, l’unica salvezza potrebbe essere la certezza di un porto sicuro. Perché la solitudine è forse la vera condanna del principale protagonista dei romanzi di Pasini, il commissario Roberto Serra che crede di non aver più un posto dove ritrovare la sua pace. Aveva sperato perciò che, tornando dieci anni dopo a Case Rosse, paesino arroccato sull’Appennino dove la sua storia e la sua dannazione, erano ricominciate gli potesse servire. Proprio a Case Rosse, il borgo di mille anime arroccato sull’Appennino emiliano dove nel 1995 aveva trovato per la prima volta rifugio per fuggire da quelle indagini e da quegli omicidi che a Roma lo stavano distruggendo. Ma la notte di Capodanno , il 1 gennaio 1995, quando il suo pur fragile equilibrio pareva faticosamente riconquistato, aveva dovuto affrontare uno dei crimini più brutali della sua carriera. Uno spaventoso delitto commesso durante la notte in alto, al Prà grand, con due adulti e una bambina uccisi senza pietà. Un’ orribile rappresaglia che riconduceva alla sofferenza e all’orrore vissuti 50 anni prima in quel luogo, con il massacro commesso nel ‘45 dalle SS in ritirata e dai loro alleati repubblichini, decisi a far terra bruciata attorno a loro. L’inchiesta che l’aveva ghermito, l’aveva catapultato nell’inferno di un passato che pareva dimenticato e invece era ancora marchiato a fuoco nella memoria degli abitanti. E quell’ inferno era tornato a presentare il conto offendo spazio alla danza. Un dono o una maledizione? Insomma aveva indelebilmente segnato anche lui. Il ritrovato rapporto con Alice, unico insicuro lumicino, appeso a nuove piccole sicurezze, pian piano si era fatto traballante. La sua vita, la sua non-malattia che era parte di lui, le sue fughe continue, che si accumulavano una sull’altra lasciando cicatrici, erano tutte intrecciate con il suo nome : Alice. Non era servito il suo trasferimento a Treviso come capo ufficio immigrazione e neppure il suo rifugiarsi a Termine , il paesino di vigne. Non gli avevano impedito di scontrarsi di nuovo e ferocemente con l’aberrazione del male. E neppure il ritorno a Bologna e la nascita di Silvia mentre era ancora sospeso dal servizio, l’avevano reso più sicuro. Silvia era una bambina speciale, per certi aspetti, ma così forse come era speciale lui. E poco dopo il dottor Gardini, il medico che per tanti anni aveva tentato di trovare una spiegazione e curare la paurosa sindrome del commissario, era stato assassinato laggiù nella bassa, terra cara alla prosa di Guareschi, poco lontana dalle Reggia di Colorno. Anche senza l’appoggio della divisa si era sentito costretto ad andare. A far parte del ventaglio di detectives riuniti per uno strano e inesplicabile delitto: Massimo Minimo, comandante in capo del Ris, Mixielutzi capo della squadra mobile di Treviso in ferie e nume tutelare di Roberto Serra, commissario sospeso. Poi però, tornato in servizio con encomio, la sua volontaria scelta di allontanarsi. Perchè? Inquietudine? Vigliaccheria? Ha chiesto lui infatti tre anni prima di essere assegnato di nuovo a quel minuscolo commissariato di montagna. L’ha fatto perché forse lassù sperava di riuscire a chiudere con i fantasmi che l’ossessionavano e magari farcela a controllare in qualche modo la sua sindrome e la sua vita? Cosa tutt’altro che semplice. E fare il pieno di alcol di notte e poi correre come un pazzo chilometri su chilometri ogni mattina per sputare il veleno, non è la migliore scelta. Intanto il suo rapporto con Alice si sta avviando alla definitiva chiusura, lei ha ripreso la studio del padre, sta per sposarsi con un ricco coetaneo bolognese. Mentre lui annaspa inutilmente pare e la forzata e dolorosa separazione da Silvia, sua figlia, non aiuta. Poi a maggio, in un giorno che sembra scorrere inutile , senza sorprese come tutti gli altri: la chiamata del vicesindaco con la richiesta di correre nella frazione di Ca’ di Sotto per un incendio che sta divorando una cascina. Una cascina dove abitano un uomo e la sua compagna. Roberto Serra e l’agente scelta Rubina Tonelli, una romagnola dai capelli rossi giovane e stizzosa, mandata lassù, a Case Rosse, a scontare una punizione, devono raggiungere subito il posto sulla trentenne ma funzionante Campagnola del commissariato. I pompieri, chiamati per primi e già all’opera , stanno usando la schiuma per controllare il fuoco, ma la stalla con le bestie è già andata, solo una scrofa mezza arrostita è uscita ancora viva dalle fiamme. Tra i primi ad accorrere, per tentare di fare qualcosa, è stato Rigo Bagnaroli, il fratello maggiore di Burdigon, ex pugile , un omone di un metro e novanta che si è fatto medicare dai sanitari le ustioni per aver tentato invano di entrare. Quando divorato dalle fiamme crollerà il tetto, il corpo di Eros Bagnaroli, detto il Burdigòn, lo scarafaggio, semi carbonizzato verrà estratto dai vigili del fuoco da quanto resta della casa, ma quando, su richiesta del dottor Cherubini medico condotto, il capo dei pompieri e uno dei suoi riusciranno a girarlo, apparirà lampante che la causa della morte non è stata l’incendio. Al Burdigon hanno tagliato la gola. Per fortuna il suo sarà l’unico cadavere ritrovato nella cascina perché la sua compagna, scesa poco prima con il motorino in paese, li ha raggiunti e sta piangendo disperata. Il comandante dei vigili decreterà subito che secondo lui l’incendio è doloso e, per innescarlo , ritiene sia stata usata della miscela agricola. Quando poi ormai sta per scendere la sera, ci sarà l’arrivo sulla scena del delitto, di una squadra di carabinieri del Ris e di una di poliziotti della questura di Modena, con al comando Vito Corazza, gigantesco e dimenticato amico d’infanzia di Roberto Serra e capo della squadra mobile. Arrivo quasi in contemporanea simile a una carica di cavalleria, provocato dalla telefonata del Commissario di Case Rosse a Massimo Minimo, generale comandante del Ris, erre moscia, quando parla, quasi sosia di Clint Estwood e ancora suo nume tutelare. Telefonata al di fuori dalle procedure che Serra ha fatto appena si è reso conto di trovarsi davanti a un omicidio. Liquidati rapidamente dal collega di Modena, Roberto Serra e Rubina Tonelli credono di essere ormai tagliati fuori dal caso ma… Il generale Minimo non la pensa così, ha passato la notte sul cadavere di Bagnaroli e decreta scannamento. Insomma qualcuno ha ammazzato il Burdigon come un maiale. Poi, visto che si è scomodato a fare tutto quel lavoro solo perché Serra gliel’ha chiesto, il giudice istruttore assegnerà l’inchiesta a lui e a Corazza. Dopo dieci anni Serra ha un nuovo efferato delitto commesso a Case Rosse su cui deve indagare. Ma la gente del paese non collabora e lui si sente ingabbiato in un nuovo e insondabile muro di omertà, mentre la Danza, la sua complice e condanna, ricompare all’improvviso sempre pronta ad attaccare a tradimento… Con la falce della morte è già alzata per colpire ancora. Questa volta, però, Serra dovrà fare i conti anche sulla presenza della vivace, prepotente ma vulnerabile Rubina Tonelli, che, quanto lui, è costretta a confrontarsi con traumatici fantasmi. Un’improbabile aiutante ma forse per tutti e due arrivare a scoprire la verità potrebbe diventare il modo per darsi una meta, oppure farcela a superare le proprie dolorose ferite e in un certo qual senso persino pensare a sanarle. Chissà? Un’indagine del commissario Roberto Serra e dell’agente scelto Rubina Tonelli, molto intensa e coinvolgente, con l’irrinunciabile scenario di un tempestoso Appennino primaverile. Un’ indagine poi che, lasciando alla fine una serie di interrogativi in sospeso, apre la strada a potenziali futuri sviluppi narrativi. Torneranno entrambi in scena? Leggeremo ancora di loro? Perché no? Qualche commento: impossibile per me non citare il generale Minimo che definisce con malizia i poliziotti : figli illegittimi di Sherlock Holmes. E Ariston il ricchissimo, generoso ma forse inguaribile pasticcione padre di Rubina. Solo tenera e rassicurante invece la Nives coi suoi gatti, il suo sereno buon senso e le sue tagliatelle. E, a proposito di tagliatelle, per fortuna anche se ohimè molto più sfumato stavolta rispetto ai precedenti libri, con Serra e il suo creatore Pasini quando si mangia lo si fa e bene e Roberto Serra, quando trova la voglia di cucinare, resta sempre un mago ai fornelli.
Giuliano Pasini nato a Zocca, è un orgoglioso uomo d’Appennino che vive in pianura, a Treviso. Socio di Community, una delle più importanti società italiane che si occupano di reputazione, è presidente del Premio Letterario Massarosa e in giuria di altri concorsi italiani e internazionali. Il suo esordio, Venti corpi nella neve (ora Piemme), diventa subito un caso editoriale. Seguiranno Io sono lo straniero e Il fiume ti porta via (entrambi Mondadori), tutti con protagonista Roberto Serra, poliziotto anomalo e dotato di grande umanità, in perenne fuga da sé stesso e dal male che lo affligge. È così che si muore ne segna il ritorno a Case Rosse dieci anni dopo il primo romanzo.