“Ho capito che, anche perdendo tutto, si può ricominciare da zero”.
Alzi la mano chi non ha mai subito il fascino della cultura giapponese… Un paese, il Giappone, che per usanze e tradizioni ha ancora molto da raccontare, al mondo: un’ottima base, insomma, per l’arte in genere che ha saputo sfruttare al massimo la curiosità che questo paese ha saputo suscitare.
Un esempio è certamente “Come petali nel vento” di Haki Harada, edito da Garzanti e tradotto da Daniela Guarino.
Miho e Maho sono sorelle: la prima lavora per una grande azienda, vive da sola e una coincidenza la spinge a rivedere ciò che credeva certo, nella sua vita. Capisce che ha bisogno di un cambiamento, e per farlo, deve rivedere le sue pratiche di risparmio, le spese giornaliere, i costi fissi, il budget per gli extra. Ha bisogno di pianificare sé stessa, di entrare nel mondo di chi guarda un po’ più in là del presente. Maho ha una figlia e ha smesso di lavorare quando ha deciso di sposarsi. La sua vena “economica”, quell’istinto di sopravvivenza e di ordine che ha imparato nella società di brokeraggio dove ha lavorato, è rimasta viva e attiva: la donna, infatti, ha organizzato spese ed entrate in maniera strutturata e strategica, prendendo spunto anche dagli insegnamenti della nonna Kotoko.
La nonna Kotoko è figlia di un sistema di analisi dei costi e del risparmio che ha applicato e trasmesso alla sua famiglia: il Quaderno per la contabilità della domestica. Il Quaderno è un sistema infallibile, nato nel secolo scorso, e divenuto uno strumento giudicato indispensabile per la programmazione delle spese di una famiglia. Un metodo che ha spiegato alle nipoti, quando erano ragazze, e che ritorna nella loro vita adulta.
Un altro personaggio che si incontra, nel mezzo della narrazione, è Tomoko (mamma delle ragazze e nuora di Kotoko). Inizialmente, questo personaggio potrebbe sembrare marginale, ma nel corso della narrazione acquista un posto strategico: la donna, attraverso la sua vicenda personale, introduce una buona parte dei temi che l’autrice ha raccontato.
“Come petali nel vento” potrebbe sembrare un romanzo al femminile – e in parte lo è -, ma la presenza maschile è indispensabile per comprendere meglio i tanti significati che questo romanzo ha consegnato al lettore. Significati e temi universali, senza confini di stato e senza tempo, pur riuscendo a mantenere il racconto ancorato alla cultura giapponese.
Il primo tra tutti è certamente l’indipendenza economica. Haki Harada ha saputo costruire un’intera trama – non intricata ma lineare e ben strutturata – sull’economia domestica che riguarda tutti, non solo chi ha figli, famiglia, casa di proprietà. Il risparmio sembra essere un metodo da studiare e applicare, e in esso si racchiudono valori e ideali, doti e obiettivi. Un insegnamento eterno che conduce a risultati personali e tangibili; un’arte vera e propria, insomma.
Il secondo tema che emerge, strettamente legato al precedente, è il lavoro. Questo tema si apre come un ventaglio e lascia emergere sottotemi, tutti di particolare interesse: posizione lavorativa, licenziamento, mobbing, ricerca attiva, soddisfazioni e meriti. Il ruolo della donna è un protagonista e viene accompagnato da un bell’excursus nella ricerca del lavoro in età pensionabile e nel long life learning. Non solo. Si evidenzia il ruolo della donna nella famiglia: il senso del dovere, del sacrificio e un pizzico di colpa che, seppur ingiustificato, si presenta puntualmente.
Un ulteriore messaggio che ho trovato rilevante, in questo romanzo, è legato alla sanità. Grazie a nonna Kotoko e mamma Tomoko emerge il tema dell’insicurezza economica, del divario e della preoccupazione che la mancanza di salute genera e che pesa sui risparmi della persona (e della famiglia).
In ultimo, ma non per ordine di importanza, “Come petali nel vento” ci permette uno sguardo sulla sicurezza economica e sociale, sul debito scolastico, sul matrimonio (e l’impegno che questo genera), sui legami familiari e sulla solidarietà tra donne.
Hika Harada ha scelto di affidare la narrazione a una voce onnisciente che, dalla sua posizione, riesce a dar spazio ai tanti personaggi che appaiono e che determinano l’andamento della narrazione; un narratore che, inoltre, ha voluto raccontare il presente mostrando i fatti salienti del passato attraverso dialoghi e brevi ma precise descrizioni.
HIKA HARADA (1970) è nata nella prefettura di Kanagawa, nel sud del Giappone. Dopo la laurea in Lettere moderne, ha lavorato come sceneggiatrice e scrittrice, vincendo numerosi premi. Vive a Tokyo con il marito e la famiglia. Come petali nel vento è stato uno dei più grandi successi editoriali degli ultimi anni, diventando un bestseller e rimanendo in classifica per mesi.
Source: libro inviato al recensore dall’editore. Ringraziamo l’Ufficio Stampa Garzanti e Alice per la disponibilità e la cortesia.
La storia de “La ragazza bambù” di Edward van de Vendel edita da Sinnos, recupera “Taketori monogatari” un antico racconto popolare giapponese, risalente, sembra, al X secolo, considerato il più antico esempio di narrativa nipponica, scritto in lingua giapponese tardoantica. L’autore prende la vicenda del passato e la riattualizza grazie anche alle colorate e delicate illustrazioni di Mattias De Leeuw, narrando al lettore di oggi la storia di Jie, una ragazzina trovata per caso dentro ad un canna di bambù, recisa da un tagliatore di bambù. La piccola, grande come un pollice, diventa la figlia adottiva per il tagliatore e la moglie che figli non ne hanno. Jie è bella, misteriosa, affascinante, molto legata e riconoscente a quelli che per lei sono diventati i suoi genitori. La ragazzina cresce, ma resta sempre minuta e piccola, questo non le impedisce però di fare innamorare molti giovanotti che la vorrebbero sposare. Jie, che per i suoi modi di dire, fare, pensare, sembra venire da un altro pianeta, mette in difficoltà i suoi tanti pretendenti sottoponendoli dure prove, molto difficili da portare a compimento, proprio perché come dice lei: “non può sposarsi”. Gli aspiranti fidanzati rimangono destabilizzati da ciò e dalle imprese che devono compiere, perchè a volte sono davvero ardue e irrealizzabili e poinon possono fare nulla contro la decisione di Jie, che resta ferma sulle sue posizioni, fino a quando, un giorno arriverà un giovanotto senza nome che metterà in crisi le volontà della ragazza. Lui, misterioso quanto lei (è il giovane imperatore in incognito), non demorde e con tutta la sua forza di volontà cercherà di superare le prove messe in atto dalla ragazza e le scriverà lettere su lettere per farle capire quanto grande e forte è il suo sentimento d’amore. I lettori assistono a questa emozionante vicenda al fianco di un’altra ragazzina che, quasi da un’altra dimensione, segue la vicenda amorosa di Jie, e questa ragazzina che osserva la storia di Jie, non è semplice spettatrice, ma è parte fondamentale della narrazione e della vita di Jie. “La ragazza bambù” di Edward van de Vendel è una narrazione delicata sull’amore, ma anche sull’importanza della libertà per vivere in armonia con se stessi e con il mondo circostante. Nella narrazione ci sono tanti sentimenti che vengono messi in gioco: l’amore, la tenacia, la costanza e la dedizione, ma anche l’impegno per trovare il proprio posto nel mondo, superando le avversità che la vita riserva e mantenendo i legami con coloro che sono parte e parti fondamentali della propria esistenza. Traduzione Laura Pignatti.
Edward Van De Vendel è nato a Beesd nelle Fiandre. Da piccolo sognava di diventare un calciatore o un cantante, ma poi, proprio come suo padre e sua madre, ha cominciato a lavorare come maestro, insegnando in diverse scuole. Dopo ancora ha cominciato a scrivere per ragazzi, pubblicando decine di titoli, tra albi illustrati e romanzi per adolescenti.
Source: ricevuto dalla casa editrice Sinnos. Grazie all’ufficio stampa Sinnos.
Kappalab continua a proporre libri che hanno in qualche modo a che fare con l’animazione giapponese, ripresentando dopo alcuni anni il romanzo La città incantata di Sachiko Kashibawa, già noto come Il meraviglioso paese oltre la nebbia, in una nuova edizione.
Come suggerisce il titolo, il libro ha ispirato il maestro Hayao Miyazaki per l’omonimo film d’animazione, vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino e del Premio Oscar quale miglior film di animazione, capace di sdoganare definitivamente gli anime a livello mondiale come storie interessanti e di grande valore.
Fiaba, urban fantasy, storia su dimensioni parallele, La città incantata racconta il difficile momento in cui da bambini si scopre il mondo al di fuori dall’ambiente familiare, senza la mediazione di genitori e nonni, che sia la scuola, che sia un viaggio interiore o esteriore che si compie. Paragonato da alcuni a classici come Il mago di Oz e Alice nel paese delle meraviglie, La città incantata si rifà anche molto alle fiabe e alle leggende giapponesi, mescolando mondi e universi.
Il libro racconta la vicenda di Chihiro, che si perde in un paese all’apparenza normale, ma popolato da strani personaggi e avvolto in un’atmosfera misteriosa e irreale, dove deve imparare a vivere senza l’aiuto dei genitori, lavorando nella pensione di una misteriosa vecchia, forse strega.
Un racconto di crescita e formazione adatto ad ogni età, testimonianza di una letteratura interessante e in fondo poco nota se non nei suoi rapporti appunto con manga e anime come è quella per ragazzi e di genere fantastico presente nel Paese del Sol levante.
In una caffetteria in Giappone Gorō e Fumiko stanno discutendo di una cosa seria: la rottura del loro fidanzamento. Gorō, stranamente distaccato, liquida in fretta la questione e lascia Fumiko al tavolino di quello strano locale. Fumiko si guarda intorno triste e abbattuta: nella caffetteria non c’è neanche una finestra, si trova all’interno di un seminterrato. A scandire il passare del tempo ci sono tre grossi orologi antichi da parete, che segnano ognuno un orario diverso; il din-don di un campanello segnala l’ingresso e l’uscita dei clienti, che per lo più sembrano abitudinari. Un posto forse non alla moda, ma particolare, proprio come il suo nome, quello che aveva attratto Fumiko, ricordandole una canzone che cantava sempre da piccola.
In realtà quella caffetteria non è particolare solo per il suo aspetto, ma anche per una leggenda metropolitana che qualche anno prima le aveva fatto conquistare una certa fama. Pare infatti che in quel locale sia possibile viaggiare nel tempo. Fumiko non si ricorda immediatamente di questo particolare, ma dopo una settimana dalla rottura con Gorō torna al bancone, pronta a convincere Kazu, la cameriera, a riportarla indietro; purtroppo non è così semplice, non si tratta solo di esaudire un desiderio o pagare un servizio.
Kazu inizia così a elencare a Fumiko le severe regole che già in passato hanno scoraggiato molte persone dal tentare:
Una volta tornato nel passato, potrai incontrare solo le persone che sono state nel locale.
Una volta tornato nel passato, non puoi fare niente per cambiare il presente.
C’è una sola sedia che ti permette di tornare indietro nel tempo e mentre sei nel passato non ti puoi muovere da quella sedia.
C’è un limite di tempo: il viaggio inizia appena ti verrà versato il caffè in una tazza e dovrai berlo prima che si raffreddi. Quando finirai il caffè tornerai nel presente.
Quattro storie compongono il romanzo d’esordio di Toshikazu Kawaguchi, ma definirli racconti è riduttivo, si tratta di qualcosa di più organico, meno indipendente. La cornice comune è sicuramente la caffetteria, ma anche i personaggi appaiono e scompaiono dalla scena, giocando talvolta il ruolo di comparse, altre quello di protagonisti. Anche quando un personaggio non è il protagonista della storia racconta qualcosa di sé, un indizio che si riaccenderà come una lampadina nella mente del lettore quando quello stesso personaggio sarà al centro della storia successiva.
Questa struttura ricorre nella letteratura giapponese, ma anche nella produzione cinematografica, basti pensare alla serie di Netflix Midnight Diner, tratta dall’omonimo manga di Yarō Abe: in quel caso tutte le storie ruotano intorno a un ristorante notturno, ma l’andamento è sicuramente simile. Finché il caffè è caldo riprende però un altro topos letterario, ovvero quello dei viaggi nel tempo, ma lo fa mutilandolo di quella che è la sua attrattiva fondamentale: la capacità di modificare passato e futuro.
In fin dei conti, che uno torni nel passato o viaggi nel futuro, il presente non cambia comunque. E allora sorge spontanea la domanda: che senso ha quella sedia?
All’inizio del libro la domanda è legittima ma proseguendo nella lettura si capisce che, rievocando T. S. Eliot, quello che Kawaguchi vuole sottolineare è che il senso sta tutto in come si affronta il viaggio (metaforicamente nel tempo, realmente nella vita) e non nel viaggio stesso. I suoi personaggi hanno dei rimpianti, dei moti di orgoglio, ma davanti all’impossibilità di modificare quello che la vita ha in serbo per loro, capiscono che la vera chiave di volta si trova nel loro atteggiamento.
Con un libro sui viaggi nel tempo l’autore esalta l’importanza del presente, l’essenza stessa del vivere giorno per giorno, momento per momento, senza dare niente e nessuno per scontato.
Toshikazu Kawaguchi è nato a Osaka, in Giappone, nel 1971, dove lavora come sceneggiatore e regista. Con Finché il caffè è caldo, suo romanzo d’esordio, ha vinto il Suginami Drama Festival.
Source: libro del recensore.
Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.
A oltre dieci anni dall’uscita in Giappone, è arrivato in Italia Red Girls di Sakuraba Kazuki, una saga al femminile attraverso tre generazioni di donne, vissute nel Paese del Sol levante dal dopoguerra ad oggi, tra tradizione e modernità, interessante da vari punti di vista e non solo perché immerge in un mondo che ormai non viene sentito tanto lontano.
La prima donna che incontriamo è Man’yō, una bambina lasciata da una popolazione che ancora negli anni Quaranta del secolo scorso viveva in maniera nomade sui monti, adottata da una coppia nel villaggio di Benimidori: Man’yō ha il dono della preveggenza, e purtroppo scopre prima che persone a lei care moriranno, un segreto che deve tenere nascosto e non è il solo: la sua vita si incrocia con quella della ricca e potente famiglia Akakuchiba, proprietaria di un’importante fonderia sulle montagne che ha cambiato il volto alla zona introducendo la modernità in mezzo a una società ferma al passato, e del suo complicato erede, una delle tante persone di cui la ragazza vedrà la fine.
Man’yō ha una figlia Kemari, ragazza ribelle che cresce nel Giappone anni Settanta, diventando per diverso tempo parte di una banda di motocicliste che scorrazza in zona, salvo poi raccontare la sua esperienza in un manga che diventa popolarissimo, consacrandola tra le migliori autrici della sua generazione, una fama che brucerà e avvolgerà la sua vita.
Tōko è la figlia di Kemari, l’io narrante della storia, una giovane donna che si autoproclama inutile, come molte altre persone della sua generazione: non ha ereditato le facoltà della nonna e il talento artistico della madre, e nel cercare di ricostruire le loro storie cercherà un posto nel mondo, ma anche di risolvere il mistero legato a Man’yō che poco prima di morire ha detto Sono un’assassina.
Una storia al femminile, che racconta con atmosfere sognanti ma sguardo attento alla realtà, i cambiamenti di un Paese che è passato da un mondo agricolo legato a leggende e folklore ad essere una potenza moderna, senza dimenticare però la sua anima, cambiamenti che hanno toccato le donne, anche lì alle prese con una difficile affermazione di sé, aiutata comunque anche dalla creatività e della cultura pop, che in manga e anime ha trovato un elemento molto importante.
Nelle pagine di Red Girls si parla di industrializzazione e isolamento sociale, degli hikikomori e degli otaku, di tradizioni e modernità, del rapporto tra città e campagna, in una storia per cui l’autrice, come respiro, si è ispirata più che ai suoi connazionali, a maestri del realismo magico come Gabriel Garcia Marquez e Isabel Allende.
Un libro comunque per chi ama il Giappone di ieri e di oggi, a cominciare da quello legato a manga e anime, ma anche una saga familiare insolita e affascinante, dove si parla di lutto, gioia, legami, affetti, creatività, voglia di vivere, ricerca della verità e scoperta del mondo.
Sakuraba Kazuki è nata nel 1971 e ha iniziato la sua carriera al college, scrivendo sceneggiature e fanfiction ispirate ai videogiochi. Con Red Girls ha vinto il Mystery Writers of Japan Awards. Per My Man, un racconto sull’amore incestuoso tra un padre e una figlia, ha vinto il Naoki Prize nel 2008. È conosciuta per essere una nota bibliofila e legge più di 400 libri l’anno.
A oltre vent’anni dalla sua uscita arriva in Italia questa novella lunga scritta da un’autrice giapponese, con l’aggiunta di altri racconti con gli stessi personaggi, arriva finalmente in Italia, portando ai suoi lettori e lettrici una storia solo all’apparenza minimalista, e in realtà ricca di significati.
Mai ha tredici anni e non vuole più andare a scuola. La mamma decide di mandarla in campagna dalla nonna, una signora inglese arrivata tanti anni prima in Giappone dove ha sposato un giapponese ed è stata soprannominata da figlia e nipote la Strega dell’Ovest. Mai scoprirà un mondo fatto di marmellate e erbe, lontano dalla vita convulsa della modernità e troverà la possibilità di cercare nuove strade nella sua vita, anche con il rapporto difficile con il vicino di casa della nonna, lo strano Genji. Ma i nonni non sono eterni anche se possono lasciare molto dietro di sé, come scoprirà la protagonista qualche tempo dopo.
Una fiaba moderna, che parla di rapporti tra le generazioni, di crescita personale, di rimpianto, di voglia di cambiare, breve come pagine ma che lascia dietro molto mentre la si legge. Un ritratto abbastanza insolito della società giapponese contemporanea, anche se il tema del ragazzo o ragazza in difficoltà a scuola che si chiude in sé non è nuovo ed è di stringente attualità, dove si parla del contrasto tra città e campagna, molto presente in Giappone dove esistono, sembra strano, luoghi ancora avvolti della natura, e dei tanti stranieri che negli anni, anche decenni fa, si sono comunque trasferiti lì costruendosi una vita.
Esiste un film, ovviamente inedito in italiano, tratto da questa storia, che comunque sarebbe perfetta per un film d’animazione del grande Hayao Miyazaki, ma anche di Makoto Shintai o Ayumu Watanabe, una storia per tutte le età, perché in ogni momento della vita si può trovare qualcosa in questo incontro tra una nonna e una nipote, sospeso nel tempo ma che resterà per sempre nel cuore di Mai.
E si spera di riuscire a leggere presto le altre opere dell’autrice, pluripremiata in Giappone ma poco nota fuori.
Kaho Nashiki è nata nel 1959 nella zona più meridionale del Giappone si è laureata a Kyoto. Scrive sia per ragazzi che per adulti e il suo stile ha delle forti influenze fantastiche con elementi spirituali. Il suo romanzo d’esordio del 1994 Un’estate con la Strega dell’Ovest ha vinto numerosi premi ed è tutt’ora un bestseller in Giappone da cui è stato tratto un film. Ha continuato a scrivere opere premiate che purtroppo ancora non sono state tradotte in italiano.
Provenienza: libro preso in prestito nelle Biblioteche del circuito SBAM.
L’associazione culturale Yoshin Ryu, che da quarant’anni si occupa di divulgare a Torino la cultura giapponese partendo dalle arti marziali, collabora per la terza volta con il MAO, Museo di arte orientale, presentando fino al 1 marzo la mostra Guerriere dal Sol levante, dedicato alle donne combattenti giapponesi della Storia e dell’immaginario fantastico.
La mostra è accompagnata da un ottimo catalogo, che racconta un’epopea poco nota, quella delle combattenti nel Paese del Sol levante, donne addestrate a combattere e per difendere la loro casa e sul campo di battaglia, ma anche delle letterate, visto che il primo romanzo mai scritto nella Storia è di una donna, il Genji Monogatari di Murasaki Shikibu. Un’epopea che però è giunta fino ad oggi, rivivendo nelle protagoniste di manga, anime, film, fumetti e telefilm e costruendo un immaginario amatissimo e in crescita continua con nuovi volti e nuove storie.
Il catalogo è in due lingue, italiano e inglese, e oltre a presentare gli oggetti e le opere esposti in mostra in un percorso davvero suggestivo, racconta anche alcuni approfondimenti davvero appassionanti sugli argomenti trattati.
Dopo una presentazione di Amamiya Yuji, console generale del Giappone a Milano, un omaggio di Marco Guglielminotti Trivel, direttore del MAO e due interventi di Cesare Turtoro, presidente di Yoshin Ryu e Daniela Crovella, direttrice artistica della mostra si viene immersi nel mondo delle guerriere giapponesi, partendo dalle figure delle Onnabugeisha, le combattenti storiche, per poi passare alle ninja, guerriere dell’ombra, alle letterate da Murasaki Shikibu ad oggi, alle attrici, che molto hanno faticato per emergere e alle donne guerriere rappresentate nelle stampe giapponesi.
Infine, Fabrizio Modina, curatore della sezione sulla cultura pop e studioso di fumetti e fantastico, fa immergere nelle donne guerriere dell’immaginario pop degli ultimi decenni, mettendo a confronto Occidente e Oriente con icone che hanno cresciuto e aiutato più generazioni di ragazze a cambiare.
Il catalogo si chiude, come la mostra, con le protagoniste dell’ultima stanza, donne importanti del passato e del presente raffigurate su lanterne in stile giapponese, ritratte da giovani artiste di oggi, con i volti di personaggi come Boudicca, Zenobia, Ipazia, Artemisia Gentileschi, Ada Lovelace, Emmeline Pankhurst, Virginia Woolf, Frida Kahlo, Rosa Parks, Rita Levi Montalcini, fino a Asia Ramazan Antar, martire della causa curda, così attuale: la mostra è dedicata infatti alle donne curde e alla loro lotta per la libertà di tutti, non solo la loro.
Un catalogo di una mostra unica e interessante, ma anche un libro interessante e valido a prescindere, sia si amano le civiltà antiche sia se ci si è nutriti per anni con manga, anime e cultura pop, un inno al potere delle donne e a far scoprire storie che sono patrimonio di tutti e tutte e che possono fare qualcosa per far cambiare il mondo.
L’investigatrice privata Murano Miro viene contattata dall’editrice e giornalista femminista Watanabe Fusae, per un incarico che a prima vista potrebbe sembrare poco più che semplice routine: trovare Isshiki Rina, una ragazza giunta a Tokyo qualche tempo prima, finita nel giro dei porno amatoriali e degli snuff movies, sparita e forse morta suicida.
Miro inizia a indagare, più che altro perché al momento non ha molto altro da fare, aiutata anche dal suo nuovo vicino Akihiko Tomobe, un quarantenne che gestisce un bar per gay nel quartiere di Shinjuku. Presto il suo lavoro prenderà una piega pericolosa, Miro inizierà a essere vittima di telefonate e gesti intimidatori, mentre man mano scoprirà il mondo degli appassionati di film porno a basso costo e delle case di produzione che li realizzano, dove spesso le ragazze rimangono vittime di veri e propri stupri, come avviene in uno dei film interpretati da Rina, la giovane scomparsa, mentre in un altro sembra che commetta un suicidio in diretta.
Miro indaga nelle vie di Kabukichō, il quartiere a luci rosse di Tokyo, quasi tutto in mano alla yakuza, suscitando i fastidi tra l’altro della Create Pictures, la casa produttrice dei film in questione, dove spicca il regista Yashiro Sen, personaggio decisamente ambiguo ma purtroppo non privo di fascino. Ma forse la vera strada per capire cosa è successo a Rina, che usa da anni un nome falso invece che quello vero, Yukie, non è all’interno di quel mondo spietato, violento e scabroso, ma in altri luoghi, dove la ragazza è vissuta da bambina, e nel mistero legato alla sua nascita e alla madre assente e emigrata poi negli States senza lasciare recapiti. Quando Watanabe Fusae muore all’apparenza suicida da un grattacielo Murano Miro capisce che la situazione si sta complicando sempre di più, e che la verità può essere vicina ma anche molto pericolosa, oltre a coinvolgere persone insospettabili.
Natsuno Kirino racconta di nuovo una storia di donne giapponesi di oggi, tra tradizioni, modernità, trasgressione, regole, discese agli inferi, mettendo in scena le molte contraddizioni di una società interessante ma molto contraddittoria soprattutto per quello che riguarda l’altra metà del cielo. Una storia di donne, ma anche un viaggio nell’animo umano e una ricerca della verità dietro ai comportamenti autolesionisti di una giovane, comune a molte sue coetanee e coetanei in particolare nel Paese del Sol levante, oltre che un thriller disseminato di piste e agnizioni.
Murano Miro si dimostra una nuova figura di investigatrice alla ricerca della verità, mostrando come le tematiche alla base del thriller di qualità, la voglia di giustizia, l’esame sociale, la critica di un mondo, siano valide sotto qualsiasi latitudine, come in questa Tokyo cupa e piovosa.
Natsuo Kirino è nata nel 1951 a Kanazawa, un’antica città del Giappone centrale. Nel 1993 si è aggiudicata il premio Edogawa Ranpo con il romanzo Pioggia sul viso. Con Le quattro casalinghe di Tokyo ha raggiunto una notorietà internazionale e ha vinto il prestigioso premio dell’Associazione giapponese degli autori di romanzi polizieschi. Le sue altre opere sono Real world, Grotesque, Morbide guance. Il suo sito ufficiale è http://www.kirino-natsuo.com/
Source: libro preso in prestito nelle biblioteche del circuito SBAM.
Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.
Il mondo (o i mondi) di Banana Yoshimoto sono universi rarefatti e segreti, impalpabili e porosi come la carta di riso, fragili per certi versi, o per lo meno è fragile il microcosmo di sensazioni, percezioni, suggestioni che evocano, nel quale si entra in punta di piedi, con la sensazione che le pareti possano disintegrasi all’improvviso, come bolle di sapone. C’è una purezza, un amore per la natura, tipicamente giapponese, un lindore, un ordine, dove fosse anche un granello di polvere messo nel posto sbagliato potrebbe disturbare l’armonia del tutto. Se amate questo tipo di letteratura, in cui la perfezione e semplicità formale si fonde con una certa profondità spirituale, Banana Yoshimoto è sicuramente l’autrice che fa per voi, ma se non amate questo gioco di equilibri, forse è meglio che vi asteniate dalla lettura.
Esteriormente le sue storie non hanno trame complesse o strutturate, gli avvenimenti realmente importanti, sono importanti per l’economia dei personaggi (quasi unicamente per loro), un abbandono, una delusione sentimentale, una scoperta, una presa di coscienza, un portafortuna ricevuto in dono, insomma difficilmente assimilabili a punti di svolta reali, o mutamenti radicali.Tutto è accennato, velato, niente fratture drammatiche, anche il dolore, la sofferenza del vivere hanno un che di estetizzante, anche la sofferenza insomma si trasforma in bellezza e Banana Yoshimoto narra questo avvicendarsi di stati d’animo, di riflessioni sul vivere, di progressi duramente conquistati con la stessa lievità e delicatezza di un piccolo corso d’acqua tranquillo che placido confluisce in un fiume.
Una scrittura molto femminile, cadenzata da periodi brevi e parole preziose, e se i moti dell’anima sono caratterizzati da una certa lentezza, un senso di arricchimento accompagna comunque la lettura, come se davvero la crescita dei personaggi si accompagnasse a una crescita anche del lettore. Insomma una lettura spiritualmente positiva, di arricchimento interiore, ma che necessita di pazienza. Il giardino segreto è il terzo volume della quadrilogia Il Regno, sono già usciti Andromeda Heights e Il dolore, le ombre, la magia e si aspetta il volume conclusivo. Forse un errore leggere questo romanzo slegato dagli altri, si perde parte dei riferimenti, ma tuttavia accostarsi alla Yoshimoto mi pareva doveroso, e ho commesso questo azzardo. E’ il suo primo libro che leggo (perlomeno interamente, di Kitchen avevo letto solo alcune sue parti), e sebbene non rientra nel mio genere abituale di letture, ho trovato l’esperienza positiva.
La letteratura giapponese (anche moderna) mi ha da sempre affascinato, rientrando in un ambito di sensibilità e cultura così diversa dalla nostra, così lontana. Il personaggio di Shizukuishi, voce narrante del romanzo, si ricollega se vogliamo a un vasto gruppo di eroine romantiche di tanta letteratura sia occidentale che orientale, che filtrano la vita attraverso i sentimenti e il suo amore per Shin’chirō, se vogliamo, acquisita quella valenza solenne di percorso di crescita e lotta contro una più generica solitudine forse più metafisica che reale.
E se il punto di svolta, o per lo meno il twist principale, lo raggiungiamo alla visita del giardino di Takahashi, già avevamo capito che qualcosa non andava, che la precarietà del vivere e dell’amore (per lo meno di quell’amore) stavano avendo il sopravvento. La tristezza e la malinconia di questa scoperta, (che forse tanto scoperta non è, per lo meno non è inattesa) si intrecciano con la forza del personaggio, che non perde fiducia nei sentimenti, stemperati nell’ amicizia o nell’affetto per la nonna, maga delle erbe. Non ci resta dunque che aspettare l’ultimo e conclusivo capitolo, e se possibile recuperare i due precedenti. Traduzione dal giapponese di Gala Maria Follaco. Buona lettura.
Banana Yoshimoto (Tokyo, 1964) ha conquistato un grandissimo numero di lettori in Italia a partire da Kitchen, pubblicato da Feltrinelli nel 1991, e si è presentata come un autentico caso letterario. Dei suoi altri libri, tutti pubblicati da Feltrinelli, ricordiamo: N.P. (1992), Sonno profondo (1994), Tsugumi (1994), Lucertola (1995), Amrita (1997), Sly (1998), L’ultima amante di Hachiko (1999), Honeymoon (2000), H/H (2001), La piccola ombra (2002), Presagio triste (2003), Arcobaleno (2003), Il corpo sa tutto (2004), L’abito di piume (2005), Ricordi di un vicolo cieco (2006), Il coperchio del mare (2007), Chie-Chan e io (2008), Delfini (2010), Un viaggio chiamato vita (2010), High & Dry: Primo amore (2011), Moshi moshi (2012), A proposito di lei (2013), Andromeda Heights. Il Regno 1 (2014), Il dolore, le ombre, la magia. Il Regno 2 (2014), Il lago (2015), Il giardino segreto. Il Regno 3 (2016) oltre ad alcuni racconti nella collana digitale Zoom (Moonlight Shadow, 2012, Ricordi di un vicolo cieco, 2012, La luce che c’è dentro le persone, 2011). Banana Yoshimoto ha vinto il premio Scanno nel 1993, il premio Maschera d’Argento nel 1999 e il premio Capri nel 2011.
Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Chiara dell’ Ufficio stampa Feltrinelli.
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L’arte culinaria è in grado di abbattere i dissidi e di avvicinare le persone? In ambito letterario sì e lo dimostra il romanzo Il ristorante dell’amore ritrovato della scrittrice giapponese Ito Ogawa, pubblicato da Beat. La storia prende il via quando Ringo, una giovane addetta al lavoro di cucina in un ristorante turco di Tokyo, scopre che il suo fidanzato, un maitre di origine indiana con il quale convive da un po’, se n’è andato per sempre, svuotando di tutto l’appartamento che condividevano. Nulla è rimasto. L’ex della protagonista non solo ha portato via i mobili, quadri, vestiti e utensili da cucina. Lui si è preso pure il mortaio di epoca Meiji che Ringo aveva ereditato dalla nonna materna. La giovane è così traumatizzata da non riuscire più a parlare. La sua voce si è come volatilizzata e per mettere ordine alla tremenda pena d’amore, Ringo torna nel villaggio ai piedi del Monte delle Tette, dal quale era scappata quando aveva 15 anni. Arrivata a casa, la giovane dovrà imparare a convivere con Ruriko, quella madre con la quale ha sempre avuto un rapporto conflittuale. Quella donna che, secondo Ringo, non è mai stata in grado di amarla abbastanza e davvero. Sarà nella tranquillità dei monti giapponesi che la protagonista, non solo cercherà di appianare i suoi dolori, ma darà forma al Lumachino. Un piccolo ristorante su prenotazione, che ospita pochi clienti (una persona o un coppia al giorno), per i quali la ragazza prepara dei menù ad hoc, dando forma ai desideri dei commensali. Un bel giorno tra gli avventori di Ringo, ci sarà sua madre Ruriko e, cucinando per lei, dopo un iniziale imbarazzo, la nascente cuoca comprenderà molto del carattere della mamma e degli eventi che, purtroppo, hanno creato tra loro una distanza quasi incolmabile. Il romanzo di Ito Ogawa non è solo la storia di una ragazza alle prese della ricerca della pace esistenziale perduta e di una voce che non vuole tornare. Il ristorante dell’amore ritrovato è una storia che porta il lettore dentro ad un mondo affascinate (il Giappone) nel quale i sapori, le forme e i colori dei piatti preparati con amore da Ringo prendono forma dettagliata nella mente del fruitore. Ogni singola portata assomiglia ad una vera e propria opera d’arte e Ringo si rivela una cuoca saggia ed esperta che, non solo riesce a soddisfare i clienti, ma con quello che cucina, lei è in grado di trasformare e cambiare le vite delle persone. Il libro della Ogawa è una narrazione intensa e delicata, in grado di avvicinare noi lettori alla scoperta del mondo intimo di Ringo e della sua famiglia. Allo stesso tempo, Il ristorante dell’amore ritrovato ci fa conoscere le tradizioni gastronomiche della cultura nipponica, così lontana e diversa dalla nostra italiana, ma ricca di gusti tutti da scoprire. Inoltre, la placida e diligente Ringo ci insegna come l’arte della preparazione dei piatti è, e deve continuare ad essere, un vero e proprio atto di amore per gli altri. Traduzione di Gianluca Coci.
Nata nel 1973, Ito Ogawa è una nota scrittrice giapponese di canzoni e di libri illustrati per ragazzi. Con Il ristorante dell’amore ritrovato (Neri Pozza, 2010), il suo romanzo d’esordio, ha ottenuto un grande successo di critica e pubblico. Il libro si è aggiudicato il Premio Bancarella della Cucina 2011. Nel 2012 pubblica La cena degli addii (Neri Pozza).Ha un sito web (solo in giapponese) dove propone ricette di cucina.
Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Giulia dell’ufficio stampa BEAT.
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Non è un caso che, in letteratura, quel sentimento di vuoto interiore, di perdita che si prova a fine di un amore totalizzante sia percepito come qualcosa di esclusivamente femminile.
Come se gli uomini dovessero (per forza) farsi scivolare tutto addosso. I veri uomini non piangono mai, si sa.
Poi arriva Murakami e, con sette racconti brevi, scardina l’ordine precostituito.
Sette uomini soli protagonisti di altrettante storie brevi. Al centro di ogni racconto una donna: l’amata, irraggiungibile e assente, lascia dietro di sé un carico di emozioni e sensazioni spiazzanti. Sette “aiutanti”, quasi come a rispettare lo schema classico della fiaba di Propp, sopraggiungono in soccorso del protagonista. Sono loro a raccontarci la storia, secondo un punto di vista straniante, del tutto inaspettato: una prospettiva obliqua, che si tramuta spesso in quell’occhio critico capace di trovare una soluzione, anzi “la” soluzione: quella che il protagonista si rifiuta di vedere.
“A volte perdere una donna significa perderle tutte.”
Esorcizzare e superare un lutto, accettare la fine di un amore o mandare giù un tradimento. Il punto di vista maschile sull’amore e le situazioni ad esso collegate sembra inusuale, ma perché dovrebbe essere così? Gli uomini non soffrono?
Non piangono?
Nulla è lasciato al caso nella narrazione di Murakami. Il registro stilistico legato al fantastico viene messo da parte per far posto ad un impeccabile realismo. Si può parlare di temi amorosi con protagonisti al maschile senza far ricorso ad artifici.
Ricordi, dolore, assenza e distacco si mescolano in un turbine di parole, volti e situazioni.
C’è l’uomo di mezza età che ha perso la moglie, malata di tumore, e non riesce a sopportare il vuoto lasciato nella sua vita. Pur consapevole che in vita la donna l’avesse più volte tradita. C’è quel ragazzo un po’ strano che sembra aver trovato l’amore della sua vita fin dalle elementari, ma che poi, a vent’anni, si rende conto di non meritare. Così spinge il suo caro amico a uscire con la sua ragazza, in modo da “poter stare più tranquillo”. C’è la storia di Gregor Samsa al contrario, che molto ha impressionato la critica qui in Italia: lo scarafaggio che si risveglia uomo, con tutto quello che ne deriva. C’è la narratrice da Le mille e una notte che non può lasciar incompiuta la sua narrazione perché, a volte, l’amore diventa una metastoria, oltre che una promessa da rinnovare ogni giorno.
Tutto questo (e anche di più) è Uomini senza donne – titolo originale “Onna no Inai Otoko-tachi”-, volume uscito nel 2014 in Giappone e pubblicato quest’anno in Italia da Einaudi. Precedentemente i suoi racconti erano già stati pubblicati su alcune riviste all’estero.
Raccolta di racconti che si presta a differenti livelli di lettura, l’ultima creatura di Murakami diventa una cartina da tornasole dei sentimenti umani, offrendoci una panoramica di esistenze ben inquadrate in un Giappone che tutto sembra tranne che asiatico. Molti, infatti, i rimandi alla cultura occidentale, a quella pop culture capace di permeare anche in una società – apparentemente lontana – come quella asiatica sradicandone tutte le strutture più complesse.
E allora via libera ai Beatles con la loro Yesterday, qui reinterpretata dal giovane Kitaru in uno strano dialetto, quello del Kansai, (non suo, addirittura, ma imparato da autodidatta), a Manhattan di Woody Allen visto per la prima volta al cinema, passando per i vari riadattamenti di Tolstoj a teatro (il protagonista della prima storia, attore teatrale, recita a memoria Zio Vanja per calmarsi, prima dello spettacolo vero e proprio) fino a Salinger tradotto (territorio ben conosciuto dall’autore) e a un Gregor Samsa kafkiano assolutamente singolare: da insetto si sveglia uomo ed è del tutto impreparato alla vita.
Come ci fa sapere Murakami: «Amo la cultura pop: i Rolling Stones, i Doors, David Lynch, questo genere di cose. Non mi piace ciò che è elitario. Amo i film del terrore, Stephen King, Raymond Chandler, e i polizieschi. Ma non è questo ciò che voglio scrivere. Quello che voglio fare è usarne le strutture, non il contenuto. Mi piace mettere i miei contenuti in queste strutture. Questa è la mia via, il mio stile. Perciò non piaccio né agli scrittori di consumo né ai letterati seri. Io sono a metà strada, e cerco di fare qualcosa di nuovo. […] Scrivo storie strane, bizzarre. Non so perché mi piaccia tanto tutto ciò che è strano. In realtà, sono un uomo molto razionale. Non credo alla New Age, né alla reincarnazione, ai sogni, ai tarocchi, all’oroscopo. […] Ma quando scrivo, scrivo cose bizzarre. Non so perché. Più sono serio, più divento balzano e contorto».
Sette storie che diventano sette tesori. Sette piccoli capolavori da scoprire e comprendere al meglio per farsi strada nel tortuoso cammino esistenziale (e personale) dell’accettazione. Di una delusione, di un dolore, di un lutto.
Haruki Murakami, classe 1949, è nato a Kyoto ed è cresciuto a Kobe. Autore di molti romanzi, racconti e saggi e ha tradotto in giapponese autori americani come Fitzgerald, Carver, Capote, Salinger. Con “La fine del mondo e il paese delle meraviglie” ha vinto in Giappone il Premio Tanizaki. In Italia Einaudi ha pubblicato i suoi “Dance Dance Dance”, “La ragazza dello Sputnik”, “Underground”, “Tutti i figli di Dio danzano”, “Norwegian Wood”, “L’uccello che girava le Viti del Mondo”, “La fine del mondo e il paese delle meraviglie”, “Kafka sulla spiaggia”,” After Dark”, “L’elefante scomparso e altri racconti”,“L’arte di correre”, “Nel segno della pecora”, “I salici ciechi e la donna addormentata”, “1Q84” (suddiviso in Libri 1 e 2, usciti insieme nel 2011, e Libro 3, uscito nel 2012), “A sud del confine, a ovest del sole” (2013), “Ritratti in jazz” (2013, con le illustrazioni di Wada Makoto), “L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio” (2014) e “Uomini senza donne” (2015).
“Chieko scoprì le violette fiorite sul tronco antico dell’acero…”
Koto ovvero i giovani amanti dell’antica città imperiale di Yasunari Kawabata inizia così, con eleganza e semplicità, e da questa breve frase si avverte già il tono poetico e delicato che attraverserà tutta la narrazione.
Pubblicato a Tokyo nel 1962 con il semplice titolo di Koto, mi sfugge a dire il vero il motivo del titolo italiano che facilmente può creare una certa confusione, (premetto che non è un romanzo storico, non ci sono amanti, si parla di due sorelle e le loro relazioni sentimentali sono del tutto incidentali, e l’antica città imperiale è Kyoto ma in tempi relativamente moderni) è senz’altro uno dei più limpidi esempi che caratterizzano la poetica in prosa dell’autore.
Esiste in commercio un’ edizione BUR Rizzoli del 1997 facilmente reperibile, ho controllato, io comunque ho esaminato la prima edizione BUR del settembre del 1974, che sebbene ingiallita, e inframmezzata di vecchi fiori secchi, (temo ormai specie protette, che se le raccogliete in montagna vi danno la multa), contiene tutte le pagine e ha fatto egregiamente il suo dovere. E’ una rilettura, appositamente fatta per questa recensione, per cui avverto i miei lettori che parte della spontaneità e della meraviglia della prima lettura è stata sostituita da un analisi più razionale e sistematica del testo, che comunque non precluderà a voi affatto il piacere della lettura. Nella edizione da me considerata la traduzione è affidata a Mario Teti e vi è anche presente un’ introduzione di Carlo Cassola, che vi consiglio di leggere al termine del romanzo. Koto, come dicevo, è un romanzo breve, poco più di 150 pagine, appartenente ad un genere narrativo del tutto particolare che fonde la poesia con la prosa. Genere apparentemente tipico della narrativa giapponese classica, anche se in Kawabata niente è comune o scontato. Tutto anzi acquista una forza tragica e dirompente, seppure ciò di cui si narra non sono altro che i sentimenti e i moti misteriosi dell’animo umano. Innovativo e rivoluzionario nello stile, molto moderno se vogliamo, il romanzo tratta temi universali, seppure Kawabata li analizzi partendo, oltre che dalla sua dolorosa e esasperata sensibilità, anche dalla tipica ottica di un giapponese conscio delle tradizioni del suo paese, consapevole che l’unicità del suo pensiero non può essere slegata dalla società in cui viveva, dalla mentalità che caratterizzava il suo stato sociale, e dalla consapevolezza che il tempo che passa è inarrestabile e la provvisorietà dell’esistenza, in cui tutto è instabile e fugace, non può dare all’uomo certezze, ma solo il senso della sua vulnerabilità. Koto è un romanzo caratterizzato da una trama semplice e lineare, quasi assente. E’ innanzi tutto la storia di due vite, di due sorelle, Chieko e sua sorella Naeko, sparate dalla nascita, immagini speculari di una femminilità forse lontanissima dai canoni della sensibilità occidentale, che incidentalmente nel corso della vita, si incontrano e si riconoscono. Ciò che le separa purtroppo è più forte del sentimento che le lega e sarà dunque invitabile che questo delicatissimo legame si spezzi facendo sì che le sorelle si perdano nuovamente, questa volta per sempre, ognuna destinata a seguire il proprio destino.
I personaggi di questo romanzo, sebbene il tema centrale sia la solitudine, svolgono un ruolo corale. I rapporti che li legano sono caratterizzati da lievi legami d’amore e solidarietà. L’amore tra genitori e figli, l’amore tra fratelli, il rapporto di stima e rispetto tra allievo maestro, tutto concorre a dare una dimensione affettiva e intima, sebbene l’utilizzo della terza persona consenta un certo distaccato e deprivi il narrato da ogni deriva eccessivamente sentimentale o peggio zuccherosa. Koto ha per temi soggetti fondamentali del romanzo classico giapponese: la natura, la bellezza, la solitudine, la separazione. La natura, nello scintoismo sacra e un tutt’uno con il divino, per Kawabata non è altro che lo specchio in cui si riflettono i moti dell’animo, la delicatezza dei sentimenti, la percezione dell’unicità dell’esistenza, la bellezza dell’amore.
L’estetica di Kawabata è sintetizzata dal breve scambio di battute tra il padre di Chieko e Hideo Otomo dove il giovane paragona la bellezza della ragazza a quella dei dipinti di un tempio. Il padre si indigna e sottolinea che non ci può essere paragone tra la bellezza dell’arte e quella della vita, perchè Chieko invecchierà e la sua bellezza sarà sciupata dal tempo che passa, mentre la bellezza dell’arte è eterna. Hideo Otomo ribatte che proprio per questo la bellezza della ragazza è ancora più preziosa, proprio perché effimera, ma nello stesso tempo è viva, a differenza di un semplice affresco per quanto magnificamente dipinto.
La delicatezza e l’eleganza dello stile sono assoluti. Ogni scena racchiude in sé una piccola miniatura, utilizzando una tecnica quasi pittorica di accostamento di colori, brevità di passaggi, leggerezza di tratto.
Stilisticamente perfetto, non perde né in naturalezza, né in spontaneità. Né mai prende i connotati di freddezza che caratterizzano le opere solo esternamente e formalmente ineccepibili. Non è uno sterile esercizio stilistico. Sotto la calma apparente di una struttura narrativa lenta e fluente si nasconde un sincero e autentico atto d’amore per l’arte, la vita e la letteratura.
Il linguaggio poetico, usato sia per descrivere la natura sia i sentimenti dei personaggi, trasmette con semplicità e dolcezza tutta la bellezza e l’intensità insita nei profondi abissi dell’animo umano in comunione con lo splendore della natura stessa.
La storia è ambientata a Kyoto, e si chiude nell’arco di poche stagioni passando dalla primavera all’inverno. Ovvero dalla nascita alla morte. Apparentemente formali i dialoghi, sono in realtà la forma con cui i personaggi combattono la loro solitudine. Non a caso quando un personaggio si chiude in se stesso tace ed evita ogni comunicazione. Il silenzio acquista quindi una dimensione importante, quasi quanto la conversazione, tenendo anche presente che i dialoghi rispettano le gerarchie sociali, i rapporti interpersonali e la schematica struttura della rigida società giapponese, molto sensibile alla forma esteriore, che diventa paradossalmente tessuto interiore e sostanza fondamentale.
Yasunari Kawabata nacque ad Osaka nel 1899. Rimase orfano in tenera età e la morte di genitori incise grandemente sulla sua visione pessimistica della vita e sul costante senso di separazione che caratterizzò tutte le su opere. Nel 1924 si laureò a Tokyo in letteratura inglese e giapponese in questi anni fondò il movimento letterario Sensazioni nuove. Nel 1926 pubblicò la sua prima opera, La danzatrice di Izu, e fu accolta con un enorme successo. Oltre che romanzi scrisse saggi di critica e racconti. Ottenne il Nobel per la letteratura nel 1968 e fondò il più grande premio letterario giapponese L’Akugawata. Morì suicida nel 1972. Tra i suoi romanzi ricordiamo: Mille gru, Il suono della montagna, Il paese delle nevi, La casa delle belle addormentate, Koto, Bellezza e tristezza, Diario di un sedicenne e Gente di Tokyo.
Source: acquisto personale.
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