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:: Eredità di Vigdis Hjorth (Fazi, 2020) a cura di Eva Dei

10 giugno 2020

EreditàEredità” non è soltanto il titolo del primo libro di Vigdis Hjorth tradotto nel nostro Paese, ma il vero motore della narrazione.
Tutto la vicenda parte da un’eredità e dalla sua divisione tra quattro figli. Come troppo spesso accade non solo amore e unione dominano i legami tra i vari membri della famiglia. Bergljot, la voce narrante, ha interrotto i legami con i suoi genitori da molti anni: tra loro si è creata una frattura insanabile, causata da qualcosa che la protagonista non ha il coraggio di raccontare subito al lettore, ma che rivela poco alla volta.

Il vaso cade per terra una volta e incolli i cocci per rimetterlo insieme, il vaso cade per terra una seconda volta e incolli i cocci per rimetterlo insieme. Non è più così bello, ma in un certo modo funziona, ma quando cade per la terza volta e rimane polverizzato davanti ai tuoi piedi, vedi subito che ormai è da buttare, non lo si può più riparare. Era così. La famiglia era distrutta. La famiglia era persa.

Le dinamiche e gli equilibri familiari cambiano nuovamente quando i genitori, ancora in vita e in buona salute, sebbene anziani, decidono di prendere anticipatamente alcune decisioni in merito al loro patrimonio. Pur dichiarando di voler dividere equamente i loro beni tra i quattro figli, scelgono di intestare le due case al mare esclusivamente alle due figlie minori, Astrid e Åsa, e di versare ai due maggiori, Bård e Bergljot, un corrispettivo in denaro. Le valutazioni delle due case risultano però molto più basse del loro reale valore, mettendo in luce la cattiva fede dei genitori. Bård, sentendosi preso in giro affronta sia i genitori sia le sorelle minori, accusando i primi di essere ingiusti e le seconde di assecondare e difendere la loro volontà. Davanti al loro categorico rifiuto di ammettere una qualsiasi forma di iniquità, decide di tagliare a sua volta i ponti con la famiglia, riavvicinandosi a Bergljot. Quest’ultima che finora ha cercato di tenersi il più possibile ai margini della famiglia, capisce che le rivendicazioni del fratello sono giuste; sostenere Bård è necessario così come afferrare questa occasione per far sentire veramente la sua voce.
Il ricordo di quello che il padre le ha fatto subire da piccola è riaffiorato in età adulta, solo un percorso di psicoanalisi ha aiutato Bergljot ad affrontare il trauma, cercando di costruirsi una vita il più possibile serena. Ma la sua verità non è mai stata accettata né dalla madre né da Astrid, con le quali ha cercato più volte un confronto. Quello che Bergljot racconta loro è qualcosa di grave, di inaccettabile, qualcosa che metterebbe in crisi l’intera famiglia, sconvolgendo la vita di tutti loro; proprio per questo entrambe decidono che sia più comodo crederla solo una bugia, l’allucinazione di una donna da sempre instabile e inaffidabile.
La questione dell’eredità offrirà a Bergljot l’opportunità di mostrare la sua posizione con fermezza e argomentare le sue scelte con lucidità. La sua voce questa volta si staglierà chiara nell’ufficio di un notaio, non sarà, come spesso è successo in passato, offuscata dai fumi dell’alcool o veicolata da un’email rabbiosa e insensata.
La disparità di trattamento in merito all’eredità corrisponde alla netta diversità tra l’infanzia vissuta da Bård e Bergljot, ricca di instabilità e violenze, e quella rassicurante e affettuosa di Astrid e Åsa.

“Sai qual è la prima cosa che mi viene in mente quando penso a mio padre?”, disse Bård, prima di proseguire senza aspettare la risposta. “Avevo nove anni, eravamo sull’altipiano di Hardangervitta per pescare, volevo tornare a casa e mi girai. Papà mi seguì, afferrò un bastone e mi massacrò di botte. Questo è il ricordo più nitido che ho di lui.”

I genitori di questa famiglia appaiono come una coppia di Dottor Jekyll e Mister Hyde: dietro una facciata di avvenenza, ricchezza e perfezione si nascondono un uomo e una donna egoisti, instabili, feroci, incapaci di qualsiasi affetto o empatia, anche nei confronti dei loro stessi figli. Le due sorelle minori non ne escono in maniera migliore: se la minor, Åsa, è il personaggio che viene meno delineato e anche quella che è più esterna alla vicenda, quella che è sempre stata meno in confidenza con i fratelli maggiori. Astrid invece ha ricevuto spesso le confidenze di Bergljot, cercando di diventare un ponte tra lei e Bård e i genitori. La stessa Bergljot le riconosce più di una volta di ricoprire una posizione scomoda, al centro di una disputa in cui ognuna delle due parti racconta una realtà completamente inconciliabile con quella dell’altro. Ma non schierandosi, rifiutando il dolore della sorella e diventando una sorta di intermediario, Astrid prende in realtà una posizione, aiutando il mantenimento dello status quo.

Pareva non capire, o non voler riconoscere, che esistevano conflitti che non erano risolvibili nel modo in cui avrebbe voluto lei, che esistevano contraddizioni che non si potevano cancellare, che si potevano tralasciare o girarci intorno, tra cui bisognava scegliere.

Eredità non è un libro sulla violenza familiare o sugli abusi, quanto più un romanzo sulla sofferenza.
Una sofferenza subita, nascosta e poi elaborata, una sofferenza che ha bisogno di essere riconosciuta e ascoltata da chi quella sofferenza l’ha creata per non rappresentare più una ferita aperta e sanguinante. Questo è quello che Vigdis Hjorth realizza a livello narrativo: cerca di dare voce alla sua Bergljot, in un flusso di coscienza continuo. Episodi scollegati, ricordi, azioni e pensieri riaffiorano e molte volte si ripetono, restituendo l’angoscia e il processo di elaborazione.
Inascoltata dalla sua famiglia la protagonista del libro trova adesso qualcuno disposto ad ascoltarla: il lettore. Traduzione di Margherita Podestà Heir.

Vigdis Hjorth è nata a Oslo nel 1959, è una delle scrittrici norvegesi più conosciute e stimate. Ha esordito nel 1983 con Pelle-Ragnar i den gule gården, grazie al quale il Ministero della Cultura norvegese le ha attribuito il premio per il miglior romanzo d’esordio. Ha pubblicato più di trenta libri, fra cui una ventina di romanzi, conquistando i premi letterari più svariati. Eredità, vincitore del Norwegian Booksellers’ Prize e del Norwegian Critics Prize for Literature – i due principali riconoscimenti norvegesi –, è il romanzo con cui ha ottenuto la fama internazionale, rientrando nella rosa dei finalisti del National Book Award for Translated Literature nel 2019.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Livia Senni dell’Ufficio stampa Fazi.

T. Singer di Dag Solstad (Iperborea, 2019) a cura di Viviana Filippini

14 febbraio 2020

singerT. Singer, protagonista del romanzo di Dag Solstad, edito da Iperborea è un aspirante scrittore e tale rimane. Singer ad un certo punto si rende conto che i suoi sogni, le sue aspirazioni resteranno nella sua fantasia. Il suo romanzo, letto, riletto, scritto, riscritto, corretto e non corretto, rimarrà lì, incompleto, come molto altro nella vita del protagonista. Per questo motivo T. Singer decide di dare un senso all’indefinito del suo vivere e si pone l’obiettivo di diventare bibliotecario a Telemark, un piccolo paesino sperduto in mezzo alle montagne. Singer, 34 anni, ha una casa, va a lavorare, torna a casa e torna dai libri. Una vita monotona poi, un giorno, come in un fiaba, incontra Merete, una bella ragazza con la quale inizia una relazione. Ad un certo punto T. Singer e Merete, più Isabella (la figlia dei lei), andranno a vivere assieme formando quella che per il protagonista è una famiglia. Singer comincia a fare delle cose che mai aveva fatto prima: lava, stira, cucina, e lo fa con impegno e diligenza. Il suo unico problema, che lo caratterizzerà per tutto il romanzo, è quella totale incapacità di esprimere in modo netto e chiaro ciò che pensa, i sentimenti che prova e, a tratti, anche ad assumersi responsabilità. Un atteggiamento che porterà Merete a prendere le distanze e a volersi allontanare in modo definitivo da Singer, ma il destino beffardo interverrà a complicare le cose. T. Singer si troverà  a fare il padre single di una “figlia” (Isabella) che nemmeno è la sua. Quello che emerge dal vivere (se così lo si può definire) dell’uomo qualunque di Solstad è un’esistenza fatta di ossessiva ripetitività, tale da rasentare un alto grado di disperazione, affrontato però con pacata ironia dal protagonista. Non è una cosa da poco, perché proprio T. Singer di Solstad ha un qualcosa che richiama da vicino lo Stoner del romanzo di John Williams, sì perché proprio come il professore creato dallo scrittore americano, il bibliotecario di Solstad è un uomo tranquillo (troppo), che vive la sua vita di ogni giorno, senza manifestare mai fino in fondo e a chi lo circonda,  i suoi sentimenti. Ci sono alcuni momenti nei quali T. Singer fa percepire le sue paure, le sue insicurezze, le sue ossessioni per il fallimento, ma non sono mai momenti condivisi con gli altri. Quello che tormenta Singer, lui se lo racconta in uno o più monologhi personali e in completa solitudine, perché è solo parlando con se stesso che Singer tira fuori ogni suo tormento e preoccupazione. Altro tratto comune del bibliotecario con Stoner di Williams, è l’immensa solitudine, sempre presente, prima, durante e dopo la relazione con la moglie Merete. Il suo essere animo solitario è qualcosa di straziante e allo stesso tempo comico, nel senso che in certi momenti si ride e si partecipa alla goffaggine del protagonista, che in improvvisi slanci di entusiasmo prende l’iniziativa per fare, ma non sempre i risultati sono quelli sperati. In altri frangenti letterari si percepiscono il tormento e la disperazione nell’animo di Singer. Dag Solstad ha una scrittura travolgente, ipnotica, che ti porta dentro alla vita di T. Singer, un uomo che sta con gli altri, me che è – o forse vuole essere- profondamente solitario e, in quella ripetitiva solitudine esistenziale, dove per certi momenti anche il lettore rivede se stesso, il bibliotecario ci sguazza a meraviglia. Traduzione Maria Valeria D’Avino.

Dag Solstad, nato a Sandefjord, in Norvegia nel 1941, è considerato uno dei maggiori scrittori norvegesi contemporanei, l’unico ad aver ricevuto il Premio della Critica per ben tre volte, oltre al Premio del Consiglio Nordico. Autore di una trentina di opere, tra teatro, romanzi e racconti, è sempre al centro di accesi dibattiti in patria per il suo radicalismo anticonformista. Iperborea ha già pubblicato Tentativo di descrivere l’impenetrabile, Timidezza e dignità e La notte del professor Andersen e Romanzo 11, libro 18.

Source: richiesto all’editore dal recensore. Grazie all’ufficio stampa Iperborea e a Francesca Gerosa.

:: Accerchiamento di Carl Frode Tiller (Stilo 2018) a cura di Federica Belleri

10 aprile 2018
Accerchiamento di Carl Frode Tiller

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Primo romanzo di una trilogia edita in Italia per Carl Frode Tiller. Scrittore, musicista e storico norvegese.
La perfetta traduzione, curata da Margherita Podestà Heir, ci porta nel 2006, nella periferia norvegese a contatto con diverse generazioni, costrette a confrontarsi. La causa di tutto è David, la cui foto appare su un quotidiano locale. Ha perso la memoria, si trova in isolamento e lo psicologo che lo segue consiglia di approcciarsi a lui attraverso racconti e lettere. Solo in questa maniera, a suo avviso, potrà recuperare un briciolo di sé. A mettersi in gioco saranno Jon, amico fin dal liceo, Arvid, patrigno di David e Silje, amica fidata.
Tre personalità diverse e speciali, che con lui hanno condiviso gioie e dolori. Hanno litigato e si sono ubriacati fino a perdere la ragione. Hanno discusso della morte, della felicità, dei gusti sessuali di ciascuno. Hanno mescolato emozioni assurde e riso fino alle lacrime per le peggiori banalità. Una vita trascorsa insieme a David alla ricerca di sé e dell’altro, con il desiderio di sicurezza e la voglia bruciante di trasgredire. Genitori e figli, razzismo e sorrisi di circostanza. Con la paura di non essere capiti o accettati. Anime fragili, al limite del patologico. Anime sfuggenti, a volte arroganti. Difficoltà a riconoscere il proprio corpo, nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta.
Il vuoto, lasciato dalla mancanza d’affetto. La solitudine, che provoca incubi terribili. La paura, di non essere mai adeguati …
Accerchiamento. Un intenso viaggio nella mente, nei sentimenti. Una scrittura tagliente, efficace. Una trama che non mostra cedimenti e non lascia spazio al respiro.
Accerchiamento. Un titolo. Una sensazione tangibile.
Buona lettura.

Carl Frode Tiller  (Norvegia, 1970) è scrittore, storico e musicista, considerato uno dei romanzieri norvegesi più importanti della sua generazione. Oltre ai romanzi, Tiller ha scritto diverse opere teatrali, racconti e brevi prose per varie riviste e giornali. Accerchiamento, pubblicato nel 2007 e primo volume di una trilogia, è il suo primo romanzo edito in Italia. Con questa opera ha vinto, nello stesso anno, il Norwegian Critics Prize for Literature e il Brage Prize, nel 2008 è stato nominato per il Nordic Council Literature Award e nel 2009 ha vinto l’EU Prize for Literature.

Margherita Podestà Heir è nata e cresciuta a Galliate (NO). Laureata in Lingue e Letterature  scandinave si è specializzata a Oslo dove dal 1994 insegna italiano. Dal 1998 si occupa di traduzione di testi letterari, gialli, saggi, film e opere teatrali, in particolare dal norvegese. Collabora con le più prestigiose case editrici italiane.

Source: libro inviato dall’editore al recensore.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: Recensione di Tuo fino alla morte di Gunnar Staalesen a cura di Giulietta Iannone

14 Maggio 2011

1Un caldo pomeriggio di fine febbraio, in cui la primavera sembra aver fatto capolino portandosi via le ultime tracce d’inverno, Varg Veum chiuso nel suo ufficio di Bergen riceve un’insolita visita. Un bambino di otto anni, Roar, dopo aver preso una guida telefonica, scelto un numero a caso tra gli investigatori privati, preso da solo l’autobus, fa il suo ingresso e gli chiede aiuto. Una banda di bulletti che infesta il suo quartiere di casermoni alla periferia degradata della città capeggiata da Joker un ragazzo un po’ più grande davvero “cattivo” gli ha rubato la bicicletta e lui non potendo chiedere aiuto a suo padre guarda fiducioso negli occhi Varg Veum. La richiesta di aiuto commuove l’investigatore forse perché ha anche lui un figlio di quell’età lontano chissà dove, forse perché il suo passato da assistente sociale lo spinge a cercare di aiutare sempre i più deboli così recupera la bici e fa la conoscenza della madre di Roar, Wenche, abbandonata dal marito per un’altra donna, che smuove in lui qualcosa nel profondo forse semplicemente perché è decisamente troppo sensibile al fascino femminile. Joker e la sua banda naturalmente non restano con le mani in mano e meditando vendetta rapiscono Roar facendo si che Varg si ritrovi invischiato in una storia di emarginazione e desolazione, figli rifiutati, madri alcolizzate. Poi l’imprevedibile, il padre di Roar viene accoltellato e ucciso e le prove portano diritte dritte verso Wenche ma Varg non vuole credere che sia davvero colpevole, i suoi occhi blu sono così profondi, le sua labbra così morbide, e pronto a tutto per dimostrare la sua innocenza inizia a indagare nei segreti di alcuni abitanti dei casermoni scoprendo infine la verità amara e imprevista che lo sommergerà come un magma nero in cui nessuno è davvero innocente. A chi mi chiedesse quale è il mio giallista scandinavo preferito senza esitazione risponderei Gunnar Staalesen innanzi tutto perché definirlo giallista scandinavo è riduttivo. I suoi libri, quasi una ventina in patria con protagonista una città norvegese Bergen e un investigatore privato Varg Veum, tre editi da noi da Iperborea I satelliti della morte, Tuo fino alla morte, La donna nel frigo, più che gialli sono veri e propri romanzi tout court, capaci di lasciare nel lettore un eco, non semplici prodotti di consumo che una volta letti non lasciano tracce né graffi. Tuo fino alla morte pubblicato per la prima volta nel 1979 e ora tradotto dal norvegese da Danielle Braun è una storia complessa e delicata, arricchita da sfumature sociali e umane che come dicevo esulano dal semplice campo del giallo. L’autore l’ha definito un romanzo sull’amore, il matrimonio e l’infedeltà che solo incidentalmente ha i connotati del romanzo giallo e penso che non ci sia definizione migliore. Concludo con una notizia che almeno a me ha fatto decisamente piacere, gli altri romanzi della serie del detective Varg Veum sono tutti in corso di pubblicazione presso Iperborea nella collana Ombre.

Gunnar Staalesen è nato a Bergen nel 1947. Considerato il padre del giallo norvegese, dalla sua penna è nato il famoso personaggio di Varg Veum, il detective più emblematico del noir nordico, che con i suoi conflitti interiori, la sua scanzonata ironia, e il suo contrastato rapporto con le donne e la bottiglia, esplora le ferite e i vizi della società. Dei quindici romanzi della serie, tradotti in altrettante lingue e adattati per il piccolo e il grande schermo, Iperborea ha già pubblicato Satelliti della morte, Tuo fino alla morte e La donna nel frigo.

:: Recensione di La donna nel frigo di Gunnar Staalesen a cura di Giulietta Iannone

7 Maggio 2011

donnaIl predicatore proseguì da dove era stato interrotto. “No fratelli, non riconosciamo più Stavanger! Dico bene? Meretrici, lenoni, arpagoni, e sibariti. Viviamo in una moderne Sodoma e Gomorra, nella confusione dei giorni estremi. Il Signore chiama il suo gregge, ci da il benvenuto, ma il cammino è pieno di tentazioni. Chi ha il potere sul nostro paese, sulle nostre città? Chi adoriamo? Chi più subdolo del Levitano, si crogiola e si rimpingua del viscido e grasso petrolio del nostro mare? E’ Mammona, fratelli! Mammona che allunga i suoi avidi artigli, che soffia il suo alito pestilenziale sulla città, che trascina migliaia di persone a una morte violenta. E non avremo pace fratelli finchè ci sarà una sola goccia di petrolio sul fondo del nostro mare”. 

Nuovo caso per Varg Veum, celebre investigatore privato nato dalla penna di Gunnar Staalsen padre della detective story norvegese e portato sullo schermo da Trond Espen Seim che nel 2008 ebbe anche modo di girare l’episodio Varg Veum Kvinnen i kjøleskapet tratto appunto da La donna nel frigo. Accennare alla trama è piuttosto complesso perché tutto ruota intorno al colpo di scena finale che io mi guarderò bene dall’accennare anche solo di sfuggita. Tutto ha inizio una fredda giornata di inizio novembre quando Veum si reca da un’anziana signora, Theodora Samuelson, che ha deciso di assumerlo per scoprire che fine ha fatto suo figlio Arne, tecnico di una piattaforma petrolifera. Prese le consegne Veum si reca a Stavanger antico borgo di pescatori ora trasformato in una specie di luna park per gli svaghi dei dipendenti delle compagnie petrolifere che gestiscono le piattaforme al largo della costa. Locali notturni, discoteche, bische, bordelli, donne bellissime e disponibili, tutto l’immaginabile per soddisfare il riposo del guerriero, gestito da delinquenti più o meno tollerati dalle vigili forze dell’ordine. Qui inizia a indagare recandosi nell’appartamento che Arne occupava e dopo una sommaria perlustrazione trova su un tavolo della cucina i ripiani interni del frigo. Insospettito apre lo sportello e rinviene il cadavere senza testa di una donna. L’arrivo della polizia lo estromette dalle indagini ma lui ben lontano dall’arrendersi continua a indagare con l’aiuto di una malinconica prostituta d’alto bordo, per la quale tradirà piuttosto a malincuore la sua compagna, che ha deciso di portare avanti un’ attività parallela decisamente pericolosa. Veum è curioso e proprio la sua curiosità lo metterà sulla strada giusta per risolvere il caso anche a rischio della vita perché la gente contro cui si è messo non ha nessuna intenzione di scherzare.  7° episodio della serie con protagonista Varg Veum, edito in patria nel 1981, La donna nel frigo è una storia incentrata sul protagonista, un private eye davvero sui generis, che racconta i fatti in prima persona non disdegnando schegge di umorismo, di compassione e di filosofica saggezza rubata a Groucho Marx. Siamo nel 1980, mentre alle presidenziali statunitensi Ronald Reagan sconfigge il presidente in carica Jimmy Carter, Veum si trova a indagare su un caso in cui in un certo senso il petrolio, la ricchezza, e la corruzione che ne derivano, sono il motore stesso della storia. Veum è un lupo solitario, un romantico eroe capace di commuoversi per gli occhi tristi di una prostituta, capace di volere vederci chiaro anche a dispetto di tutto e tutti anche a costo di prendersi calci e pugni in una cantina isolata. Scanzonato, un po’maldestro, non ostenta un carattere cinico e freddo, anzi è quasi sentimentale nel suo difendere la sua individualità e rifiutare l’offerta di una grande agenzia investigativa di Oslo che assorbendolo gli prometterebbe soldi e rispettabilità. Il suo no è un rifiuto ai soldi facili, ai meschini sotterfugi che sembrano inquinare una società materialista e senz’anima in cui non si riconosce. Forgiato alla scuola dei celebri investigatori privati come Lew Archer o Philip Marlowe, Veum è meno duro, forse più vulnerabile e umano dei suoi precursori, ma come dice l’autore non è un personaggio completamente solare, anche in lui si agitano i fantasmi di Ibsen che in un certo senso tormentano le sue notti e forse anche i suoi giorni.

Gunnar Staalesen è nato a Bergen nel 1947. Considerato il padre del giallo norvegese, dalla sua penna è nato il famoso personaggio di Varg Veum, il detective più emblematico del noir nordico, che con i suoi conflitti interiori, la sua scanzonata ironia, e il suo contrastato rapporto con le donne e la bottiglia, esplora le ferite e i vizi della società. Dei quindici romanzi della serie, tradotti in altrettante lingue e adattati per il piccolo e il grande schermo, Iperborea ha già pubblicato Satelliti della morte, Tuo fino alla morte e La donna nel frigo.

:: Recensione di Timidezza e dignità di Dag Solstad (Iperborea 2011) a cura di Giulietta Iannone

24 marzo 2011

cDal gelo dei freddi fiordi nordici culla della socialdemocrazia e dello stato sociale, periferia progredita e privilegiata dell’Impero, non arrivano solo gialli e romanzi polizieschi e per farcene un’idea basta dare un’ occhiata al vario catalogo di Iperborea, raffinata casa editrice milanese da anni impegnata a fare conoscere la letteratura scandinava in Italia.
Timidezza e dignità del norvegese Dag Solstad, uno dei maggiori scrittori norvegesi contemporanei, è un interessante e fulgido esempio di questa effervescenza intellettuale.
Edito per la prima volta nel 1994, ed ora finalmente anche disponibile da noi grazie alla traduzione dal norvegese di Massimo Ciaravolo, da molti considerato il capolavoro di Solstad, Timidezza e dignità è una matura e amara riflessione sulla sconfitta di una intera generazione, quella che era giovane nel 68, imbevuta di alti ideali politici e sociali,  utopisticamente ottimista e proiettata in un futuro in cui la giustizia sociale, la libertà, la solidarietà avrebbero demolito la società dei consumi e il capitalistico dio denaro, e che  invece si vide sopraffare dalla Storia.
Solstad con spirito lucido e critico fa un’attenta disanima delle ragioni che portarono al fallimento, e tramite il protagonista Elias Rukla, un grigio e triste professore di lettere della Scuola Superiore di Fagerborg a Oslo, un vinto, un umiliato e offeso di dostoevskijana memoria, molto probabilmente suo deformato alter ego, ripercorre a ritroso gli anni della giovinezza, dell’università, dell’impegno politico, dell’amore libero e si chiede come sia stato possibile che dopo tanta passione, e fervida fede in ideali così luminosi  e indistruttibili, la vita l’abbia scagliato in una gabbia di mediocrità ai margini della società.  Come il dottor Relling, personaggio marginale dell’Anitra selvatica di Ibsen che da ormai 25 anni Rukla si ostina a presentare a classi di maturandi svogliati e apatici ai quali i rovelli interiori e la drammaticità della sua condizione di “nullità” non dicono assolutamente niente.
Proprio questo rifiuto, questa apatia dei suoi giovani e immaturi allievi, questa impossibilità di dialogo intellettuale, di seria trasmissione della cultura,  una piovosa mattina d’ottobre, durante una doppia ora di norvegese, farà precipitare gli eventi e darà coscienza a Rukla della sua inutilità e della sua disfatta.
Uscito dalla classe in preda ad una vera e propria crisi di nervi, colpirà la fontana con il suo ombrello insultando i suoi allievi e lasciandosi andare ad una furia che porrà fine per sempre alla sua carriera di insegnate. Mai più metterà piede nella scuola superiore di Fagerborg, mai più metterà piede in qualsiasi scuola, mai più oserà salire in cattedra ed affrontare i suoi studenti.

Questo vuol dire che è proprio finita, pensò. E’ terribile, ma non c’è via di ritorno.

Timidezza e dignità è innanzitutto un romanzo caratterizzato dall’intersecarsi di due piani temporali, e se vogliamo anche narrativi, dove il presente e il passato assumono una doppia valenza sia politica che sociale. Dalla crisi di nervi, che determina la presa di coscienza del protagonista, abbiamo una regressione al passato, alla ricerca spasmodica dei sintomi, delle crepe, forse invisibili, che poi porteranno al conclamarsi della crisi personale, e se vogliamo grazie ad un gioco di proiezioni, epocale.
Il rapporto tra Rukla e la moglie, deteriorato, vittima dell’incomunicabilità e del dissolvimento, getta un’ ombra ancora più pessimistica sulla consapevolezza già dolorosa di per sé che ormai tutto è inutile e il cambiamento tanto auspicato impossibile.
Diciamolo subito è una lettura impegnativa, ricca di rimandi letterari importanti, a Ibsen in primo luogo, tutta la prima parte inserita nella lezione che il protagonista tiene al liceo è incentrata sull’analisi del capolavoro L’anitra selvatica, poi a Thomas Mann e più in generale al romanzo europeo dei primi del Novecento.
Anche i temi trattati sono complessi e articolati, oltre al fatto che il racconto in terza persona è continuamente interrotto dal flusso di coscienza del protagonista. Non ci sono capitoli, raramente si va a capo, stilisticamente una scelta azzardata, che comunque dà compattezza alla narrazione e almeno io non ho trovato pesante, anche se insolita.
Per chi apprezzasse le tematiche, e lo stile dell’ autore, Iperborea ha pubblicato anche Tentativo di descrivere l’impenetrabile.

Titolo originale: Genanse og verdighet  Traduzione di Massimo Ciaravolo.

Dag Solstad, nato a Sandefjord, in Norvegia nel 1941, è considerato uno dei maggiori scrittori norvegesi contemporanei, l’unico ad aver ricevuto il Premio della Critica per ben tre volte, oltre al Premio del Consiglio Nordico. Autore di una trentina di opere, tra teatro, romanzi e racconti, è sempre al centro di accesi dibattiti in patria per il suo radicalismo anticonformista. Iperborea ha già pubblicato Tentativo di descrivere l’impenetrabile, Timidezza e dignità e La notte del professor Andersen.

:: Recensione di Il quarto complice di Kjell Ola Dahl a cura di Giulietta Iannone

9 gennaio 2011

coverIn una Oslo autunnale e piovosa dominata dall’oscurità notturna o immersa in una spettrale e grigiastra luce crepuscolare un poliziotto, l’ispettore Frank Frolich incontra la sua ossessione. Per caso, come spesso succedono queste cose, quando uno meno se l’aspetta, quando la propria vita scorre monotona sui binari della normalità, durante le operazioni di polizia per la cattura di un trafficante di carne e sigarette Frolich conosce Elisabeth.
Ed è amore, o perlomeno qualcosa di molto simile alla frenesia amorosa, qualcosa di cui prima di allora l’ispettore Frolich aveva solo letto, o sentito dire, considerandola una fantasticheria.
Elisabeth esercita su di lui un potere oscuro non solo fisico ma anche mentale risvegliando in lui una brama, un desiderio intenso e tormentoso, una passione sconosciuta che lo porta a capire di stare pericolosamente giocando con il fuoco. I campanelli di allarme ci sono tutti.
La sfuggente Elisabeth nasconde dei segreti e Frolich non è ben sicuro di volerli conoscere ma una forza irrefrenabile lo sovrasta, lo spinge a pedinarla, ad indagare su di lei e così scopre la relazione di Elisabeth con una donna innamorata di lei, la relatrice della sua tesi, e soprattutto qualcosa che Elisabeth gli ha di proposito tenuto nascosto e che si decide a svelargli solo messa alle strette, ormai convinta che lui l’abbia già scoperto: è la sorella di Jonny Faremo personaggio di spicco della malavita della capitale norvegese, un balordo, un delinquente che ha scontato tre anni per rapina a mano armata.
Il buon senso, la prudenza a questo punto gli imporrebbero di troncare la relazione, di sottrarsi a questo legame potenzialmente distruttivo, ma lui li ignora e continua incurante di tutto a farsi consumare dall’illusione di un amore senza futuro.
L’atmosfera che si respira sembra uscita da un film noir degli anni 40, i classici archetipi del genere ci sono tutti: il poliziotto duro e tormentato se non proprio corrotto (ma ci siamo quasi), la famme fatale di una bellezza ipnotica e pericolosa, i gangster senza scrupoli violenti e amorali, il colpo che cambia la vita, l’epilogo tragico.
Molto più hammettiano che chandleriano Il quarto complice più che un poliziesco convenzionale è molto simile ad una gangster story in cui il protagonista inizialmente retto e irreprensibile si trova ad un certo punto a guardare nell’abisso, a scoprire lati oscuri del suo carattere che prima non sospettava minimamente di avere.
Il fascino del proibito, l’ossessione amorosa scavano gallerie, producono sconvolgimenti e anche farsi coinvolgere in un omicidio diventa il prezzo da pagare, un incidente inevitabile come immergersi nei bassifondi di una Oslo molto Chicago anni 40, ben lontana dall’idea che ci facciamo delle città nordiche tutte fiordi e salmoni affumicati. Kjell Ola Dahl che ha già pubblicato con Marsilio Un piccolo anello d’oro e L’uomo in vetrina e ci ha piacevolmente sorpreso gettando uno sguardo decisamente nero sul classico giallo scandinavo tutto ottimismo e digressioni sociali  non sta alle regole, improvvisa utilizza l’intreccio, le tematiche, i dialoghi tipici dell’ hardboiled e dalla materia grezza crea qualcosa di nuovo e destabilizzante. Da seguire.

Titolo originale: Den fjerde raneren Traduzione di Giovanna Paternità.

:: Recensione di L’uomo di neve di Jo Nesbø

3 gennaio 2011

6610-Uomo di neve.inddTra gli scrittori di thriller nordici merita un discorso a parte Jo Nesbø, norvegese, nato ad Oslo nel 1960, musicista rock, giornalista, molto amato da Michael Connelly, conosciuto in tutto il mondo per la serie del commissario Harry Hole.
Piemme ha pubblicato Il pettirosso, Nemesi, La stella del diavolo, La ragazza senza volto e negli ultimi mesi del 2010 L’uomo di neve a mio avviso uno dei più belli e dalle recensioni entusiaste dei lettori non sono io la sola a pensarlo.
Jo Nesbø ha uno stile particolare, alcuni l’ hanno paragonato allo stesso Connelly, quello migliore degli inizi, e sicuramente Nesbø è il più connellyano degli scandinavi, seppure ha mantenuto un’ impronta oserei dire regionalista molto marcata, non lo si potrebbe mai confondere con uno svedese per esempio.
Quando gli scandinavi tentano di scimmiottare gli americani producono sempre effetti mediocri, ma in questo caso la similitudine è più che altro incidentale. Nesbø ha un stile unico dicevamo, una sua forte personalità, un grande amore per i dettagli, la quotidianità, delinea sfumature del protagonista che a molti scrittori sarebbero sfuggite, non ne fa un eroe senza macchia e senza paura, lo sgualcisce, ne racconta i difetti, i limiti e ce lo rende umano e avvicinabile.
Ho cercato di intervistarlo più volte ma mi sono sempre imbattuta in un ferreo e cortese assistente che mi diceva che in quel momento era in Tailandia o in qualche altra parte sperduta del mondo e non poteva rispondere alle mie domande. Non mi arrendo e speriamo che con il 2011 abbia più fortuna.
Tornando alla trama di L’uomo di neve tutto ha inizio il 5 novembre 1980. Mentre la prima neve cade dal cielo incolore Sara Kvinsland va a trovare il suo amante lasciando il figlio piccolo in auto ad aspettarla. Solo allora vede un pupazzo di neve con gli occhi e la bocca fatti di piccole pietre nere che disegnano un sorriso e le braccia fatte con due rametti. Anche il figlio l’ ha visto e quando ritorna in auto dice alla madre: “Moriremo”.
Vent’anni dopo nel centro di Oslo al cadere della prima neve una donna Birte Becker scompare, anche lei con un figlio, anche lei con un pupazzo di neve misteriosamente immobile nel giardino.
Harry Hole chiamato ad investigare si rende subito conto che qualcosa non torna, e una lettera anonima lo porta a capire che c’è un serial killer ad Oslo che ha deciso di giocare con lui.
Molte donne sono sparite come Birte Becker e tutto sembra collegato alla scomparsa nel 1992 a Bergen di un poliziotto che aveva accettato la stessa sfida che ora Hole si trova a dover affrontare.
Mai come questa volta Harry Hole si troverà vicino alla morte, perché l’assassino lo conosce e gli è molto più vicino di quanto immagina.

Jo Nesbø, musicista rock, giornalista, ma soprattutto autore bestseller e di culto, non solo in Norvegia, dove è stato insignito di prestigiosi premi e i suoi thriller si trovano in ogni casa, ma in tutto il mondo.
Il pettirosso è il suo primo libro, votato in Norvegia come migliore crime novel e presentato in Italia al Noir in Festival di Courmayeur, dove ha suscitato grande interesse di pubblico e di critica. Per Piemme ha pubblicato anche Nemesi, La stella del diavolo, La ragazza senza volto e L’uomo di neve.

Aggiornamento 2017: il libro diventa un film con Michael Fassbender nei panni di Harry Hole.