Posts Tagged ‘Nicola Vacca’

:: Cuori di nebbia di Licia Giaquinto (TerraRossa Edizioni 2022) a cura di Nicola Vacca

13 marzo 2023

Giovanni Turi fondando Terrarossa Edizioni ha portato una bella ventata di aria pulita e nuova nel mondo della narrativa italiana contemporanea. Tra le brillanti intuizioni dell’editore c’è Fondanti, una collana che ripropone opera che hanno segnato un’epoca o hanno rappresentato un tassello fondamentale nel percorso narrativo di autori di talento.

Ultimo arrivato è Cuori di nebbia, il romanzo di Licia Giaquinto. Il libro fu pubblicato da Flaccovio nel 2007 e fu fortemente voluto da Luigi Bernardi, indimenticato direttore editoriale, ma soprattutto scrittore e intellettuale libero e lontano sempre dal mercimonio del mercato editoriale. E soprattutto, in virtù del suo essere sempre corsaro e irriverente, Luigi quando decideva di pubblicare un libro non sbagliava mai un colpo.

Cuori di nebbia è un romanzo nero che al suo interno contiene altrettante storie nere e personaggi oscuri che si muovono nella notte disillusa della pianura emiliana negli anni novanta.

Lungo la via Emilia sembra muoversi l’intera nazione. Infatti nella quarta di copertina il lettore ideale di questo libro è colui che cerca uno spaccato disilluso e vero dell’Italia degli ultimi decenni, chi leggendo vuole costeggiare le tenebre e non ama il lieto fine.

Cuori di nebbia è un noir nelle cui pagine troviamo lo stesso spaesamento che ammiriamo in una fotografia di Luigi Ghirri.

E la nebbia in cui sono immersi tutti i personaggi con le loro storie è una metafora del degrado morale e dello squallore esistenziale che Licia Giaquinto ci mostra con una lingua affilata che sanguina.

Mirella, Filippo, Nicola, Natascia, Mirco, Francesco, Patrizia. Questi sono i personaggi che con i loro demoni attraverso la grande notte e le loro esistenze sono avvolte da una nebbia che è portatrice di dilemmi e drammi.

Tutti danno vita a un puzzle a un romanzo corale in cui fragilità, disincanto e rabbia sono i simboli di vite disilluse che nella località di Bruciata precipitano nei loro personali abissi dove l’inconscio incontra le tenebre e la menzogna è una verità capovolta.

La scena in cui si svolge il romanzo assomiglia molto a una terra desolata. L’autrice prima di immergersi nella vita dannata dei sette personaggi la consegna al lettore con parole spiazzanti.

«Una distesa di campi piatti e sterili, glassati dalla galaverna, e tagliati dalla ferita grande della strada, con la slabbratura degli argini, e dei tanti graffi dei viottoli». Un paesaggio anemico e malinconico in cui il giorno avanza a fatica fa da sfondo a Cuori di nebbia, un romanzo in cui sette persone con le loro storie fanno i conti con i loro lati oscuri fino all’annientamento.

Licia Giaquinto ci conduce in un viaggio al termine della notte: i sette personaggi brancolano nella nebbia, sanno che si sono persi per sempre.

Le loro vite disilluse ci faranno sentire un freddo addosso e anche noi insieme ci perderemo nella nebbia, spaesati con i nostri lati oscuri ci sentiremo coinvolti da una anatomia dell’irrequietezza, che ci porteremo addosso, accorgendoci a lettura ultimata che questo libro ci ha cambiato per sempre.

Licia Giaquinto è nata in Irpinia, dove ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza, ora vive a Bologna. Ha esordito nella narrativa con Fa così anche il lupo (Feltrinelli 1993), a cui sono seguiti È successo così (Theoria 2000), Cuori di nebbia (Dario Flaccovio 2007, ora riproposto da TerraRossa Edizioni), La ianara (Adelphi 2010), La briganta e lo sparviero (Marsilio 2014). Ha scritto anche testi teatrali, l’ultimo è Carmine Crocco e le sue cento spose. È ideatrice e anima dell’associazione Aterrana – Ater Ianua che vuole contrastare il degrado e lo stato di abbandono del borgo storico di Aterrana (Av).

Source: libro inviato dall’Ufficio stampa al recensore.

:: Mi manca il Novecento – La poesia metafisica di Arturo Onofri – a cura di Nicola Vacca

20 gennaio 2023
Author
Невідомо

Arturo Onofri, compiuti gli studi classici nella città natale, cominciò ancora giovane a lavorare e a scrivere versi.

La sua ispirazione si configura fin dall’inizio come una ricerca di temi e strumenti formai eterogenei: ammiratore e studioso di Corazzini, fu influenzato da esperienze poetiche diverse e distanti tra loro.

Nel 1912 fondò Lirica e entrò in contatto con i Vociani con cui collaborò senza mai abbracciarne le idee.

Studiò con passione e devozione i simbolisti e i parnassiani, fu affascinato da Mallarmé.

Nel 1925 pubblicò il suo manifesto, il Nuovo Rinascimento come Arte dell’Io. Da questo momento in poi la sua produzione letteraria apparirà improntata a una problematica spiritualista, volta alla scoperta di un mondo sovrasensibile attraverso un’indagine introspettiva.

La sua poesia sarà un’investigazione spirituale che dal corpo fisico dell’uomo giunge fino allo spirito puro. Possiamo definirlo un poeta metafisico.

Le prime raccolte di Onofri, Liriche e Poemi tragici, furono pubblicate rispettivamente nel 1907 e nel 1908.

In questi primi anni del Novecento il tributo a D’Annunzio e a Pascoli era inevitabile.

Si avverte anche l’influenza soprattutto nei crepuscolari, di Rimbaud dell’orfismo di Mallarmé.

Onofri, cui non faceva difetto lo spirito critico, mirava a una visione unitaria capace di mettere insieme i vari aspetti della realtà.

Fu determinante per la sua poesia l’incontro con le teorie antropomorfiche di Rudolf Steiner.

Altrettanto importante sul piano estetico l’incontro con Wagner da cui trasse conferma al suo proposito di realizzare la parola – suono e concepire le sue raccolte come veri e propri cicli.

Abbiamo così i cicli wagneriani di Terrestrità del sole (1927), Vincere il drago! (1928).

La critica ha indicato il limite della sua poesia «nello squilibrio tra il contenuto grezzamente scientificizzante ed un linguaggio raramente idoneo a suggellarlo in poesia» (Petrocchi).

La poesia di Onofri costituisce una tappa del linguaggio poetico del Novecento, sia dal punto di vista del lessico che dal punto di vista delle istituzioni poetiche.

La ricerca di una nuova identità al di fuori della tradizione si configura così da un lato nella ribellione e nella protesta all’ortodossia domestica (curiosi a questo riguardo gli aneddoti famigliari della prima comunione, della visita alla zia suora e dello zio moribondo) e dall’altro nella libertà della ricerca filosofica ed esoterica. Soprattutto nelle prime 3 raccolte (Liriche, Poemi tragici, Canti dell’oasi,) la poesia subisce l’influsso di questa situazione umana ed intellettuale rivelando un’ansia di conoscenza ed un desiderio di esplorazione filosofica che romanticamente naufraga nella dimensione notturno/subconscia.

L’iter poetico di Arturo Onofri va dal 1900 al 1928.

Il suo battesimo letterario, inizia con la raccolta Liriche nel 1907 (del resto da lui subito ripudiata), e prosegue con ben altre 8 raccolte poetiche, ispirate da un progressivo e mistico zelo creativo che cesserà solo con la prematura morte del poeta nel 1928 e le ben 4 raccolte pubblicate postume dalla moglie Bice Sinibaldi.

I maggiori critici del periodo individuano in questa produzione lirica tre fasi: la prima crepuscolare e dannunziana che si estende fino alla raccolta Orchestrine del 1917; una seconda o fase mediana di poesia-prosa o del frammento, che va fino a Trombe d’argento del 1924; ed infine, posteriore alla conversione all’antroposofia, ovvero alla filosofia esoterica di Rudolph Steiner, il ciclo poematico della Terrestrità del sole.

All’iter onofriano coincide l’avvento di un nuovo secolo ed un clima di profonda trasformazione in cui possiamo cogliere vari motivi innovatori. All’epoca dei suoi esordi ovvero le raccolte di Liriche (1907), di Poemi tragici (1908) e di Canti delle oasi (1909), la punta più avanzata del nuovo si configura nelle prove, tra il 1903 ed il 1905, di Govoni e Corazzini pervase dal clima crepuscolare; la nascita della rivista “La Voce” nel 1908; ed il primo manifesto futurista del 1909.

Mario Luzi in Discorso naturale parla di Arturo Onofri e della sua particolare originalità poetica.

Per Luzi Onofri è un caso poetico del Novecento italiano, probabilmente ancora da approfondire, da esplorare, da affrontare con circostanziata intelligenza critica.

:: Mi manca il Novecento – Ennio Flaiano e l’azzardo attraverso gli occhiali indiscreti – a cura di Nicola Vacca

22 novembre 2022

Quello che ci manca di Ennio Flaiano a 50 anni dalla sua scomparsa è l’azzardo di osare con le parole.

Lo scrittore pescarese come pochi del suo tempo ha impugnato la penna come un bisturi tagliente per ferire e denunciare. Con i suoi aforismi satirici e i suoi articoli ha raccontato l’Italia e i propri connazionali, la corruzione morale e l’ipocrisia di una Nazione e tutta la retorica di un conformismo divenuto abito mentale.

Anna Longoni scrive che non si stupisca il lettore di oggi se, nel ripercorrere il racconto di un’Italia che appartiene ormai al passato, verrà colto di sorpresa da alcuni dettagli che lo costringeranno a riconoscere, non senza preoccupazione, riflessi inaspettati della nostra contemporaneità.

Nei suoi scritti Flaiano ci ha lasciato il ritratto di un paese incapace di reggere la sfida della libertà e della democrazia, perché il fascismo è il diabete degli italiani, una malattia del sangue, sottile, antica, che colpisce anche le migliori famiglie, destinata a riaffiorare nel tempo.

Flaiano, spinto dalla satira e dall’indignazione, con la sua irriverente inattualità parla ancora ai nostri giorni e le sue analisi calzano a pennello alla palude di oggi in cui il paese è ancora incapace di reggere la sfida della libertà e il fascismo continua a essere il diabete degli italiani.

Flaiano, cronista cinico della società, aforista spietato e pungente che non concede nulla al proprio tempo, satiro annoiato che divaga controcorrente con il suo personale frasario essenziale, mostrandosi senza maschera attraverso le parole come uni intellettuale senza illusioni. Soprattutto nella sua attività giornalistica (da rileggere i suoi articoli su Il Mondo, L’Espresso, Il Corriere della Sera, L’Europeo) la sua penna acuta e intelligente, onesta ha sconfessato i vizi dell’Italietta, scagliandosi contro la cultura del mercimonio, gli interessi e i compromessi degli amici degli amici, la corruzione dei costumi e la malafede del potere.

«Io forse non ero di questa epoca, non sono di questa epoca, forse appartengo a un altro mondo; io mi sento più in armonia quando leggo Giovenale, Marziale, Catullo».

Così si descrive Ennio Flaiano nella pagine finali de La solitudine del satiro, il suo libro più personale e più intimo a cui lo scrittore aveva cominciato a lavorare pochi mesi prima della morte.

Giornalismo, cinema, letteratura, teatro. In tutte queste discipline Flaiano è stato sempre un intellettuale fuori dagli schemi. Con le sue stilettate e invettive ha massacrato e castigato senza alcuna riserva il proprio tempo. Il risultato di questo andare in direzione ostinata e contraria è il disagio di una solitudine senza via di scampo alla quale lui non si è sottratto per non rinunciare a una irregolarità corsara in cui non ha mai smesso di credere fino alla fine.

Ennio Flaiano è stato prima di tutto un libero pensatore, una delle poche coscienze critiche che sopportava male la mediocrità e l’assenza di un’etica in un’Italia che già allora si candidava a diventare un paese di porci e mascalzoni.

Ennio Flaiano disilluso e malinconico con le sue riflessioni profetiche che non hanno perso attualità ancora oggi ci legge dentro.

:: Un caffè in due e altre poesie d’amore di Nicola Vacca (A&B EDITRICE 2022) a cura di Giulietta Iannone

20 novembre 2022

Il segreto dell’amore
è un caffè in due
da bere dalla stessa tazza

Sarà questo il segreto più nascosto dell’amore? Condividere con l’amata i gesti minimi, quotidiani, quasi banali dell’esistenza, gesti che acquistano luce e importanza grazie a un sentimento vero, autentico, maturo, non un amore dell’età acerba ma del tempo compiuto, della vita adulta, dell’autunno incipiente. Ecco questi sono i versi contenuti nella silloge Un caffè in due e altre poesie d’amore del critico e poeta pugliese Nicola Vacca. E’ sempre difficile parlare di amore e di erotismo, un erotismo non funzionale al proprio personale egoismo o piacere, allo sfruttamento dell’altro ma a servizio di un amore autentico di coppia. Un amore forte (come la morte direbbe l’Ecclesiaste), grazie alla conoscenza reciproca, in cui non esiste possesso dell’altro, perchè il possesso è la fine e la tomba dell’amore. L’amore si nutre di libertà, ogni istante, ogni giorno, è un sì ripetuto che non ci si stanca mai di dire. Un sì, atteso.

Ti stringerò in un abbraccio
per dirti sempre grazie
della pazienza che diventa amore.

Un sì che prevede un grazie, perchè l’amore è un miracolo e non è affatto scontato. E tutti gli amori si somigliano e allo stesso tempo sono unici. La frase in esergo ce lo rammenta. Giovanna è la compagna del poeta, la donna amata a cui è dedicata questa silloge che lei condivide con tutti gli spiriti amanti che possono capire queste parole come direbbero i poeti del Dolce Stil Novo. Parole da iniziati, da cospiratori, da complici.

L’amore carnale, aulico, fatto di baci, abbracci, desiderio, letti sfatti, amplessi, estasi condivise si unisce ai gesti minimi della vita quaotidiana, a quel ticchettare sommesso della vita che a volte lasciamo scorrere senza importanza. E invece nella vita tutto è importante, tutto è prezioso.

Il volume è diviso in quattro parti: Lievito madre, L’amore con i piedi per terra, Queste nostre parole più belle e Fuori dall’oblio ritorneranno i baci. Versi liberi, svincolati dalla metrica come vuole la poesia contemporanea, e nello stesso tempo versi antichi, potenti perchè veri. E non c’è nulla come la verità, di un amore, di un vissuto, di un eterno divenire.

Juan Ramón Jiménez, Neruda, il sentire latino del sangue che ribolle nelle vene, la passione che diventa tormento hanno scritto i versi d’amore più appassionati e selvaggi, più traboccanti di verità, e partecipazione, la poesia di Vacca si accosta a questi poeti per intensità e rinnova il sentire con la poetica della quotidianità, della consuetudine, di un desiderio che non conosce sazietà e sempre si rinnova. Ma pur se semplice e quotidiano non è mai routine, noia, ripetitività di gesti e di parole.

Baci che strappano la carne
dalle bocche cucite.

Nonostante la vita, noi continuiamo ad amare, parafrasando Emil Cioran, a cui Vacca è molto legato per sentire e per vicinanza umana. Siamo barche alla deriva in un mare in tempesta, solo l’amore è un filo lieve che ci unisce e ci salva, perchè senza amore saremo davvero tutti perduti.

:: Pena la morte e altri racconti di Georges Simenon (Adelphi, 2022) a cura di Nicola Vacca

21 settembre 2022

Suspense e tragicomico, sono questi i registri che Georges Simenon usa nei racconti raccolti in volume con il titolo Pena la morte (traduzione di Marina Di Leo), pubblicati recentemente da Adelphi.

Anche nell’arte del racconto il grande scrittore belga eccelle.

Nel libro troviamo cinque storie e non manca mai nella narrazione l’elemento sorpresa e la scrittura è sempre un intrigo degno del migliore Simenon.

Da Il peschereccio di Émile a Pena la morte Simenon inventa storie che pescano nel torbido della creatura umana con tutte le sue fragilità e le sue pochezze, tiene conto nel caratterizzare i personaggi della loro componente miserabile e meschina.

Truffatori, avventurieri, uomini senza qualità, sono questi i protagonisti di queste cinque storie nelle quali il lettore si avventura, lasciandosi catturare dalle trame di Simenon che non concede mai un momento di tregua al suo raccontare che si conficca nella pagina per tracimare con tutta la sua grande letteratura.

Davvero unici i personaggi di questi racconti, stretti nella loro insoddisfazioni, cupi nel loro vesti nero che si portano dentro, un po’ grotteschi e un po’ malandrini, sempre in cerca di una via di scampo all’assurdo inquietante che travolge le loro esistenze.

Sono proprio i personaggi a scrivere le storie che Simenon racconta. Intorno a loro tutto il nero di esistenze infelici e l’assenza di un riscatto e di una fuga.

In Pena la morte, come nei romanzi duri, lo scrittore scende negli abissi della condizione umana e attraverso i suoi personaggi regola i conti con i suoi demoni.

Simenon ha scritto centosettantotto racconti, la maggior parte di quelli presenti in questo libro sono stati scritti in America.

Per lo scrittore il soggiorno americano coincise con un periodo proficuo per la sua attività.

I racconti di Pena la morte ne sono la prova concreta.

Georges Simenon – Scrittore belga di lingua francese (Liegi 1903 – Losanna 1989). Tra i più celebri e più letti esponenti non anglosassoni del genere poliziesco, la sua produzione letteraria, soprattutto romanzi gialli, è monumentale: essa conta poco meno di duecento romanzi, fra cui emergono − per popolarità in tutto il mondo e per salda invenzione − quelli della serie di Maigret, quasi tutti tradotti in italiano. Dopo il suo primo romanzo, scritto a 17 anni (Au pont des arches, 1921), si trasferì a Parigi dove pubblicò sotto svariati pseudonimi opere di narrativa popolare. Nel 1931 con Pietr le Letton, che uscì sotto il suo nome, inaugurò la fortunatissima serie dei romanzi (circa 102) incentrati sul commissario Maigret, che rinnovarono profondamente il genere poliziesco. Negli USA dal 1944 al 1955, tornò poi in Europa, stabilendosi in Svizzera; nel 1972 smise di scrivere, limitandosi a dettare al magnetofono, e tornò alla scrittura solo per redigere i Mémoires intimes (1981). Autore straordinariamente prolifico, con stile semplice e sobrio ha narrato nei suoi romanzi, caratterizzati da suggestive analisi di ambienti, la solitudine, il disagio esistenziale, il vuoto interiore, l’ossessione, il delitto (La fenêtre des Rouet, 1946; Trois chambres à Manhattan, 1946; La neige était sale, 1948, trad. it. 1952; L’horloger d’Everton, 1954; Le fils, 1957). Gran parte di questa abbondante produzione, che ha ispirato molti film ed è stata tradotta in 55 lingue, è stata riunita nelle Oeuvres complètes (72 voll., 1967-73) e in Tout Simenon (27 voll., 1988-93). Ricordiamo inoltre i racconti e le prose autobiografiche (Je me souviens, 1945; Pedigree, 1948, trad. it. 1987; Quand j’étais vieux, 1970; Lettre à ma mère, 1974, trad. it. 1985; la serie Mes dictées, 21 voll., 1975-85), e le raccolte di articoli À la recherche de l’homme nu (1976), À la decouverte de la France (1976), À la rencontre des autres (1989). Nel 2009, in occasione del ventennale della morte, è stato pubblicato in Francia a cura di P. Assouline il monumentale Autodictionnaire Simenon, lungo le cui voci (in gran parte tratte da interviste, carteggi e appunti dello stesso S.) si snoda un’originalissima e dettagliata biografia dello scrittore.

Source: libro inviato da ufficio stampa.

:: W. G. Sebald – Tessiture di sogno- Adelphi – a cura di Nicola Vacca

13 settembre 2022

W. G. Sebald morì in un incidente stradale il 14 dicembre 2001, da poche settimane aveva dato alle stampe Austerlitz, quel grande romanzo che tutti abbiamo amato.

Adelphi pubblica adesso Tessiture di sogno, un volume che raccoglie una serie di prose e di saggi.

Una lettura obbligata per tornare a apprezzare il Sebald saggista.

Pagine dense di pensiero, osservazioni pungenti sull’esistenza che si disgrega, parole alte che omaggiamo alcuni grandi maestri della letteratura mondiale.

Sebald il viaggiatore, il saggista e il critico. In questo splendido libro troviamo l’anima e la coscienza dello scrittore che divagano per lasciare una traccia nel pensiero del mondo.

La prima parte contiene quattro splendide prose che raccontano il suo essere viandante.

Pagine nelle quali lo scrittore racconta le suggestioni dell’isola, girovagando e annotando sul taccuino le impressioni di un viaggio con uno spirito vagabondo da viandante.

Sono davvero toccati le impressioni che Sebald scrive, affascinato dalla Corsica ecco un esempio: «E muovendo da un presente immemore verso un futuro che l’intelligenza di nessun individuo riuscirà a comprendere, alla fine anche noi lasceremo la vita, senza provare alcun bisogno di restarvi ancora per qualche istante almeno, o di potervi se mai fare ritorno».

La seconda parte del volume mostra il Sebald saggista e critico.

Sebald uomo e intellettuale della crisi che scrive sulle macerie del tempo, scava a fondo nell’abisso per coglierne tutte le apocalissi nel momento più significativo della distruzione.

Lo scrittore non fa altro in questi scritti che affrontare i temi fondamentali della sua opera letteraria.

In Tra storia e storia naturale. La descrizione letteraria della distruzione totale e in Costruzioni del lutto, lo scrittore affronta il cuore pulsante della sua riflessione, dando un volto letterario al ricordo, alla distruzione al senso della perdita, temi che troveremmo nella sua narrativa.

Sebald analizza il modo in cui la letteratura recepì l’esperienza collettiva della distruzione toccando gli interi ambiti dell’esistenza.

Gli scritti che Sebald dedica a Kafka, Nabokov e Chatwin sono tra le pagine più belle di questo libro.

Di Nabokov scrive che ha più volte cercato di gettare un po’ di luce nel buio, in cui sono immerse entrambe le estraneità della nostra vita, o per meglio dire di illuminare proprio da quei due punti estremi la nostra incomprensibile esistenza.

Di Kafka ci mostra la sua immagine complessa, leggendo i Diari, entrando nella sua testa senza quasi accorgersi di varcare la soglia dell’assurdo, cogliendo l’aspirazione dello scrittore e della propria persona nella sua fisicità.

Quando Sebald si mette sulle tracce di Bruce Chatwin resta completamente stregato dal fascino di un viandante inarrestabile che resterà per sempre un enigma, inclassificabile come lo sono tutti suoi libri.

A fine volume Sebald parla di sé davanti all’Accademia Tedesca per la Lingua e la Poesia e di tutte le tessiture di sogno che ha inventato nei suoi modi complessi e problematici del fare letteratura.

Che meraviglia vagare insieme a lui in «un regno luminoso, appena soffuso di un alito surreale come lo sono tutti i prodigi, e ci si ritrova, per così dire, sulla soglia di una verità assoluta».

W. G. Sebald scrittore tedesco, nato a Wertach im Allgäu (Baviera) il 18 maggio 1944 e morto a Norwich (contea di Norfolk) il 14 dicembre 2001. Sebald visse dal 1970 in Inghilterra, dove insegnò letteratura tedesca contemporanea presso la University of East Anglia a Norwich. La sua parabola narrativa iniziò nel 1988 con un libro di poesie, proseguì nel 1990 con i quattro racconti di Schwindel. Gefühle (trad. it. 2003), un libro in cui domina il tema del viaggio: protagonista e narratore si muovono fra Vienna, Venezia, Verona, il Lago di Garda e le Alpi Bavaresi in compagnia di Stendhal, G. Casanova e F. Kafka. Difficile trovare definizioni efficaci per Austerlitz (2001; trad. it. 2002): la storia è infatti in questo libro travolgente processo distruttivo. Le tragedie del Novecento, soprattutto quelle tedesche, vengono rivisitate con gli occhi di chi le ha vissute o di chi ne è scampato, come nel caso di Jacques Austerlitz, protagonista del romanzo: egli cerca di ripercorrere la propria storia, a partire dall’infanzia trascorsa nel Galles nella casa del predicatore Elias.

Source: libro del recensore.

:: Mi manca il Novecento – Carmelo Bene: la negazione che incendia il mondo – a cura di Nicola Vacca

16 marzo 2022

Chi è Carmelo Bene? Bella domanda. Personalmente non ho ancora trovato una risposta. Continuo a leggerlo e a studiarlo e forse una risposta neanche non la cerco.

A vent’anni esatti dalla sua morte (il maestro si è spento a Roma il 16 marzo 2002) è ancora in mezzo a noi il rumore della sua arte, la deflagrazione del suo depensare.

C.B. con i suoi tremendi colpi d’ascia viaggia ed erra da una meta all’altra di questo tempo amorale con la sua oscenità necessaria del poetico.

Carmelo che scompare mentre va in scena.

Carmelo che fa i conti con la sua assenza, Carmelo che sottrae se stesso anche quando cavalca il palcoscenico e si mostra senza mediazione.

«Egli distrae tutto, turba ogni progetto, ogni mossa degli altri. Il suo nome incute timore e paura, ed è subito storia. Quando morrà, se morrà, non morirà sconfitto per mano degli uomini; è esausto, esautorato dal fuoco che divinamente lo brucia. Tamerlano, d’interno, ha solo questo, un fuoco d’altare che brucia più di quello di Ozram e delle Vestali. La divinità lo uccide esaurendolo.

Tutto il suo resto è esternità. Cioè assenza (parapsicologica), opposta all’essenza (psicologica)».

Siamo d’accordo con Jean – Paul Manganaro. Carmelo è esternità e assenza. Carmelo è nel suo non essere, in quella geniale negazione che è stata la sua immensa arte.

Non vi angosciatecercando di definirlo con la vostra bella scrittura di pennivendoli alla moda, Carmelo vi ha già detto tempo fa cosa pensa di voi.

Carmelo è l’altrove necessario che voi non riuscirete mai a capire.

C.B. È la più grande macchina attoriale di tutti i tempi che ha fatto saltare il banco con la sua coscienza critica.

Nel fondamento tellurico del pensiero ha scrutato con la sua voce che diventa gesto la notte fonda del teatro, della poesia, della letteratura, della vita.

Carmelo sì è sempre disunito, ha devastato il corpo non per distruggerlo né per dissacrarlo, ma per strapparlo all’organizzazione di un sistema sociale chiuso.

Il grande demolitore di ogni forma di conformismo non ha fatto sconti a nessuno ma soprattutto a se stesso. «L’essermi come Pinocchio rifiutato alla crescita è se si vuole la chiave del mio smarrimento gettata in mare una volta per tutte. L’essermi alla fine liberato anche di me».

Il rifiuto alla crescita è conditio sine qua non alla educazione del proprio “femminile”. È rifiuto alla Storia e alla conflittualità delle historiette del quotidiano». Così Carmelo Bene in Sono apparso alla Madonna detta le proprie coordinate incendiarie al mondo in cui cammina.

Grande dissacratore e geniale provocatore, Carmelo Bene ha decretato la morte della critica, della cultura, del teatro, e di se stesso anche quando era in vita. Con intelligenza ha invitato alla diserzione, ad essere intensi senza scampo fino alla rottura e al disprezzo di se stessi.

Anime belle del giornalismo italiota, conformista e patinato, che oggi state scrivendo articoli benpensanti su Carmelo Bene per i venti anni della sua scomparsa, sciacquatevi la bocca prima di pronunciare il suo nome perché quando lui era vivo non avete capito un cazzo delle lacerazioni controverse del suo pensiero, che vi disturbavano anche molto.

Oggi lo celebrate per stare sul pezzo della vostra ipocrisia, mentre ieri avete disprezzato il suo inattuale spirito di rottura.

Lo spirito di rottura di Bene non risparmia nessuno: distrugge il teatro e la sua macchina attoriale («Il teatro non è finzione, ma assoluta verità. La macchina attoriale evita la dialettica. Il teatro deve essere rifiuto di ogni forma d’arte, di ogni arte della forma. Di ogni decoro, di ogni decorazione di cui comunque continua a fregiarsi ogni storia e tutte le historie delle arti visive, plastiche e musicistiche»), antistorico e antiumanista pugnala il suo tempo e la mediocre piccolezza di un pensiero intellettuale ingabbiato in un conformismo di maniera che tutto uccide («Che miseria me vedo, che miseria. L’ostentazione risibile del così detto opinionismo… nella straripante società dello spettacolo, delle zuffe TV nelle tribune politiche elettorali, nei convegni accademici e negli studi audio – visivi intrattenimentacci dove ciascuno a turno è straconvinto di dire proprio la sua»).

Questo è il grande Carmelo Bene, genio irregolare estraneo a ogni ambiente culturale. Uno contro tutti, come Artaud, Cioran, Céline, Kraus, demolitore di ogni forma di perbenismo e conformismo che considera il mondo un cimitero bigotto in cui solo l’indisciplina è degna di nota. Tutto il resto è tempo per gli imbecilli e per gli idioti.

:: Mi manca il Novecento – Ulisse, il libro della storia umana – a cura di Nicola Vacca

4 febbraio 2022

James Joyce incominciò a pensare il suo Ulisse nel 1914. All’inizio venne concepito come una novella da aggiungere alle quattordici di Gente di Dublino. Poi lo scrittore irlandese si lasciò prendere la mano dal suo genio e nel 1922 fu pubblicato in Francia il più straordinario e impossibile romanzo della storia della letteratura.

Ulisse vide la luce grazie a Sylvia Beach, che fondò a Parigi la mitica e storica libreriaShakespeare and Company.

Sylvia Beach aveva una grande venerazione per lo scrittore irlandese e decise di pubblicare Ulisse. Senza di lei l’Europa e il mondo non avrebbero mai conosciuto il libro di Joyce, considerato il capolavoro di tutti i tempi.

Molte furono le difficoltà e le vicissitudini a cui andò incontro per aver deciso di pubblicare il libro del grande scrittore irlandese.

Sylvia diventò, in un certo senso, la curatrice degli interessi editoriali e dell’immagine di Joyce e del suo carattere spigoloso e difficile. «Quando curavo gli interessi di Joyce mi dimostravo avidissima, e mi ero fatta la fama di un’affarista sprecata». Queste sono le parole di Sylvia, che tramite la Shakespeare and Company aveva la facoltà di trattare tutti gli affari di Joyce, ma non ne ricavava nessun utile.

Lei aveva con Joyce un rapporto unico. Sylvia lo venerava e lo considerava un grandissimo scrittore. Questo è il motivo per cui decise di pubblicare Ulisse. A cento anni dalla sua pubblicazione noi dobbiamo ringraziarla perché senza di lei non lo avremmo mai letto e conosciuto.

In una Dublino infognata dalla morale cattolica, Joyce ambienta il suo romanzo. Lo scrittore non sopporta la vita statica dei suoi abitanti che non vivono in maniera autentica, oppressi dalla religione e dai rigurgiti del nazionalismo.

Lo scrittore è indignato da tutto ciò. Questa posizione gli costerà l’esilio. Si è parlato di Leopold Bloom come di un eroe che sbaglia e incapace di instaurare rapporti umani.

Attraverso il flusso di coscienza di Bloom Joyce nel suo romanzo epico abbraccia tutto l’uomo. Il suo romanzo impossibile e straordinario si inserisce in un’inattualità senza tempo e in un certo senso può considerarsi un abisso in cui i lettori si perdono per non ritrovarsi più.

Dalla lettura dell’Ulisse di Joyce si esce tramortiti e allucinati. Si entra in un labirinto e ci si perde senza pietà. Questa è una sensazione forte che vale la pena provare senza avere la pretesa di capire tutto.

Gianni Celati, autore di una traduzione recente del romanzo di Joyce, sostiene che la lettura di questo libro vada liberata dall’obbligo di capire tutto, il che è un obbligo difficile da assolvere, almeno nella nostra prospettiva di lettori comuni, alle prese con la difficoltà della scrittura di Joyce.

Scrive Celati nella sua prefazione: «Difficili capitoli, sempre più stravolti. Ma credo che tutte le difficoltà si superino, a patto di non avere fretta e di accogliere con simpatia il disordine delle parole. Per questo non è importante capire tutto: è più importante sentire una tonalità musicale o canterina, che diventa più riconoscibile quando sembra di piombare in un flusso disordinato di parole. Ulisse è un libro in cui la musicalità è l’aspetto decisivo per tutti i rilanci, deviazioni, sorprese, iterazioni, monologhi».

L’idea della lettura liberata proposta da Celati è il modo migliore per affrontare Joyce e trovarsi corpo a corpo con il suo romanzo.

A Carmelo Bene l’Ulisse di Joyce ha cambiato la vita: pochi scrittori sono riusciti a passare da un “pensiero dell’immediato “a un “immediato pensiero”. Per Bene Ulisse è il libro della storia umana.

:: Anatomia del potere. ORGIA, PORCILE, CALDERÓN Pasolini drammaturgo vs. Pasolini filosofo di Georgios Katsantonis (Metauro Edizioni 2021) a cura di Nicola Vacca

19 gennaio 2022

Si parlerà molto di Pier Paolo Pasolini nel centenario della sua nascita che cade quest’anno. Molte saranno le pubblicazioni che gli saranno dedicate.

Lo scorso anno è uscito un saggio interessante che prende in esame l’attività di Pasolini drammaturgo.

Anatomia del potere. Orgia, Porcile e Calderón. Pasolini drammaturgo vs. Pasolini filosofo è uno scavo monografico intorno al nodo tematico e problematico del potere che prende in esame tre opere importanti dello scrittore friulano.

L’autore è Georgios Katsantonis, studioso di teatro e letteratura. Le tre opere selezionate in questo saggio illustrano un tentativo di lettura del potere nelle varie declinazioni simboliche: l’erotizzazione del fascismo (Orgia), la fine della Polis (Porcile), la trasformazione della società in un universo concentrazionario (Calderón).

Katsantonis mette in evidenza la concezione filosofica e l’impegno politico di Pasolini drammaturgo, la cui intensa attività è stata profetica per il nostro contemporaneo.

Con questi tre scavi monografici l’autore si prefigge lo scopo, usando approfonditi modelli comparatistici, di entrare nella parte speculativa più intima dell’attività filosofica della drammaturgia pasoliniana attraverso l’analisi di tre opere fondamentali che più di tutte rappresentano lo scrittore corsaro.

Orgia, Porcile e Calderón con le loro trame che si intrecciano per raccontare la violenza della storia, la depravazione del potere, la dissoluzione del corpo, la distruzione del tempo.

Anatomia del potere è un saggio che approfondisce il lato fertile e profetico del Pasolini drammaturgo e coglie i punti rilevanti della sua filosofia che va in scena come una profezia con cui noi contemporanei dobbiamo ancora fare i conti.

Katsantonis con questo libro si sofferma su un segmento specifico dell’opera di Pier Paolo Pasolini, la sua passione per la drammaturgia attraverso la quale con incisività pensante e filosofica è riuscito a leggere il quadro apocalittico del nostro tempo.

Georgios Katsantonis è studioso di teatro e letteratura. Si è laureato in Studi Teatrali presso l’Università di Patrasso (Grecia) e ha conseguito il Master in Letteratura, Scrittura e Critica teatrale presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Ha poi conseguito il dottorato di ricerca in Letterature e Filologie Moderne con lode presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha tenuto conferenze in molti Atenei e Istituzioni italiane ed internazionali. Nel 2017 ha vinto il premio Nicoletta Quinto della Fondazione Premio Internazionale Galileo Galilei di Pisa, dedicato a giovani studiosi stranieri che si sono distinti nel campo degli Studi sulla cultura italiana. Georgios Katsantonis è anche vincitore della 37° edizione del Premio Pier Paolo Pasolini con la motivazione: “La ricerca presenta un notevole spessore culturale, riesce a far interagire senza forzature le teorie di Deleuze sul masochismo, il pensiero femminista, le riflessioni di Spinoza sul potere; e fa un confronto non scontato e del tutto nuovo con l’opera di Strindberg; e infine offre una traduzione in greco moderno di Orgia, un’operazione di sicuro da apprezzare.”

:: Mi manca il Novecento – Carlo Betocchi, il poeta che non perde mai di vista la terra – a cura di Nicola Vacca

29 dicembre 2021

Carlo Betocchi è considerato la guida morale della corrente degli ermetici. Ma la sua esperienza poetica è stata singolare e non la si può includere in nessuna scuola.

Franco Fortini scrive che la poetica di Betocchi ha avuto uno sviluppo complesso, verso forme di più secca semplicità, di realismo, quasi un cattolico primato conferito all’incarnazione, dunque all’oggetto.

Con un linguaggio diretto e un immanente tensione morale verso un realismo spregiudicato, Betocchi considerava la poesia come la realtà che vince il sogno.

Realtà vince il sogno è anche il titolo della sua prima raccolta, che diventerà appunto il manifesto della sua attività poetica.

Con un linguaggio semplice il poeta tocca con mano le parole e ci propone le situazioni quotidiane colte nel loro accadere in cui la realtà della vita è contrapposto agli inganni del sogno.

Betocchi, un poeta con i piedi per terra che si sente parte del tutto, del creato invoca un senso francescano di fratellanza.

A Francesco guarda l’esperienza religiosa della sua poesia, che è sempre lontana dalle forme del misticismo e guarda con un partecipato sentire all’uomo e all’umanesimo.

Carlo Betocchi è un poeta che cerca l’uomo, essendo uomo tra gli uomini.

«Ciò che occorre è un uomo» scrive in una bellissima poesia dedicata a Emilia De Palma, la sua compagna.

«La poesia di Betocchi scrive Mario Luzi – era stata per eccellenza una poesia del sensibile: tanto vale dire che la sua carità partiva dalle creature. Ora che il discorso è, fra sé e sé, un discorso con il Creatore quasi senza distrazioni all’esterno, il sensibile ritorna più che altro come metafora interna ed è proprio in quei punti che il «passo» mette le ali e accelera il commovimento bruciante della asciutta confessione, di per se stessa così alta, così fervida per ansia di verità. È da notare che tutto questo accade senza rotture e lacerazioni, in un linguaggio sostanzialmente continuo, incisivo, vivificato dalle risorse e ricchezze di idioma, non secco, aperto anzi a una sintassi geroglifica prima del suo finale svettante. […] C’è un punto ideale nella storia di ogni poeta in cui la distinzione tra prosa e poesia sembra un limite o un arbitrio insostenibile: un punto in cui la lingua è una. Con misura e fermezza Betocchi si è collocato in quel punto non dovendo per questo discendere ma anzi salire».

Il verso di Betocchi ha qualità di durata autentica, la sua poesia è sempre una cosa sincera che si insinua con lealtà nei meandri della realtà. Las critica non sempre lo ha amato e apprezzato. La poesia di Carlo Betocchi meritava più attenzione e ascolto.

«[…] più che toscano, italiano all’antico modo romanico, scrive Giorgio Caproni – sia per il cristiano realismo della stringatissima ispirazione, la quale pur tenendo l’occhio costantemente puntato al cielo non perde mai di vista la terra e le sue stagioni (gli uomini e le loro fatiche), sia per l’asciuttezza quasi frustante del linguaggio, qui più che mai vicino alla plasticità e all’incisività, così popolata di schietta gente nostra alla vigna o all’incudine di certi Mesi dell’anno che fregiano tante antiche cattedrali o chiesuole sparse da un capo all’altro d’Italia».

La meraviglia di fronte alla realtà e questo non perdere mai di vista la terra, un umanesimo cristiano vissuto attraverso l’esperienza drammatica della fede, fanno di Carlo Betocchi un poeta importante e imprescindibile della letteratura del Novecento.

Un poeta profondamente umano con la sua poesia che veniva dalla terra.

Da uomo libero aveva intuito che la realtà vince il sogno. La sua umiltà e la sua grandezza meritavano di più.

:: Mi manca il Novecento – Samuel Beckett e l’assurdo nella tragicommedia dell’attesa – a cura di Nicola Vacca

24 dicembre 2021

Samuel Beckett è una delle colonne portanti del Novecento letterario, è stato uno degli autori più rappresentativi del teatro dell’assurdo.

Irlandese di nascita, francese e parigino d’adozione, Beckett con il romanzo, il teatro e la poesia ci ha insegnato attraverso la metafisica dell’assurdo che noi nasciamo e moriamo aspettando Godot.

In Finale di partita e in Giorni felici come in Molloy, Malone muore e L’innominabile, Beckett esprime in maniera radicale il nichilismo del suo tempo e tutti i drammi dell’esistenza. La sua scrittura fa i conti con l’insensatezza e l’incomunicabilità, va oltre i luoghi comuni, cercando un dialogo serrato con un incomprensibile che diventa assurdo.

La scena del teatro di Beckett è muta, perché a essere senza parole è l’uomo che non riesce a liberarsi dalla prigionia del nulla.

Beckett è un significativo scrittore della crisi. Tutta la sua opera è radicalizzata in direzione dell’assurdo: nella scrittura teatrale, narrativa e poetica il nichilismo filosofico dello scrittore mette in scena prima di tutto la crisi dell’uomo contemporaneo.

Tra gli autori più discussi e drammatici del Novecento, Samuel Beckett con una voce sofferta e angosciosa ha affrontato il dolore dell’uomo, l’inevitabile destino di sofferenza al quale è destinato nel suo passaggio sulla terra.

«I suoi paesaggi sono deserti in cui torreggiano le inezie; i suoi personaggi simboleggiano, in una qualche deformità fisica, la paralisi spirituale cui sono giunti. Non si muovono perché non ce n’è motivo alcuno e ogni desiderio che sorge viene immediatamente frustrato da una lucida consapevolezza» (da una nota critica dell’Enciclopedia Treccani).

La cifra stilistica di Beckett era una zona di silenzio. Intorno a questo esercitava il suo mestiere di scrittore. Scrivere per lui significa scavarsi dentro passando da un buco all’altro finché ciò che sta acquattato dietro, che sia qualcosa oppure niente, non comincia a filtrare. Beckett non riusciva a immaginarsi un fine più altro per lo scrittore del suo tempo.

Naufragando nel teatro dell’assurdo, Beckett è stato un critico severo del suo tempo. Egli ha messo in scena un unico e enorme dramma, quello del fallimento concreto dell’uomo con tutta la sua incapacità di comunicare e costruire rapporti, causa principale del declino dei concetti dell’amore e della libertà.

Nel suo linguaggio colme di pause, di silenzi e di parole senza senso lo scrittore trova l’impossibilità di vivere un presente felice.

Beckett è crudo e radicale nell’esprimere la decadenza del mondo e la paralisi spirituale dell’uomo contemporaneo.

«Non so chi sia Godot. Soprattutto non so neanche se esiste. E non so neppure se quei due che l’aspettano ci credono o no».

Nella tragicommedia dell’attesa ancora oggi il genio esistenzialista di Samuel Beckett ci mostra nella sua inquietudine radicale l’inferno dell’insensatezza, il dramma di un teatro dell’assurdo che mette in scena il nostro eterno fallimento di uomini.

:: Mi manca il Novecento – Chet, il poeta della tromba che centra sempre il cuore – a cura di Nicola Vacca

22 dicembre 2021

Le rughe pronunciate, le mascelle spigolose, i contorni sfumati, gli zigomi risucchiati dalla violenza di un tempo distruttivo.

La testa abbassata in simbiosi con la sua tromba. Ecco Chet Baker, il più grande musicista maledetto del jazz che ha fatto della sua esistenza un’esperienza crudele.

Chet può considerarsi un Artaud d’oltreoceano, un vero poeta che con la sua tromba ha creato mondi musicali e capolavori inarrivabili.

Chet è una delle più grandi coscienze inquiete del jazz,

«Baker, – scrive Emanuele Capozziello – un traditore dello star-system, è vissuto troppo a lungo e troppo pienamente, mettendo in imbarazzo gli inconfessabili cliché della critica musicale (l’ipocrita paternalismo reazionario, che glorifica e implicitamente ammonisce Jimi Hendrix, Kurt Cobain, Luigi Tenco), e non ha permesso alla sua tragedia di divenire “aneddotica”, non ha permesso che il lava-stira dell’industria hollywoodiana purificasse, sublimasse e vendesse a prezzo di mercato il suo dolore. Una tragedia odiosamente invendibile, dopo la morte di Chet Baker, è diventata una tragedia felicemente inconsumabile, tanto autentica, tanto viva e personale, quanto difficile, non semplificabile e illeggibile. L’esperienza musicale di Baker – che, per le ragioni anticipate, non può dirsi propriamente una “carriera” – è inconsumabile come la vera poesia – per usare le parole di un altro “minore”, Pasolini – e la sua, come ogni poetica della vita e della sua crudeltà, risulta amabilmente avvicinabile, e ancora più piacevolmente incomprensibile».

La musica di Chet non è stata assoluta e affermativa, la sua tromba è stata sempre lontana dai virtuosismi, vicina ai sentimenti brutali di una realtà crudele.

Un tromba, la sua, che ha sempre centrato il cuore, lo ha straziato con la malinconia di un fiato devastante, intenso e poetico.

Il genio e la sregolatezza di Che trimarano sempre tormentate e oscure come la sua carriera maledetta.

Enrico Rava ha scritto che Baker è stato un musicista con la magia in tasca. Chet, uno dei più grandi trombettisti della storia del jazz, il migliore in senso assoluto tra i bianchi.

Magrissimo, con lo sguardo smarrito, gli zigomi sporgenti e le rughe che gli segnavano il viso ricordandogli gli eccessi. Nella sua musica trovava conforto e si rifugiava sotto le ali protettive della sua tromba. Ballate struggenti indimenticabili, e tra le tante Everything Happens to Me e la malinconica My Funny Valentine, che ancora oggi emozionano i cuori e l’anima di chi le ascolta.

Chet Baker non è solo un mito maledetto ma è soprattutto un ‘icona del jazz e di tutta la poesia che c’è nel jazz.

Arrigo Polillo ha scritto in Jazz (Mondadori, 1975) che la tromba di Chet Baker aveva una voce pastosa e carezzevole, la musicalità e la nitidezza delle linee melodiche, il puntualissimo gioco d’insieme, il delizioso contrappunto, il funzionale sostegno dei ritmi, propulsivo quanto discreto, erano altrettanto tratti distintivi di quel jazz rilassato e muscoloso a un tempo, che si differenziava già nettamente dal cool jazz, dal quale peraltro derivava.

Chet, un immenso poeta della tromba che aveva uno spiccato senso dell’armonia jazz.

Il suo ascolto ci spiazza, ci coinvolge, ci inquieta. I suoi assoli ci procurano vertigini di suggestioni e di emozioni, ma soprattutto ci conducono in mondi interiori musicali dove la tensione è alta e si chiama poesia.