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:: Mi manca il Novecento – La poesia metafisica di Arturo Onofri – a cura di Nicola Vacca

20 gennaio 2023
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Невідомо

Arturo Onofri, compiuti gli studi classici nella città natale, cominciò ancora giovane a lavorare e a scrivere versi.

La sua ispirazione si configura fin dall’inizio come una ricerca di temi e strumenti formai eterogenei: ammiratore e studioso di Corazzini, fu influenzato da esperienze poetiche diverse e distanti tra loro.

Nel 1912 fondò Lirica e entrò in contatto con i Vociani con cui collaborò senza mai abbracciarne le idee.

Studiò con passione e devozione i simbolisti e i parnassiani, fu affascinato da Mallarmé.

Nel 1925 pubblicò il suo manifesto, il Nuovo Rinascimento come Arte dell’Io. Da questo momento in poi la sua produzione letteraria apparirà improntata a una problematica spiritualista, volta alla scoperta di un mondo sovrasensibile attraverso un’indagine introspettiva.

La sua poesia sarà un’investigazione spirituale che dal corpo fisico dell’uomo giunge fino allo spirito puro. Possiamo definirlo un poeta metafisico.

Le prime raccolte di Onofri, Liriche e Poemi tragici, furono pubblicate rispettivamente nel 1907 e nel 1908.

In questi primi anni del Novecento il tributo a D’Annunzio e a Pascoli era inevitabile.

Si avverte anche l’influenza soprattutto nei crepuscolari, di Rimbaud dell’orfismo di Mallarmé.

Onofri, cui non faceva difetto lo spirito critico, mirava a una visione unitaria capace di mettere insieme i vari aspetti della realtà.

Fu determinante per la sua poesia l’incontro con le teorie antropomorfiche di Rudolf Steiner.

Altrettanto importante sul piano estetico l’incontro con Wagner da cui trasse conferma al suo proposito di realizzare la parola – suono e concepire le sue raccolte come veri e propri cicli.

Abbiamo così i cicli wagneriani di Terrestrità del sole (1927), Vincere il drago! (1928).

La critica ha indicato il limite della sua poesia «nello squilibrio tra il contenuto grezzamente scientificizzante ed un linguaggio raramente idoneo a suggellarlo in poesia» (Petrocchi).

La poesia di Onofri costituisce una tappa del linguaggio poetico del Novecento, sia dal punto di vista del lessico che dal punto di vista delle istituzioni poetiche.

La ricerca di una nuova identità al di fuori della tradizione si configura così da un lato nella ribellione e nella protesta all’ortodossia domestica (curiosi a questo riguardo gli aneddoti famigliari della prima comunione, della visita alla zia suora e dello zio moribondo) e dall’altro nella libertà della ricerca filosofica ed esoterica. Soprattutto nelle prime 3 raccolte (Liriche, Poemi tragici, Canti dell’oasi,) la poesia subisce l’influsso di questa situazione umana ed intellettuale rivelando un’ansia di conoscenza ed un desiderio di esplorazione filosofica che romanticamente naufraga nella dimensione notturno/subconscia.

L’iter poetico di Arturo Onofri va dal 1900 al 1928.

Il suo battesimo letterario, inizia con la raccolta Liriche nel 1907 (del resto da lui subito ripudiata), e prosegue con ben altre 8 raccolte poetiche, ispirate da un progressivo e mistico zelo creativo che cesserà solo con la prematura morte del poeta nel 1928 e le ben 4 raccolte pubblicate postume dalla moglie Bice Sinibaldi.

I maggiori critici del periodo individuano in questa produzione lirica tre fasi: la prima crepuscolare e dannunziana che si estende fino alla raccolta Orchestrine del 1917; una seconda o fase mediana di poesia-prosa o del frammento, che va fino a Trombe d’argento del 1924; ed infine, posteriore alla conversione all’antroposofia, ovvero alla filosofia esoterica di Rudolph Steiner, il ciclo poematico della Terrestrità del sole.

All’iter onofriano coincide l’avvento di un nuovo secolo ed un clima di profonda trasformazione in cui possiamo cogliere vari motivi innovatori. All’epoca dei suoi esordi ovvero le raccolte di Liriche (1907), di Poemi tragici (1908) e di Canti delle oasi (1909), la punta più avanzata del nuovo si configura nelle prove, tra il 1903 ed il 1905, di Govoni e Corazzini pervase dal clima crepuscolare; la nascita della rivista “La Voce” nel 1908; ed il primo manifesto futurista del 1909.

Mario Luzi in Discorso naturale parla di Arturo Onofri e della sua particolare originalità poetica.

Per Luzi Onofri è un caso poetico del Novecento italiano, probabilmente ancora da approfondire, da esplorare, da affrontare con circostanziata intelligenza critica.

:: Mi manca il Novecento – Ennio Flaiano e l’azzardo attraverso gli occhiali indiscreti – a cura di Nicola Vacca

22 novembre 2022

Quello che ci manca di Ennio Flaiano a 50 anni dalla sua scomparsa è l’azzardo di osare con le parole.

Lo scrittore pescarese come pochi del suo tempo ha impugnato la penna come un bisturi tagliente per ferire e denunciare. Con i suoi aforismi satirici e i suoi articoli ha raccontato l’Italia e i propri connazionali, la corruzione morale e l’ipocrisia di una Nazione e tutta la retorica di un conformismo divenuto abito mentale.

Anna Longoni scrive che non si stupisca il lettore di oggi se, nel ripercorrere il racconto di un’Italia che appartiene ormai al passato, verrà colto di sorpresa da alcuni dettagli che lo costringeranno a riconoscere, non senza preoccupazione, riflessi inaspettati della nostra contemporaneità.

Nei suoi scritti Flaiano ci ha lasciato il ritratto di un paese incapace di reggere la sfida della libertà e della democrazia, perché il fascismo è il diabete degli italiani, una malattia del sangue, sottile, antica, che colpisce anche le migliori famiglie, destinata a riaffiorare nel tempo.

Flaiano, spinto dalla satira e dall’indignazione, con la sua irriverente inattualità parla ancora ai nostri giorni e le sue analisi calzano a pennello alla palude di oggi in cui il paese è ancora incapace di reggere la sfida della libertà e il fascismo continua a essere il diabete degli italiani.

Flaiano, cronista cinico della società, aforista spietato e pungente che non concede nulla al proprio tempo, satiro annoiato che divaga controcorrente con il suo personale frasario essenziale, mostrandosi senza maschera attraverso le parole come uni intellettuale senza illusioni. Soprattutto nella sua attività giornalistica (da rileggere i suoi articoli su Il Mondo, L’Espresso, Il Corriere della Sera, L’Europeo) la sua penna acuta e intelligente, onesta ha sconfessato i vizi dell’Italietta, scagliandosi contro la cultura del mercimonio, gli interessi e i compromessi degli amici degli amici, la corruzione dei costumi e la malafede del potere.

«Io forse non ero di questa epoca, non sono di questa epoca, forse appartengo a un altro mondo; io mi sento più in armonia quando leggo Giovenale, Marziale, Catullo».

Così si descrive Ennio Flaiano nella pagine finali de La solitudine del satiro, il suo libro più personale e più intimo a cui lo scrittore aveva cominciato a lavorare pochi mesi prima della morte.

Giornalismo, cinema, letteratura, teatro. In tutte queste discipline Flaiano è stato sempre un intellettuale fuori dagli schemi. Con le sue stilettate e invettive ha massacrato e castigato senza alcuna riserva il proprio tempo. Il risultato di questo andare in direzione ostinata e contraria è il disagio di una solitudine senza via di scampo alla quale lui non si è sottratto per non rinunciare a una irregolarità corsara in cui non ha mai smesso di credere fino alla fine.

Ennio Flaiano è stato prima di tutto un libero pensatore, una delle poche coscienze critiche che sopportava male la mediocrità e l’assenza di un’etica in un’Italia che già allora si candidava a diventare un paese di porci e mascalzoni.

Ennio Flaiano disilluso e malinconico con le sue riflessioni profetiche che non hanno perso attualità ancora oggi ci legge dentro.

:: Mi manca il Novecento – Carmelo Bene: la negazione che incendia il mondo – a cura di Nicola Vacca

16 marzo 2022

Chi è Carmelo Bene? Bella domanda. Personalmente non ho ancora trovato una risposta. Continuo a leggerlo e a studiarlo e forse una risposta neanche non la cerco.

A vent’anni esatti dalla sua morte (il maestro si è spento a Roma il 16 marzo 2002) è ancora in mezzo a noi il rumore della sua arte, la deflagrazione del suo depensare.

C.B. con i suoi tremendi colpi d’ascia viaggia ed erra da una meta all’altra di questo tempo amorale con la sua oscenità necessaria del poetico.

Carmelo che scompare mentre va in scena.

Carmelo che fa i conti con la sua assenza, Carmelo che sottrae se stesso anche quando cavalca il palcoscenico e si mostra senza mediazione.

«Egli distrae tutto, turba ogni progetto, ogni mossa degli altri. Il suo nome incute timore e paura, ed è subito storia. Quando morrà, se morrà, non morirà sconfitto per mano degli uomini; è esausto, esautorato dal fuoco che divinamente lo brucia. Tamerlano, d’interno, ha solo questo, un fuoco d’altare che brucia più di quello di Ozram e delle Vestali. La divinità lo uccide esaurendolo.

Tutto il suo resto è esternità. Cioè assenza (parapsicologica), opposta all’essenza (psicologica)».

Siamo d’accordo con Jean – Paul Manganaro. Carmelo è esternità e assenza. Carmelo è nel suo non essere, in quella geniale negazione che è stata la sua immensa arte.

Non vi angosciatecercando di definirlo con la vostra bella scrittura di pennivendoli alla moda, Carmelo vi ha già detto tempo fa cosa pensa di voi.

Carmelo è l’altrove necessario che voi non riuscirete mai a capire.

C.B. È la più grande macchina attoriale di tutti i tempi che ha fatto saltare il banco con la sua coscienza critica.

Nel fondamento tellurico del pensiero ha scrutato con la sua voce che diventa gesto la notte fonda del teatro, della poesia, della letteratura, della vita.

Carmelo sì è sempre disunito, ha devastato il corpo non per distruggerlo né per dissacrarlo, ma per strapparlo all’organizzazione di un sistema sociale chiuso.

Il grande demolitore di ogni forma di conformismo non ha fatto sconti a nessuno ma soprattutto a se stesso. «L’essermi come Pinocchio rifiutato alla crescita è se si vuole la chiave del mio smarrimento gettata in mare una volta per tutte. L’essermi alla fine liberato anche di me».

Il rifiuto alla crescita è conditio sine qua non alla educazione del proprio “femminile”. È rifiuto alla Storia e alla conflittualità delle historiette del quotidiano». Così Carmelo Bene in Sono apparso alla Madonna detta le proprie coordinate incendiarie al mondo in cui cammina.

Grande dissacratore e geniale provocatore, Carmelo Bene ha decretato la morte della critica, della cultura, del teatro, e di se stesso anche quando era in vita. Con intelligenza ha invitato alla diserzione, ad essere intensi senza scampo fino alla rottura e al disprezzo di se stessi.

Anime belle del giornalismo italiota, conformista e patinato, che oggi state scrivendo articoli benpensanti su Carmelo Bene per i venti anni della sua scomparsa, sciacquatevi la bocca prima di pronunciare il suo nome perché quando lui era vivo non avete capito un cazzo delle lacerazioni controverse del suo pensiero, che vi disturbavano anche molto.

Oggi lo celebrate per stare sul pezzo della vostra ipocrisia, mentre ieri avete disprezzato il suo inattuale spirito di rottura.

Lo spirito di rottura di Bene non risparmia nessuno: distrugge il teatro e la sua macchina attoriale («Il teatro non è finzione, ma assoluta verità. La macchina attoriale evita la dialettica. Il teatro deve essere rifiuto di ogni forma d’arte, di ogni arte della forma. Di ogni decoro, di ogni decorazione di cui comunque continua a fregiarsi ogni storia e tutte le historie delle arti visive, plastiche e musicistiche»), antistorico e antiumanista pugnala il suo tempo e la mediocre piccolezza di un pensiero intellettuale ingabbiato in un conformismo di maniera che tutto uccide («Che miseria me vedo, che miseria. L’ostentazione risibile del così detto opinionismo… nella straripante società dello spettacolo, delle zuffe TV nelle tribune politiche elettorali, nei convegni accademici e negli studi audio – visivi intrattenimentacci dove ciascuno a turno è straconvinto di dire proprio la sua»).

Questo è il grande Carmelo Bene, genio irregolare estraneo a ogni ambiente culturale. Uno contro tutti, come Artaud, Cioran, Céline, Kraus, demolitore di ogni forma di perbenismo e conformismo che considera il mondo un cimitero bigotto in cui solo l’indisciplina è degna di nota. Tutto il resto è tempo per gli imbecilli e per gli idioti.

:: Mi manca il Novecento – Ulisse, il libro della storia umana – a cura di Nicola Vacca

4 febbraio 2022

James Joyce incominciò a pensare il suo Ulisse nel 1914. All’inizio venne concepito come una novella da aggiungere alle quattordici di Gente di Dublino. Poi lo scrittore irlandese si lasciò prendere la mano dal suo genio e nel 1922 fu pubblicato in Francia il più straordinario e impossibile romanzo della storia della letteratura.

Ulisse vide la luce grazie a Sylvia Beach, che fondò a Parigi la mitica e storica libreriaShakespeare and Company.

Sylvia Beach aveva una grande venerazione per lo scrittore irlandese e decise di pubblicare Ulisse. Senza di lei l’Europa e il mondo non avrebbero mai conosciuto il libro di Joyce, considerato il capolavoro di tutti i tempi.

Molte furono le difficoltà e le vicissitudini a cui andò incontro per aver deciso di pubblicare il libro del grande scrittore irlandese.

Sylvia diventò, in un certo senso, la curatrice degli interessi editoriali e dell’immagine di Joyce e del suo carattere spigoloso e difficile. «Quando curavo gli interessi di Joyce mi dimostravo avidissima, e mi ero fatta la fama di un’affarista sprecata». Queste sono le parole di Sylvia, che tramite la Shakespeare and Company aveva la facoltà di trattare tutti gli affari di Joyce, ma non ne ricavava nessun utile.

Lei aveva con Joyce un rapporto unico. Sylvia lo venerava e lo considerava un grandissimo scrittore. Questo è il motivo per cui decise di pubblicare Ulisse. A cento anni dalla sua pubblicazione noi dobbiamo ringraziarla perché senza di lei non lo avremmo mai letto e conosciuto.

In una Dublino infognata dalla morale cattolica, Joyce ambienta il suo romanzo. Lo scrittore non sopporta la vita statica dei suoi abitanti che non vivono in maniera autentica, oppressi dalla religione e dai rigurgiti del nazionalismo.

Lo scrittore è indignato da tutto ciò. Questa posizione gli costerà l’esilio. Si è parlato di Leopold Bloom come di un eroe che sbaglia e incapace di instaurare rapporti umani.

Attraverso il flusso di coscienza di Bloom Joyce nel suo romanzo epico abbraccia tutto l’uomo. Il suo romanzo impossibile e straordinario si inserisce in un’inattualità senza tempo e in un certo senso può considerarsi un abisso in cui i lettori si perdono per non ritrovarsi più.

Dalla lettura dell’Ulisse di Joyce si esce tramortiti e allucinati. Si entra in un labirinto e ci si perde senza pietà. Questa è una sensazione forte che vale la pena provare senza avere la pretesa di capire tutto.

Gianni Celati, autore di una traduzione recente del romanzo di Joyce, sostiene che la lettura di questo libro vada liberata dall’obbligo di capire tutto, il che è un obbligo difficile da assolvere, almeno nella nostra prospettiva di lettori comuni, alle prese con la difficoltà della scrittura di Joyce.

Scrive Celati nella sua prefazione: «Difficili capitoli, sempre più stravolti. Ma credo che tutte le difficoltà si superino, a patto di non avere fretta e di accogliere con simpatia il disordine delle parole. Per questo non è importante capire tutto: è più importante sentire una tonalità musicale o canterina, che diventa più riconoscibile quando sembra di piombare in un flusso disordinato di parole. Ulisse è un libro in cui la musicalità è l’aspetto decisivo per tutti i rilanci, deviazioni, sorprese, iterazioni, monologhi».

L’idea della lettura liberata proposta da Celati è il modo migliore per affrontare Joyce e trovarsi corpo a corpo con il suo romanzo.

A Carmelo Bene l’Ulisse di Joyce ha cambiato la vita: pochi scrittori sono riusciti a passare da un “pensiero dell’immediato “a un “immediato pensiero”. Per Bene Ulisse è il libro della storia umana.

:: Mi manca il Novecento – Carlo Betocchi, il poeta che non perde mai di vista la terra – a cura di Nicola Vacca

29 dicembre 2021

Carlo Betocchi è considerato la guida morale della corrente degli ermetici. Ma la sua esperienza poetica è stata singolare e non la si può includere in nessuna scuola.

Franco Fortini scrive che la poetica di Betocchi ha avuto uno sviluppo complesso, verso forme di più secca semplicità, di realismo, quasi un cattolico primato conferito all’incarnazione, dunque all’oggetto.

Con un linguaggio diretto e un immanente tensione morale verso un realismo spregiudicato, Betocchi considerava la poesia come la realtà che vince il sogno.

Realtà vince il sogno è anche il titolo della sua prima raccolta, che diventerà appunto il manifesto della sua attività poetica.

Con un linguaggio semplice il poeta tocca con mano le parole e ci propone le situazioni quotidiane colte nel loro accadere in cui la realtà della vita è contrapposto agli inganni del sogno.

Betocchi, un poeta con i piedi per terra che si sente parte del tutto, del creato invoca un senso francescano di fratellanza.

A Francesco guarda l’esperienza religiosa della sua poesia, che è sempre lontana dalle forme del misticismo e guarda con un partecipato sentire all’uomo e all’umanesimo.

Carlo Betocchi è un poeta che cerca l’uomo, essendo uomo tra gli uomini.

«Ciò che occorre è un uomo» scrive in una bellissima poesia dedicata a Emilia De Palma, la sua compagna.

«La poesia di Betocchi scrive Mario Luzi – era stata per eccellenza una poesia del sensibile: tanto vale dire che la sua carità partiva dalle creature. Ora che il discorso è, fra sé e sé, un discorso con il Creatore quasi senza distrazioni all’esterno, il sensibile ritorna più che altro come metafora interna ed è proprio in quei punti che il «passo» mette le ali e accelera il commovimento bruciante della asciutta confessione, di per se stessa così alta, così fervida per ansia di verità. È da notare che tutto questo accade senza rotture e lacerazioni, in un linguaggio sostanzialmente continuo, incisivo, vivificato dalle risorse e ricchezze di idioma, non secco, aperto anzi a una sintassi geroglifica prima del suo finale svettante. […] C’è un punto ideale nella storia di ogni poeta in cui la distinzione tra prosa e poesia sembra un limite o un arbitrio insostenibile: un punto in cui la lingua è una. Con misura e fermezza Betocchi si è collocato in quel punto non dovendo per questo discendere ma anzi salire».

Il verso di Betocchi ha qualità di durata autentica, la sua poesia è sempre una cosa sincera che si insinua con lealtà nei meandri della realtà. Las critica non sempre lo ha amato e apprezzato. La poesia di Carlo Betocchi meritava più attenzione e ascolto.

«[…] più che toscano, italiano all’antico modo romanico, scrive Giorgio Caproni – sia per il cristiano realismo della stringatissima ispirazione, la quale pur tenendo l’occhio costantemente puntato al cielo non perde mai di vista la terra e le sue stagioni (gli uomini e le loro fatiche), sia per l’asciuttezza quasi frustante del linguaggio, qui più che mai vicino alla plasticità e all’incisività, così popolata di schietta gente nostra alla vigna o all’incudine di certi Mesi dell’anno che fregiano tante antiche cattedrali o chiesuole sparse da un capo all’altro d’Italia».

La meraviglia di fronte alla realtà e questo non perdere mai di vista la terra, un umanesimo cristiano vissuto attraverso l’esperienza drammatica della fede, fanno di Carlo Betocchi un poeta importante e imprescindibile della letteratura del Novecento.

Un poeta profondamente umano con la sua poesia che veniva dalla terra.

Da uomo libero aveva intuito che la realtà vince il sogno. La sua umiltà e la sua grandezza meritavano di più.

:: Mi manca il Novecento – Samuel Beckett e l’assurdo nella tragicommedia dell’attesa – a cura di Nicola Vacca

24 dicembre 2021

Samuel Beckett è una delle colonne portanti del Novecento letterario, è stato uno degli autori più rappresentativi del teatro dell’assurdo.

Irlandese di nascita, francese e parigino d’adozione, Beckett con il romanzo, il teatro e la poesia ci ha insegnato attraverso la metafisica dell’assurdo che noi nasciamo e moriamo aspettando Godot.

In Finale di partita e in Giorni felici come in Molloy, Malone muore e L’innominabile, Beckett esprime in maniera radicale il nichilismo del suo tempo e tutti i drammi dell’esistenza. La sua scrittura fa i conti con l’insensatezza e l’incomunicabilità, va oltre i luoghi comuni, cercando un dialogo serrato con un incomprensibile che diventa assurdo.

La scena del teatro di Beckett è muta, perché a essere senza parole è l’uomo che non riesce a liberarsi dalla prigionia del nulla.

Beckett è un significativo scrittore della crisi. Tutta la sua opera è radicalizzata in direzione dell’assurdo: nella scrittura teatrale, narrativa e poetica il nichilismo filosofico dello scrittore mette in scena prima di tutto la crisi dell’uomo contemporaneo.

Tra gli autori più discussi e drammatici del Novecento, Samuel Beckett con una voce sofferta e angosciosa ha affrontato il dolore dell’uomo, l’inevitabile destino di sofferenza al quale è destinato nel suo passaggio sulla terra.

«I suoi paesaggi sono deserti in cui torreggiano le inezie; i suoi personaggi simboleggiano, in una qualche deformità fisica, la paralisi spirituale cui sono giunti. Non si muovono perché non ce n’è motivo alcuno e ogni desiderio che sorge viene immediatamente frustrato da una lucida consapevolezza» (da una nota critica dell’Enciclopedia Treccani).

La cifra stilistica di Beckett era una zona di silenzio. Intorno a questo esercitava il suo mestiere di scrittore. Scrivere per lui significa scavarsi dentro passando da un buco all’altro finché ciò che sta acquattato dietro, che sia qualcosa oppure niente, non comincia a filtrare. Beckett non riusciva a immaginarsi un fine più altro per lo scrittore del suo tempo.

Naufragando nel teatro dell’assurdo, Beckett è stato un critico severo del suo tempo. Egli ha messo in scena un unico e enorme dramma, quello del fallimento concreto dell’uomo con tutta la sua incapacità di comunicare e costruire rapporti, causa principale del declino dei concetti dell’amore e della libertà.

Nel suo linguaggio colme di pause, di silenzi e di parole senza senso lo scrittore trova l’impossibilità di vivere un presente felice.

Beckett è crudo e radicale nell’esprimere la decadenza del mondo e la paralisi spirituale dell’uomo contemporaneo.

«Non so chi sia Godot. Soprattutto non so neanche se esiste. E non so neppure se quei due che l’aspettano ci credono o no».

Nella tragicommedia dell’attesa ancora oggi il genio esistenzialista di Samuel Beckett ci mostra nella sua inquietudine radicale l’inferno dell’insensatezza, il dramma di un teatro dell’assurdo che mette in scena il nostro eterno fallimento di uomini.

:: Mi manca il Novecento – Chet, il poeta della tromba che centra sempre il cuore – a cura di Nicola Vacca

22 dicembre 2021

Le rughe pronunciate, le mascelle spigolose, i contorni sfumati, gli zigomi risucchiati dalla violenza di un tempo distruttivo.

La testa abbassata in simbiosi con la sua tromba. Ecco Chet Baker, il più grande musicista maledetto del jazz che ha fatto della sua esistenza un’esperienza crudele.

Chet può considerarsi un Artaud d’oltreoceano, un vero poeta che con la sua tromba ha creato mondi musicali e capolavori inarrivabili.

Chet è una delle più grandi coscienze inquiete del jazz,

«Baker, – scrive Emanuele Capozziello – un traditore dello star-system, è vissuto troppo a lungo e troppo pienamente, mettendo in imbarazzo gli inconfessabili cliché della critica musicale (l’ipocrita paternalismo reazionario, che glorifica e implicitamente ammonisce Jimi Hendrix, Kurt Cobain, Luigi Tenco), e non ha permesso alla sua tragedia di divenire “aneddotica”, non ha permesso che il lava-stira dell’industria hollywoodiana purificasse, sublimasse e vendesse a prezzo di mercato il suo dolore. Una tragedia odiosamente invendibile, dopo la morte di Chet Baker, è diventata una tragedia felicemente inconsumabile, tanto autentica, tanto viva e personale, quanto difficile, non semplificabile e illeggibile. L’esperienza musicale di Baker – che, per le ragioni anticipate, non può dirsi propriamente una “carriera” – è inconsumabile come la vera poesia – per usare le parole di un altro “minore”, Pasolini – e la sua, come ogni poetica della vita e della sua crudeltà, risulta amabilmente avvicinabile, e ancora più piacevolmente incomprensibile».

La musica di Chet non è stata assoluta e affermativa, la sua tromba è stata sempre lontana dai virtuosismi, vicina ai sentimenti brutali di una realtà crudele.

Un tromba, la sua, che ha sempre centrato il cuore, lo ha straziato con la malinconia di un fiato devastante, intenso e poetico.

Il genio e la sregolatezza di Che trimarano sempre tormentate e oscure come la sua carriera maledetta.

Enrico Rava ha scritto che Baker è stato un musicista con la magia in tasca. Chet, uno dei più grandi trombettisti della storia del jazz, il migliore in senso assoluto tra i bianchi.

Magrissimo, con lo sguardo smarrito, gli zigomi sporgenti e le rughe che gli segnavano il viso ricordandogli gli eccessi. Nella sua musica trovava conforto e si rifugiava sotto le ali protettive della sua tromba. Ballate struggenti indimenticabili, e tra le tante Everything Happens to Me e la malinconica My Funny Valentine, che ancora oggi emozionano i cuori e l’anima di chi le ascolta.

Chet Baker non è solo un mito maledetto ma è soprattutto un ‘icona del jazz e di tutta la poesia che c’è nel jazz.

Arrigo Polillo ha scritto in Jazz (Mondadori, 1975) che la tromba di Chet Baker aveva una voce pastosa e carezzevole, la musicalità e la nitidezza delle linee melodiche, il puntualissimo gioco d’insieme, il delizioso contrappunto, il funzionale sostegno dei ritmi, propulsivo quanto discreto, erano altrettanto tratti distintivi di quel jazz rilassato e muscoloso a un tempo, che si differenziava già nettamente dal cool jazz, dal quale peraltro derivava.

Chet, un immenso poeta della tromba che aveva uno spiccato senso dell’armonia jazz.

Il suo ascolto ci spiazza, ci coinvolge, ci inquieta. I suoi assoli ci procurano vertigini di suggestioni e di emozioni, ma soprattutto ci conducono in mondi interiori musicali dove la tensione è alta e si chiama poesia.

:: Mi manca il Novecento – Il mondo di un intellettuale brillante – a cura di Nicola Vacca

13 dicembre 2021

Oreste Del Buono, scrittore, giornalista, curatore e consulente editoriale, critico letterario, traduttore. Questo e molto altro egli ha rappresentato nella cultura italiana del Novecento.

Una figura interessante, un uomo colto e pieno di interessi che aveva la curiosità dell’intellettuale vivo e propositivo.

Di lui resta il suo notevole interventismo culturale, che andrebbe riscoperto e rilanciato e che tanto bene farebbe alla paludato mondo delle lettere contemporanee.

Di quel Novecento che ci manca Del Buono è stato un protagonista, un intelligente agitatore di idee con le sue intuizioni sempre profetiche e originali.

Giornalista acuto, scrittore brillante, consulente editoriale curioso e attento, portatore di idee sane e innovative, la sua attività intellettuale è un patrimonio imprescindibile che va salvaguardato.

Il suo romanzo d’esordio è La parte difficile. Elio Vittorini sul Politecnico scrisse: «Grigio, triste, noioso, il libro di Oreste del Buono. È il primo romanzo di un nuovo scrittore, di un giovane, e viene da pensare “ancora un libro così!”. Ma subito si passa a pensare dell’altro. C’è dell’altro. Il libro ha un valore… Vi si narra di un uomo che non sa credere nemmeno al delitto che pur compie. Che cosa ne dirà la critica degli ipocriti? Che è ora di finirla con questi ‘atteggiamenti’? Che è ora di risalire la corrente? Che è ora di tapparsi le orecchie e di chiudere gli occhi? Che è ora di rimettersi a dire delle ‘buone’ menzogne? […] [Il protagonista] ci mostra, nel libro, la miseria di cercare ancora delle mistificazioni. Mentre, attraverso il protagonista, il libro ci mostra, con la chiarezza di una piccola operazione aritmetica, come quello che di buono rimanga da fare alla borghesia sia ormai soltanto: non mentire. Cioè: scrivere dei libri come questo: continuare in questo genere di letteratura».

All’attività di scrittore Del Buono affiancò anche quella di giornalista e traduttore. In concomitanza con il lancio di due storiche collane tascabili: l’«Universale economica» della Cooperativa del libro popolare (COLIP), per conto della quale firmò le versioni di I gioielli indiscreti di Denis Diderot e Il cappotto di Nikolaj Gogol’ (provocando il disappunto di Palmiro Togliatti per i fitti e arbitrari tagli che lardellavano il primo dei due libri), e, soprattutto, la «Biblioteca universale Rizzoli» (BUR), che gli affidò la cura di oltre una ventina di titoli tra i quali tre romanzi di Gide (La porta stretta, 1953; Le segrete del Vaticano, 1955; L’immoralista, 1958) e tutte le novelle di Guy de Maupassant, uscite in dieci volumi tra il 1950 e il 1965.

Come giornalista ha scritto sul settimanale Oggi e fino alla morte su La Stampa. Collaborò per un breve periodo con Epoca.

Rilevante fu il suo contributo di consulente nel mondo dell’editoria. All’inizio degli anni Sessanta collaborò con le maggiori case editrici. Tra il 1962 e il 1963 fu consulente editoriale di Feltrinelli, sua la curatela di tutti i racconti di Raymond Chandler e la scoperta di John Le Carré.

Nel 1971 pubblica I peggiori anni della nostra vita, un altro romanzo importante. Il libro viene pubblicato da Einaudi.

Negli anni successivi lavorerà per Rizzoli, scriverà su Paese Sera, Repubblica e Corriere della Sera, dimostrando sempre di essere uno spirito inquieto e avventuroso sempre in cerca di nuovi stimoli e pronto a mettere in circolo idee geniali e nuove, fino alla morte, avvenuta a Roma il 30 settembre 2003

Oreste Del Buono, scrittore, polemista tagliente, critico letterario esigente, intellettuale atipico e mai inquadrabile è un autore da recuperare e da rileggere. La sua poliedricità è un valore aggiunto alla quale non possiamo rinunciare.

:: Mi manca il Novecento – La voce dimenticata di Raffaele Carrieri – a cura di Nicola Vacca

7 dicembre 2021

Accanto al Novecento che se n’è andato c’è un Novecento perduto che nei suoi abissi si è inghiottito i suoi figli migliori.
In questo Novecento perduto è finito anche Raffaele Carrieri, poeta, scrittore, critico d’arte nato a Taranto nel 1905, ma cittadino del mondo.
Intellettuale raffinatissimo, uomo straordinario della Magna Grecia, difficile da incasellare, ma un poeta davvero straordinario a cui tornare.
Ma di lui si sono perse le tracce, caduto ingiustamente in un oblio che non meritava.
Andrebbero ripubblicati i suoi libri di poesia, non è possibile che uno dei più importanti poeti di quella straordinaria linea meridionale giaccia per sempre nelle tenebre.
Ma questo è il destino di molti nomi di quel Novecento perduto che non perdona.
Lamento del gabelliere, La ricchezza del niente, Canzoniere amoroso, Il trovatore, con cui vinse il Premio Viareggio nel 1953, sono alcuni dei suoi libri di cui la nostra letteratura non può fare a meno.
Eppure la memoria di Rafaele Carrieri è stata oscurata e con essa una parte rilevante del migliore Novecento letterario italiano.
Intellettuale eclettico, scrittore poliedrico, Carrieri ha scritto facendo esperienza del mondo.
Visse a Parigi nella seconda metà degli anni venti. In questo periodo ebbe occasione di entrare in contatto con gli ambienti e le esperienze dell’avanguardia europea che aveva eletto la capitale francese a propria sede internazionale; legami e influenze queste che, nei modi peculiari in cui il Carrieri li assimilò e li introiettò, rappresentano il nucleo essenziale se non unico, della sua poetica e della sua poesia.
Dal 1930 si trasferì a Milano. Qui conobbe un gran numero di scrittori e artisti come come Marotta, Cantatore, Cesare. Zavattini, Alfonso Gatto, Sergio Solmi, Quasimodo, Persico, F. T. Marinetti, Alberto Savinio.
Per un decennio fu critico d’arte dell’Illustrazione italiana.
Ma è nella poesia che Carrieri trova la chiave giusta per raccontare la sua esperienza di uomo.

«La mia poesia è tutta autobiografica; ispirata a fatti realmente accaduti, a viaggi, a soggiorni in paesi stranieri. La mia lunga permanenza a Parigi nella prima giovinezza la considero fondamentale per i molti incontri con gli artisti e i poeti d’avanguardia ora famosi».

Una scrittura poetica che scava nella memoria per cogliere la semplicità degli istanti: la spinta autobiografica si sposa con l’essenza dei luoghi frequentati dal poeta, delle persone e del mondo.

«La maggior parte dei critici che si sono occupati del Carrieri. (da Flora a Titta Rosa, a Vigorelli, a Ravegnani) – scrive Lucia Strappini – ha ritenuto di cogliere nella grecità, nella sua appartenenza partecipe al paesaggio mediterraneo, il nucleo tematico più caratteristico e originale della sua poesia, insieme al gusto per i richiami mitologici e della cultura classica; i riferimenti sono molti e disseminati per le sue raccolte: a titolo d’esempio si possono ricordare questi versi da Poca luce, in La civetta:

Se qualche poco di luce / da lontano mi viene / è da te Jonio gentile / che le muse riconduci / ai lidi degli Dei. / Fra l’uva e l’uliva / Eros ancora versa / vino agile e resina” (p. 14).

Ma, nonostante la copiosità delle presenze, questo motivo non appare sostanzialmente preminente nella disposizione complessiva, tanto da improntare di sé la poesia del Carrieri. È invece più convincente l’immagine dei poeta C. che prende spunto, sia sul piano tematico sia su quello stilistico, dai luoghi, reali e metaforici, più diversi, dalle esperienze artistiche più varie, dalle sollecitazioni più diffuse, per esprimere una sostanza lirica pressoché uniforme e immutata fin dalle sue prime prove. In questo quadro appare certamente rilevante la suggestione esercitata sulla sua vena poetica dalla frequentazione assidua delle tante esperienze moderne di arte figurativa, parigine e italiane, che si traduce anche editorialmente nella collaborazione, come si è visto, con molti dei più noti esponenti della pittura contemporanea, o nella affinità con pittori del passato, da lui particolarmente amati, come Toulouse-Lautrec».

Raffaele Carrieri, un artista totale, un poeta lirico che alla poesia attribuisce un ruolo assoluto nella letteratura come nella vita, un intellettuale che sta nella tradizione italiana, un uomo di cultura che appartiene alla storia letteraria di quel Novecento perduto che ci appartiene per sempre.

:: Mi manca il Novecento – Viaggio nell’introspezione di Adriano – a cura di Nicola Vacca

26 ottobre 2021

La lingua francese ha nella scrittrice Marguerite Yourcenar una grande voce. Nota al grande pubblico per il romanzo Memorie di Adriano, la scrittrice nella sua intera opera (romanzi, poesie, saggi, opere teatrali) ricostruisce l’animo umano attraverso i personaggi della Storia ma anche tramite i suoi fatti che ne hanno condizionato l’evoluzione.

La Yourcenar, nata a Bruxelles nel 1903 e morta negli Stati Uniti nel 1987, oggi è diventata un classico del nostro Novecento. Paradossalmente una scrittrice necessaria di cui si parla poco e niente.

Nel 1951 la scrittrice pubblica Memorie di Adriano, il romanzo con cui si fece conoscere al grande pubblico.

A settant’anni dalla sua uscita, questo grande libro può considerarsi un classico contemporaneo.

Memorie di Adriano contiene tutte le idee e le intuizioni della sua poetica. Il libro è considerato il capolavoro della Yourcenar. È allo stesso tempo romanzo, saggio storico, opera poetica e soprattutto biografia. La storia è costruita come una lunga lettera che l’imperatore Adriano ormai vecchio, scrive al nipote Marco, come pretesto per ripensare alla sua vita di uomo e alla sua opera di politico.

Afflitto dall’idropisia che ormai lo sta portando alla morte, Adriano ripercorre le tappe del passato, rivivendone i momenti più incisivi, e in questa lettera sentiamo lo sfogo di un uomo che non ha più l’energia per applicarsi a lungo agli affari dello Stato; la meditazione scritta di un malato che dà udienza ai ricordi. I fatti sono illuminati dalla saggezza che viene dall’età, dall’esperienza e anche dalla condizione di malato prossimo a morire, e Adriano appare come il simbolo di ogni vita vissuta con nobili intendimenti e con attenta ricerca della felicità, di ogni vita che accetta l’impegno e il sacrificio pur di non trascorrere inutilmente.

L’imperatore morente sceglie la via analitica dell’introspezione per raccontare attraverso la memoria la propria vita.

In prima persona Adriano si lancia in un monologo intenso in cui la sua vita si intreccia con la storia dell’impero romano.

Le parole dell’imperatore non sono mai mute, nel loro pronunciamento riecheggia l’eternità e tuttala grandezza di una civiltà che è stata capace di costruire e donare bellezza.

Attraverso il flusso di coscienza di Adriano arrivano fino a noi tutte le emozioni e la poesia della scrittura di Marguerite Yourcenar.

Basterebbero le pagine straordinarie di questo romanzo per rendersi conto che Marguerite Yourcenar è una scrittrice accarezzata dalla grazia. In stato di grazia la sua scrittura è sospesa tra passato e presente, ma sempre attenta alla memoria e alla cura di quel passato che molto ha da insegnare al presente inquieto.

«Se ho voluto scrivere queste memorie di Adriano in prima persona è per fare a meno di qualsiasi intermediario, compresa me stessa. Adriano era in grado di parlare della sua vita in modo più fermo, più sottile di come avrei fatto io».

Come il suo Adriano, di racconto in racconto, anche lei è entrata nella morte «a occhi aperti» e a noi restano le sue pagine immortali, come grande viaggio nello scibile umano che non possiamo ignorare, né dimenticare.

:: Mi manca il Novecento – Bellintani, il poeta appartato che cammina nella luce – a cura di Nicola Vacca

22 ottobre 2021

Umberto Bellintani, classe 1914, è un poeta dimenticato, troppo dimenticato che in vita scelse di stare sempre nell’ombra.

La sua voce lirica si ispira a un cristianesimo umanitario e le sue parole indossano spesso il cilicio, le immagini diventano visioni, il linguaggio diventa pietra. La sua è una poesia che non concede tregua, sa essere allo stesso tempo cruda e mistica.

Eugenio Montale in una recensione sul Corriere Della Sera nel 1954 scrisse:

«Bellintani, che vive in campagna, è un raffinato uomo di popolo, uno di quei poeti che sembrano essere saltati dalla Bibbia e da Omero ai più astrusi lirici stranieri conosciuti solo attraverso le traduzioni… spesso la poesia si rifugia in uomini come lui, non professionisti, senza le carte in regola».

Giacinto Spagnoletti nella Storia della letteratura italiana del Novecento scrive che per entrare nella poesia di Bellintani bisogna pensare all’ enorme anarchismo di Dino Campana, di cui il poeta mantovano e il naturale prosecutore con la sua poesia febbrile e sempre ricca di sfumature.

Già dalle prime poesie, Bellintani si presenta con un poeta legato ai luoghi che vive di cui racconta il vissuto e le peripezie umane.

Mario Luzi ha tracciato un significativo ritratto del poeta facendo notare che tra i poeti del dopoguerra, Bellintani si distinse per la semplicità del suo fare. Nelle sue poesie evitò qualsiasi digressione, prese sempre la via diretta. La via che lo portò a liberare d’istinto il suo dono da ogni accessorio e a trovare nella sua inerme e viva franchezza la sua modernità.

Il dolore, la natura e il legame con la sua terra sono i temi principali della poesia di Bellintani che leggendola colpisce con le sue sensazioni forti.

Il poeta guarda sempre con umanità al suo prossimo e da raffinato uomo del popolo non rinuncia mai nella sua scrittura a una raffinata dimensione sensuale che coinvolge le parole in un partecipativo bisogno di senso.

Colpisce perché carico di significati la sua predisposizione all’ascolto del cuore della terra. Tutta la sua poesia è un unico canto in cui la religiosità è attaccata con passione all’esistenza e allo stesso tempo indaga le inquietudini della ricerca di Dio.

In E tu che m’ascolti, pubblicato da Mondadori nella collana Lo Specchio nel 1963, la sua attenzione nei confronti della condizione umana spicca per un’autentica sensibilità che il poeta esprime con una ruvida violenza espressiva che tiene sempre conto di una pietà umana troppo umana.

«In questo nostro mondo /dove ogni essere grida pietà, / su questa terra / letteralmente coperta da una selva di crocefissi, / dove ogni inchiodato sulla croce, ebete, sghignazza, bestemmia / e implora e sputa / sul corpo del compagno il suo dolore / fattosi ira e veleno, / quando mai una mano pietosa vorrà / avvicinarsi e schiodare / uomini e la specie / d’innumeri animali? / Quando mai / incolumi farfalle / voleranno dalle mani degli uomini / e fatti lievi come il fiato di mammole erreremo / lungo torrenti di luce in un divino / fraterno amore? Quando mai / saremo miti e rugiadosi come gli angeli / che sognammo?».

Ci piace molto la via diretta che Umberto Bellinatani ha scelto di seguire nella sua vita di poeta e di uomo, ci incanta la sua dolcezza e la sua discrezione, ci conquista il suo stare nell’ombra per camminare sempre nella luce.

:: Mi manca il Novecento: Antonio Debenedetti e la memoria del Novecento – a cura di Nicola Vacca

4 ottobre 2021
ANTONIO DEBENEDETTI

I miei maestri sono tutti nel Novecento. Alcuni di questi ho avuto l’onore di conoscerli grazie alla mia attività di critico letterario. Antonio Debenedetti, l’ultima grande voce di quel Novecento che ci manca, se n’è andato in queste ore.
Figlio del grande critico letterario Giacomo, ho avuto l’onore di essergli amico quando vivevo a Roma. Per un lungo periodo ci incontravamo ogni giorno e io passavo ore intere a ascoltarlo, perché lui aveva molto da raccontare.
Le nostre chiacchierate nel suo appartamento alle spalle di Fontana di Trevi mi hanno insegnato tanto.Mi parlava del Novecento e della sua umana civiltà letteraria di cui lui è stato un autorevole testimone. Antonio era anche un grande scrittore di racconti e un perfetto romanziere.
Insomma un vero figlio d’arte.
Fui contento quando nel 2007 accettò di scrivere la prefazione a un u mio libro pubblicato da Manni.
Antonio Debenedetti è stata una memoria storica del nostro mondo letterario. Ha avuto il privilegio di conoscere i più importanti tra poeti e scrittori del Novecento.
Seguendo professionalmente le orme paterne, Debenedetti si è occupato di libri per tutta la sua vita, una delle firme più autorevoli della Terza pagina del Corriere, critico letterario degno di suo padre.
Al meraviglioso mondo della società letteraria del secondo Novecento, Antonio nel 2005 ha deciso di dedicare un libro di ricordi e impressioni. In Un piccolo grande Novecento (Manni editori, pagg.175, euro 14) l’autore conversa con l’allora giovane scrittore Paolo Di Paolo, aprendo l’archivio della memoria di casa Debenedetti.
In presa diretta e con una poetica nostalgia, Antonio Debenedetti si racconta attraverso i più grandi scrittori del secolo scorso, che ha avuto la fortuna di incontrare e di conoscerne in maniera approfondita vizi e virtù.
Ci sono proprio tutti: Dario Bellezza, Giorgio Caproni, Giuseppe Ungaretti, Mario Soldati, Alberto Moravia, Sandro Penna, Vincenzo Cardarelli, e molti altri ancora. Debenedetti ha avuto il grande privilegio di poterli più volte incontrare, trascorrere moto tempo a parlare con loro di libri, letterature e molto altro.
Il critico letterario, ma anche lo scrittore, ha deciso di rendere pubblica la sua memoria, ma anche di dare sfogo a quella più privata e intima, sui bellissimi anni del Novecento letterario.
In tutte le pagine di questo libro si trovano i segni di quella grande civiltà letteraria che è stata la storia novecentesca italiana, raccontata da uno dei suoi protagonisti più veri.
Antonio Debenedetti, che ha attraversato il secondo Novecento da scrittore, da protagonista, da critico, con grande trasporto emotivo non ha mai dimenticato di essere stato spettatore privilegiato delle trame novecentesche.
Continuava a scrivere con la speranza che di quella grande lezione del Novecento i posteri potessero beneficiarne. Soprattutto oggi che la letteratura contemporanea sembra preferire sempre più l’autoreferenzialità alla consolidata esperienza di una società letteraria di cui Debenedetti è stato ieri protagonista, oggi testimone sentimentale.
Ha continuato a scrivere libri e articoli che recuperano la memoria di una delle stagioni più belle della nostra letteratura.
Debenedetti ha avuto la fortuna di conoscere quasi tutti i più grandi scrittori del secondo Novecento. Tutti i più grandi nomi di quella inarrivabile società letteraria (Bassani, Moravia, Caproni, Penna, Ungaretti, Saba) hanno abitato la sua casa. Debenedetti è l’ultimo testimone di quella memorabile stagione, e in tutti i suoi libri è sempre attento a recuperarne la memoria troppo in fretta dimenticata dai cosiddetti nuovi talenti.
Lo scrittore Debenedetti non ha mai dimenticato l’età dei maestri e ogni volta che ha pubblicato un nuovo libro di racconti o un romanzo si è sempre affidato al vissuto di quell’epoca ogni più intima percezione della sua scrittura:

«Se mi guardo indietro, se penso che da bambino ho giocato con la ghiaia nel giardino di Croce a Sorrento, se rammento di essere stato sulle ginocchia di Saba, se mi dico di aver avuto come maestro elementare Giorgio Caproni, mi pare, legittimamente di aver attraversato due o tre epoche nella storia. Sono entrato nel nuovo millennio come se fossi sbarcato da un’altra era».

Debenedetti è stato anche un grande inventore di trame e un maestro della scrittura breve. I suoi racconti sono esempi perfetti di letteratura autentica.
Ogni suo libro (i libri per lui sono dichiarazioni d’amore fatte a virtuali, future amanti, biglietti di viaggio per assicurarsi un posto nell’aldilà) va assolutamente letto non soltanto per tutto quello ha rappresentato nella nostra letteratura, ma per le bellissime storie che è riuscito a donarci attraverso la sua scrittura e creatività impareggiabili. Come non ricordare il suo libro più bello: Un giovedì, dopo le cinque. Romanzo che è tutto dentro la grande storia del Novecento e dei suoi maestri: il lungo monologo di un ottantenne che racconta la sua esistenza fatta di nulla e di inganni. Questa storia è il palcoscenico dove vanno in scena tutte le vicende di un secolo con le sue ipocrisie e i suoi risentimenti.

«Credo che Un giovedì, dopo le cinquescrive Alfonso Berardinelli nella prefazione all’ultima ristampa del libro – sia nato dalle vicende sterili della nostra narrativa novecentesca, dalla sua febbrile, ricorrente impotenza a partorire protagonisti credibili e memorabili. Per produrre un tale evento ci voleva una certa “forza della disperazione”. Ci voleva la violenza insoddisfazione (allarmata) di un autore maturo come Antonio Debenedetti, che pur avendo scritto diversi libri notevoli soffriva di non aver dato il suo libro esemplare: di non aver fatto i conti con la generazione dei padri, con la generazione centrale del secolo, quella che aveva abitato (e determinato) quel Novecento italiano che stava finendo».

Con Antonio Debenedetti si spegne una grande luce e se ne va per sempre un intellettuale che come pochi è stato testimone diretto e sentimentale del Novecento e della sua letteratura.