Il segreto dell’amore è un caffè in due da bere dalla stessa tazza
Sarà questo il segreto più nascosto dell’amore? Condividere con l’amata i gesti minimi, quotidiani, quasi banali dell’esistenza, gesti che acquistano luce e importanza grazie a un sentimento vero, autentico, maturo, non un amore dell’età acerba ma del tempo compiuto, della vita adulta, dell’autunno incipiente. Ecco questi sono i versi contenuti nella silloge Un caffè in due e altre poesie d’amore del critico e poeta pugliese Nicola Vacca. E’ sempre difficile parlare di amore e di erotismo, un erotismo non funzionale al proprio personale egoismo o piacere, allo sfruttamento dell’altro ma a servizio di un amore autentico di coppia. Un amore forte (come la morte direbbe l’Ecclesiaste), grazie alla conoscenza reciproca, in cui non esiste possesso dell’altro, perchè il possesso è la fine e la tomba dell’amore. L’amore si nutre di libertà, ogni istante, ogni giorno, è un sì ripetuto che non ci si stanca mai di dire. Un sì, atteso.
Ti stringerò in un abbraccio per dirti sempre grazie della pazienza che diventa amore.
Un sì che prevede un grazie, perchè l’amore è un miracolo e non è affatto scontato. E tutti gli amori si somigliano e allo stesso tempo sono unici. La frase in esergo ce lo rammenta. Giovanna è la compagna del poeta, la donna amata a cui è dedicata questa silloge che lei condivide con tutti gli spiriti amanti che possono capire queste parole come direbbero i poeti del Dolce Stil Novo. Parole da iniziati, da cospiratori, da complici.
L’amore carnale, aulico, fatto di baci, abbracci, desiderio, letti sfatti, amplessi, estasi condivise si unisce ai gesti minimi della vita quaotidiana, a quel ticchettare sommesso della vita che a volte lasciamo scorrere senza importanza. E invece nella vita tutto è importante, tutto è prezioso.
Il volume è diviso in quattro parti: Lievito madre, L’amore con i piedi per terra, Queste nostre parole più belle e Fuori dall’oblio ritorneranno i baci. Versi liberi, svincolati dalla metrica come vuole la poesia contemporanea, e nello stesso tempo versi antichi, potenti perchè veri. E non c’è nulla come la verità, di un amore, di un vissuto, di un eterno divenire.
Juan Ramón Jiménez, Neruda, il sentire latino del sangue che ribolle nelle vene, la passione che diventa tormento hanno scritto i versi d’amore più appassionati e selvaggi, più traboccanti di verità, e partecipazione, la poesia di Vacca si accosta a questi poeti per intensità e rinnova il sentire con la poetica della quotidianità, della consuetudine, di un desiderio che non conosce sazietà e sempre si rinnova. Ma pur se semplice e quotidiano non è mai routine, noia, ripetitività di gesti e di parole.
Baci che strappano la carne dalle bocche cucite.
Nonostante la vita, noi continuiamo ad amare, parafrasando Emil Cioran, a cui Vacca è molto legato per sentire e per vicinanza umana. Siamo barche alla deriva in un mare in tempesta, solo l’amore è un filo lieve che ci unisce e ci salva, perchè senza amore saremo davvero tutti perduti.
Una piccola raccolta, Aritmia. Un piccolo gioiello di sensibilità, immagini, sensazioni. Poesie che arrivano dritte al cuore e alla pancia. Che mi hanno permesso di leggere i pensieri della scrittrice e farli miei. Interpretandoli, cercando di interiorizzarli.Quanta nostalgia nelle sue parole. Quanto amore per la natura e gli animali. Quanti dubbi e criticità sugli esseri umani. Quanto affetto per chi si ama. Quanta voglia e paura di vivere … Leggetelo, ve lo consiglio.
Elena Mearini si occupa di narrativa e poesia, conduce laboratori di scrittura in comunità e centri di riabilitazione psichiatrica. Nel 2009 esce il suo primo romanzo Trecentosessanta gradi di rabbia, (Excelsior 1881) con cui vince il premio giovani lettori “Gaia di Manici-Proietti”; nel 2011 pubblica Undicesimo comandamento (Perdisa pop) con cui vince il premio Speciale UNICAM – Università di Camerino e il premio giovani lettori “Gaia di Manici-Proietti”. Nel 2015 pubblica il romanzo A testa in giù (Morellini editore) e firma due raccolte di poesie: Dilemma di una bottiglia (Forme Libere editore) e Per silenzio e voce (Marco Saya editore). Nel 2016 esce Bianca da morire (Cairo Editore).
La letteratura è, insieme alla parola del poeta, in primis la parola dell’uomo che, con essa, difende di solito la sua libertà e i suoi valori, criticando spesso un sistema di relazioni e di poteri che lo inghiottiscono. La reazione al sopruso e alla violenza è destinata a sfociare spesso nella rivolta, e tale è anche quella dei «demoni ballerini» che dà il titolo alla nuova raccolta di versi di Antonio Catalfamo edita dalla casa editrice Pendragon e accompagnata da un’esaustiva e ricercata prefazione di Wafaa A. Raouf El Beih e un altrettanto documentato e ampio saggio di Alfredo Antonaros. Di Antonio Catalfamo scorrono nella mente di chi lo conosce numerosi studi di critica letteraria e nomi che hanno fatto la storia della letteratura, nomi che rendono testimonianza della versatilità e della profonda cultura dell’autore: da Dante a Boccaccio per passare a Giulio Cesare Croce e poi ancora al Settecento fino ad arrivare alla «critica integrale» di Gramsci, attraversare gli anni di Pasolini e non solo. Ma Catalfamo è da sempre anche poeta; un esercizio, quello della poesia, già sostenuto da diverse sillogi (la prima datata 1989), che racchiudono squarci di vita vissuta e assetate di giustizia sociale, che trasudano lotte tenaci e miti che hanno come protagonisti principali gli umili, gli oppressi; e versi che non devono essere certamente disgiunti dall’attività di esegeta di Catalfamo. Fatti, avvenimenti, paesaggi geografici, ma soprattutto antropologici, si intrecciano nelle liriche, dispiegando un tessuto narrativo che avvince e coinvolge perché fedele sguardo sulla realtà. Dal forte retroterra autobiografico, la poesia che scorre dalla penna di quest’autore siciliano è innanzitutto ritratto ed espressione di incessante impegno umano e civile; perché lo scrittore non si deve sottrarre al quotidiano, ma esperirlo in tutte le sue sfumature e contraddizioni, e non può non ricordarsi di nulla o ‘solo di qualcosa’.
Li si voglia chiamare con il già citato epiteto di «demoni ballerini» o più comunemente pastori-contadini siciliani, o ancora «spiriti ribelli o rivoluzionari», le voci di questi protagonisti emergono dalle belle pagine di Catalfamo che racconta gente e situazioni, afferrandone i particolari, in un’iconografia che non mostra mai un’immobilità asettica e distaccata. I volti e i gesti narrati parlano di passione, voglia di osare e di lottare. Poesia che dà nome ed esistenza alle cose, quella del poeta nato in provincia di Messina nomina (e nominandoli li fa propri) sentimenti, idee e propositi, facendo percepire l’emergenza e la sostanza di un reale che si sfrange tra presa di coscienza e conoscenza, essenza e sostanza, sguardo alla società e denuncia dei misfatti di una politica ignara e assente perché, come anche scriveva il premio Nobel Elias Canetti in Die Provinz des Menschen – Aufzeichnungen 1942-1972, «[c]hi ha avuto successo non ode che gli applausi. Per il resto è sordo». Del resto la giustizia, come diceva Solone usando la stessa metafora della tela del ragno, «trattiene gli insetti piccoli, mentre i grandi trafiggono la tela e restano liberi». La poesia, in Catalfamo, consapevole delle illusioni, si pone domande, non indugia a descrivere interessi e impotenza, non si vergogna di chiedere e di smascherare contraddizioni e ipocrisie vendute come oro colato; immagini forti, truci, tragiche, come quelle di corpi penzolanti «ancora dal cappio», con «i piedi sospesi nel vuoto», di «ville abusive [che] crescono», di miseria e disperazione; reminiscenze mitiche e mitologiche; padroni, potenti e prepotenti; vecchi compagni; «il dolore / di ferite che non vogliono guarire: / sotterranee, come un fiume carsico, / [e che] squarciano il cuore»; tradizioni antichissime e ancestrali nel cuore di un Sud magico e di straordinaria potenza visiva, come quello che colora il mondo contadino di Carlo Levi. E, scorrendo le pagine della raccolta, vengono in mente precise parole leviane:
«I contadini risalivano le strade con i loro animali e rifluivano alle loro case, come ogni sera, con la monotonia di un’eterna marea, in un loro oscuro, misterioso mondo senza speranza. Gli altri, i signori, li avevo ormai fin troppo conosciuti, e sentivo con ribrezzo il contatto attaccaticcio della assurda tela di ragno della loro vita quotidiana […]».
Come in Levi risorge poi in Catalfamo l’uomo di fronte alla massa, l’umanità davanti alla disumanizzazione perpetrata da un sistema che prevede e basa la sua labile spettacolarità nella creazione e mantenimento di dislivelli dicotomici: «sopra,» si legge in La mia poesia,
«i padroni di terre, / con i magazzini pieni di vino, olio, / formaggio gonfio, panie di fichi secchi, / pomodori invernali e agli / intrecciati a ghirlanda. / Sotto, i contadini, che prendono / la decima nel riparto dei prodotti, / gli artigiani, pagati a merito / con una bottiglia di vino».
«[A]mbasciatore d’un altro mondo all’interno del nostro mondo», alla pari ancora una volta dello scrittore torinese giunto ad Eboli, Catalfamo scatta, con i potenti versi di questa sua nuova raccolta, una serie di eloquenti fotogrammi in successione dell’esistere umano di cui si erge a testimone e custode. «E così nasce, […]» scrive in chiusura di uno dei componimenti facenti parte della silloge, «la poesia»: Catalfamo invita il lettore a seguirlo in un viaggio alla riscoperta dell’“esperienza”, di una parola che non si piega al volere della “comunicazione standardizzata”, di una poesia che si erge a ‘ideologia’. Si costituisce in queste pagine una scrittura che svela, raccontandoli, riti e memorie che, nella poesia, cercano l’uomo e che tornano sulla pagina per testimoniare, insieme al loro esistere, la loro valenza mitica, non relegata all’archetipo, bensì presente e viva sempre e ovunque, nel presente come nel futuro. Concordanze, contaminazioni, compenetrazioni e una forte coralità: queste sono alcune delle caratteristiche precipue della poesia dello scrittore siciliano; una poesia fatta di protagonisti che, come il poeta (e attraverso la voce del poeta), mettono in dialogo la propria storia di persone, e in cui convergono nondimeno altre importanti voci, quelle dei «compagni poeti», autori in cui Catalfamo si riconosce (Majakowski, Fenoglio, Quasimodo, ma anche Neruda, Nâzim Hikmet, Ghiannis Ritsos, ecc). Il risultato è una rappresentazione uditiva polifonica della storia; una storia che, sempre tradotta in una parola immediata, duttile, riflessa, come quella di Montale, e al contempo fortemente icastica, non si esaurisce nel passato, perché la «poesia», scrive Catalfamo, «mi serve / a raccontare» e «[s]olo la poesia può lenire i dolori della vita». Che cos’è allora la poesia se non strumento conoscitivo privilegiato che rivela l’essenza dell’universo delle cose e se non mezzo “salvifico” di fronte a una realtà in cui l’uomo rischia di perdere il senso soprattutto di se stesso?
Tra gli intertesti la critica non ha mancato giustamente di ricordare come nomi centrali quelli di Pavese e Vittorini, ma sono anche altri i modelli e i riferimenti intertestuali contenuti nella lirica dello scrittore. Mito, storia e poesia (come recita anche il sottotitolo del lavoro critico dell’autore su Rocco Scotellaro, autore citato del resto anche esplicitamente in uno dei componimenti della raccolta), si intrecciano in maniera organica, mentre alcuni passi paiono evocare per la successione dei ritratti commoventi e crudi che presentano le pagine della Spoon River Anthology (1915) di Edgar Lee Masters. Nella raccolta, troviamo, in modo analogo alla silloge dello scrittore americano, un po’ tutti: il maestro, la Carabiniera, il calzolaio, la madre, il prete, il padre, il contadino, il compagno operaio, il primario, l’infermiera, il sindaco-poeta, ecc. Eppure, allo stesso tempo, è il collettivo a guadagnare un posto di primo piano: a fianco dell’individuo è infatti il gruppo come tale a dominare il palcoscenico della scrittura di Catalfamo; sono i braccianti, i notabili, il clero, i poveri, i padroni, i lavoratori e i disoccupati, i vecchi combattenti… Là una piccola cittadina della provincia americana e la presentazione di una galleria di 248 personaggi che descrivono le vicende di un microcosmo morale fornisce a chi lo legge un nuovo modo di guardare le cose e l’umano. Anche per Catalfamo, come per Masters, è importante recuperare la memoria per scoprire se le cose sono cambiate rispetto al passato. E non paiono esserlo. Nella raccolta dello scrittore nato a Barcellona Pozzo di Grotto, formata da 53 componimenti in totale, una parola è ripetuta in modo quasi costante: si tratta del termine «compagno/i», abbinato alla fede politica comunista dell’autore; un comunismo, quello del poeta, considerato non solo nella sua storicità e nei ricordi delle figure del padre e del nonno, ma anche come fenomeno non storicizzato, ovvero nel suo significato di necessario momento evolutivo, di umanesimo in senso gramsciano, di progetto per cambiare la realtà quotidiana delle cose. In La malora, lirica del 2014, il compagno, nel ventaglio di figurazioni della presentazione fatta, è uno e molteplice ad un tempo. Fotografato nella sua attività è lui che
«coltiva la pianta del comunismo / la difende dalle tempeste / e dalle erbe malsane / del tradimento».
Sono parole, quelle di Catalfamo, che non lasciano margini di incertezza interpretativa, anche quando lo sguardo si ferma su topografie, le cui coordinate geografiche arretrano per diventare documentazione e ricerca storico-antropologica, contenitore di pensieri e immagini. È il caso di Trieste, «città mito-poietica», di Saba, metropoli multietnica e cosmopolita, e allo stesso tempo «la città dei rastrellamenti / e della Risiera, / del fascismo», «dei partigiani», ecc.; ma anche di altri luoghi legati a richiami culturali di eccellenza, come della Casarsa di Pasolini, «il giovane poeta» fuggito da un «Friuli bigotto […] verso altri mondi», eppure fedele «[al]la religione dei […] [suoi] avi contadini».
Il mosaico del tempo tracciato nelle pagine di Catalfamo ricopre, così come il passato, le ombre più profonde del presente attuale: disonestà e cupidigia economica vengono fissate in modo tenace nei versi in cui il poeta ritrae in modo vivido e senza eccessi l’Italia dell’era Covid, mettendo nero su bianco il noto, senza parole inutili.
Ascoltiamole le parole di questa silloge, che non nascondono, ma mostrano l’esigenza di portare alla luce e cogliere significati, di arrivare fino in fondo; e con questo, «[m]ito e rivoluzione», che è necessario cogliere nell’attimo e su cui riflettere. Sì, esse sono qualcosa su cui riflettere.
Elena Bartone, calabrese d’origine, da tanti anni trasferitasi in Piemonte, dove insegna Lettere alla scuola media di Bra, è presente da diversi lustri nel campo della letteratura, soprattutto (ma non solo) come poetessa. Si è riconosciuta dapprima nell’ermetismo, al pari di tanti poeti d’ispirazione religiosa, come lo stesso David Maria Turoldo, nella lettura critica che ne ha fatto Andrea Zanzotto. La ragione per cui diversi poeti religiosi sono partiti dall’ermetismo risiede, probabilmente, nel fatto che, specialmente in Ungaretti, la poesia ermetica è incentrata sul «mistero»: «M’illumino / d’immenso». Ma, come ha giustamente osservato Cesare Pavese in un suo scritto sulle Due poetiche (quella ermetica, per l’appunto, e quella neorealista, alla quale lo scrittore langarolo aderisce, seppur con una propria originalità), il poeta ermetico si ferma a questo «mistero», si bea di esso e del proprio «stupore» di fronte ad esso, e non va oltre. E’ chiaro che poeti come David Maria Turoldo che vogliono superare questa “soglia”, addentrarsi nel labirinto dell’ «io» e del mondo, per «ridurlo a chiarezza» (per usare un’altra espressione pavesiana), sono destinati a rimanere insoddisfatti dell’ermetismo e ad approdare ad altri lidi.
Lo stesso è successo ad Elena Bartone, che è approdata con gli anni a forme di spiritualità più consapevole, animata dall’ansia di conoscere la propria interiorità e l’universo in tutte le sue componenti: umane, animali, vegetali. Così si spiega il suo «francescanesimo» attuale, che ha trovato sinora concretizzazione in tre raccolte: Francesco, nel silenzio (LietoColle, Faloppio, 2015); Apostrofi di gioie sovrumane (La Vita Felice, Milano, 2020); Con gli occhi di un povero. Poesie su san Francesco di Assisi (Messaggero di Sant’Antonio Editrice, Padova, 2021). Il cammino della poetessa è ancora incompiuto e i prossimi anni ci diranno quali saranno gli ulteriori sviluppi in termini di poetica e di estetica, ma anche di formazione umana.
Questo «francescanesimo» della Bartone, intanto, va studiato a fondo, perché ha dei tratti originali non solo sul piano strettamente poetico, ma anche, diremmo, speculativo, rappresentando uno sviluppo e un approfondimento del pensiero e dell’opera di san Francesco, che possono essere (e sono stati) interpretati in vari modi nel tempo, sotto l’influenza anche del contesto, anzi dei «contesti» (storico-politico, economico-sociale, ideologico, culturale, letterario), nell’ambito dei quali ogni opera viene concepita. Un percorso, quello della Bartone, che, lo ripetiamo, è originale, ma non solitario, in quanto il cammino della poetessa s’intreccia con quello della Chiesa attuale, sotto la guida e l’impulso di papa Bergoglio, che ha scoperto, per l’appunto, nuovi significati e nuove dimensioni nell’ambito del «francescanesimo», legati al momento storico attuale, al quale pure egli ha voluto richiamarsi sin dalla scelta del proprio nome di pontefice.
L’opera di san Francesco d’Assisi, che trova degna concretizzazione nel Cantico delle creature (1225), paradossalmente va incontro, nel tempo in cui i suoi versi furono concepiti, come ha opportunamente evidenziato Giuliano Procacci (Storia degli italiani), alla sensibilità della nuova classe borghese che inizia ad affermarsi e che trova utile identificarsi con una religiosità che, riconoscendo il Creatore nelle cose da lui create (il Sole, la Luna, l’universo nella sua interezza), non richiede nessuno sforzo speculativo, presenta elementi di “praticità” e di semplificazione, ponendosi, inoltre, in linea di continuità con il paganesimo dei secoli precedenti.
La religiosità di Francesco d’Assisi è, d’altra parte, diversa rispetto a quella che è maturata, nell’Alto Medioevo, nei conventi, nelle abazie, e che è sfociata poi nel tomismo, vale a dire nel tentativo di dimostrare la fede per via razionale, e, per altri aspetti, si distingue da quella di Jacopone da Todi, dei movimenti ereticali, che non è fondata sul carattere gioioso della vita, bensì sull’individuazione della sua dimensione tragica, sulla denuncia della corruzione che investe pure la Chiesa e che impone un ritorno alla purezza primigenia, che non può avvenire, però, in maniera indolore.
Ma l’opera di san Francesco, nella sua “prismaticità”, che si accompagna alla semplicità, è ancora altro. Ha una sua componente “rivoluzionaria”. Nella rappresentazione che ne danno Dario Fo e Roberto Roversi, Francesco non si limita a far voto di umiltà e di povertà, ma vuole comunicare questo suo modello di vita anche agli altri, affinché ne facciano tesoro. Perciò improvvisa uno spogliarello in una piazza di mercato, per richiamare l’attenzione di un popolo distratto, che, intento agli affari, non ascolta neanche la sua parola e il suo messaggio.
Da tutta questa “poliedricità” si possono trarre significati diversi, persino di segno opposto. Papa Bergoglio, sin dall’inizio del suo pontificato, ha offerto un’interpretazione di san Francesco che, se non è “rivoluzionaria”, è senz’altro innovativa, presentandoci il «santo poverello» sì intento alla contemplazione del creato e delle sue bellezze, ma non rinchiuso, per questo, nello spirito contemplativo, né meramente speculativo, bensì proiettato, con la ricchezza spirituale accumulata attraverso la contemplazione, il silenzio, l’introspezione, verso il mondo esterno, verso gli uomini, per trasmettere ad essi la lezione di vita da lui stesso appresa per mezzo dell’osservazione e della meditazione. Così papa Francesco è stato particolarmente attento alle tematiche ecologiche e, in generale, all’ “esserci nel mondo” di ogni individuo e della collettività umana, alla dimensione etica che deve caratterizzare l’agire del singolo e della comunità, perché «nessuno si salva da solo», in un momento storico nel quale la razza umana rischia l’estinzione, a causa della sua azione distruttiva protratta nei millenni. Tanti insegnamenti possono venire dalle parole di papa Francesco a tutti noi, credenti e non credenti, ed è stato proprio lui a superare questa distinzione, rivolgendosi a tutti gli uomini di buona volontà, cancellando steccati ideologici e pregiudizi anch’essi prolungati nei secoli.
Elena Bartone ha fatto tesoro, nella sua vita e nella sua opera, di questi insegnamenti e di questa interpretazione originale del messaggio di san Francesco. Nelle poesie della sua «trilogia» parte dal creato, dai suoi monti calabresi, da luoghi simbolo come il Sacro Monte di Orta, la chiesa dei Battuti Neri, la chiesetta delle Clarisse, a Bra, che corrispondono al monte Ventoso del Petrarca, il quale racconta in una delle sue Familiares, di aver scalato questa altura della Valchiusa, in Provenza, assieme al fratello Gherardo, per scavare nella propria interiorità, alla ricerca di se stesso, ma anche della via che, attraverso la chiarificazione interiore, porta a Dio. Leggiamo nella poesia Sui monti calabri, appartenente alla raccolta Francesco, nel silenzio:
«Sui monti calabri / era calato il silenzio. / La sera si annunciava tra gli abeti. // Cercavo una risposta ai miei perché, / alle voci che un tempo / arrivavano da lontano. // Non rincorrevo l’altrove, ma la vita / nei suoi rivoli di enigmi e sobbalzi / di felicità. // Rimescolavo le carte dei giorni, / ma i conti non tornavano. / Tanto silenzio e nulla più. // In quel silenzio tutto verde / ho sentito il futuro / camminare al mio fianco».
E, inoltre, nella poesia Bra, chiesa dei Battuti Neri:
«Da qui ho sempre innalzato / preghiere al Signore, / da qui l’anima si è spinta / fino a baciare Dio. // Qui un tremore ha scosso le membra / perché ho sfiorato l’Assoluto. // Qui è tutto silenzio. / Le labbra si muovono appena, / non si odono passi. / Qui è tutto silenzio, anche sull’altare».
E, ancora, nella poesia Bra, chiesa delle Clarisse:
«Nella chiesa le candele accese / per Francesco. / Ogni candela una preghiera, / ogni preghiera una pena. // Si prega per non impazzire, / si prega per non pensare. // Tutto accade nel silenzio, dentro. / Fuori il trambusto, il ritmo, la corsa, / la follia del vivere».
E, infine, nella poesia Orta, Sacro Monte:
«Tra le chiesette del Sacro Monte / esulta lo spirito di Francesco / come al mattino una campana ubriaca / di vita. // Neanche la pioggia fa rumore. / Ed è silenzio, meraviglioso silenzio. / Come in un film scorre la vita del Santo / scandita tra cripte e arbusti secolari. // La natura tace. Religioso silenzio. / Il creato s’inchina / di fronte a tanta pace, / dentro e fuori».
C’è il silenzio, dunque, che invita a riflettere, a cogliere il messaggio che promana dal creato, attraverso lo scavo interiore, e questo processo di chiarificazione proietta verso il Creatore, con la mediazione di Francesco. Scrive, a tal proposito, Martha Canfield nella prefazione alla raccolta Francesco, nel silenzio:
«Tra tutti i santi forse San Francesco è quello che più facilmente illumina il quotidiano e riesce ad aprire una strada che parte dalla comunione squisitamente terrena con la natura, con gli animali, con gli esseri più umili e sprovveduti e fa intravedere il cammino che porta più in là, sopra l’immediato e il tangibile, verso la comunione con l’assoluto. Il raggiungimento di questa meta finale, che nel linguaggio mistico tradizionale viene designata come “nozze mistiche”, può essere difficile e doloroso, può implicare una profonda sofferenza fisica e spirituale».
Ma dopo il silenzio c’è la parola, che si concretizza nella poesia. La riflessione silenziosa e poi la parola non proiettano la poetessa solamente verso l’alto, verso l’ultraterreno, ma anche verso il mondo terreno. Anche in ciò le è maestro san Francesco, che ha rivolto gli occhi non solo verso il cielo, ma anche verso il mondo circostante, e il suo sguardo è stato quello del povero. Da qui il titolo dell’ultimo volume della «trilogia»: Con gli occhi di un povero. San Francesco, infatti, non si è accontentato di tessere le lodi del Creatore attraverso il creato, ha rivolto il suo sguardo pietoso verso il mondo terreno, per constatare con dolore come esso è stato trasfigurato, rispetto al progetto divino, dagli uomini, con la loro azione distruttiva, che ha investito il piano materiale e quello morale. Leggiamo nella poesia Francesco piange per il creato:
«Nel terzo millennio, / da lassù dove non arrivano / sospiri della notte, / né stille di solitudine, / Francesco piange. / Il creato, l’immagine di Dio, / soffre. / Gli uomini soffocano i mari. / I boschi nella loro pena muta. / E l’aria non è più libera, / prigioniera di nascoste evanescenze. / Madre terra confusa, / attaccata da mani invisibili / in cerca di distruzione. / L’erba calpestata da passi / incerti e informi. / Gli uccelli lassù hanno perso / la direzione. / La natura non conosce festa / a primavera. / Le mammole non hanno voglia / di sognare. / Gli abeti si abbandonano al vento / stanchi. / Le allodole sfiorano i pensieri / tristi dei più soli. / Le maree si innalzano / sulle umane sventure / e il sole fa delle nuvole / la sua casa. / Da lassù solo le stelle, / nel freddo silenzio, / guardano attonite».
E qui la lezione di san Francesco si trasfonde in quella di papa Francesco, della quale Elena Bartone fa ampiamente tesoro. Bergoglio ha ripetutamente denunciato l’emergenza ecologica, la corruzione morale, che investe anche settori della Chiesa, la carica distruttiva e belluina dell’uomo che dirompe nelle guerre, le disuguaglianze sociali sempre più marcate tra ricchi e poveri. Elena Bartone fa eco alle parole del Santo Padre, al suo messaggio, veicolo di un «nuovo francescanesimo», che è, nel contempo, antico. Condanna la guerra nella poesia Se la pace tace:
«Nel chiostro tutto è fermo: / la siepe che invita alla gioia, / l’alloro, la statua di Cristo. / Solo il vento scompiglia le foglie. / Una rosa gialla mi riporta a Te, / alla nuvolaglia della Tua santità, / al Tuo grido, se la pace tace, / se gli animi si perdono / nel tumulto di guerre tra fratelli».
Oggi in Italia il più lucido analista della società capitalistica matura è Franco Ferrarotti, padre rifondatore della Sociologia italiana nell’immediato secondo dopoguerra (il fascismo l’aveva quasi abolita: se non ci sono più problemi sociali, perché il regime li ha risolti tutti, non ha senso la disciplina che intende studiarli). Ultranovantenne, ci invita continuamente con i suoi scritti a recuperare la dimensione del passato, di quando si camminava «a passo d’uomo e di cavallo» (questo il titolo di uno dei suoi preziosi volumi, che escono a ritmo vertiginoso, colmando un grande vuoto intellettuale e morale), il «mondo della penuria», nei suoi aspetti e insegnamenti positivi, accanto a quelli negativi, che imponeva la misura, la moderazione, la riflessione su come risparmiare le energie e su come autolimitarsi. E oggi occorre, appunto, autolimitarsi, superare, con un salto all’indietro, la «società irretita» di sviluppo senza progresso, riscoprendo un «nuovo umanesimo», che è, nel contempo, antico (Dalla società irretita al nuovo umanesimo è, per l’appunto, il titolo di un recente volume di Ferrarotti), fondato sull’umiltà, su una visione pauperistica della vita, sulla riscoperta dell’uomo e sulla rideterminazione della tecnologia come mezzo, non come fine. Di tutti questi valori, rilanciati da Ferrarotti, è partecipe Elena Bartone, con il suo «nuovo francescanesimo», in linea con quello di Bergoglio. La poesia I poveri costituisce, in tal senso, un manifesto programmatico:
«I poveri non conoscono cattiveria, / amano il vento e le pietre, / innalzano una preghiera al Signore / nella sera. / Un tremolio di sofferenza / percorre le membra / e poi si abbandonano al canto / della solitudine. / Inciampano lungo il percorso / dell’esistere, poi si rialzano / perché Dio cammina accanto. / Non amano la perfezione, le certezze; / ascoltano il linguaggio muto / delle cose. / Oggi come ieri, / si stringono al cordone / della povertà / e ascoltano la voce di rintocchi / d’altrove. / Piangono se le logiche del mondo / sferzano colpi / alla loro essenza / di aurore rarefatte / o se la vita sanguina / nostalgie d’altri giorni. / Il volo di una farfalla / una carezza di Francesco / nei mattini trionfanti di solarità».
Quella della Bartone potrebbe sembrare una visione conservatrice, retrograda, ma non lo è: Gramsci ci ha insegnato che il passato è fonte di ogni rivelazione e di ogni rivoluzione. E’ necessario, allora, cancellare l’egoismo, l’edonismo, il culto della ricchezza e della proprietà individuale e familiare (o di casta), fine a se stessa, consentire una vita più dignitosa a tutti, il minimo indispensabile per vivere, riacquistare il senso della misura, della moderazione, dell’autolimitazione, il rispetto per i propri simili e per l’ambiente, nelle sue varie componenti (umane, animali, vegetali), la dimensione preziosa della riflessione pacata e della lentezza, nel pensare e nell’agire, contro la corsa forsennata verso non si sa che cosa. Sono questi i caratteri del «nuovo umanesimo», di cui parla Franco Ferrarotti, e del «nuovo francescanesimo» di papa Bergoglio, che trova concretizzazione nell’opera poetica di Elena Bartone, che guarda indietro al passato per andare avanti, nel presente e nel futuro.
Carmine Chiodo, nella sua Prefazione ad Apostrofi di gioie sovrumane, con la consueta acutezza ed acribia filologica, ha giustamente evidenziato anche le caratteristiche stilistiche e linguistiche di queste poesie di Elena Bartone, sottolineando la capacità dell’autrice di usare ritmi diversi e forme estetiche sempre rinnovate per rappresentare gli stessi momenti spirituali, naturali e umani. Egli conclude, e noi con lui:
«Ciò che ancora colpisce dell’originale poesia della nostra poetessa è la variabilità ritmica che dice sempre la natura, lo stato dell’io poetante, che alimenta una poesia per accompagnare poi i vari istanti dell’essere dell’autrice e la sua presenza nella realtà, nelle cose. Poesia di alto sentire e delicatezza linguistica eccezionale».
ElenaBartone, calabrese di origini, vive in Piemonte, dove insegna lettere. Laureata in giurisprudenza e in lettere, ha al suo attivo dieci opere di poesia e la partecipazione a molti premi. Due volte vincitrice del Premio Cesare Pavese. Le sue poesie compaiono in molte antologie e riviste. Il suo primo libro su san Francesco d’Assisi (Francesco, nel silenzio, Falloppio 2015) è stato tradotto in spagnolo.
Oltre che penetrante critico letterario, Antonio Catalfamo si mostra anche un dotato e significativo poeta. Dico subito che critica e poesia sono fortemente intrecciate, nel senso che i sentimenti, le vedute, le convinzioni storico-politiche e sociali che stanno alla base della sua esegesi letteraria li troviamo pure ben espressi in poesia. Ciò significa che Catalfamo bada a mettere in evidenza e a sottolineare i valori umani, la libertà, la dignità della persona umana e quindi dichiara guerra alle angherie, alle prevaricazioni, ai soprusi, tutte cose che offendono la libertà. Son questi valori, cari a Catalfamo, che lievitano nella sua scrittura critica e poetica. Quindi le sue, partendo da queste premesse, non sono poesie di maniera, o di scuola, non obbediscono alle mode o a movimenti poetici d’avanguardia, ma sono impregnate di quelli che sono – lo ripeto – i sentimenti umani, i valori di uguaglianza e di libertà: insomma la «rivolta», per richiamare la parola che compare nel titolo della splendida silloge che sto esaminando (La rivolta dei demoni ballerini, Pendragon, Bologna, 2021, euro 14), verso ogni forma di dittatura e di oppressione umana.
Catalfamo viene ed è stato educato da una famiglia che ha portato sempre avanti quei valori, quella rivolta contro la dittatura ed egli, memore di ciò, la prosegue ora anche in poesia con questa altra silloge ben analizzata da Wafaa A. Raouf El Beih e Alfredo Antonaros che ne mettono in evidenza tutto il significato e l’importanza. In sostanza le loro osservazioni ci aiutano a capire più a fondo le motivazioni che hanno spinto il poeta a scrivere questi versi, come pure, specie nella prefazione di Wafaa A. Raouf El Beih, si mostra la formazione poetica di Catalfamo e il suo evolversi nel corso del tempo.
Il Nostro appartiene a un clima culturale, politico, che è impregnato di idee gramsciane e antifasciste, ereditate – lo dicevo prima – dai nonni, dal padre, insegnante di lettere e immerso nella lotta contro ogni forma di fascismo e di sistemi che si basano su soprusi e vessazioni. Fin da ragazzo Antonio Catalfamo ha coltivato la poesia, e non solo, e al riguardo leggo nelle pagine della Prefazione che egli si è
«accostato molto presto alla poesia. Già quando frequentava le elementari e, d’estate, passava le vacanze nel paese d’origine del padre, aveva appreso da un giovane amico manovale che le poesie, non solo possono essere lette nei libri di scuola, ma ognuno può anche scriverle».
Questo amico operaio aveva composto delle poesie scritte su un grosso quaderno che teneva sotto il materasso, e tirò fuori questo quaderno e lesse all’allora giovanissimo Antonio una poesia che parlava di una ragazza vietnamita violentata da un soldato americano, e tal poesia suggestionò molto Catalfamo che da quel momento in avanti cominciò anch’egli a scrivere poesie, diverse da quelle di altri poeti anche noti, poesie che parlavano e parlano di problemi veri, passati e presenti, e son problemi che riguardano gli uomini oppressi, sfruttati, offesi da ingiustizie e sistemi politici che si basano sulla forza e sulla violenza. Per essi compone versi Catalfamo ed è qui che il poeta parla chiaro e ha il coraggio, come è già stato felicemente osservato, di dire la verità, di mostrare, di additare «l’esistenza» di idee e movimenti comunisti che, nel contempo, sono riaffermati e fatti rivivere richiamando uomini e idee che si sono manifestate nella vita sociale passata ed hanno visto protagonisti, come in Sicilia, i familiari del poeta. Riaffermare quelle idee come «un fiume che scorre da Ora al Futuro», come ha scritto Jack Hirschman a proposito dei versi del Nostro.
Poesia come conoscenza e denuncia, dunque; poesia come lotta a far primeggiare gli autentici valori umani e non le ingiustizie e le disuguaglianze; poesia come lotta per conquistare quei valori, quella libertà che le forze brutali di un potere efferato cercano di reprimere. Quindi queste poesie di Catalfamo dovrebbero essere lette e meditate dalle nuove generazioni. Catalfamo è poeta di sostanza e non di masturbazioni cervellotiche e sentimentali, va dritto al problema, parla chiaro e senza peli sulla lingua, e talvolta la sua poesia assume cadenze narrative per esprimere aspetti biografici o legati alla sua famiglia e alla storia sociale dell’ambiente siciliano in cui è vissuto:
«Mio padre / appollaiato su un albero / studiava i classici, / penetrava il mito greco […]. / Sognava una nuova grecità: / i pastori con i greggi / e i campanacci invadevano / le stanze del potere, / imponevano il comunismo, / che ci rende tutti uguali. / Fondò l’Alleanza contadini / in una vecchia stalla, / il fieno ammucchiato alle pareti, / ritirò concimi a prezzi modici, / istruì pratiche per i trattori Brumi» (Simbologia della vigna). E ancora il padre che faceva comizi, «parlava / dal balcone / a una piazza vuota, / i braccianti ascoltavano / rinchiusi nelle loro tane, / animali braccati / dai campieri mafiosi / e dai loro padroni, / che non sapevano / quanto terra avessero» (Il comunismo e mio padre).
Da questi versi che fin qui ho citato si evince chiaramente il tenore e lo spessore della poesia di Catalfano che si serve di essa, come si legge chiaramente nel componimento dal titolo La mia poesia, per raccontare la
«vita degli umili / a dire sgrì, / come Santo Cali / a dire mmé, / a usare il linguaggio universale / di uomini, piante, animali, / a ritornare al naturale di Ruzzante. / Non mi interessano i versi barocchi / del poeta-puttaniere / che ruba amore mercenario / nella città dello Stretto, / dominata dalla follia, / dal tanfo di salamoia / nei barili del porto».
In fondo questo testo è una dichiarazione di poetica, è una presentazione di se stesso come poeta e nello stesso tempo prende le distanze dai poeti renitenti, da quelli esoterici. A guardar bene nella silloge è presente l’Italia del dopo-guerra ma pure – come detto – la famiglia del poeta, ma son presenti pure i pastori del suo paese che non sanno né leggere né scrivere, i quali «nella loro lotta contro il fascismo ecclesiastico e la mafia, hanno imparato dal miglior maestro – la lotta stessa -cos’è il comunismo» (Jack Hirschman). Certamente ci troviamo davanti a una silloge molto complessa nei motivi e tematiche, ma omogenea, compatta, che riflette quelle che sono le convinzioni culturali, politiche, esistenziali del poeta che esterna il suo sentire in modi diretti e comprensibili da tutti. C’è «l’eterno carnevale della storia» (Il comunismo e mio padre), per esempio. Ancora si parla di uomini, donne, ragazze, di gente che il poeta ha incontrato o di cui ha sentito parlare ed ora sono richiamati attraverso versi sempre fortemente comunicativi e naturali (la naturalezza, secondo me, è uno dei principali pregi di questa silloge, e al riguardo cito i versi seguenti:
«Ritorna nei miei ricordi / Maria Grazia chimera, / ragazza di Udine. / […] / Novella Saffo, / coltivi in silenzio / passioni inconfessabili» (Novella Saffo); «Tu mi chiedi / il significato delle parole, / io ti rispondo, con Eduardo, / che le parole sono colorate. / Le parole nere, / che preannunciano / guerre e lutti» e poi le parole «viola», le parole «rosse» e queste son quelle amate da Catalfamo e non quelle «grigie», per fare un altro esempio, «dei burocrati / dalle rinomate scartoffie, / che stancano l’uomo comune» (Le parole).
Ma chi sono questi «demoni ballerini»? Ecco la risposta: i pastori-contadini siciliani che lavoravano i feudi «dei padroni forestieri» ed erano schiavizzati. Ma il
«sangue di Euno / ribolliva nelle loro vene, / provocando la rivolta degli schiavi: / come demoni ballerini, / leggeri nella danza, / vennero in paese, / viaggiando di notte. / Aprirono la Camera del Lavoro» (La rivolta dei demoni ballerini).
Questi demoni hanno dei nomi qui evocati: Peppe Trelire, «il più feroce»; Don Mariano e Peppe Lasagna: essi poi diventarono satiri e andarono all’assalto delle «centrali del potere». Catalfamo richiama un mondo, quello contadino, che non c’è più, ma che ha avuto grande importanza, che ha segnato la storia di un’epoca e di cui c’è abbondante traccia in queste poesie varie nei toni, ora ironici, ora fortemente satirici, ora narrativi, che racchiudono fatti, avvenimenti e personaggi, atmosfere, miti di un tempo trascorso, quello contadino, e del suo riscatto dalla schiavitù padronale. Però nella poesia, in questa poesia c’è non solo questo ma dell’altro: la società attuale, il tempo presente, la pandemia, e altro ancora, e il tutto viene sempre espresso con un linguaggio molto intenso e chiaro. Eccolo ora il poeta operato di cataratta «con sistemi ultramoderni», ma nell’ospedale manca qualcosa:
«L’affetto materno / di Varvàra Alexandrovna, / le sue cure amorevoli», per cui ci si sente un numero (e si viene chiamati per numero, appunto), e si corre da una stanza all’altra, ma – aggiunge Catalfamo – «io non sono Quasimodo / e questa non è / una società comunista, / in cui tre parole / hanno lo stesso peso: / madre, / pane, / compagno» (Operazione).
Ciò che più conta è che Antonio Catalfamo compone versi che racchiudono vita vissuta e salde convinzioni e sono scritti con vero cuore e sentimenti :
«I ruffiani si nascondono ovunque, / si mimetizzano per le strade / come alberi, / piante ornamentali, / oggetti banali» (Ruffiani); «Riattiveremo / onde gravitazionali / che consacrano i templi, / tramandano le civiltà, / fino a quando ci saranno / cuori puri ed onesti / e non prevarranno / per sempre / lo spirito belluino / e il fascismo» (Poesia biologica).
E da un cuore puro e onesto sortisce questa poesia:
«Solo la poesia può lenire / i dolori della vita, / rendere eterna, madre mia, / la tua memoria / per chi ti conobbe / negli anni migliori, / quando, regina della parola, / dispensavi a tutti / conforto e speranza / nel mondo vile e infernale» (Petrarchesca); «Figlio dell’amore / e del dolore, / piccolo amico, / io ti conosco / attraverso le parole / di tua madre, / che non possono mentire. / Tu leggi le fiabe di Rodari / e, forse, impari / che il mondo è ingiusto / e tocca a noi / difendere i più deboli, / anche se sempre ci deludono» (Martiniano).
Per terminare queste mie considerazioni sulla poesia di Catalfamo dico che egli, lettore anche di Giordano Bruno, è un poeta di sostanza, di pensiero e che si affida a una poesia naturale ed efficace per dire la sua presenza nella società, nel metterne a fuoco le storture, i pseudo valori e le magagne del potere. La sua poesia è specchio della sua personalità di uomo tutto di un pezzo, come suol dirsi, di pertinace difensore dei valori umani e della giustizia sociale, cantore dell’ «umanesimo comunista».
Antonio Catalfamo è nato a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) nel 1962. È abilitato all’insegnamento come Professore Associato di Letteratura italiana e Letteratura italiana contemporanea nelle Università. Tiene lezioni di Letteratura italiana per via telematica a beneficio degli studenti della Sichuan International Studies University (Cina). È coordinatore dell’“Osservatorio permanente sugli studi pavesiani nel mondo”, che ha sede nella casa natale di Cesare Pavese, a Santo Stefano Belbo (Cuneo), per conto del quale ha curato sinora venti volumi di saggi internazionali di critica pavesiana. Ha pubblicato diversi volumi di poesie: Il solco della vita (1989); Origini (1991); Passato e presente (1993); L’eterno cammino (1995); Diario pavesiano (1999); Le gialle colline e il mare (2004); Frammenti di memoria (2009); Variazioni sulla rosa (2014).
Nel 2008, curai, per i tipi dell’editore NicolaTeti di Milano, un numero monografico (n. 730) della rivista «Il Calendario del Popolo» dedicato ai Poeti operai, nel quale conducevo un’analisi dettagliata, corredata di testi, di quel fenomeno, prettamente italiano, rappresentato da operai di fabbrica che, a partire dalla metà degli anni Sessanta del secolo scorso, scrivevano versi sulle loro condizioni di lavoratori sfruttati ed esposti a gravi pericoli per la sicurezza personale e per la salute. Si trattava di una poesia di forte denuncia e, nel contempo, di lotta per una società di liberi ed eguali. Mi limito a ricordare alcuni nomi, fra gli autori più significativi: Ferruccio Brugnaro, Franco Cardinale, Sandro Sardella, Francesco Currà, Tommaso Di Ciaula, e il giovane Giuliano Bugani.
Negli anni Novanta, la poesia operaia sembrava sparita, a causa dei mutamenti strutturali dell’apparato industriale italiano, in concomitanza con quello che accadeva nell’intero mondo capitalistico occidentale, che imponevano lo spezzettamento dei grandi insediamenti, la flessibilità del lavoro, un cambiamento generalizzato del sistema di reclutamento, dell’ organizzazione produttiva, della previdenza e dell’assistenza, e che determinavano una diminuzione dell’incisività politica e sindacale, nonché un apparente «omologazione culturale», in capo alle classi lavoratrici. Ma, in realtà, essa covava sotto la cenere, riemergendo tra la fine del secondo e l’inizio del terzo millennio, con caratteristiche nuove, strettamente legate ai suddetti mutamenti. Troviamo, infatti, in essa come dominante la dimensione della «malinconia», intesa in senso leopardiano, come principale strumento conoscitivo del reale, il che implica la rappresentazione di un grave disagio esistenziale, ma, nello stesso tempo, un affievolirsi della dimensione della protesta e della lotta organizzata, politicamente e sindacalmente, per il cambiamento radicale della società in senso egualitario.
Questa nuova poesia operaia mostra un notevole livello artistico in vari autori, come Fabio Franzin (nato a Milano nel 1963), che, a mio avviso, con i suoi versi in dialetto trevisano, può essere considerato il più autorevole poeta dialettale della sua generazione, e Matteo Rusconi (metalmeccanico, nato a Lodi nel 1979), il quale si differenzia dal complesso dei nuovi poeti operai per la possente carica di protesta dei suoi versi, che contengono in sé un esplicito attacco al sistema industriale capitalistico e ai suoi rappresentanti. Rusconi dimostra come sia ancora attuale, nel complesso, la definizione di «poeta operaio» coniata negli anni Sessanta, su «Vie Nuove», da Pasolini sulla base di quella già nota di «preti operai», per indicare quei lavoratori che, proprio per la loro esperienza diretta nel mondo della fabbrica, erano in grado di capirne più di ogni altro il carattere alienante, e, nel contempo, di superarlo, dialetticamente, in versi di denuncia che prospettavano una società totalmente diversa. E qui basta richiamare alcuni componimenti di Rusconi, a partire dalla poesia Ferro:
«La poesia è una fabbrica / una città meccanica / un convoglio industriale / e io sono un poeta operaio / un poeta del ferro / un poeta d’acciaio. // Non riesco più a pulirmi / dagli angoli neri delle mie mani; / da una cicatrice sulla nocca / il ferro mi ha messo radici dentro».
Gli effetti fisici del lavoro di fabbrica penetrano a fondo nel corpo del poeta, ma anche nella sua psiche, nel suo animo, plasmando la sua poesia, per cui si viene a creare un nesso inscindibile tra fabbrica, «io» e poesia. La forza poetica nasce dai rumori, dalle esalazioni tossiche, che si fanno largo nel corpo, formano un tutt’uno con esso, investono l’«io» in tutte le sue componenti, fisiche ed intellettive, e sgorgano in versi, dopo una selezione di carattere razionale, in cui consiste la creazione artistica, a cui li sottopone il poeta:
«Le installazioni industriali sono mostri e vampiri / hanno viscere il cui fracasso / vuole soffocare il rantolo della mia fame. / I fiumi della tornitura / sono un velo da cui non penetra luce / e gli dèi del metallo / sgretolano indifferenti la carne. / Carcasse di Metallo, legno morto e muffa putrida / sono estremità delle mie mani / anche il sole è un compagno lavoratore / che ansima sotto il fardello della fatica. / E’ tra questi miasmi che nascono i miei versi: / l’orecchio accoglie una folla di rumori / l’occhio scarta il superfluo / gli alberi intorno allo sforzo umano / applaudono le melodie della campagna / e del vento».
Il lavoro ripetitivo e alienante della fabbrica si traduce, dunque, in poesia, che sgorga spontanea dalla testa del poeta operaio come Minerva, dea delle arti, dal capo di Giove:
«Non faccio altro / che caricare e scaricare il mandrino / e attendere la fine dell’ultimo pezzo. / Eseguo cambi di lavorazione / sostituisco bareni e inserti / modifico misure / tolgo la bava in eccesso. / A volte mi capita di fermarmi a osservare / le ganasce ruotare a mille / e mi entra in testa una poesia / che rimane lì, nella sua forma / a giudicarmi. / A volte una poesia mi cade dalla testa / come fosse un caschetto slacciato: / può sembrare una schifezza / per me è salvezza e vita che filtra» (Non faccio altro).
La poesia si configura, dunque, come filtro della realtà disumanante della fabbrica, come ancora di salvezza.
Ma Matteo Rusconi non si ferma alla denuncia e alla protesta generiche. Mette in discussione lo stesso sistema industriale capitalistico, il ruolo del padronato e dei suoi tecnocrati. E lo fa con un’ironia sottile e, nello stesso tempo, graffiante, che ricorda quella di un poeta operaio della generazione precedente: Sandro Sardella, autore di versi demolitori affidati all’inizio a fogli volanti distribuiti davanti alla fabbrica, con lo pseudonimo «Sandrino operaio stupidino», che provocano la reazione del padrone, concretizzatasi anche in provvedimenti disciplinari, che, a loro volta, diventano oggetto di nuove poesie, che superano la distinzione tra i vari generi artistici, riproducendo, sotto forma di originali collages, le stesse note di ammonimento. L’ironia di Rusconi investe proprio i provvedimenti disciplinari, veri o presunti. Egli immagina che il padrone gli abbia fatto pervenire una diffida, con la quale gli ingiunge di non pensare alla poesia nelle ore lavorative e di consacrarsi interamente al nuovo dio, rappresentato, per l’appunto, dal datore di lavoro. Così si conclude la contestazione disciplinare nella poesia eponima:
«D’ora in poi non saranno più tollerate / impaginazioni di corrieri sibillini / e sarà vietato a chiunque si creda uno scrittore pittore cantore / di sprecare colore per imbrattare le ore dedicate alla reclusione. / In fondo, è per grazia da noi concessa / timbrare un cartellino / perdere lo status di Poeta / quindi, si richiede la massima devozione / e di scambiare il volto di Dio con quello del padrone».
In fabbrica non è ammessa neanche la presenza di Dio:
«In reparto non ci sono croci / né crocifissi / né santi né altari / nemmeno acquasantiere / parroci un guru spirituale. / Dio è rimasto altrove / a spruzzarsi di paracetamolo nel parchetto / e Gesù Cristo è il mio collega / figlio hippie degli anni Settanta».
C’è il dominio assoluto del profitto, del padrone e dei suoi tecnocrati. Rusconi mette in discussione queste gerarchie consolidate, la logica del profitto, il profitto stesso:
«Dal vetro del suo ufficio / il principale ci osserva, scuote la testa / prende un foglio e annota. / Noi dall’altra parte / siamo maiali al macello / corpi in prestito senza titolo / robot mercenari. / L’imbecille che scuote la testa / non ci guarda nemmeno in faccia / resta in piedi nella sua manica corta / beve il cottimo del nostro rancore».
Invoca lo sciopero, che non interviene ormai da anni nelle relazioni industriali, sogna un società nuova, socialista, citando la poesia di Jacques Prévert in cui il poeta francese rivendica il diritto dell’operaio di bere il sole. Scrive Prévert in Il tempo perso:
«Sulla porta dell’officina / d’improvviso si ferma l’operaio / la bella giornata l’ha tirato per la giacca / e non appena volta lo sguardo / per osservare il sole / tutto rosso tutto tondo / sorridente nel suo cielo di piombo / fa l’occhiolino / familiarmente / Dimmi dunque compagno Sole / davvero non ti sembra / che sia un po’ da coglione / regalare una giornata come questa / ad un padrone?».
Matteo Rusconi rivendica l’assalto al cielo, il «folle volo» di Icaro alla conquista del Sole, di una società radiosa di uomini e di donne liberi ed eguali.
Matteo Rusconi, Trucioli, Aut Aut Edizioni, Palermo, 2021, pp. 94, euro 14.
Matteo Rusconi nasce a Lodi nel 1979. Frequenta l’Istituto Tecnico Industriale “A.Volta” di Lodi e una volta diplomatosi inizia a lavorare nel settore metalmeccanico, venendo così a contatto con la realtà operaia. La sua prima pubblicazione è del 2017, Sigarette – Venti Poesie Per Smettere Domani (Ed. ilmilibro.it). Alcune sue poesie sono apparse in varie antologie, tra le quali NOvecento Non Più (2016. Ed. La Vita Felice) e La Nostra Classe Sepolta. Cronache Poetiche Dai Mondi Del Lavoro (2019, Pietre Vive Editore). Negli anni partecipa a diversi concorsi poetici; tra i più recenti spiccano la 25° edizione del concorso Ossi di Seppia, 2019 (finalista) e il Concorso Letterario Nazionale – Briciole Di Poesia – 2° edizione, 2020 (primo classificato). In tutti i concorsi si distingue ed ottiene ottime recensioni da parte di critici del settore arrivando ad apparire su quotidiani e blog di rilievo.
Tra i fiori poetici del Novecento, le voci che meritano una riscoperta, forse tardiva, c’è sicuramente Velso Mucci, amato da Pasolini, cantore del verso libero, uomo e intellettuale dai molti interessi artistici, che visse tra l’Italia, la Francia e la Svizzera dal 1911 al 1964 anno in cui morì a Londra. Cosmopolita, poliedrico, direttore di una Galleria d’arte a Parigi, luogo privilegiato che gli permise di essere al centro del dibattito culturale e di diventare amico di poeti, pittori, giornalisti, filosofi con cui strinse profonde amicizie artistiche. Consiglio di leggere la nota biografica introduttiva a cura di Nicola Vacca, curatore assieme ad Alberto Alberti della silloge poetica C’è ancora molto sulla terra, per capire la caratura di questo poeta se vogliamo dimenticato, che merita sicuramente una riscoperta, e merita di essere letto. La poesia che ho messo in esergo tratta da “L’Umana compagnia” (1953) ci dà una conferma se vogliamo di una voce poetica limpida e luminosa, che incanta come ha incantato Pasolini o altri grandi nomi del Novecento da Ungaretti a Cardarelli, che addirittura lo voleva come curatore universale delle sue opere (cosa che non ebbe seguito). Le poesie scelte dal succitato “L’Umana compagnia“, “Oggi e domani” (1958), “L’età della terra” (1962), ci parlano di un poeta dalla lingua vivida e sincera, ricca di rimandi che scendono e attraversano l’anima del lettore con mano leggera. Una lingua evocativa e preziosa, che indica senza forzare, elogia senza glorificare, sussurra e accarezza senza stordire. Un canto che è memoria, una natura che è dogma, una lieve malinconia che colora lo stare al mondo. Una voce significativa dunque della prima metà del Novecento che si insinua nelle pieghe della storia e ci dà testimoninaza di un’esperienza artistica non comune, anzi unica se vogliamo. Oltre che poeta fu autore di saggi filosofici (si laureò in Filosofia a Torino) e letterari e anche di un romanzo dal titolo L’uomo di Torino (Feltrinelli, 1967) pubblicato postumo. Da riscoprire. In copertina:Velso Muccivisto daMino Maccari.
Velso Mucci (Napoli, 29 maggio 1911 – Londra, 5 settembre 1964) è stato uno scrittore italiano. Visse in diverse parti d’Italia a seguito degli spostamenti del padre, militare e maestro di musica, fino a stabilirsi definitivamente nel 1924 a Torino, dove frequentò il Liceo classico Cavour, conoscendovi, tra gli altri, Giancarlo Pajetta. All’inizio degli anni ’30 entrò come critico musicale nella redazione de “Il Selvaggio”, dove conobbe, oltre al direttore Mino Maccari, personaggi come l’architetto Carlo Mollino e artisti come Carlo Carrà, Filippo De Pisis, Giorgio Morandi e Luigi Spazzapan, che ospitò poi nella libreria antiquaria aperta sulla Rive Gauche a Parigi, dove si era trasferito nel 1934. Il suo profilo letterario, legato nelle prime esperienze degli anni ’20 soprattutto alla personalità di Vincenzo Cardarelli, di cui più tardi curerà le edizioni delle Lettere non spedite (Roma, Astrolabio, 1946) e dei Prologhi viaggi favole (Milano, Mondadori, 1946), si arricchì a Parigi grazie alla frequentazione di intellettuali come Paul Éluard, Tristan Tzara, Nazim Hikmet, di cui tradusse più tardi le Poesie (Roma, Editori riuniti, 1960). Dopo la guerra si trasferì a Roma, dove fondò e diresse Il costume politico e letterario, bimestrale dove pubblicarono, tra gli altri, Leonardo Sinisgalli, Umberto Saba, Giorgio Bassani, Mario Tobino, Giuseppe Raimondi, Giuseppe Ungaretti. Nel 1947, dopo essersi iscritto al Partito comunista italiano, entrò in contatto con scrittori quali Niccolò Gallo, Mario Socrate, Giuseppe Dessì, e venne chiamato nel 1958 a far parte del comitato direttivo del Contemporaneo.
Source: inviato dall’editore. Ringraziamo Nicola Vacca e l’Ufficio stampa di L’ArgoLibro.
Emanuele Gentili, bresciano di Orzinuovi, ama narrare attraverso la poesia quelle che sono le emozioni dell’animo umano e la raccolta “Dall’altra parte”, uscita come self publishing nel 2020, è un vero e proprio viaggio emotivo nella vita di un uomo. Quello che colpisce dei versi scritti da Emanuele è la loro capacità di saper coinvolgere il lettore portandolo a ritrovare se stesso e a condividere emozioni negli scritti poetici di Gentili stesso. Il libro presenta la prefazione del giornalista Tonino Zana e lo si trova sul sito www.emanuelegentili.it
Come è nata la tua passione per la poesia?
Ho sempre letto, da giovane avevo più tempo e divoravo i libri. Mi ricordo di quando mi nascondevo sotto il letto, in camera mia, per leggere Amleto. Come dovesse essere tutto mio. A scuola nei temi, andavo spesso fuori tema. Aprivo in continuazione parentesi e mi perdevo nei miei pensieri. Cominciai a scrivere il diario in quarta superiore, e da allora non ho mai smesso di scrivere. Man mano affinavo la tecnica, ovvero, vestivo i miei sentimenti, e la poesia, cresceva con loro. Poesia perché ho fatto della mia incapacità di andare lontano con i pensieri, una mia peculiarità. Non è una passione, questa. E’ necessità. A tentoni, cerco di far divenire questa nobile arte, virtù.
Quanto è importante per te scrivere e tradurre in parole le tue emozioni?
Tutti noi abbiamo emozioni. Alcuni riescono a dormirci sopra, a fianco, assieme. Altri le fuggono, scappano da loro stessi, in circolo. Altri vivono, come fosse l’ultimo respiro, il loro compagno. Paura, gioia, tristezza, amore, ci rendono fratelli. Se dovessi tenere cl chiuso tutti i miei pensieri, rischierei di soffocare. A volte vedo un qualcosa che mi emoziona. Lo porto a sera, il pensiero, e lo rendo eterno, scrivendolo. Aiuto la memoria, a non perdersi. Altre volte, ed è una sofferenza, ho qualcosa dentro che grida. Non so bene cosa sia, finché poi non vado a rileggerlo.
Nel libro c’è un elemento che torna in modo costante: il muro, è qualcosa di fisico o metafisico?
Il muro è quel recinto che si costruisce, pensando di preservare il proprio orticello, dai pericoli che vi sono, dall’altra parte. Nessuno nasce, con questa necessità. Con l’educazione, con le letture, con le varie esperienze si posano vari mattoni, ed il muro comincia ad ergersi. Alcuni hanno solo una fila, di mattoni, altri non fanno che aggiungere piani. Si ha paura, del diverso. Il muro è alto tanto quanto manca l’empatia
Secondo te i muri come le barriere e culturali si possono abbattere?
Sono molto combattuto, al riguardo. Penso che ormai è difficile far cambiare idea, a chi è ormai maturo. Ci sono però le nuove generazioni. Dobbiamo investire su di loro. Sin da piccoli, con il nostro esempio. Da genitore abbiamo la responsabilità di educare una nuovo futuro.
Ci racconti un po’ perché Frankenstein di Mary Shelley è stato importante per te e per questo libro?
Ringrazio mia moglie, Martina, per avermi fatto scoprire questo libro. Nonostante la veneranda età e ancora, purtroppo, attuale. Ho sempre voluto creare uno spettacolo a favore di chi sente oppresso, emarginato. Poi ho cambiato prospettiva e con essa quella del libro. Ho visto il mondo con gli occhi del perseguitato, del mostro e mi sono accorto che non sono loro da compiangere, bensì gli aguzzini, che devono essere condannati. Quando la creatura fugge, si nasconde in una casa abbandonata. Vi è un muro che lo separa da vicini. Li ascolta e da loro impara la musica, la lettura, il verbo. Da loro, che sono diversi. Qui il fulmine ha colpito me. La diversità, come ricchezza. D’altronde, senza questa diversità, le mie due creature non sarebbero mai esistite
Nella raccolta di poesie affronti diversi temi la gioia, l’amore, ma anche il dolore e la perdita, come è stato affrontare questi temi in versi poetici?
Molto difficile per un semplice motivo. Quando parli di un sentimento, che sia solo a livello di confidenza con un amico, o con le sembianze di una poesia, lo concretizzi e lì, cominciano i guai perché non puoi più negarne l’esistenza. Dai un nome, questa emozione e dal quel momento, sai che sarà sempre al tuo fianco. Quando una cara amica è venuta a mancare, giovanissima, ho dovuto aprire la porta della paura. Da allora è iniziato un percorso per cercare di convivere con essa, più che di combatterla. In questo senso credo che le emozioni esistano solo se condivide.
Quale è la poesia alla quale sei più legato e perché?
Difficile, io rispetto a Frankestein, amo le mie creature. Ma se devo scegliere opto per “Il cuore altrui”. Mi piace l’idea di vivere la nostra vita, come fosse il sogno di qualcun altro. Trattarla con il rispetto che merita, perché è questione di fortuna, da che parte del muro, si nasce.
La vita è fatta di memoria, se così non fosse non proveremo quel tale senso di vuoto perdendola. La memoria è linfa e nutrimento di cosa di più intimo, prezioso e profondo l’essere umano possiede: la sua coscienza. La poesia serve a tramandare memoria e a vivificare la coscienza perché non si rattrappisca, inaridisca e muoia. Ecco questo è il testamento morale che Giuseppe Battaglia ci ha voluto lasciare con la sua ultima opera dal titolo emblematico Ferite nella memoria. Una raccolta poetica di rara sensibilità, accorata, graffiante, pudica, in un mondo dove il pudore è sempre raro. I versi sono rarefatti, quasi epigrammi orientali che raccolgono quel grumo aspro che è il senso della vita come noi lo percepiamo, iridescente e remoto. Anche chi non ama la poesia troverà in questi versi nutrimento e un po’ di tregua dagli affanni, dal tran tran quotidiano. Sopra/ il respiro/ senza bagliori/ polvere antica/ pensieri vaghi, ecco cosa differenzia la coscienza dall’incoscienza, e dalla mancanza di senso: il respiro e il pensiero. I versi di questo poeta portano a compimento questo senso con apparente leggerezza e senza sforzo. La vita è respiro e memoria, è ciò che diamo agli altri e cosa riceviamo, tutto della stessa importanza, del medesimo valore. Con generosità Giuseppe Battaglia ci ricorda che il bene e accanto al male (di cui vede consapevolmente tutte le ombre dal dolore al tradimento) ma non lo sovrasta. Chiuderei questo commento alla silloge con alcuni suoi versi presagi dell’imminente destino che ci accomuna tutti: Ritagli/ d’infanzia/ rompono/ il sonno/ sotto/ il legno/ della crocifissione. Versi scarni che per intensità mi sono rimasti in mente e mi hanno portato alla mente versi di altri grandi poeti e mistici che hanno riflettuto sull’assenza e sulla morte. Epigrammi che per il loro significato etimologico hanno il precipuo scopo poetico di lasciare il ricordo d’una vita.
Giuseppe Battaglia nasce a Ragusa il 27 settembre del 1953. Laureato in Sociologia presso l’Università di Urbino, ha conseguito specifiche formazioni professionali in Psicoterapia, Psicanalisi individuale e di gruppo e Psicoterapia analitica. Ha pubblicato opere poetiche in dialetto siciliano e con Manni Editore Respiro dello Sciamano. Con l’Edizioni L’ArgoLibro ha pubblicato Rumore del tempo nella memoria e Sotto una montagna di carte titolo d’esordio della collana Agorà diretta da Nicola Vacca.
Source: libro inviato dall’editore. Ringraziamo l’Ufficio stampa L’ArgoLibro.
“Medusa era una fanciulla. Poesie di metamorfosi e confini” è la prima raccolta di poesie di Rita Pilia, edita da Gilgamesh. 150 componimenti che portano il lettore a viaggiare nelle emozioni dell’animo umano e dell’universo femminile. Quella di Rita Pilia è una poesia che indaga l’animo umano, lo analizza in modo garbato e intimo attraverso i versi nei quali l’autrice mette tutto il proprio sentire. Rita Pilia è laureata in Filologia Moderna e in Psicologia degli interventi clinici nei contesti sociali, all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia e ha conseguito un Dottorato di ricerca in Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi di Siena. Attualmente è docente di Lettere presso l’I.I.S. “A. Lunardi” di Brescia. Lettura, scrittura e fotografia sono le sue passioni più grandi. Della raccolta e di come nasce la poesei ne abbiamo parlato con l’autrice.
Come è nata la tua passione per la poesia? Quando ero adolescente le poesie di Dante, Shakespeare, Prevert, Nazim Hikmet, Emily Dickinson mi incantavano. Ricopiavo sul diario i loro versi, cercavo me stessa e i miei sentimenti nelle loro parole. Non scrivevo nulla di mio. La poesia mi sembrava qualcosa di “troppo elevato”. Mi piaceva leggerla, ma non pensavo sarei stata mai all’altezza di comporre io stessa. Iniziai a scrivere solo una volta conclusa l’università, ma non erano vere poesie all’inizio: si trattava di racconti enigmatici, onirici, densi di immagini. In pochi anni divennero sempre più brevi, era come se la prosa volesse nascondersi e spezzarsi finché un giorno mi accorsi con sorpresa che quelle frasi forse potevano essere chiamate poesia. Si erano trasformate. “Medusa era una fanciulla. Poesie di metamorfosi e confini”. Quale è il senso del titolo della tua prima raccolta? La prima parte del titolo si riferisce a un’antica versione del mito di Medusa, secondo cui la Gorgone – il mostro dai capelli di serpe in grado di pietrificare gli uomini con un unico terribile sguardo – era in origine una fanciulla bellissima, ingiustamente punita dalla dea della Ragione per il suo potere seduttivo e da quel momento in poi costretta a custodire tutte le emozioni dentro di sé, a mutare la bellezza in orrore. Quando la spada di Perseo la colpisce a morte, il dolore uccide il mostro, ma libera la fanciulla; il suo sangue ritorna a sgorgare, feconda gli abissi e rinasce, rosso e fortem, nel vivo corallo in cui lentamente si muta. I miti di metamorfosi come questo mi affascinano da sempre per la pluralità di interpretazioni a cui si prestano. La stessa vita umana può essere intesa come una continua metamorfosi, la continua necessità di varcare nuovi confini per sopravvivere. “Non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume”, diceva il filosofo Eraclito. Questa “instabilità” (nostra o della realtà che ci circonda?) potrebbe spaventare, ma per me è stupore inesauribile, fonte di emozione e, dunque, di poesia. Quali sono le fonti d’ispirazione per i tuoi versi? Le emozioni che la realtà e le opere d’arte (la pittura simbolista innanzitutto; i Preraffaelliti e Klimt sono i miei artisti di riferimento) sono in grado di suscitare in me. Da empatica, spesso mi sento travolta da un eccesso di emotività. In quei momenti scrivo e vivo il processo creativo come un modo per fare ordine dentro di me. Alcune poesie sono nate in viaggio, ispirate da un panorama fuori dal finestrino, o nel dormiveglia, nel cuore della notte, nel tentativo di catturare un sogno prima di riaddormentarmi di nuovo e dimenticare tutto. Il desiderio di fermare un singolo istante, una specifica emozione, a volte mi fa percepire la poesia come una lotta contro il tempo. Del resto in epoca Barocca i miti di metamorfosi rappresentavano anche il tentativo di esorcizzare la paura dell’oblio. Nella tua raccolta molte poesie hanno il nome di figure femminili della letteratura e della mitologia, che relazione c’è tra l’universo letterario e la realtà? Il mito è un linguaggio potentissimo che permette di raccontare la realtà e al tempo stesso di nasconderla. Proprio come la figura retorica della reticenza, il mito dice e non dice, spalancando le porte all’immaginazione. I miti mi consentono di narrare attimi di vita vissuta in maniera più enigmatica di quanto non accadrebbe se decidessi di narrarli in prosa. Le emozioni che i miti (e la letteratura) raccontano, convertendole in immagini, sono le stesse che proviamo tutti noi oggi: gioia, rabbia, dolore, rancore… Questo rende possibile l’immedesimazione. Io mi immedesimo nelle figure femminili di cui racconto la storia, comprendo le loro emozioni – capisco perché Francesca si innamorò di Paolo, per esempio (qui penso alla mia poesia “Canto V”) – e credo che ai lettori possa accadere lo stesso. Le emozioni sono un linguaggio universale che permette di valicare gli angusti confini spazio temporali della propria epoca, permette a una vita di fondersi in mille altre vite, (ri)scoprendo se stessa e esplorando nuove possibilità. Tra le poesie della raccolta ti ricordi quale è la prima scritta e il momento in cui l’hai concepita? Nella raccolta tra le primissime ci sono senz’altro “Orfeo e Euridice” e “Orangerie”. Sono mie personali interpretazioni: la prima dell’omonimo mito, la seconda della novella di Boccaccio “Lisabetta da Messina”. Nel 2013 ero molto affascinata da questi testi e volevo attualizzarli, renderli più personali. Di Euridice ho messo in evidenza le paure, la diffidenza nei confronti di Orfeo, mentre nel caso di Lisabetta la mia versione è meno macabra rispetto all’originale: il vaso, infatti, non contiene la testa dell’amato, ma vecchie fotografie. In entrambi i casi, tuttavia, i ricordi permangono (crescono, si fanno pianta) con conseguenze nefaste sulla psiche. Si capisce che sono le prime anche dal punto di vista grafico: meno frantumate, conservano (soprattutto Euridice) alcuni tratti di prosa. Il componimento al quale sei più affezionata e perché? Sicuramente “La strega”. Si tratta di un omaggio al romanzo di Vassalli, “La Chimera”, ma è molto di più: la sera in cui scrissi, quasi di getto, quei versi soffrivo molto perché un sogno in cui avevo creduto a lungo si era rivelato… una chimera appunto. E i desideri, quando restano irraggiungibili come le stelle fanno male: “desideri di vetro / da trafiggere i polsi”. Questo stato d’animo mi permise di immedesimarmi con Antonia, la “strega” del romanzo, fondere le mie emozioni con le sue, sentirmi meglio e piano piano, con il tempo, trovare nuove stelle, nuova luce. Un’altra poesia a me cara è “La colpa”. Grazie all’artista Mara Cantoni e all’editore Alberto Casiraghy nel 2016 era diventata un “pulcino elefante” in edizione limitata. Un’esperienza bellissima quella trascorsa a Osnago, a stampare a mano con i caratteri mobili e poi a cucire i singoli libretti. Ognuno era unico! Di questa poesia mi affascina il fatto che molti interpretino il “te” di “È difficile perdonare agli altri /la colpa/ di non essere te” come un riferimento a se stessi, invece in quei versi io intendevo descrivere la rabbia impotente che si prova quando le persone che si hanno intorno sono potenzialmente perfette, ma hanno l’unica imperdonabile colpa di non essere quell’unico “te” dotato di valore, la persona ancora amata. Mi affascina scoprire come le stesse parole possano acquisire significati diversi a seconda dello stato d’animo di chi legge. Colori, emozioni, elementi naturali, nomi, com’è il lavoro di combinare le parole per creare emozioni in poesia? Nella maggior parte dei casi tutto ha origine da un’immagine. Io cerco di ricreare con le parole le emozioni che le immagini producono in me. Dal momento che tutto inizia di solito da una sensazione visiva, le mie poesie sono ricche di colori, le definirei pittoriche, a volte. La mia più grande gioia è vederle illustrate perché è come se fossero restituite alla loro dimensione originaria. Ci racconti qualcosa sulla copertina del libro? La copertina è stata realizzata per me dall’artista Mara Cantoni ( www.maracantoni.com ), una cara amica con cui collaboro e che aveva già illustrato in precedenza alcune mie poesie. Lei ha visto nella fanciulla Medusa la Dea dei serpenti cretese ed è proprio alle statuette minoiche che la sua illustrazione si ispira. Il rosso del corallo si è trasferito nei capelli e nella collana che il personaggio indossa. I capelli ricci, il mio tratto distintivo, sono un omaggio a me e si trovano evocati in numerose poesie (“capelli di rovo”). L’idea di far continuare la chioma nel retro della copertina era un modo per valorizzarli. A volte penso che tanta fantasia poetica scaturisca proprio dai miei ricci… Forse sono un po’ come Sansone (anche se decisamente meno forzuta!) Secondo te scrivere poesie è un atto che possono provare a fare tutti ? Sì, tutti coloro che provano emozioni perché è di emozioni che la poesia si nutre. Alcuni riusciranno a esprimere questo mondo interiore con le parole (è il mio caso), altri con la pittura, altri ancora con ago e filo o con la danza… La poesia ha molte forme, è metamorfica essa stessa. Essenziale è imparare ad ascoltare e a ascoltarsi, soltanto dopo si potrà tradurre la voce dell’anima in versi o in gesti. La poesia fa stare bene, trasforma il dolore in Bellezza. Tutti ne abbiamo bisogno, bisogna solo essere pronti ad accoglierla.
Mi piace curiosare nell’archivio del Novecento alla ricerca di primizie letterarie e di scrittori di cui non si trova molto da leggere e si parla poco ma che vale la pena leggere e scoprire. Conosco personalmente Rocco Fasano, grande uomo di cultura che viene dal quel Sud ricco di fermenti. Un intellettuale illustre che viene da Gioia del Colle, paese in cui sono nato. Rocco ha dedicato la sua vita alla scuola e alla cultura, ha scritto libri, si è impegnato in politica, ci ha fatto conoscere scrittori e artisti notevoli. Rocco Fasano è anche poeta. Stoppie è il suo libro più importante. La sua pubblicazione risale al 1956 nella collana “Poeti d’oggi” dell’editore Gastaldi di Milano. Libro praticamente introvabile. L’autore qualche anno fa ha curato una riedizione in copie limitate. Il poeta, come scrive nella breve nota che accompagna la seconda edizione, si muove tra situazioni, emozioni, immagini, spesso accennate, frantumate o sospese, richiamando le forme adeguate di scrittura: abbozzi, appunti, mottetti e scorci, con cui meglio si concentra la portata lirica del sentimento di tempo interrotto, di tramonto rapido dell’età dei sogni, speranze, illusioni che lui steso chiama «Stoppie di campo mietuto». Partire da questa dichiarazione di poetica è indispensabile per avventurarsi nel mondo lirico di Rocco Fasano dove la poesia è una trama di voci e il poeta le ascolta tutte affidando la sua intuizione al tempo che scorre e da cui lui si lascia attraversare. Quella di Rocco Fasano è una poesia che contiene suggerimenti infiniti e la parola è sempre pronta a accogliere significati profondi. Il poeta si avventura negli abissi del giorno, sa che il suo verso è incerto come la vita che si vive in un quotidiano in cui le cose e le persone tremano. Ma è alla poesia che Fasano affida tutto il suo mondo interiore, si impiglia con le parole nella rete di spazi senza tempo, non rinuncia a un colloquio con i fantasmi del giorno, scava tra le macerie del paese sepolto, fa i conti con la zavorra della carne e la maledizione dell’anima. Rocco Fasano è un viandante nella cognizione del dolore, nella sua poesia è documentata con una consapevole malinconia crepuscolare la stanchezza dell’esistere:
«Ormai non segno tappe. /Ad assonata plaga torco i passi. / Cielo senza punto, / stanchezza, lungo male / che il corpo e l’anima rode.»
Le Stoppie di Rocco Fasano sono come i Trucioli di Camillo Sbarbaro. Materiale residuo dallo spessore sottilissimo, quasi inesistente su cui si posa il vuoto malinconico del tempo con le sue evocative suggestioni. Nei suoi trucioli impressionisti Sbarbaro cerca un’intesa impossibile con le cose, la parola della sua poesia ha le stimmate di una genesi dolorosa e necessaria: con ogni verso il poeta raccoglie sulla carta il totale di mancanze infinite. Rocco Fasano colleziona Stoppie e ascolta la loro voce mentre si sbriciola il tempo nelle sue distanze. Il poeta raccoglie quello che resta e dai residui scava a mani nude nel caproniano muro della terra.
Ho avuto la fortuna di studiare a Urbino tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta. Per un giovane affamato di cultura e di conoscenza la realtà urbinate con i suoi riferimenti letterari è stata davvero un territorio da esplorare. Non dimenticherò mai la prima volta che ho conosciuto Carlo Bo, i miei numerosi incontri con scrittori e poeti che dalla città ducale passavano per presentare i loro libri (in modo particolare vorrei ricordare le conversazioni indimenticabili con Franco Fortini, Fulvio Tomizza e Mario Luzi). Non si può comunque parlare dei fermenti culturali di Urbino in quegli anni senza che il pensiero vada a Paolo Volponi, uno dei maggiori scrittori e intellettuali del secondo Novecento, nato proprio nella città dei Montefeltro, di cui era talmente innamorato da farne il teatro di quasi tutti i suoi romanzi. Ci incontravamo spesso davanti a un bianchetto del Metauro. Era un piacere sentirlo parlare di letteratura e delle trasformazioni sociali del nostro Paese abbruttite dallo strapotere dell’industria e dalle sue logiche perverse di profitto. Volponi è sicuramente uno dei più grandi intellettuali del Novecento, uno scrittore fondamentale ancora oggi per comprendere il rapporto tra la realtà e il territorio in un paese che ha subito trasformazioni radicali e spesso involutive. Paolo Volponi è stato anche poeta, e che poeta. Indimenticabili i suoi tre libri di poesia: Il ramarro (1948), L’antica moneta (1955) e Le porte dell’Appennino (1960, premio Viareggio). Volponi ha esordito in letteratura come poeta e nella sua esistenza, anche quando è diventato uno scrittore affermato, non ha mai smesso di lavorare ai suoi versi. Il giovane poeta Volponi, allegorico e controcorrente, si muove inizialmente nella tradizione lirica, usa il verso breve e sembra influenzato da Ungaretti. Poi c’è la seconda fase in cui lo scrittore si distanzia dalla vocazione degli esordi. Qualche anno fa, in un cassetto della casa urbinate dello scrittore, sono stati trovati alcuni fascicoli: fogli manoscritti e dattiloscritti, autografi, appunti e frammenti. Tra questo materiale prezioso c’erano anche poesie inedite che risalgono alla seconda metà degli anni Quaranta, alle soglie del Ramarro, e arrivano fino ai primi anni Cinquanta, quando Volponi sta scrivendo L’antica moneta. Adesso quel materiale è stato raccolto e pubblicato per la prima volta nella collana bianca di Einaudi con il titolo Poesie giovanili (a cura di Salvatore Ritrovato e Sara Serenelli). Nel Volponi giovane poeta si incontra un’immediatezza matura, un verso scarno e pungente che sa essere di carne e immanente. Paolo Volponi fa sanguinare le parole, scrive versi per cogliere la parola nel suo stato di crisi. Il poeta è vicino in questo periodo alla lezione Ungarettiano de L’Allegria. Le parole sono schegge, i versi arrivano alla coscienza dei lettori come siluri che cercano la deflagrazione. La parola di Paolo Volponi nella prima fase della sua poesia è forte, la sua scrittura non cerca mai mediazioni, colpisce e affonda con una carnalità che si avvicina al vero delle cose.
«Volevi ingannarmi. / Stringevi / le cosce, / e smaniavi / per la tua verginità. / T’ho tirata giù / dal letto / per i capelli, /nuda sul pavimento. / Mi sono rivestito /Senza più guardarti».
Il giovane Paolo Volponi è un poeta autentico, un lirico diretto che ha tra le mani una parola sempre pronta a esplodere. Ha ragione Salvatore Ritrovato, alla fine della sua nota introduttiva quando scrive che i versi raccolti in questo volume ci mostrano un Volponi che cerca fisicamente il suo lettore per metterlo di fronte a una poesia che ha più certezze. Questa percorsa dal giovane Volponi, oggi che si leggono troppi poeti che mostrano una sicurezza granitica e hanno la presunzione di avere la verità in tasca, è la strada maestra per riportare la poesia nella sua casa.
Paolo Volponi è nato a Urbino il 6 febbraio 1924. A ventiquattro anni, laureato in legge, pubblica la sua prima raccolta di poesie, Il ramarro. Nel 1950 inizia il suo rapporto di lavoro con la Olivetti, via via più impegnativo fino ai massimi livelli dirigenziali, che si chiuderà soltanto agli albori degli anni Settanta. Nella primavera del ’54 prende avvio l’amicizia con Pier Paolo Pasolini, da cui riceverà uno stimolo decisivo in direzione del romanzo. Nel ’72 viene chiamato a Torino da Umberto Agnelli per uno studio sui rapporti fra città e fabbrica, e prende il via la sua collaborazione con la Fiat. Nell’83 viene eletto al Senato nel collegio della sua città: il suo impegno parlamentare si interromperà solo nel 1993, per ragioni di salute. Volponi muore il 23 agosto dell’anno successivo. Einaudi ha pubblicato Corporale, La macchina mondiale (Premio Strega 1965), Poesie e poemetti 1946-66, Il lanciatore di giavellotto, Il sipario ducale, Con testo a fronte. Poesie e poemetti (Premio Mondello 1986) e inoltre, negli «Einaudi Tascabili»: Memoriale, Il pianeta irritabile, Le mosche del capitale,La strada per Roma (Premio Strega 1991) e Poesie. 1946 – 1994 (2001). Nella «Nue» sono stati pubblicati Romanzi e prose I (2002), Romanzi e prose II (2002) e Romanzi e prose III (2003); nelle «Letture», I racconti (2017) e, nella «Collezione di poesia», Poesie govanili (2020).
Source: inviato al recensore dall’editore. Ringraziamo l’ufficio stampa Einaudi.