:: L’Africa che dicono misteriosa di Georges Simenon (Adelphi Milano, 2025) a cura di Valerio Calzolaio

6 novembre 2025 by

Africa coloniale francese, quasi un secolo fa. Il grandissimo Georges Simenon (Liegi, 1903 – Losanna, 1989) era di origine bretone, belga di nascita, francese d’adozione; ebbe varie mogli, quattro figli, diecimila donne (secondo i propri stessi vaghi ricordi), duecento pipe. Dopo aver scritto senza spostarsi un romanzo “artificiale” sulla regione delle Cateratte (Ottentotti e Pigmei, fiori e animali compresi), decide di andare laggiù davvero, 29enne. Compra un casco e s’imbarca con la moglie Tigy a Marsiglia, sbarca a Il Cairo, raggiunge Assuan e prosegue verso sud e poi verso ovest con aerei malandati. Dopo molti giorni riparte col piroscafo da Matadi (Congo) e fa ancora qualche scalo sul continente “nero”, talora divertito o disgustato. Vi scrive sopra gli immancabili interessanti pezzi solo una volta rientrato. Ecco qui appunto raccolti i relativi articoli: “L’Africa che dicono misteriosa”: raccoglie tre articoli usciti nel 1932 e nel 1933 su “Police et Reportage” e su “Voilà”.

:: Interviste (im)perfette: A tu per tu con gli scrittori

6 novembre 2025 by

5 anni fa, da maggio a novembre, sul blog Liberi di scrivere si è tenuto un ciclo di interviste ad alcuni scrittori italiani che si sono prestati a rispondere non solo alle mie domande ma anche a quelle dei lettori, in tempo reale, in un esperimento che ha portato risultati sorprendenti. Ora ho raccolto quelle interviste, in tutto 12, in una raccolta che se vogliamo porterà del bene, l’intero ricavato della vendita dell’ebook sarà devoluto a Medici senza Frontiere. A quelle interviste si aggiungono alcune interviste bonus a Ben Pastor, Patrizia Debicke e sua figlia Alessandra Ruspoli, James Grady, Qiu Xiaolong, Tcheky Karyo, Lucia Guida, e Stefano Di Marino.

Ricordo che la copertina è stata gentilmente offerta da Luca Morandi. E ringrazio ogni singolo autore intervistato per avere partecipato al mio progetto. L’iniziativa continua tutto quello che verrà raccolto sarà donato a Medici senza frontiere. Grazie a tutti! Anche a Luca Pelorosso e La strega lettrice per aver lasciato un commento su Amazon. Se volete procedere all’acquisto cliccate sulla cover il link vi porterà direttamente alla pagina del libro.

:: Quaranta segni di pioggia di Kim Stanely Robinson (Fanucci 2025) a cura di Patrizia Debicke

6 novembre 2025 by

Fa caldo a Washington. Un calore quasi insopportabile, greve, stagnante e che sembra annunciare la tempesta. Il cielo resta immobile, nessuna nuvola in vista. Gli split dell’aria condizionata, circondati da  gente sudata, stentano a fare il loro lavoro.  
Questa è la realistica immagine iniziale di Quaranta segni di pioggia di Kim Stanley Robinson (Fanucci Editore), romanzo che suona come un monito per un’umanità cieca, intrappolata nella propria presunzione di dominio sulla natura.
Washington D.C. diventerà il cuore pulsante di un mondo prossimo al collasso, una capitale in cui la miopia dei governanti si è trasformata in simbolo dell’inerzia globale. Là si muovono i protagonisti, piccoli ingranaggi di un arrugginito meccanismo politico: Charlie Quibler, consulente per le politiche ambientali di un senatore illuminato ma impotente, e sua moglie Anna, brillante scienziata della National Science Foundation. Entrambi, in modi diversi, cercando di dare un senso a un futuro che pare volersi sfaldare sotto i loro occhi.
Charlie combatte contro il disinteresse dei potenti, costretto a tradurre in linguaggio politico l’urgenza scientifica del disastro climatico. Sente che la catastrofe non è più una minaccia lontana ma una realtà che avanza a passi misurabili: anno dopo anno il ghiaccio artico si ritira, le stagioni si deformano, i confini tra normalità e caos si assottigliano. Tuttavia, nei corridoi del potere prevale la riluttanza, l’incapacità di comprendere ciò che la scienza ripete da decenni. La politica, dominata da calcoli elettorali e interessi economici, preferisce rimandare, fingendo che la Terra possa attendere. Anna, dal canto suo, rappresenta la razionalità lucida della ricerca. Analizza, propone, tenta di orientare il sapere verso una tecnologia capace di invertire il processo, ma ogni passo avanti genera una nuova contesa. Nella competizione feroce per il controllo delle innovazioni, la scienza stessa diventa preda del mercato. E mentre la politica resta paralizzata, il sapere si piega al profitto. Accanto a loro, figure come Frank Vanderwal, biologo, idealista e inquieto, ampliano il quadro di una società che non sa più ascoltare i propri studiosi.  Scienziati che conducono ricerche sulla biotecnologia, assistono membri del governo o svolgono mansioni amministrative presso la National Science Foundation (NSF) degli Stati Uniti. Unica apparente diversità l’arrivo a Washington dei Khembalis, dotti monaci buddisti che lavorano per l’ambasciata dell’immaginaria isola di Khembalung, quasi sommersa dalla risalita delle acque dell’oceano.
Mentre questi eroi ordinari e straordinari lottano per trovare una soluzione, il destino sta per dare una svolta al loro lavoro, portandoli inevitabilmente nell’occhio del ciclone. E quando la natura si ribella, l’illusione del controllo umano si dissolve. Le tempeste devastano la costa occidentale, il mare inghiotte la California, e la capitale americana pare affondare sotto una pioggia interminabile. Constitution Avenue diventa una laguna, il Lincoln Memorial un simbolo d’impotenza. È la silenziosa ma terribile vendetta di un pianeta stanco e umiliato.
Robinson costruisce un romanzo corale e intenso, in cui la tensione non nasce dall’azione ma dalla consapevolezza. Il vero conflitto è morale e intellettuale: la scienza chiede ascolto, la politica risponde con il silenzio. La prosa, rigorosa e realistica, restituisce l’asfissiante atmosfera di un mondo sull’orlo della rovina, in cui ogni personaggio rappresenta una sfumatura del nostro smarrimento. Non ci sono eroi, solo esseri umani alle prese con la complessità del proprio tempo, incapaci di ammettere che il cambiamento è già iniziato.
Quaranta segni di pioggia è molto più di un romanzo di fantascientifica interpretazione distopica di un prossimo possibile futuro: è una parabola sul potere, sulla responsabilità e sull’arroganza della specie umana. L’autore non concede sconti né scorciatoie emotive. Mostra una Washington immobile, popolata da burocrati, scienziati e senatori che oscillano tra l’indifferenza e la paura, incapaci di agire finché l’acqua non invade le strade. Robinson invita a guardare sotto la superficie, a capire che la vera minaccia non è la furia della natura ma la nostra cecità. Con il ritmo misurato della riflessione e la precisione di un saggio travestito da romanzo, l’autore disegna un affresco inquietante del presente.
Quaranta segni di pioggia probabilmente è il più intelligente romanzo catastrofico che avrete l’occasione di leggere… Il vero protagonista è la scienza. Robinson, uno dei più visionari scrittori di fantascienza americani, bravo e preparato nello spiegare le  sfaccettature della natura, dimostra tuttavia come quest’umana dottrina  un tempo rispettata sia costretta a inchinarsi al capitalismo. Insomma il suo pare l’ultimo invito a tirare fuori la testa dalla sabbia e affrontare la minaccia del cambiamento climatico.
La temuta catastrofe non è più una possibilità: è già qui, e ci coglie di sorpresa mentre discutiamo, ancora convinti di poterla controllare.

Kim Stanley Robinson è nato nel 1952 in Illinois e si è laureato in letteratura inglese con una tesi su Philip K. Dick. Appassionato di alpinismo, vive a Davis, in California. I suoi romanzi sono stati insigniti di prestigiosi riconoscimenti, tra cui il premio Nebula, il premio John Wood Campbell Memorial e il World Fantasy. Di questo autore Fanucci Editore ha pubblicato il romanzo New York 2140 e la serie della Trilogia di Marte, capolavoro della letteratura di fantascienza, composta dai romanzi Il rosso di Marte, Il verde di Marte e Il blu di Marte.

:: “Nel nome di Maria. ‘Il caso Castorina’ e ‘la Vergine Piangente’”(Edizioni Segno) di Tino La Spada, a cura di Daniela Distefano

5 novembre 2025 by

Mi è stato donato il pdf di questo libro introvabile, reperirne la copertina è stato faticoso, leggerlo al computer è stato fuori tempo, ma alla fine eccomi a raccontare la crema di un dolce squisitamente mistico.

Protagonista – come capita il più delle volte nelle cose che balzano dal Divino – è una donna umile, una mamma che parlava con Dio, con la Madonna, ignara di quello che sarebbe successo una volta scoperto questo filo che la legava al Cielo sospendendola sulla Terra.

Ma seguiamo il tracciato disegnato dall’autore, Tino La Spada, colui che l’ha conosciuta e dopo l’iniziale scetticismo è stato contagiato  dal suo male d’amore verso Maria Santissima e Gesù  Crocifisso.

Maria Sardella Castorina ha dedicato 15 anni della sua vita al prossimo. Nel febbraio del 1991, colpita da ictus cerebrale, dopo 12 giorni di coma, muore a Catania, all’età di 55 anni.

Grazie ai colloqui con la Madonna, ai messaggi celesti, alle  lacrimazioni di immagini sacre (immagini che dopo aver trasudato un misterioso liquido bianco avrebbero finito col piangere sangue davanti a testimoni di sicuro affidamento quali primari di ospedale, cardiologi, agenti di polizia, giornalisti, gente comune), grazie a tutto questo ella portò alla fede un numero indicibile di persone, col suo sorriso spontaneo che spesso nascondeva un inesprimibile dolore.

Senza mai sentirsi protagonista, la veggente visse con una vana, quanto sofferta speranza: quella di vedere riconosciuta la miracolosa guarigione che nel ’75 aveva strappato alla morte l’allora piccola figlia Tiziana.

Più volte, accanto al Pontefice (la veggente si recò in Vaticano in quattro diverse occasioni), sentì vicino il coronamento dei suoi sogni. Ma sebbene per lei parlassero i fatti, quelle speranze finirono per dissolversi nel nulla, lasciandole  una sensazione  di colpa che, di certo, non meritava. Pur vivendo tra migliaia di persone, Maria si sentiva spesso sola, incompresa. Quando la conobbe il giornalista La Spada, il suo interesse per lei era destinato a durare poco, ben presto riuscì ad essere conquistato dalla sua bontà e generosità, diventando per lei un fratello. Molti accettarono  con riluttanza la sua  raffinata sensitività, ma per quanto qualcuno potesse contestarla, il tempo che passava prima che una “previsione” trovasse attuazione pratica, non superava la settimana! La più grande profezia di Maria Castorina fu l’anticipazione dell’attentato che Giovanni Paolo II avrebbe subìto in piazza San Pietro il 13 maggio del 1981, un giorno da decenni dedicato alla Madonna di Fatima. Col passare del tempo, Maria ricevette altri doni divini quali la trance, la chiaroveggenza  o la misteriosa apparizione di croci sulla fronte e sul petto. In vita, poi fece di tutto per nascondere quelle che definiva “modeste qualità di guaritrice”. Ma è ormai sicuro che molti ammalati usufruirono di una qualità che la Sardella esercitò in gran segreto senza ricevere compensi.

Il quadro che fece gridare inizialmente al miracolo è un’icona lavorata a sbalzo dal professore bolognese Furgieri, che i coniugi Castorina decisero di acquistare a Venezia per adornare il capezzale della loro stanza da letto. La sua presenza, fu inizialmente notata per la raffinatezza dei lineamenti che componevano la figura della madre di Gesù. Ma quando il fenomeno ebbe inizio, la cosa che più delle altre sembrò interessare ai fedeli, furono le tracce di sangue che scendendo dagli occhi della Vergine segnavano di rosso gran parte della scultura lasciando come una crosta.  Dopo il clamore suscitato dalle prime lacrime, per un po’ di tempo, il quadro fu esposto alla venerazione.

“Il caso Castorina” non vuole creare una nuova martire. Ma che Maria fosse ormai cosciente del suo cammino, non c’era il minimo dubbio. “Quando misi piede nella cappella di via Salesiani 33 –confidò in seguito la mistica – capii subito cosa la Vergine mi stesse chiedendo, avevo pensato ad una grande costruzione, ma quello che la Madonna aveva permesso di edificare, era il tempio dello Spirito; il tempio di quello “Spirito Santo” che qualche volta m’aveva parlato quando ero in trance, inviandomi messaggi di eccezionale Luce Divina”. Questa <<casa>> è una casa dove ognuno potrà sempre trovare se stesso.

Appena trovava un po’ di respiro, il suo pensiero volava agli ammalati. “Molti di loro vorrebbero vedere la Madonnina -ripeteva – ma viste le sofferenze che quotidianamente sono costretti a subire, sono convinta che molti di loro la Vergine ce l’hanno nel cuore”.

“Credo ci sia ben poco da capire, quando si dice che dovremmo essere come loro per meritare l’aiuto di Dio. Chi soffre è sempre vicino alla Verità. Chi, invece, crede di essersi evoluto, non di rado, scopre di non aver capito niente”.

Concludo questa breve sintesi della storia di una donna straordinaria che ha aiutato Catania negli anni di svolta del suo cammino. Oggi Catania è un coacervo di colori lugubri, e a pagare il prezzo più alto di questa decadenza, sono, manco a dirlo, i ragazzi, i giovani. Si muore di droga e sesso, come e più di allora. Che fare? Forse sarebbe bello far conoscere loro la storia semplice e lineare di Maria Castorina.

<<Un giorno (si era nel periodo invernale del 1986), la veggente mi chiamò a casa dicendo che doveva parlarmi urgentemente… Tenuta fuori per diverso tempo, la droga era entrata e si era diffusa in pochi anni in tutta Catania. In prossimità della cappella si era verificato un evento straordinario… Quel posto era ritenuto un “covo” sicuro. Pertanto, una ragazza appartenente alla Catania-bene e il suo amico, avevano deciso di bucarsi proprio lì. Senonché una donna vestita proprio come la Vergine di via Nuovalucello, avvicinandosi alla ragazza esclamò: “Devi smettere. Così facendo andrai incontro alla morte”. La giovane, colpita da quella visione, rimase per qualche attimo in silienzio, ma quando riuscì a parlare, quella donna era andata via, sparendo vicino l’ingresso della piccola “abitazione” della Vergine>>.

La Santa Vergine Maria continua a piangere per noi, ma è segno che ci vuole salvi, che vuole salvare il mondo trasformato in ghiaccio sporco.

:: Visioni di cinema: La Tigre e il Dragone di Ang Lee (2000)

2 novembre 2025 by

La tigre e il dragone (Crouching Tiger, Hidden Dragon) di Ang Lee, vincitore di quattro Premi Oscar, tra cui Miglior film straniero, e acclamato quasi unanimemente dalla critica internazionale è un film che se vogliamo filtrò il meglio dell’immaginario del cinema orientale destinandolo forse specificatamente a un pubblico occidentale che in alcuni casi per la prima volta si accostava al “wuxia pian” quel genere che unisce combattimenti marziali, valori cavallereschi e dimensione trascendente e spirituale perlopiù taoista e buddista.

Un incontro di civiltà, prima di tutto, che portò ed elevò il genere wuxia a una dimensione universale e lirica, capace di attirare l’interesse anche di spettatori per cui quello non era il loro humus culturale, ma incuriositi dall’esotico fascino di quella civiltà si sono lasciti trasportare in una storia in cui il peso delle scelte morali guida le azioni e i sentimenti dei personaggi, sì eroi classici tradizionali ma anche esseri umani concreti con sentimenti, paure, aspirazioni appunto universali. Ang Lee riuscì a trasformare un’opera di avventura, con elementi fantastici, in una metafora del desiderio, dell’amore, della disciplina e della rinuncia, comprensibile a tutte le latitudini, e capace di trasmettere anche un senso di lirismo e poesia rari, tramite sia i dialoghi di una bellezza struggente, che gli scenari sia paesaggistici che d’interni.

Ispirato al romanzo “Crouching Tiger, Hidden Dragon” di Wang Dulu (1909–1977), uno scrittore cinese fino allora poco conosciuto in Occidente, il film di Ang Lee prende principalmente spunto da questo libro, ma adattandone molto liberamente la trama, ed enfatizzando alcuni temi filosofici e poetici più che aderire fedelmente al testo, in quel tentativo metanarrativo di universalizzazione di cui parlavamo prima.

Ambientato nella Cina del XIX secolo, durante la dinastia Qing, La tigre e il dragone narra le vicende di Li Mu Bai (Chow Yun-Fat) e Yu Shu Lien (Michelle Yeoh), due maestri d’arti marziali, legati da un profondo sentimento d’amore che per un senso del dovere e un’adesione a un codice morale superiore non possono vivere, perché Shu Lien era la promessa del defunto fratello d’armi di Mu Bai.

Li Mu Bai stanco dei combattimenti e in cerca di una via di pace che lo porti all’illuminazione decide di consegnare la sua leggendaria spada il “Destino Verde” a Yu Shu Lien perché la consegni al Signor Tie. Il furto della spada dà inizio a tutta la vicenda e porta i protagonisti sulle tracce della giovane Jen (Zhang Ziyi), una fanciulla di nobili origini che sogna la libertà e la vita di combattimenti dei guerrieri erranti, ma che si ritrova intrappolata tra le severe regole del suo clan e il richiamo della propria natura ribelle.

Il film è visivamente grandioso ed emozionante non solo per le scene di combattimenti sospese tra i tetti, e gli alberi, coreografate con grazia come scene di danza, ma soprattutto per il suo valore filosofico e morale al di là delle aspirazioni terrene. La fotografia di Peter Pau, premiata con l’Oscar e le musiche di Tan Dun (da segnalare il violoncello di Yo-yo Ma) rendono poi il film un’esperienza sensoriale di rara bellezza. Da vedere e rivedere, magari perderà la magia della prima visione ma sarà sempre un’esperienza gradevole. Buona visione.

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:: Un’intervista con Marina Visentin, autrice di A mani nude, a cura di Giulietta Iannone

1 novembre 2025 by

Bentornata, Marina, su Liberi di scrivere e grazie di averci concesso questa nuova intervista. Dopo Aurora, sei tornata a un tuo personaggio seriale, Giulia Ferro, di cui hai già pubblicato Cuore di rabbia e Gli occhi della notte, con SEM. A mani nude è il terzo episodio della serie che esce con Laurana editore, nella collana Calibro 9. Come è cresciuto il personaggio di Giulia? Sta facendo pace con il passato e con la figura del padre? C’è meno rabbia in lei, un’apertura verso una riconciliazione?

Sì, il personaggio di Giulia è certamente cresciuto, è cambiato, pur mantenendo ovviamente i tratti fondamentali della sua personalità. Ha cominciato a fare i conti col proprio passato e a esplorare, in qualche misura, la possibilità del perdono, nei riguardi degli altri – di chi le ha fatto del male – e soprattutto di se stessa.

Un percorso, un cambiamento che io avevo in mente fin dall’inizio. Perché Cuore di rabbia, Gli occhi della notte e adesso questo terzo episodio, A mani nude, nella mia testa sono nati tutti insieme alcuni anni fa. Poi ognuno di questi libri ha avuto bisogno del suo tempo di incubazione, naturalmente, e ognuno racconta una storia specifica, che ha un suo inizio, un suo svolgimento e una conclusione. Però ogni nuova indagine per Giulia Ferro vuol dire in qualche modo indagare anche su se stessa, sul proprio passato, sulla propria vita, sul senso da dare alle cose. Quindi, al di là dei singoli delitti su cui di volta in volta si appunta l’attenzione della nostra vicequestora e quindi del lettore, quello che viene raccontato nei tre libri è anche la storia di Giulia Ferro: una donna segnata da un passato molto complicato, che l’ha resa da una parte estremamente forte, abile nel suo lavoro, molto rispettata, forse anche un pizzico cinica, e dall’altra un’anima ferita che non riesce a trovare pace perché le ferite, i dolori, le sofferenze che hanno costellato la sua vita fin dalla prima infanzia sono ancora impressi nella sua carne, nel suo animo, come cicatrici che non si lasciano semplicemente cancellare con un colpo di spugna.

Gli anni di piombo, la lotta armata rivoluzionaria, il periodo delle stragi, sono una ferita ancora aperta della storia italiana, con cui forse non si è ancora venuti a patti. C’è stato come una sorta di oblio, quasi si facesse fatica a metabolizzare quel periodo. Perché hai scelto di parlarne nei tuoi libri e hai scelto un passato così ingombrante per la tua protagonista? Questo conflitto generazionale ti serviva anche per raccontare una pagina così tragica della nostra storia con più partecipazione emotiva?

Gli anni di piombo erano già presenti nel primo romanzo della serie, anche se là si trattava soltanto di un accenno. Quando ho immaginato la mia protagonista, ho avuto bisogno di immaginarla tutta intera, con tutte le caratteristiche, gli elementi, i dettagli della sua vita, anche quelli che nel primo romanzo non sarei riuscita a sviluppare. Però io avevo bisogno di averli già in mente tutti, di avere in mente tutta la sua storia, il suo passato, la storia della sua famiglia. Una storia pesante, proprio perché figlia di quell’epoca, dei drammi, delle ombre, delle contraddizioni di quel periodo storico. Un passato ingombrante, certo, e la protagonista ha bisogno di rielaborarlo, di affrontarlo e può farlo solo riprendendo i contatti con suo padre, affrontando quel conflitto che per molti anni è rimasto sepolto come fuoco sotto la cenere.  Posso aggiungere che questi argomenti non sono emersi casualmente in questi miei ultimi libri: sono temi per me importanti e sono anni che ci dedico tempo, leggendo e approfondendo. Si tratta di pagine drammatiche della nostra storia, come tu giustamente dici, ed è qualcosa di cui bisogna continuare a parlare. Perché noi tutti siamo in qualche modo figli di quell’epoca, di quel sogno rivoluzionario spesso tragicamente scivolato nell’incubo degli anni di piombo.

Ci sono spunti autobiografici, o storie che hai sentito raccontare che ti hanno influenzata?

No, di spunti autobiografici non ce ne sono in questo romanzo, e non ho nemmeno ricostruito casi o vicende particolari di quegli anni, però ho studiato in modo approfondito quel periodo storico e, per chi lo conosce, non sarà difficile ritrovare tutta una serie di dettagli storici specifici, dal rapimento di Carlo Saronio alla sparatoria alla cascina Spiotta durante il sequestro Gancia, giusto per fare due esempi concreti. Come dicevo, è un tema che da un punto di vista soprattutto etico mi interpella molto, quello della lotta armata, sono anni che ci dedico letture e riflessioni.

C’era chi ci credeva, e chi ha cavalcato l’onda per motivi che esulavano dagli ideali, e dalla fede politica. Senza entrare troppo nei dettagli della trama, come hai affrontato questo divario?

Mettendo in scena personaggi diversi, che hanno seguito a volte traiettorie esistenziali radicalmente diverse, pur avendo magari iniziato da giovani nello stesso identico modo. Anche qui non ho ricostruito specifiche parabole esistenziali, ma ho pescato qua e là elementi veri, storie reali e le ho cucite insieme immaginando personaggi che potessero rappresentare le diverse sfumature della cosiddetta militanza. Sfumature a volte anche radicalmente opposte, tra afflato ideale e mero opportunismo, assoluta onesta morale e bieca malafede.

Quanto c’è di Milano reale e quanto di immaginario nella rappresentazione dei suoi quartieri? Come hai scoperto l’utilizzo delle vie d’acqua per portare i marmi con cui è stato costruito il Duomo? Come scegli i dettagli storici da inserire senza appesantire la narrazione?

La Milano che racconto nei miei libri è assolutamente reale, sia la Milano di oggi sia la Milano del passato. Quindi la storia di Milano, l’utilizzo delle vie d’acqua per portare i marmi con cui è stato costruito il Duomo, è una notizia storica, come lo sono tutti gli altri dettagli che ho inserito dentro la narrazione, sia parlando dei navigli, sia parlando del cimitero monumentale, sia descrivendo altri scorci, altri quartieri, altre vie, piazze e palazzi di Milano. Io amo molto descrivere Milano e cerco di essere sempre molto precisa e documentata. Poi è chiaro che qualche libertà bisogna a volte prendersela. Faccio un esempio: al cimitero monumentale tutto quello che ci ho messo dentro, che trovate nelle pagine del mio libro, è assolutamente vero, reale, non ho inventato nulla. Però ho giocato un po’ con la topografia, spostando alcune tombe, collocandole più vicine di quello che sono nella realtà, semplicemente per riuscire a dare un’idea dell’atmosfera con un rapido colpo d’occhio, in modo che anche il lettore che non conosce il cimitero monumentale di Milano, perché non ci ha mai messo piede, sia in grado di cogliere le caratteristiche essenziali di questo museo a cielo aperto che in qualche modo si presenta come una città nella città. In generale, tutti i dettagli storici che si trovano nei miei libri e che riguardano Milano sono assolutamente realistici e autentici. Ma la scelta di utilizzare un’immagine invece che un’altra, di raccontare uno specifico aneddoto, di mettere in primo piano un dettaglio e magari un po’ in ombra un altro, non ha a che fare con il realismo ma con precise scelte narrative. Sono scelte chiaramente funzionali al racconto, al fatto di esaltare un certo tipo di atmosfera invece che un’altra. Insomma, come sempre nei miei romanzi, anche in questa terza avventura di Giulia Ferro la realtà si mescola con l’immaginazione.

Sei un’esperta di cinema, ci sono film che ti hanno influenzata nella stesura di questo romanzo? Sarebbe bello anche un parallelo tra la tua Milano e la Milano scerbanenchiana di Venere Privata (penso al film del 1970 diretto da Yves Boisset).

Sì, mi occupo di cinema da tanti anni e sicuramente la mia abitudine a consumare immagini in movimento influenza il mio modo di scrivere, e quindi ha influenzato questo romanzo come tutti gli altri romanzi e racconti che ho scritto nella mia vita. In specifico, devo dire che no, per quanto io apprezzi tantissimo i romanzi di Scerbanenco, non mi riconosco tanto in quel tipo di immaginario. Piuttosto, proprio nel periodo in cui stavo più o meno completando la stesura di A mani nude, ho riletto i romanzi di un altro autore milanese, che amo molto: Renato Olivieri. E ho deciso di rendergli omaggio ambientando una parte del mio romanzo esattamente in quella Milano borghese e sorniona tra via Bianca di Savoia, via Anelli e via Beatrice d’Este che fa da sfondo a Maledetto Ferragosto, un romanzo del 1980 che vede protagonista il commissario Ambrosio (portato al cinema da Ugo Tognazzi ne I giorni del commissario Ambrosio di Sergio Corbucci).

Tra tutti i personaggi secondari, c’è qualcuno che ti ha emozionato o divertito particolarmente mentre scrivevi? A me è piaciuto molto Vitalo (ma anche la sua ex, madre di suo figlio) e Alfio Russo.

Alfio Russo ormai non lo definirei più neanche un personaggio secondario. Certo, viene dopo rispetto alla protagonista, Giulia Ferro, ma è talmente presente da essere indispensabile.  E sì, parlare di Alfio Russo, immaginare i dialoghi fra lui e Giulia Ferro è sempre emozionante, sempre molto divertente. Parlando in specifico di A mani nude, forse è il personaggio di Vitalo quello che più mi ha coinvolto. Vitalo è un vecchio amico del padre di Giulia Ferro e, come Rino Ferro, ha avuto un passato nella lotta armata, anche se non ha ucciso nessuno, però ha creduto, almeno in quel particolare periodo della sua vita, che attraverso la violenza sarebbe stato possibile un cambiamento della società, un cambiamento positivo. Ha creduto nella possibilità di una rivoluzione in grado di eliminare le tante intollerabili ingiustizie che allora, come oggi, contraddistinguono la realtà che ci circonda. Vitalo è una persona che ha fatto tanti errori nella sua vita, ma è sempre rimasto un idealista, una persona estremamente buona, incapace di voltarsi dall’altra parte quando vede un’ingiustizia. Una caratteristica che finisce col metterlo nei guai, per l’ennesima volta della sua vita. Proprio questa ambiguità, questa doppia valenza – intenzioni buonissime che però possono dare adito a errori dalle conseguenze tragiche – era quello che mi interessava raccontare quando ho deciso di mettere in scena il personaggio di Vitalo.

Pensi che il noir possa essere uno strumento efficace per raccontare la memoria storica?

Sì, certo, il noir è uno strumento estremamente efficace per descrivere il mondo, la realtà che oggi ci circonda, ma anche il mondo da cui veniamo, la storia da cui proveniamo. Un delitto è in qualche modo una lente di ingrandimento che ci permette di vedere meglio tutto ciò che c’è intorno. Per questo un’indagine è sempre anche un modo per scavare nelle ombre, esplorare gli angoli non immediatamente visibili, scoprire ciò che a un primo sguardo può non essere evidente. E questo vale a maggior ragione se parliamo del passato, e quindi della memoria storica. Io credo tantissimo nell’importanza di coltivare la memoria, preservarla, rispettarla. Tenendo conto che senza memoria, sia come singoli individui, sia come società, rischiamo di perdere la nostra identità.

Quanto lavoro richiede la costruzione dei dettagli investigativi e procedurali nel romanzo? Ti sei avvalsa della consulenza di veri vicequestori, giudici, semplici poliziotti?

Sì, io cerco sempre di documentarmi il più possibile, ogni volta che scrivo un libro, anche “interrogando” amici poliziotti, giudici e avvocati. Però è vero che – e questo me lo ha detto un amico scrittore, ex poliziotto ormai in pensione – se tu metti in un libro un’indagine esattamente così com’è nella realtà, il rischio è che sia noiosissima. Nel momento in cui un’indagine la descrivi in un romanzo, devi per forza reinventarla, rimontarla, raccontarla tradendo in qualche modo la realtà. Però questo non deve voler dire tradire la fiducia del lettore. Insomma, se da una parte è giusto e sacrosanto prendersi delle libertà, perché sennò probabilmente il risultato sarebbe veramente indigesto per chi legge, al tempo stesso non si può neanche prendere in giro il lettore. Io non amo particolarmente, neanche da lettrice, le descrizioni dettagliate di autopsie e in generale vedere l’indagine dal punto di vista della polizia scientifica, quindi questo è un tipo di dettaglio che nei miei romanzi c’è abbastanza poco. Preferisco ragionare sui moventi dei personaggi, approfondire le psicologie, piuttosto che occuparmi di intercettazioni, impronte, balistica o esami del DNA. Tuttavia, se ho bisogno di inserire dettagli di questo genere, naturalmente faccio in modo che siano il più possibile realistici. E controllo tutto ricorrendo al parere di qualche esperto, tutte le volte che è necessario.

Hai mai pensato di scrivere un prequel su uno dei personaggi “del passato” degli anni Settanta? Magari proprio una storia incentrata sul padre di Giulia?

Sinceramente, più che a un prequel avrei pensato a uno spin-off, perché una delle cose che ogni tanto mi viene voglia di fare è prendere Alfio Russo e trasformarlo a tutti gli effetti nel protagonista di una storia. Certo, anche un romanzo incentrato sul padre di Giulia potrebbe essere estremamente interessante, però non lo so, sono ancora molto in dubbio. Quando ho iniziato a scrivere Cuore di rabbia avevo già in mente l’intera trilogia, sapevo già dove volevo arrivare, avevo in mente tutto il percorso che avrebbe dovuto fare il mio personaggio. E avevo anche preso in considerazione che questo fosse l’ultimo romanzo e la storia di Giulia Ferro finisse qui. Adesso sono un po’ incerta. In realtà in questo momento non mi sento pronta ad abbandonare questo personaggio e quindi vorrei continuare, esattamente in quale direzione è proprio il dibattito che ferve in questo momento nella mia officina di scrittrice.

:: Visioni di cinema: Zì Yú Zì Lè (Master of Everything / Bamboo Shoot, 2004) di Li Xin

31 ottobre 2025 by

Oggi voglio parlarvi di un delizioso film cinese indipendente, e a basso budget, dal titolo Zì Yú Zì Lè, (titolo internazionale: Master of Everything / Bamboo Shoot) del regista Li Xin, scritto da Sara Chen Yan e uscito nel 2004 in Cina.

Sebbene non sia una produzione mega hollywoodiana, si avvale tuttavia di seri e stimati professionisti, tra cui il direttore della fotografia, Wong Yue-tai, è un grande nome nell’industria della fotografia di Hong Kong, avendo vinto cinque Golden Horse Awards e cinque Hong Kong Film Awards e il compositore, Hummie Mann, è un compositore canadese che ha vinto due Emmy Awards, che contribuisce con sensibilità a creare un’atmosfera sospesa tra poesia e realismo.

Percepito come strano, bizzarro, troppo onirico (divertente la scena nel bosco di bambù, che cita o fa la parodia di una scena analoga ne La Tigre e il Dragone) ha subito una certa critica istituzionale negativa, pur essendo invece quasi inaspettatamente premiato al botteghino già dalle prime settimane di uscita con un crescente successo di pubblico nonostante il tono sperimentale lo rendeva un po’fuori dal mainstream commerciale dominante. Tuttavia, il film è stato nominato per il miglior lungometraggio cinese al Golden Deer Award per l’innovazione tecnologica e per la migliore interpretazione femminile al 7° Changchun Film Festival. Oltre che candidato al Chinese Film Media Award sia per la migliore protagonista, che per la migliore coprotagonista.

Dirvi che mi è piaciuto è poco, è poetico, delicato, divertente, a tratti commovente, e penso sinceramente possa interessare anche a un pubblico occidentale, sebbene credo sia circolato quasi esclusivamente nel mercato cinese, o perlomeno asiatico. Non di facile reperimento qui da noi, non credo ci sia nelle piattaforme principali di streaming doppiato in italiano, ma dato il doppio titolo internazionale penso che almeno nelle intensioni era pensato anche per il mercato internazionale, in inglese. Anche se attualmente non è disponibile per lo streaming neanche negli Stati Uniti, ma era disponibile su Amazon Video fino almeno al settembre 2015. La mancanza di una campagna promozionale internazionale o accordi di distribuzione può aver limitato la sua “uscita” fuori Cina.

Se vogliamo riprende la storia di Pigmalione, o meglio una versione rurale cinese di My Fair Lady, ma lo fa con tale delicatezza e originalità da risultare un piccolo gioiello da riscoprire.

Debutto cinematografico della cantante Coco Lee, che si impegnò davvero molto, e duramente, studiando privatamente e pagando di tasca sua insegnanti di recitazione e di dizione, e arrivando a girare le scene di azione senza controfigura, facendosi anche male, e questo si trasmette nella freschezza e spontaneità del personaggio, arricchendolo e valorizzandolo, il film si avvale anche della partecipazione straordinaria di John Lone, il protagonista maschile del film, star internazionale di prima grandezza anche se qui a fine carriera, che tornò nella Cina continentale appositamente per girare questo film per la prima volta dai tempi dell’”Ultimo Imperatore”, forse per aiutare proprio la talentuosa e amica Coco Lee nel suo lancio cinematografico,  per una volta in una parte romantica, ed bravissimo in questo ruolo di innamorato un po’ attempato. Ma è all’altezza tutto il cast tra attori professionisti e amatoriali, o semplici comparse.

È un film corale: tutto il villaggio cinese in cui è ambientato è protagonista, anche se resta una storia d’amore, in realtà, non solo sentimentale ma anche per il cinema in sé. Ah, dimenticavo è tratto da una storia vera, quella di Zhou Yuanqiang, il capo della stazione culturale nella città di Jingcheng, Jingdezhen, provincia di Jiangxi.  

Veniamo alla trama: in un pittoresco villaggio di montagna della Cina meridionale, dove la troupe visse per due mesi, di una bellezza paesaggistica stupenda, lo scapolo Mi Jihong (John Lone) si innamora di Luhua (Coco Lee) la bellissima figlia del capo villaggio (un dolcissimo Tseng Chang) e amica intima di sua sorella Alian (Tao Hong). Timido, introverso, ingenuo, anche preoccupato per la differenza di età Mi Jihong fatica a confessare i suoi veri sentimenti, ma quando Luhua, che ama esibirsi sul palco per gli abitanti del villaggio e sogna un futuro nel mondo dello spettacolo, viene scartata in modo abbastanza cattivo dopo un provino per un film, Mi Jihong incapace di sopportare la sua tristezza compra una videocamera digitale e propone alla ragazza di recitare da protagonista in un dramma amatoriale di arti marziali, “L’eroina di Guanzhong”, usando mezzi rudimentali e tanta fantasia, per realizzare il suo sogno di diventare una star.

Mi Jihong, sempre per amore, assume i ruoli di regista e direttore della fotografia, chiede al proprietario del ristorante del villaggio di investire nel film, e recluta il falegname del villaggio come sceneggiatore e attrezzista.

Da qui in poi il film racconta come il film viene girato dalla scelta del cast alla realizzazione vera e propria di tutte le scene, fino al successo finale e all’attenzione che gli riservano i media nazionali.  Anche i due corteggiatori di Alian, Wang Shengli (Xia Yu) e Wang Ergou (An Hanjin), si uniscono alla troupe, dando un tocco di comicità alla storia. Lieto fine assicurato con Mi Jihong e Luhua finalmente sposi dopo il buffo tentativo del padre di lei di cercargli un marito della sua età.

Il film esplora vari temi: il cinema o l’arte in genere come forma di riscatto e di crescita, l’importanza e la forza della comunità e della solidarietà che anche con basso budget e produzioni limitate riesce a fare un prodotto artistico di pregio, il contrasto tra vita rurale semplice e il mondo dello spettacolo visto come irraggiungibile, il tono che mescola commedia e comicità a temi più seri come la forza del sogno e il confronto con la realtà.

Il film si fa notare per una certa originalità e sincerità di intenti, il fatto che il soggetto è preso da una storia vera è ben caratterizzato ed espresso, poi per l’ottima interpretazione degli attori, ci sono momenti davvero toccanti e pieni di grazia, e pure Coco Lee pur non essendo ancora un’attrice professionista è adorabile e perfetta nel ruolo.

Infine, forse questo è il fulcro del film: lo spirito meta-cinematografico, perché in fondo il film è un film sul fare un film, e lo fa con grazia e leggerezza senza appesantire o annoiare, né voler essere didascalico o saccente o peggio grottesco. Si riflette insomma sul mezzo cinema, sui sogni e le aspirazioni dei singoli attori e sulle difficoltà che si incontrano quando si passa dal sogno alla realizzazione filmica, ovvero alla realtà.

Nel complesso un film umile ma con un grande cuore e buone intenzioni onestamente mantenute. Un film meritevole, infine, per chi è interessato a un cinema prodotto dal basso, poco noto, fuori dai grandi circuiti, ma di grande valore. Con l’augurio che riprenda a circolare anche in occidente, o doppiato o perlomeno con i sottotitoli in inglese, se non in italiano. 

:: Le vie delle guerre di Andrea Santangelo (Il Mulino Bologna, 2025) a cura di Valerio Calzolaio

30 ottobre 2025 by

Europa. Dal principio e ancora in corso. L’Europa ha una storia piena di guerre e conflitti che ne hanno plasmato non solo le vicende istituzionali e sociali, ma anche i rapporti con il mondo; non solo la politica e l’economia, ma anche l’arte, la letteratura, la filosofia, l’urbanistica. Molte nazioni europee hanno, inoltre, un passato coloniale e imperiale che le ha viste esportare armi e violenza in ogni angolo del pianeta. La guerra è stata “fedele compagna” degli europei per millenni. Dalla nascita delle fonti scritte, cioè più o meno da 5.500 (cinquemilacinquecento anni), si calcolano circa 14.700 guerre. E tutti gli abitanti del Vecchio Continente, nelle varie epoche, l’hanno vissuta sulla propria pelle, sin dalla più tenera età. Non esiste frazione, villaggio, vico o borgo europeo che nella sua storia non conti almeno un fatto d’armi e martiri da piangere. Non c’è città o centro urbano, insediamento produttivo, convento o luogo di culto che per cause belliche non sia stato distrutto o danneggiato, poi ricostruito, almeno una volta. Gli scontri sul suolo europeo tra eserciti contrapposti (talvolta con la presenza di, o contro, individui e fazioni di civili armati) tendono a ripetersi con una sconcertante regolarità in ecosistemi strategicamente importanti, che spesso sono conosciuti anche come posti ospitali e paesaggisticamente molto belli, devastati da innumerevoli invasori aggressivi o da forze militari, certo da quando abbiamo memorie scritte e, ancor prima, da quanto attestano le fonti archeologiche: la Francia del Nord (comprensiva dell’attuale Belgio), la valle del Po in Italia, le pianure della Germania centro-meridionale … pure gli agglomerati urbani come per esempio Catania, Lubiana, Famagosta, Helsinki … quasi ovunque esistono molteplici tracce stratificate (non in pace) di popoli e civiltà successive (stili architettonici, toponomastica, odonomastica) ed esistono, dunque, tantissime vie delle guerre nella nostra Europa (da cui il titolo).

L’archeologo e storico militare Andrea Santangelo (Torino, 1970) è stato a lungo docente universitario di letteratura angloamericana e da decenni è un grande storico della letteratura di viaggio. Questo colto documentato testo fa parte di una bella fortunata collana editoriale (Ritrovare l’Europa), che esamina alcune vie europee indispensabili a conoscerci meglio, dalle monete alle capitali gotiche, dalle città romane ora alle guerre: strade e ponti, mura e fortificazioni, castelli e valli. Dopo l’introduzione sull’identità e sulla preistoria del Vecchio Continente, l’autore ci guida attraverso sette itinerari (capitoli, ciascuno di decine di pagine) in un percorso storico e cronologico: Dalla Scozia al Mar Nero, sulle tracce del limes romano (spesso montano); Da al Andalus a Balarmuth, le vie delle guerre arabe (pure in Spagna e Sicilia); Con la “fortificazione alla moderna” l’Italia conquista l’Europa (armi da fuoco a Sassocorvaro, Anversa, Ancona, Villefranche-sur-Meuse, Acaya, Terra del Sole, Palmanova, Pavia, Malta e via sparando); Nord sud ovest est, le vie delle guerre europee del XVIII secolo (fra l’altro Narva, Bonn, Guastalla); Da Valmy a Waterloo, le vie delle guerre di Napoleone (e della sua Grande Armata); Da Ypres all’Isonzo, le vie della Prima guerra mondiale; Urbicidi premeditati, le vie della Seconda guerra mondiale (fra l’altro Varsavia, Belgrado, Londra, Coventry, Lubecca, Amburgo, Dresda, Rimini). Nessuno, una decina di anni fa, avrebbe scommesso un centesimo sul ritorno al combattimento nelle trincee come invece sta accadendo sul fronte russo-ucraino. La brace (militare) sta aspettando il suo momento per ardere ancora. Purtroppo. Tutte queste “vie” hanno allora forse un futuro e sono in parte, ormai e comunque, anche attrazioni turistiche. In fondo troviamo una pertinente breve nota bibliografica, ma non un indice di nomi e luoghi.

:: Visioni di cinema: Lussuria- seduzione e tradimento di Ang Lee (2007)

29 ottobre 2025 by

Premiato con il Leone d’oro alla 64ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel 2007 Lussuria- seduzione e tradimento (titolo originale Lust, Caution) di Ang Lee è un film decisamente atipico e per certi versi controverso del celebre regista taiwanese che con questo film bissò la conquista del Leone d’oro. Il primo lo vinse infatti per Brokeback Mountain, a suo modo controverso anche questo, se vogliamo per motivi opposti.

Se devo esprimere un parere spassionato sicuramente il mio suo film preferito resta La Tigre e il Dragone, e magari nei prossimi giorni tornerò a parlarne, ma anche Lussuria- seduzione e tradimento ha i suoi pregi sebbene ve lo dica subito le scene di nudo integrale e sesso esplicito e anche un po’ violento non è che mi abbiano fatto impazzire troppo, anche se ammetto nell’economia del film certo hanno un loro perché, anche solo per mettere a disagio lo spettatore, ovvero farlo vacillare dal suo piedistallo di confort e anche i critici più severi hanno notato che un certo impatto visivo e naturalistico ce l’hanno.

La commissione episcopale italiana lo giudica scabroso, ricorda che è vietato ai minori di tredici anni, e invita a fare somma attenzione nel caso lo programmino e ci siano bambini in giro (non credo ci capirebbero niente, ma meglio essere prudenti). Negli Stati Uniti ci sono andati più pesante vietandolo ai minori di 17 anni, in Cina continentale hanno addirittura tagliato le scene incriminate di circa 7 minuti e per un po’ hanno anche penalizzato l’attrice protagonista, ma si sa in Cina la censura è piuttosto restrittiva non solo per le scene di sesso, e Ang Lee è un cinese di Taiwan, con forti radici negli Stati Uniti e una possibilità di diffusione internazionale che gli ha permesso di seguire il suo estro creativo senza farsi influenzare troppo dalle limitazioni.

Bene detto questo torniamo al film e valutiamolo come opera artistica slegata da valutazioni troppo moralistiche, che forse faranno sorridere alcuni e indispettire altri, ma ripeto alcuni spettatori sensibili potrebbero rimanere turbati da alcune scene per cui ve lo segnalo.

Partendo dalla trama il film è ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale in Cina, prima a Hong Kong poi a Shanghai. L’occupazione giapponese è feroce e i collaborazionisti sono oggetto di attentati da parte della resistenza cinese, argomento ancora non troppo trattato da cinema, televisione o letteratura, e questo film mi stavo dimenticando di dirlo è tratto proprio da un libro di Eileen Chang dall’omonimo titolo (edito in Italia da Rizzoli, a chi interessasse). E su Wikipedia addirittura ho letto che la storia è ispirata a persone realmente esistite. Ammetto il film può anche non piacere, ma se ha un pregio è quello di farvi conoscere Eileen Chang.  

Dunque, la giovane Wong Chia Chi (un incantevole Tang Wei) entra a far parte di un gruppo di attivisti che complotta per assassinare un importante collaborazionista cinese del governo fantaccio giapponese, Mr Yee (Tony Leung Chiu-wai). Per farlo utilizza le sue doti di attrice amatoriale e si trasforma nella sofisticata signora Mak, moglie di un ricco uomo d’affari, e usa il proprio fascino per sedurlo.

Ma succede l’imprevisto, questo amore diventa per entrambi reale in una spirale di ambiguità emotiva e morale.

Non cercate in questa recensione il finale, non ve lo svelerò, non solo per evitarvi uno spoiler forse non troppo gradito, ma soprattutto perché sebbene un finale netto ci sia, molto è lasciato alle riflessioni dello spettatore. Per alcuni alla fine si amano entrambi, per altri quella che ama è solo lei, per altri ancora il loro rapporto è troppo torbido e malato per poterlo definire amore. Io sono del primo partito ma ripeto ogni spettatore si farà la propria idea personale.

Forse è il film più complesso di Ang Lee, e quello in cui ha osato di più, spingendo anche gli attori a fare un profondo lavoro su sé stessi e non si capisce dove recitano, e dove le reazioni sono naturali. Naturalmente le scene di sesso non sono pornografiche, è tutto frutto di recitazione ma la chimica tra i due attori è indubbia, e sguardi, silenzi, paure passano attraverso la postura dei corpi o dalla intonazione della voce e si trasmettono agli spettatori in sala. Io non l’ho visto al cinema, ne ho comprato il DVD così ho potuto vederlo sia doppiato che in lingua originale, e questo aiuta molto per notare queste sfumature.

La messa in scena è poi di un’eleganza impeccabile, le scenografie sono suntuose, forse anche troppo laccate, ogni dettaglio è carico sia di sensualità che di drammaticità. E l’ossatura di dramma politico resta in filigrana e arricchisce il film di un substrato idealistico e morale che invita alla riflessione e alla valutazione attenta, anche storica. Dove ci si può spingere per difendere un ideale anche in un contesto di guerra dove la violenza è diffusa? E soprattutto spesso i sentimenti sparigliano le carte e si inseriscono in dinamiche di manipolazione e di controllo, sfuggendo del tutto di mano.

Ang Lee studia questo, svela le maschere che spesso ci mettiamo e che cadono davanti alla comunione di due corpi che nell’intimità trovano una sincerità al di la delle loro singole volontà. Entrambi i personaggi sono imprigionati in una gabbia di solitudine, lui prigioniero del ruolo di potere che incarna, lei abbandonata dal padre senza legami affettivi forti, svela una grande fragilità emotiva e psicologica.  

Tang Wei è una rivelazione: vulnerabile e determinata, riesce a incarnare la metamorfosi di una donna che si perde nel ruolo che interpreta. Tony Leung, come sempre magnetico, dà vita a un uomo insieme crudele e fragile, vittima e carnefice. La loro chimica sullo schermo è palpabile e dolorosa, e fa da fulcro emotivo all’intero film. Da segnalare Joan Chen nel ruolo della moglie di Mr Yee.

Lussuria – Seduzione e tradimento è un film sofisticato, elegante, esteticamente impeccabile e per certi versi anche inquietante. Non concede facili emozioni, ma premia lo spettatore paziente con una storia densa di ambiguità e dolore. Un dignitoso esempio di sensualità, tutta orientale, e controllo, molto occidentale, che conferma, a mio avviso, Ang Lee come uno dei registi asiatici più versatili e coraggiosi della sua generazione.

:: Se tu non ridi più di Barbara Perna, (Bompiani 2025) a cura di Patrizia Debicke

29 ottobre 2025 by

C’è una Napoli che non dorme mai. Brilla di luce ingannevole sulle terrazze di Posillipo, ma nasconde in sé un dolore antico, talvolta quasi insopportabile. È in questa città contraddittoria, bellissima e crudele ma viva, che Barbara Perna ha ambientato Se tu non ridi più, il suo nuovo romanzo: un giallo che supera i confini del genere per trasformarsi in espressione dell’animo umano e, al tempo stesso, in una storia di colpa, amore e redenzione.
La vicenda prende il via da uno sconvolgente delitto ai danni di un’esponente della Napoli bene. Una bella e giovane donna, Serena Acton Bauer, viene rinvenuta cadavere nel Parco della Rimembranza, barbaramente soffocata con un sacco di plastica. Un gesto brutale, feroce e apparentemente inspiegabile.
A invocare giustizia e verità sarà una famiglia di grande peso, produttrice di una pasta rinomata e presente sulle tavole di mezza Italia. Ma dietro la misurata eleganza dei palazzi e il perbenismo di famiglie ancora condizionate da antiche tradizioni, si celano passioni inconfessabili e realtà oscure che nessuno osa davvero guardare in faccia.
A essere chiamata in causa sarà Amalia Carotenuto, detta Lia: un tempo uno dei migliori avvocati penalisti della città, oggi una donna affranta, soverchiata dal peso di un lutto e da un senso di colpa che non conoscono tregua. “Non sono più un avvocato”, ripete a tutti come un ritornello difensivo, quasi volesse proteggersi anche da se stessa. Da tre anni, infatti, ha lasciato le aule dei tribunali per insegnare diritto penale al Suor Orsola Benincasa, perché il quotidiano contatto con la legge non le offre più certezze, ma soltanto rimorsi. Tuttavia, quando l’impetuosa e carissima amica di sempre, Cetta Caracciolo, attrice mancata, pittrice per passione, figlia di una napoletanissima principessa che riempie la scena come una sovrana, le chiederà di far luce su quell’omicidio, Lia non saprà dire di no.
Richiamato in campo l’aiutante di un tempo, il fedele Picchio Malatesta, investigatore privato per vocazione e quasi suo personale segugio, oggi riciclatosi come tassista, Lia sarà costretta a confrontarsi con un’indagine che non rappresenterà soltanto un faticoso viaggio verso la verità di un orrendo crimine, ma anche un doloroso ritorno dentro di sé. Ogni indizio sembra condurre a un nuovo enigma, mentre ogni pista rischia di riaprire una ferita. Eppure, tra i tè, le colazioni e le chiacchiere dell’aristocrazia napoletana, le mura di Poggioreale e le aule universitarie, Lia dovrà affrontare i propri demoni per scoprire se la giustizia possa davvero ricucire gli strappi della sua anima.
Barbara Perna, magistrata e romanziera di grande sensibilità, scrive un’opera in cui la consueta ironia si intreccia con una profonda e a tratti sconvolgente intensità. Se tu non ridi più mette in risalto una tensione che nasce non tanto dall’indagine quanto dalle intime crepe dei personaggi. Napoli ne è il cardine più significativo: una città che osserva e giudica, che accoglie e respinge. Dalle sontuose dimore di Posillipo, dove il lusso si trasforma in corazza, al carcere di Poggioreale, dove l’umanità è ridotta all’essenziale, ogni luogo descritto racconta una parte della storia.
La scrittura della Perna è viva e palpabile: si percepisce nel profumo di pasta e patate che invade la cucina di Lia, nel chiassoso brusio dei vicoli, nelle voci sospese tra una battuta in dialetto e un pensiero doloroso. I dialoghi sono efficaci, capaci di restituire la musicalità partenopea e la sua naturale ironia. La prosa, brillante quando serve ad alleggerire, diventa tagliente quando affonda nel cuore della tragedia. Ottima la costruzione psicologica dei personaggi, che denotano maturità narrativa.
Lia è una figura complessa e divisa: madre ferita, donna colta, sospesa tra la razionalità della legge e il caos dei sentimenti. Il suo dolore è nascosto, rivelato solo da involontari cedimenti. Accanto a lei, Cetta e Picchio incarnano i due poli dell’esistenza: un’esplosiva vitalità dell’una contrapposta alla quieta saggezza dell’altro.
Il titolo del romanzo nasce da un verso di Euripide: “Se tu non ridi più, il mio dolore è gioia.” Un richiamo netto alla Medea, ma anche un presagio: nel cammino di Lia e delle altre madri del romanzo, il confine tra amore e distruzione diventa sottile, e la maternità un campo di battaglia dove il perdono sembra impossibile. La Perna affronta con coraggio il tema della colpa, scavando nel legame più profondo e doloroso dell’essere umano.
La trama si sviluppa con colpi di scena ben calibrati e una tensione che non si spegne mai. Ogni tassello dell’indagine si incastra in un mosaico complesso, in cui l’omicidio iniziale diventa il punto di partenza per una più ampia riflessione sulla giustizia e sulla fragilità umana. “Una cosa sono i pettegolezzi, altra le scabrose verità”: una frase che pare racchiudere l’essenza stessa del romanzo.
Se tu non ridi più non si limita a risolvere un delitto: tenta di comprendere cosa significhi davvero perdonare e quanta forza serva per accettare la realtà.
La Perna intreccia abilmente la suspense dell’indagine con la malinconia del dramma interiore della protagonista. Il risultato è un romanzo inquietante, che emoziona e scuote, in cui l’ombra della colpa e la possibile luce del riscatto si bilanciano in un Fragile e sofferto equilibrio.
Alla fine resta ferma  l’immagine di una città che brucia e consola, di una donna che tenta di rialzarsi e di un dolore che non si cancella, ma con cui si deve imparare a convivere.

Barbara Perna, vive e lavora a Roma. Ci tiene a precisare che però lei è partenopea, nata a Napoli il 6.9.69 (avete letto bene). Il superamento del Concorso in Magistratura nel 1998 le ha brutalmente stroncato una (forse) brillante carriera come attrice teatrale comica. Ha svolto il ruolo di giudice tuttofare un po’ in giro per l’Italia ma il suo cuore è rimasto in Toscana nel piccolo Tribunale di Montepulciano dove ha lavorato per cinque anni prima di trasferirsi a Roma. Scrive per passione, lavora per dedizione, legge per autodifesa. E viaggia molto, soprattutto con la mente. Per Giunti ha esordito con il romanzo Annabella Abbondante. La verità non è una chimera (2021) pubblicando poi Annabella Abbondante. L’essenziale è invisibile agli occhi (2022) – vincitore del Premio NebbiaGialla 2023 – e Annabella Abbondante. Il passato è una curiosa creatura (2024).

:: Visioni di cinema: The Shadow di Russell Mulcahy (1994)

28 ottobre 2025 by

L’Uomo Ombra (The Shadow), diretto da Russell Mulcahy nel 1994, è un film singolare che all’uscita non raggiunse un gran successo al botteghino, né tanto meno di critica, ma nel tempo si conquistò la fama di piccolo cult, entrando nel cuore di molti spettatori amanti del genere fantastico coniugato col noir.

Ambientato nella cupa e oscura New York degli anni ’30, The Shadow segue le avventure di Lamont Cranston (Alec Baldwin), sfaccendato e affascinante playboy di giorno e giustiziere mascherato di notte. Dopo anni in Tibet, era diventato in Oriente uno dei tanti Signori della guerra, tra oppio e battaglie, redento, sotto la guida di un monaco, aveva acquisito il potere di diventare invisibile — tranne la sua ombra, da qui il nome con cui veniva chiamato.

Tornato in America con i suoi nuovi poteri — invisibilità e controllo mentale — si mette dunque dalla parte del bene per combattere il crimine, e soprattutto per redimere sé stesso dalle colpe passate.

A questo punto è bene precisare che The Shadow affonda le radici in una delle figure più iconiche della cultura popopolare americana pre-supereroistica. Nato negli anni ’30 come voce misteriosa di un programma radiofonico (tra le cui voci ci fu per un periodo anche Orson Welles) e poi trasposto in pulp magazine e fumetti, The Shadow fu una delle prime incarnazioni dell’eroe mascherato tormentato, ispirando direttamente personaggi come Batman.

Quando Russell Mulcahy porta il personaggio sul grande schermo nel 1994, lo fa in un momento in cui Hollywood tenta di riscoprire gli archetipi del passato sulla scia del successo stratosferico dei due Batman di Tim Burton e del Dick Tracy di Warren Beatty (1990). Tuttavia, il film non si limita a un’operazione puramente nostalgica: tenta di costruire un immaginario a metà strada tra mito, noir e spiritualità orientale.

Un equilibrio molto difficile da raggiungere, ma il regista ha il buon gusto di non prendersi troppo sul serio, lasciando all’ironia — se non a sprazzi di vera comicità — campo libero. A questo proposito, come non citare la splendida interpretazione di Tim Curry? Sì, in un ruolo da caratterista, non da protagonista, ma straordinario.

Tornando alla trama, il nemico principale di The Shadow è Shiwan Khan (John Lone), ultimo discendente di Gengis Khan, intenzionato a soggiogare il mondo con un’arma nucleare rudimentale. Tra intrighi, misteri e atmosfere noir, The Shadow dovrà fermarlo, nascondendo però la sua vera identità anche alla donna che ama, Margo Lane (Penelope Ann Miller), che qualche potere telepatico possiede anche lei.

Buffa la scena al ristorante, dove ringrazia Cranston per il complimento sul vestito che indossa e lui si schermisce dicendo che non ha detto niente, ma solo l’ha pensato.

L’Uomo Ombra è un film che mescola azione pulp, atmosfere gotiche e suggestioni art déco; e sicuramente i vestiti splendidi — soprattutto del cattivo — sono uno dei punti forti del film. C’è una scena in cima all’Empire State Building dove un marinaio in libera uscita fa un commento vagamente omofobo sulle vesti di Shiwan Khan, e lui, infastidito, con la forza del pensiero costringe il malcapitato a buttarsi giù.

Il regista Russell Mulcahy, noto per il suo stile visivo forse anche eccessivamente barocco e visionario, già visto in uno dei suoi maggiori successi, Highlander, punta molto su un’estetica fortemente stilizzata: luci al neon, fumo, ombre e riflessi dominano la scena, evocando l’iconografia del cinema noir classico e del fumetto pulp.

E qui la fotografia di Stephen H. Burum riesce a rendere New York un palcoscenico irreale e onirico. Che gli scenari siano di cartone, che il trenino della metropolitana sopraelevata sia vistosamente un modellino, poco importa — anche grazie a quel “non prendersi troppo sul serio” di cui parlavamo prima.

Gli effetti speciali sono buffi, forse esagerati, ma non ridicoli: costruiti anche con un certo senso teatrale, che non ho trovato affatto fuori luogo. La regia predilige il movimento fluido e la composizione simmetrica, con effetti ottici che rimandano all’invisibilità del protagonista e al suo potere di confondere la percezione. Specchi, vetri, riflessi e dissolvenze creano una costante ambiguità visiva tra realtà e illusione.

Mulcahy non punta al realismo a tutti i costi, ma a un’estetica volutamente artificiale, fumettistica, dove la forma diventa sostanza — un approccio che oggi potremmo definire “meta-pulp”. E non si può non citare l’omaggio a La signora di Shanghai, nel finale tutto specchi. Ma le citazioni e gli omaggi sono numerosi: basta saperli cercare.

Alec Baldwin, ai tempi già famoso e con una significativa filmografia alle spalle, offre una performance carismatica, divertita e ambigua, incarnando un antieroe affascinante e tormentato, mentre John Lone dà spessore al villain con eleganza, ferocia e un tocco di spaesamento che lo rende, a suo modo, anche buffo. Penelope Ann Miller è semplicemente perfetta: dolce, bellissima e intelligente. Non una dark lady da film noir classico, ma una degna coprotagonista femminile, che a tratti ruba la scena al nostro eroe.

Ian McKellen, poi, come scienziato pazzo e daltonico, se la gioca con Tim Curry per bravura.

Forse non può essere definito un capolavoro, ma rimane un interessante esperimento visivo e uno dei primi tentativi degli anni ’90 di riportare sullo schermo gli eroi pre-comics. Apprezzato per la sua atmosfera retrò, la colonna sonora di Jerry Goldsmith e il fascino dark del suo protagonista, The Shadow resta un film che è piacevole vedere e rivedere, scoprendo sempre nuovi dettagli magari precedentemente sfuggiti.

Ah, mi raccomando: Il sole splende e il ghiaccio è sdrucciolevole. Non si sa mai servisse.

Consiglio di acquisto: https://amzn.to/4auuNzR se comprerai il DVD a questo link guadagnerò una piccola commissione. Grazie!

:: A mani nude di Marina Visentin (Laurana Editore, 2025) a cura di Giulietta Iannone

26 ottobre 2025 by

Sono quasi arrivata a casa, nessuno mi aspetta e va bene così. Le otto sono passate da poco e il cielo sembra in fiamme, come se laggiù, sopra i tetti, si fosse aperta una fornace incandescente, rosso vivo. E tutt’intorno un blu profondo che mette quasi paura.
In bilico sul buio, in attesa della notte, la città respira piano. Aspetta la fine dell’inverno.
Io mi godo il vento. È come uno schiaffo in faccia l’aria fredda, ma il rosso del cielo mi tiene compagnia. Come un abbraccio che scalda. Nonostante tutto.

A un anno dall’uscita di Aurora, Marina Visentin torna al noir, questa volta investigativo, con A mani nude. Stesso editore, Laurana, stessa collana, Calibro 9, stessa città: Milano.

Un piacevole ritorno allo stile particolare con cui l’autrice interpreta il noir e trasforma Milano in uno scenario vivido e dolente, coi suoi Navigli, il Cimitero Monumentale, le vie borghesi, i palazzi eleganti, i bar-tabacchi di periferia, i cortili, le case di ringhiera. In questi luoghi scorre e si dipana una storia che intreccia presente e passato: il passato degli anni Settanta, quelli della lotta armata e degli anni di Piombo, che ultimamente sembra vivere una riscoperta dopo anni di oblio.

Protagonista è il vicequestore Giulia Ferro, donna con un passato ingombrante: una madre dedita all’eroina, un padre militante. Carattere difficile, tanto quanto competente e brava nel suo lavoro.

Il caso su cui indaga parte dal ritrovamento di due corpi: un ex terrorista rosso, Chicco Luini, con una fedina penale lunga e accidentata, annegato nei Navigli dopo essere stato pestato da tre ragazzi, di cui uno minorenne; e un appartenente alla Milano bene, Guido Andrea Del Corno, apparentemente morto suicida, impiccato nel Cimitero Monumentale, accanto al mausoleo di famiglia.

Due casi nati già chiusi, anche se il ritrovamento dei corpi avviene a un giorno di distanza l’uno dall’altro. Le vittime appartengono alla stessa generazione, ma sembrano provenire da mondi opposti. Tuttavia, qualcosa non torna: indagando, grazie soprattutto alle informazioni fornite spontaneamente da Vitalo, un amico del padre anche lui ex-militante, Giulia scopre un improbabile e torbido legame tra i due, che la conduce a un vecchio rapimento degli anni Settanta, che costò la vita al rapito, quando i militanti della lotta armata usavano i sequestri — come altri crimini — per finanziare la loro causa rivoluzionaria.

Marina Visentin scrive con precisione e sensibilità, sa unire i fili che legano il passato al presente, caratterizzando ogni personaggio con il suo bagaglio di sofferenza, difetti e pregi, senza calcare la mano sulla nostalgia. Delicato il legame tra la protagonista e il padre, a cui non smette di volere bene nonostante le sue scelte e i suoi errori, aprendo una strada verso la riconciliazione in un tenerissimo finale.

Ma è l’indagine l’ossatura portante della storia: l’interrogatorio dei testimoni, la ricerca degli indizi, i rapporti spesso conflittuali tra i colleghi della procura. L’autrice rende molto bene questa parte, con scrupolo e attenzione ai dettagli. Non è tanto la ricerca di un solo colpevole il punto centrale, quanto il capire cosa successe veramente: come si concatenarono gli eventi che portarono a tante altre vittime collaterali, quale fu la scintilla, come se il male si propagasse a onde e lasciasse dietro di sé una scia di morte.

Il passato non è idealizzato. Giulia è una poliziotta, una servitrice dello Stato — sebbene il termine sia desueto — e ha scelto una parte della barricata, nonostante le scelte del padre. Questo conflitto è una delle parti meglio descritte, con sensibilità e pudore.

A mani nude conferma Marina Visentin come una delle voci più solide e consapevoli del noir italiano contemporaneo. È un romanzo che unisce rigore investigativo e introspezione emotiva, storia collettiva e ferite private, in una scrittura elegante e mai compiaciuta. Non cerca il colpo di scena, ma la verità nascosta nelle pieghe della memoria.

Un noir intimo e civile, nel solco del noir civile di De Cataldo, ma con una delicatezza tutta femminile, attenta ai sentimenti, in cui il passato continua a bussare alle porte del presente e in cui la giustizia — come la vita — si compie solo a mani nude.

Marina Visentin è nata a Novara, da oltre trent’anni vive e lavora a Milano. Giornalista e traduttrice, una laurea in filosofia e un passato da copy-writer, ha collaborato con numerose testate scrivendo di cinema. Ha pubblicato saggi sulla storia del cinema, libri di filosofia e costume (Filosofia Finalmente ho capito!, Vallardi, 2007; Raffasofia, Libreria Pienogiorno, 2021), romanzi gialli e noir (Biancaneve, Todaro Editore, 2010; La donna nella pioggia, Piemme, 2017; Cuore di rabbia, Sem, 2021; Gli occhi della notte, Sem, 2023; Aurora, Laurana Editore, 2024).

Source: libro inviato dalla casa editrice Laurana che ringraziamo, assieme all’autrice.

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