Cina settentrionale, rada di Taku, 29 agosto 1900
La lunga traversata era finita.
Dopo quarantadue giorni di navigazione, dove dovettero affrontare sabotaggi, tempeste, epidemie e un delitto, il piroscafo Giava era finalmente giunto nel bel mezzo del Mar Giallo.
Raggiunsero la rada di Taku all’alba del 29 agosto 1900 e l’arrivo si rivelò diverso da tutte le precedenti aspettative.
Li aspettava una folla di navi ancorate di tutte le nazionalità con la disposizione di gettare l’ancora a circa dieci miglia dalla costa sabbiosa, non potevano avvicinarsi di più.
Il basso fondale non permetteva ulteriori manovre, rendendo lo sbarco di uomini e mezzi un’impresa complicata e pericolosa soprattutto per le condizioni mutevoli del mare.
L’acqua era torbida, fatta più che altro di fango, di un colore opaco che virava dal marrone al giallo grazie al fiume Pei-ho che lì vi sfociava, il più fangoso fiume del mondo dopo lo Yang-tze.
Il tenente Luigi Bianchi osservò la flotta internazionale chiedendosi come avrebbero fatto a sbarcare. Servivano pontoni, scialuppe, vaporetti, zattere o quant’altro e loro ne erano privi, l’alto comando aveva pensato a tutto ma non a come rendere possibile lo sbarco. Il che avrebbe chiesto altro tempo e rallentato ulteriormente le operazioni, ma ormai Pechino era presa, le Legazioni liberate, un aggiuntivo ritardo non avrebbe cambiato di molto le cose. Le imprese eroiche erano spettate ad altri, a loro toccava al massimo disperdere le ulteriore sacche di resistenza dei Boxer sopravvissuti, sempre che ce ne fossero stati.
Il sergente Vincenzo Bertelli gli si avvicinò e guardò nella sua stessa direzione.
«Dunque questa è la Cina, non si vede la costa».
«Già sembra che ce l’abbiamo fatta, siamo sopravvissuti al viaggio» commentò sotto voce accendendosi una sigaretta turca.
«Non è curioso di vedere questo strano paese. Lo conosciamo solo da quello che abbiamo letto sui libri, dagli atlanti, dai racconti dei missionari e ora lo vedremo di persona, sempre che riusciremo a passare attraverso questa selva di navi. Sembra un formicaio».
«In qualche modo faremo, non sottovaluti lo spirito italico di improvvisazione».
«Ah, proprio quello ci ha messo sempre nei guai. Non mi stupirei che ci dessero l’ordine di raggiungere la costa a nuoto, e nuotare in quest’acqua color caffè latte deve essere proprio un’esperienza piacevole».
«Va andiamo a fare colazione, poi penseremo al da farsi. È sempre meglio ragionare a pancia piena».
«Non la contraddico tenente ci mancherebbe».
Il tenente Bianchi raggiunse la sala mensa e si sedette al tavolo degli ufficiali dove lo aspettava il tenente medico Maurizio Valente con l’espressione torva e corrucciata.
«Dunque Pechino è stata liberata, non arrivano che notizie di stragi e saccheggi. Anche il palazzo imperiale è stato devastato, e l’Imperatrice è fuggita. Hanno fatto anche una ridicola cerimonia celebrativa della vittoria, con fanfare e uniforme d’alta ordinanza» sbuffò scoraggiato.
«E che potevamo aspettarci, hanno colto l’occasione per dare più colore all’impresa, dopo tutto l’Imperatrice Madre sembrava essere il vero capo di questi Boxer. Volevano cacciare gli occidentali dal loro paese, se li sono trovati nelle loro camere da letto» disse Bertelli dal tavolo accanto versandosi una generosa tazza di caffè.
«Cosa ne pensa tenente Bianchi, le sembra giusto?» gli chiese Valente esasperato.
«È una manovra dimostrativa, vogliono scoraggiare ulteriori resistenze. Che non salti più a nessuno in mente di opporsi ai piani di noi occidentali. Piani economici per lo più, la Cina è un grande mercato e conviene a tutti che resti aperto».
«Sì, certo ma io parlo dei saccheggi, degli incendi, delle devastazioni…»
«Adesso che sbarchiamo lo vedremo con i nostri occhi cosa è successo, ne saremo testimoni, e potremo giudicare».
«Sempre diplomatico lei. Ma io sono un medico, io salvo vite, e queste morti inutili mi fanno arrabbiare più che rattristare. Giungono notizie di massacri di donne, vecchie bambini. Si sono abbandonati alle peggiori scelleratezze e questo è contrario a tutte le leggi morali ed etiche. Noi non siamo dei barbari tenente Bianchi, noi apparteniamo a paesi civili, dannazione» disse Valente quasi urlando e Bertelli gli diede un colpetto sul braccio.
«Su Valente non si agiti, faccia la sua colazione, vedrà che tutto si sistemerà. Certo che noi siamo gente civile, infondo. Magari le notizie che ha ricevuto sono state pesantemente ingrandite. Sa come molti amano fare narrazioni pittoresche e colorite».
«No, Bertelli non lo penso affatto. Anzi per me hanno ridimensionato le cose. Ho paura di quello che troveremo una volta sbarcati. Ho davvero paura».
Il silenzio cadde sulla tavolata e nessuno osò parlare per parecchi minuti finchè Valente non si alzò.
«Con permesso, ma l’appetito mi è completamente passato» disse e si allontanò.
«Per me è ancora scosso per quello che è successo durante il viaggio» disse Bertelli, inzuppando un pezzo di pane in una tazza di latte.
Il tenente Bianchi annuì e sorseggiò il suo caffè ma un brutto presentimento lo colse.
Non pensava che Valente esagerasse, anche lui aveva ricevuto notizie allarmanti. Non tanto per quanto riguardava questi famigerati Boxer, ma anche per gli eccessi a cui si stavano abbandonando i loro alleati.
«Adesso pensiamo a sbarcare, poi si vedrà il da farsi» disse sovra pensiero e Bertelli annuì continuando a mangiare con appetito.
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