Bentornata Paola su Liberi di scrivere e grazie di aver accettato questa intervista. È appena uscito Brisa, il tuo nuovo romanzo, ce ne vuoi parlare? Come è nata l’idea di scriverlo?
Grazie a Liberi di scrivere. L’idea di Brisa è nata da alcuni aneddoti raccontati da due anziani musicisti durante una serata danzante, dove le mie amiche si divertivano un sacco e io, che non ballo, mi annoiavo a morte. Nel libro ho lasciato i loro nomi: Primino e Tunaia. Nel 1956 vivevano a Gorino e, in mancanza di auto, si spostavano da una balera all’altra a bordo di un carro funebre. Immagino come si toccassero i clienti ogni volta che li vedevano scaricare gli strumenti. Videro gli esordi di Milva, allora tredicenne. Prima di esibirsi facevano le prove in un magazzino di impresariato funebre, dove, ogni volta, casse da morto e ossari venivano coperti con dei teloni per non impressionare l’ignara cantante. Questi e altri aneddoti mi hanno talmente divertita che ci ho voluto scrivere una storia. Da lì è nata Brisa.
Brisa, la protagonista, è una donna molto particolare, una stria, vede il futuro e i morti, percepisce cose che gli altri non avvertono, e i suoi compaesani la consultano, ma di nascosto. Forse ne hanno anche paura, come si ha paura del diverso, dell’ignoto. Come hai costruito il suo personaggio?
Cercavo una protagonista non accattivante, che non fosse la solita bellona dei romanzi tradizionali. All’inizio della storia, Brisa, si presenta con baffi, sopracciglia incolte e vestita con vecchie palandrane il che, unito al fatto che passando la lunga treccia sulle foto riesce a vedere le disgrazie, non fa certo di lei la simpaticona che tutti vorrebbero avere per amica. Tolti i baffi e indossati degli abiti decenti Brisa migliora un ciccinino. Ma brutta è e brutta resta.
Il romanzo è ambientato in un piccolo paese alle foci del Po, Gorino, nella bassa ferrarese, tra il settembre e il dicembre del 1956. Un’ambientazione insolita per un noir che di solito predilige gli ambienti metropolitani. Come hai scelto questo scenario? Cosa l’ha reso particolarmente adatto a scrivere una storia come la tua?
Ho scelto Gorino per restare fedele ai luoghi di Primino e Tunaia. Sono andata in ricognizione a Gorino due volte in cerca d’ispirazione per il resto della storia, ma non ho trovato niente. Infatti nel romanzo ricorre spesso la frase: In un posto dove non succede mai niente… Poi con l’arrivo del luna park per la festa del patrono nel romanzo succederà di tutto. I colleghi d’ufficio che mi hanno accompagnata nelle ricognizioni si sono cuccati anche la visita alle Pompe funebri Ottani, che ancora ringrazio.
Molte delle storie che racconti nascono da racconti veri che hai sentito, che hai raccolto nella tua vita. Come separi fantasia da realtà, come li amalgami?
In effetti mi sono ispirata a due storie vere. Una strage familiare citata nelle prime pagine raccontata da mia figlia quando era vigile del fuoco, e il grosso guaio in cui incorrerà Brisa, verso la fine del romanzo che mi è stato raccontato quando facevo volontariato al pronto soccorso. Casi in cui la realtà supera di gran lunga la finzione. La giornalista-scrittrice Piera Carlomagno sostiene che tutti i casi citati nei romanzi prendano sempre spunto dalla cronaca e anche se molti scrittori negano, credo abbia ragione.
Il romanzo inizia allegro, solare: sta arrivando il luna park in città, per la festa patronale, un complesso suonerà i successi di quell’anno, si ballerà, si farà festa, poi scompare un ragazzino, Lucianino, figlio di Smamaréla, la donna del fratello di Brisa, da quel momento inizierà un viaggio nell’orrore, nelle peggiori depravazioni umane, di colpo i personaggi mostrano un altro volto, si rivelano per qualcosa che difficilmente sospettavamo. Come hai caratterizzato questa dualità, questo cambio di prospettive?
Per me le parti più difficili da scrivere sono sempre gli inizi, quando ancora non è successo niente, perché sono attratta solo dall’azione. Quando qualcuno racconta a voce vorrei che iniziasse dalla fine. Dal fattaccio. Non ho pazienza. Voglio arrivare subito al dunque. Negli anni ’70 quando non c’erano orari per andare al cinema, entravo sempre verso la fine delle proiezioni. Vedevo il finale del film e poi lo rivedevo daccapo. Non amo le sorprese e vorrei sempre sapere dove mi porteranno le storie. Tutte, tranne la mia. Non ci tengo a sapere come e quando morirò.
In Brisa abbiamo una fotografia della provincia italiana del dopoguerra, dove tutti si chiamano per soprannome, dove il benessere non è ancora diffuso, la vita è dura, si fatica, ben pochi sono i divertimenti. Che importanza ha tutto ciò nel tuo romanzo?
Ho scelto di ambientare il romanzo negli anni ’50 perché in quegli anni la gente riusciva ancora a stupirsi di qualcosa. Negli anni le efferatezze che seguiamo nei libri e nei film sono diventate tali che non ci stupiamo più di niente. I serial killer sono tenuti a brutalizzare le loro vittime in modo sempre più efferato pur di colpire lettori e spettatori. L’ultima volta che mi sono stupita credo sia stato per un serial killer chi si scopava le orbite dei cadaveri. Da Seven e da Il silenzio degli innocenti in poi è stato un crescendo dove ogni autore si è sentito in dovere di moltiplicare le efferatezze del suo uccisore seriale, ottenendo, per me, l’effetto di azzerare le emozioni. Non amo gli Horror con brutalità in crescendo e non amo i porno per l’eccessiva introduzione senza introduzione. Il troppo anziché stupirmi mi annoia.
Anche tu usi molto il dialetto per caratterizzare i personaggi, per accentuare l’aspetto corale del romanzo. Come ti sei documentata? È un dialetto che parli, che usi nella tua quotidianità?
Ho usato il dialetto di casa mia, anche se i miei genitori lo parlavano solo tra loro e si rivolgevano ai figli in italiano.
Le forze dell’ordine in questo romanzo non brillano per acume e perspicacia, preferiscono andare a prendersi un caffeuccio al Trombini, il bar della zona. E Brisa quasi per caso si reca dove si dipanerà la storia. Non hai voluto puntare sull’indagine, hai preferito dar voce al caso, alle possibilità, all’intuito?
La gran parte dei giallo-noir in circolazione hanno sempre un investigatore alcolizzato, depresso, che parla con la moglie morta e che si innamora della collega strafiga di turno. Nella mia storia ho voluto fare a meno dei tutori della legge. Scerbo e Bellugi arriveranno a immaginare cos’è successo solo per supposizioni. Il lettore saprà, ma l’indagine vera e propria comincerà solo dopo la parola Fine.
Quali sono i tuoi maestri letterari quelli che ti hanno ispirato nella scrittura di questo libro? Quali letture?
Il mio autore preferito resta sempre Simenon, di suo leggo tutto tranne il Commissario Maigret (conservo ancora un bel ricordo degli sceneggiati televisivi con Gino Cervi in bianco e nero). Amo anche Lansdale, Ammaniti, De Giovanni, Ruju e molti altri. Di ognuno prediligo solo alcuni libri. Ma ci sta.
Come ti sei documentata sul periodo storico? Sulle canzoni, le marche dei detersivi, delle medicine, delle sigarette? Ti hanno aiutato nelle ricerche?
Raccogliendo per mercatini giornali dell’epoca e facendo tesoro dei racconti di chi c’era.
Ti piacciono i film italiani degli anni ‘50? Quanto incide sul tuo stile la cinematografia di quel periodo?
Il cinema resta la mia passione e in Brisa viene spesso citato Il grido di Antonioni con Alida Valli che venne girato quell’anno nei luoghi del romanzo utilizzando molte comparse del posto. Non a caso uno dei protagonisti è ossessionato da questo film.
Il tuo rapporto con la critica letteraria è un rapporto conflittuale o pacifico? Hai notato interesse dalla critica verso il tuo romanzo?
Finora ho ricevuto belle recensioni e ne sono molto contenta.
Per concludere, ringraziandoti della disponibilità e di questa simpatica chiacchierata, la fatidica domanda: a cosa stai lavorando adesso?
Sto lavorando al seguito di Brisa. Siamo nel 1963. Sono passati sette anni. Brisa ne ha trenta e si è trasferita presso dei parenti odiosi. Un uomo cerca di uccidere delle donne incinte. È l’anno del disastro del Vajont, viene assassinato John Kennedy e muore il Papa buono… Grazie ancora a Liberi di scrivere per la bella intervista.