
Se non fossi nato a Milano, probabilmente non sarei riuscito a diventare uno scrittore; né a svolgere tutte le attività nel campo dell’editoria che mi hanno permesso di mantenermi intanto che continuavo a farlo. In questo senso, sono debitore alla mia città. Anche se la Milano di oggi – dagli anni Ottanta in poi, per intenderci – ha “valori” diversi da quella di prima. Non crede al lavoro metodico, serio e puntuale… quello che una volta si associava ai milanesi. Premia invece i fenomeni del momento, le false promesse, l’arroganza sorretta da una solida base di incompetenza… quello che oggi tutta l’Italia associa ai milanesi. Molti in questa città cercano di sfruttarti senza darti niente in cambio, per poi liberarsi di te quando non servi più. Con le debite eccezioni, è un continuo mulinare di gomiti per fasi largo e chi si ostina a non volere sparire rappresenta un fastidio. Io spero di continuare a dare molto fastidio per parecchio tempo.
Hai scritto romanzi, racconti, fumetti, non fiction, ha scritto per la radio, hai curato antologie, da quando hai esordito non ti sei più fermato. Come spieghi questa grande versatilità e dove trovi il tempo per fare tutto?
Credo, semplicemente, di essere nato per scrivere storie. O quantomeno è la cosa che presumo di saper fare meglio. Si possono scrivere storie brevi o lunghe, sotto forma di narrativa o di sceneggiatura. Si può utilizzare lo stesso metodo per curare un editing, o per comporre un’antologia di autori vari, o per tradurre libri da altre lingue. Sono tutte varianti di un unico mestiere, anche se scrivere le mie storie è la parte più irrinunciabile. Le storie fluiscono di continuo e per mia fortuna scrivo molto rapidamente, riuscendo a coordinarmi piuttosto bene con il lavoro di documentazione. Un illustre collega statunitense che ha letto qualche mio romanzo si è stupito di come riesca a realizzare in un mese o due quello che a lui costa un anno di lavoro. Forse perché io, economicamente, non posso permettermi di sottrarre tempo alla traduzione cui mi dovrò dedicare subito dopo finito il mio romanzo.
Parlaci dei tuoi esordi. Come stato il tuo ingresso nel mondo della narrativa? È stato difficile per te pubblicare il tuo primo libro? Come è andata?
Pubblicare il mio primo libro è stato facilissimo… Solo che era quasi il terzo. Ho deciso che sarei diventato uno scrittore intorno ai 6-7 anni, anche se ho prodotto qualcosa che ho giudicato proponibile solo quando ne avevo 24. Era un romanzo di spionaggio che ho mandato a “Segretissimo”, che lo ha preso seriamente in considerazione ma alla fine ha deciso di non pubblicarlo… e in realtà mi ha fatto un favore, perché nei pochi anni successivi ho fatto un notevole salto di qualità: scrivere per il pubblico anziché per il cassetto della tua scrivania aumenta la responsabilità e migliora le prestazioni. Nel 1991, a quasi 27 anni, ho vinto un concorso di RadioRAI per un soggetto destinato a “Radiodetective”, programma quotidiano di storie alla Alfred Hitchcock, e mi è stato chiesto di continuare a collaborare come autore; per motivi burocratici (la RAI ha tardato a mandarmi il contratto) il mio primo episodio, già registrato, non è andato in onda, né il giorno previsto, né mai; dopo breve tempo, per oscuri motivi il programma è stato sospeso nonostante avesse avuto successo, quindi non sono stato pagato e sono tornato nell’ombra. Provaci ancora, K. Sarei tornato alla fiction radiofonica solo 12 anni dopo, con il serial “Mata Hari”. Ma, tornando ai primi anni ‘90, nel frattempo ero entrato in contatto con “Il Giallo Mondadori” e da qui con gli Oscar, a cui ho proposto un romanzo basato su uno dei miei soggetti radiofonici; mentre lo scrivevo, ancora senza contratto, l’editor con cui lavoravo è stato trasferito e addio progetto. Riprovaci ancora, K. Poi, nel 1993, “Il Giallo” ha pubblicato in appendice “Anche il sole tramonta”, un’altra delle storie che avevo scritto per la radio e da lì, finalmente, è cominciato tutto: nel volgere di un anno avevo due nuove serie con personaggi fissi, il Cacciatore di Libri in appendice al “Giallo” settimanale e Carlo Medina sugli speciali stagionali, oltre ai miei primi lavori come collaboratore esterno della redazione. Naturalmente poi sono stati aboliti i racconti in appendice e, dopo il successo della prima antologia di soli autori italiani che avevo curato per lo speciale del novembre 1995, sono stato tagliato fuori dal “Giallo” per molti anni. Ma ormai ero in marcia. Nel 1996 Edizioni E-Elle stava preparando una collana di gialli per “giovani adulti”: ho incontrato la curatrice proprio mentre avevo in mente un prequel del Cacciatore di Libri, con una sua avventura a 17 anni, e mi sono trovato in mano il contratto per il mio primo romanzo effettivo, che è uscito nella primavera del 1997. Da allora non mi sono più fermato: non ci si può fermare, altrimenti tutti ti dimenticano e nessuno vuole più quello che scrivi.
Quali libri leggevi quando eri ragazzo? Quali libri ti hanno accompagnato nella tua età adulta?
Verso i 6 anni ho cominciato a leggere Salgari, cui poi si è aggiunta Agatha Christie, dopo la quale ho ampliato gli orizzonti a “Giallo Mondadori”, “Gialli Garzanti”, “Segretissimo”, “Urania”, che non ho mai smesso di leggere. Anche se una volta mi ci dedicavo durante le vacanze mentre nell’ultimo decennio di vacanze non ho quasi fatte. I libri di passaggio più importanti sono stati “Per chi suona la campana” e “1984”.
Prevalentemente ti occupi di letteratura noir, thriller, avventurosa, quali sono stati i tuoi maestri?
Sicuramente Salgari, anche per quanto riguarda la costruzione di grandi saghe avventurose; la Christie, per il rispetto della logica interna di una storia; per le atmosfere, un bel po’ di autori noir americani, cui va aggiunto Ian Fleming, che univa il noir all’avventura esotica in un contesto spionistico. Per la costruzione delle trame non ho mai nascosto che il mio ispiratore è Donald E. Westlake alias Richard Stark, del quale sono poi divenuto anche editore, traduttore e amico, prima della sua morte improvvisa poco più di un anno fa. Non lo sapevo, ma d’istinto avevo adottato anche il suo stesso metodo di elaborazione delle trame: non una programmazione a tavolino, ma un ampio spazio all’imprevisto che sorprenda prima di tutti l’autore stesso e lo costringa a ingegnarsi per uscire dai guai insieme ai suoi personaggi; il tutto senza rinunciare alla precisione del meccanismo d
ella storia. In tempi più recenti ho subito l’influenza di alcuni degli autori che ho tradotto, divenuti amici a loro volta, come Jeffery Deaver, Douglas Preston e – per citarne un altro che purtroppo non c’è più – Stuart M. Kaminsky.
Da traduttore, quali sono i segreti per una buona traduzione, conta più la fedeltà al testo o il rispetto per lo spirito del romanzo?
Il vero segreto è entrare nella mente dell’autore e trascrivere fedelmente quello che ha scritto come se lo avesse pensato in italiano. Non si tratta di fedeltà al testo come un traduttore automatico (che prende cantonate automatiche) ma di trovare le costruzioni e le frasi che lo stesso autore avrebbe usato se avesse scritto direttamente nella nostra lingua: a quel punto sono salvi testo e spirito. In realtà tra i compiti del traduttore può esserci di tanto in tanto quello di correggere sviste di editing nell’originale. Una volta in un bestseller americano ho scoperto una frase troppo rivelatrice da cui si scopriva l’assassino al secondo capitolo; questo però è successo prima che il libro uscisse negli USA e sono riuscito a farla togliere anche dall’edizione in inglese.
Hai creato personaggi seriali quali il Cacciatore di Libri, Carlo Medina e Mercy “Nightshade” Contreras. Non è semplice lavorare su uno stesso personaggio, come lo rinnovi, come dai profondità alla sua crescita?
Per il Cacciatore è facile: sono io, seppure con qualche lieve modifica. Nelle due storie-prequel edite da E-Elle, quando aveva 17-18 anni, ho addirittura prelevato frasi dai miei diari dell’epoca per essere più aderente alla mentalità di un teenager… ovviamente la mentalità di un teenager molto particolare dei primissimi anni Ottanta. Le altre storie sono quasi sempre ambientate nel momento in cui le scrivo e riflettono il mio stato d’animo in quel periodo. Infatti mentre nelle sue prime avventure faceva, come me, il “cacciatore di libri” per collezionisti, da qualche anno lavora come consulente nell’editoria, senza per questo smettere di trovarsi nei guai. Medina è pure lui un mio alter ego, ma con qualche variante. Per esempio lui uccide, io no. Ma anche nel suo caso c’è stata un’evoluzione naturale. All’inizio della sua carriera credo che si sia illuso di poter raggiungere un certo successo, inventandosi l’omicidio applicato al marketing. Poi ha cominciato a prendere coscienza di essere una sorta di anticorpo della società e ha cominciato a vedere il suo lavoro come una battaglia dall’interno. Da qualche tempo invece ha compreso che la società è più forte, che non lo lascerà mai diventare un vincitore, e che quindi l’unica sua possibilità è continuare a combattere. Per Nightshade è più semplice: quando la sua saga sarà conclusa – manca da scrivere solo il settimo romanzo – la sua storyline (a parte i flashback) coprirà il periodo dal 2001 al 2006 e la sua evoluzione è legata strettamente a quello che le capita… che tutto sommato è piuttosto devastante.
Parliamo di Martin Mystère e Diabolik. Raccontaci il tuo amore per il fumetto.
Ho imparato a leggere intorno ai 5 anni con “Topolino”. A 6-7 anni ho scoperto Diabolik e Tex. Poi, per un lungo periodo, ho divorato il “Corriere dei ragazzi” e gli albi dei supereroi. Oggi leggo soprattutto Diabolik (che per fortuna posso leggere per lavoro!) e quando riesco alcune storie della Marvel e della DC, e ho nostalgia soprattutto di Tex, Mister No e naturalmente Martin Mystère: sono in arretrato di un numero spaventoso di albi! Qualche anno fa ho avuto la soddisfazione di intervistare Stan Lee (il creatore di Spiderman e dell’universo Marvel, per intenderci) in videoconferenza. Ma soprattutto negli ultimi anni ho lavorato fianco a fianco con due autori che avevo conosciuto sul “Corriere dei ragazzi”, Alfredo Castelli (che ha creato “Martin Mystère”) e Mario Gomboli (che prosegue la tradizione delle sorelle Giussani in “Diabolik”), ai quali si è aggiunto il mio vecchio amico Andrea Pasini, che ha lavorato prima con l’uno e ora con l’altro. Per cui sono sempre molto felice quando ho a che fare con loro. Per Martin ho scritto sceneggiature (a quattro mani con Pasini), racconti, un romanzo e un romanzo a puntate; per Diabolik ed Eva Kant finora quattro romanzi, anche se ho progetti per qualche storia a fumetti che mi piacerebbe scrivere, ovviamente, con Pasini. Ho ancora idee per storie di Martin, a cui mi piacerebbe tornare un giorno o l’altro, ma scrivere di Diabolik è una vera tossicodipendenza.
Con lo scrittore Andrea G. Pinketts hai creato la prima serie di M-Rivista del mistero. Vuoi parlarcene? Ti viene in mente qualche aneddoto bizzarro o divertente?
Nei primi tempi tenevamo le riunioni di redazione in un bar in via Vespri Siciliani, a Milano, più o meno a metà strada tra casa sua e casa mia (ovviamente più vicino a casa sua). Era il 2000, il periodo in cui Pinketts era stato colpito dal “millennium bug” – è l’unico a cui sia capitato, in realtà – ed era piuttosto irrequieto. Un giorno stavamo discutendo un importante problema filosofico, se fosse più forte Jet Li o Jean Claude Van Damme, e Pinketts concluse che Jet Li è imbattibile, mentre Van Damme, disse lui: “Me lo pappo come un uccellino.” A quella frase un avventore magro e allampanato, ricurvo su un videopoker, si voltò verso di lui e gli rivolse un’occhiata beffarda. Certa gente è morta per molto meno, come dicono nei western. Pinketts sostenne lo sguardo e chiese il motivo di quell’occhiata. L’altro rispose: “Volevo vedere che faccia aveva uno che dice che Van Damme se lo pappa come un uccellino.” Già temevo il peggio. Ma Pinketts ex atleta marziale in un raro momento zen, si limitò a spiegargli sul piano tecnico le caratteristiche di Van Damme che motivavano la sua affermazione. Evidentemente l’uomo del videopoker aveva deciso che era un buon giorno per morire, perché dopo averlo ascoltato e avere giocato buono buono per altri cinque minuti al videopoker, afferrò la sua bottiglia vuota di birra e si lanciò a sorpresa su Pinketts per colpirlo. Tutto si svolse in una manciata di nanosecondi: feci in tempo a vedere la bottiglia che volava dietro il videopoker e l’aggressore con il braccio ritorto e sollevato verso l’alto, disarmato e impossibilitato a nuocere, mentre Pinketts con la mano libera prendeva dal banco il suo boccale di birra e ne beveva una sorsata.
A bruciapelo preferisci Hammett o Chandler?
Oggi Hammett. Quando ero più giovane, Chandler.
Sei un grande appassionato di James Bond. Praticamente hai tradotto quasi tutto Fleming. Come è nata questa passione? Questo personaggio in un certo senso ti somiglia?
Mi sarebbe piaciuto tradurre tutto Fleming, era un progetto che ho cercato di realizzare visto che forse ero la persona più adatta in Italia, ma i destini editoriali non lo hanno permesso. In realtà ho tradotto solo l’inedito “Thrilling Cities” (che contiene anche un racconto di 007 che ho fatto riscoprire anche in Inghilterra, dove era stato dimenticato) e la riedizione de “Il traffico di diamanti”. Di James Bond ho poi tradotto due romanzi di John Gardner, due novelization di Raymond Benson e l’intera saga bondiana originale, sei romanzi e tre racconti, dello stesso Benson. La passione è nata dai film, quando
avevo sei anni, si è rinnovata quando ho cominciato a leggere i libri di Fleming e mi ha portato a scrivere vari libri sul fenomeno Bond a quattro mani con Edward Coffrini Dell’Orto, con cui ho anche fondato il primo fan club italiano, lo 007 Admiral Club. Non credo che Bond mi somigli, semmai sono io che ho cercato di prendere qualcosa da lui e dai suoi interpreti. Di sicuro è uno dei motivi per cui mi sono appassionato alla letteratura di spionaggio e al mondo delle vere spie.
Hai scritto per Segretissimo con lo pseudonimo di François Torrent, collana che seguo da anni. Come è cambiato il mondo della spystory dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine della guerra fredda? È ancora tempo di spie?
Sarà sempre tempo di spie… e in questo mi confortano le parole di John Le Carré che riporto nel mio nuovo libro: “La spy-story non è morta. Ha ancora molto da raccontare.” La fine della guerra fredda ha cambiato solo alcune motivazioni e alcuni giochi di alleanze, ma non i metodi e gli obiettivi. Per me il vero punto di rottura è stato l’11 settembre, che ha reso obsolete tutte le storie che seguivano il modello dei vecchi film (non dei libri) di 007, con il superagente che evita la catastrofe a pochi secondi dalla fine. In quel periodo stavo scrivendo il mio primo romanzo di Nightshade e nel giro di un solo giorno mi sono chiesto se quello che stavo scrivendo non fosse stato superato dalla storia… e mi sono dato da solo la risposta: no, in quel momento più che mai serviva una letteratura che raccontasse i retroscena della politica globale. Il dopo-11 settembre ha dato ragione all’ipotesi di base della serie Nightshade: nel 2001 la CIA riapriva la sua sezione eliminazioni. E così ho inserito nella serie il fatto che Nightshade fosse arruolata come killer proprio dopo l’11 settembre. In realtà la scelta di firmare come François Torrent non è stata mia: ero già una firma nota dei periodici Mondadori. Ma la redazione di “Segretissimo” decise che il pubblico, abituato alla forte presenza di autori francesi nella collana, sarebbe stato più interessato a un nuovo scrittore d’Oltralpe. In realtà scelsi un cognome catalano, legato al fatto che ho passato una buona parte della mia vita in quell’area geografica, che è poi lo stesso di Paco Torrent, uno dei personaggi secondari della serie. Il mio nome appariva come “traduttore” e più avanti nella serie compaiono anche Carlo Medina e personaggi delle sue avventure, permettendo ai lettori più attenti di scoprire il gioco. Con l’arrivo di Sergio “Alan” D. Altieri come curatore, le identità mia e dei miei colleghi della cosiddetta “Italian Foreign Legion” di “Segretissimo” sono state finalmente rivelate. Ma ormai fino alla fine della saga suppongo che continuerò a firmare Torrent per coerenza, anche se dal 2007 sono tornate a uscire nei periodici Mondadori le storie di Medina sotto il mio vero nome.
È uscito da poco “Le grandi spie”, un saggio davvero originale e curioso. Vuoi parlarcene? Come è nato questo progetto sul quale si vede hai lavorato molto?
È nato… da solo. Quando ho stabilito di diventare uno scrittore, ho deciso molto presto che mi sarei occupato di spionaggio. Pertanto mi dovevo documentare, cosa che ho fatto in modo continuativo dal 1977. Dopo quasi vent’anni avevo materiale sufficiente per scrivere brevi saggi e articoli sull’argomento, cosa che feci soprattutto su un rivista in cui tenevo una rubrica di vere storie di spie. Parte di quel materiale mi è servito come base per alcuni romanzi, ma esistevano ancora molte spie famose di cui non avevo mai parlato, e anche su quelle che avevo trattato c’erano parecchie rivelazioni più recenti da aggiungere. Insomma, dovevo scrivere un libro, un’idea che ho coltivato per parecchio tempo e ora finalmente si è realizzata grazie all’interesse e all’entusiasmo con cui Vallardi Editore ha accolto il progetto. Ho scelto di mantenere un approccio narrativo, quindi non ho scritto un’enciclopedia ma un libro di storie vere, che potesse essere accessibile anche a un lettore digiuno della materia.
Il tuo rapporto con la critica. Quale è la recensione che ti ha fatto più felice ricevere?
Non è che di recensioni ne abbia viste moltissime… in rapporto al numero di libri che ho pubblicato. I critici propriamente detti mediamente disdegnano quello che scrivo e molti ignorano tutte le pubblicazioni che escono solo in edicola. Quando ho cominciato a scrivere, tuttavia, mi hanno fatto molto piacere le recensioni di Carlo Oliva a Radio Popolare (ne avevo registrata una e me la riascoltavo, per convincermi che non stavo sbagliando tutto nella vita); anni dopo ho letto e sentito con piacere i commenti di persone che avevano letto il mio primo romanzo di Diabolik e avevano colto il fatto che, oltre a essere fedele nello spirito e nei riferimenti al fumetto delle sorelle Giussani, fosse anche un vero romanzo, e un mio romanzo. E ieri ho trovato una recensione del mio “Eva Kant-Il giorno della vendetta” sulla rivista “Geniodonna”, che contiene uno dei maggiori complimenti che abbia mai ricevuto: a quanto pare sono riuscito a cogliere alcuni credibili elementi psicologici femminili e femministi nella protagonista, cosa che ritenevo piuttosto difficile e rischiosa, dovendomi mettere nei panni di una donna.
Cos’è la libertà per te?
A livello generale, il fatto che nessuno metta nessun altro in condizioni di sudditanza, non solo politica ma lavorativa, economica, eccetera. A livello personale, poter scrivere senza che nessuno mi venga a dire cosa devo scrivere per motivi politici o di presunto marketing; una volta una mia raccolta di racconti è stata bocciata perché giudicata troppo di sinistra, dopo che le singole storie erano uscite da… Mondadori; altre volte mi è stato detto che i miei libri sono di nicchia, dimenticando che sono tali solo per colpa di chi fabbrica le nicchie apposta per tenerceli. E vorrei poter scrivere senza dovermi ammazzare di lavoro 16 ore al giorno (in passato a volte anche 20) al fine di guadagnare il necessario per vivere e permettermi poi il lusso di fare lo scrittore. In questo senso, ora non sono libero. Come sempre, Arbeit Macht Frei un accidente.
Ci sono esordienti che ti hanno particolarmente colpito?
Parecchi. In qualche caso li ho scoperti io, oppure ho contribuito a scoprirli. Mi piace ricordare Ettore Maggi, che inviò un racconto a “M-Rivista del Mistero” che lessi avidamente in metropolitana; Gianluca Mercadante, che conobbi insieme a Pinketts e di cui pubblicai poco dopo un racconto; Cristiana Astori, che mi fu segnalata da Alda Teodorani e che seguo sempre con attenzione anche adesso che non sono più il suo editore; il giovanissimo Davide Garbero, scoperto a sua volta da Cristiana, che si guadagnò la terza pagina del “Corriere” con i suoi geniali racconti scritti a 17-18 anni; Luca Tarenzi, che dopo avere scambiato due parole mi aveva già convinto che doveva avere talento… e infatti! Tutti continuano a confermare le loro capacità, nonostante il mondo dell’editoria sia quello che è.
Ti piace presentare i tuoi libri al pubblico? Raccontami un episodio divertente che ti è successo ad una presentazione.
Temo di avere una propensione naturale all’esibizionismo e una vocazione da entertainer. Del resto sono più di 15 anni che affianco Pinketts nelle sue serate settimanali e sono spesso chiamato a presentare altri autori. Mi div
erte inserire qualcosa di scherzoso nelle presentazioni, come quando al Caffè dell’Orologio di Modena, per presentare “Mondo Bond 2007”, mi sono presentato in smoking e a metà serata ho estratto una (finta) Walther P99 da una fondina spiegando come nella realtà sarebbe terribilmente scomodo per 007 andare in giro con un arnese simile sotto l’ascella. O quando a Cartoomics, la fiera del fumetto, mi sono presentato con una copia del mio romanzo di Martin Mystère alta circa un metro e mezzo; in quell’occasione ho raccontato al pubblico la genesi piuttosto cialtronesca delle mie sceneggiature di Martin Mystère, presenti Alfredo Castelli e Sergio Bonelli; mentre il primo era quasi in imbarazzo, temendo che l’editore lo accusasse di scarsa serietà nella scelta degli sceneggiatori, Bonelli invece si divertì moltissimo.
Che libro stai leggendo attualmente?
Sono diviso tra la biografia delle sorelle Giussani scritta brillantemente da Davide Barzi e il dattiloscritto del primo romanzo di Cristiana Astori. Purtroppo riesco a dedicare poco tempo all’uno e all’altro.
Come ti documenti per la stesura dei tuoi libri? Hai avuto modo di accedere a documenti top secret?
Mi documento sempre moltissimo, a volte anche per un decennio prima di arrivare a scrivere il romanzo che riguarda un particolare argomento. Questo è anche uno dei motivi per cui la stesura di un libro può essere molto rapida. Per quanto riguarda “Le grandi spie”, che contiene un lavoro di ricerca protratto nel tempo, ci sono anche elementi che possono essere considerate top secret… o lo erano 10 o 15 anni fa. Ma a quei tempi ho promesso di non rivelarne le fonti e non lo faccio nemmeno ora. Tuttavia l’aspetto più interessante dello spionaggio è che spesso le informazioni più interessanti si trovano già sui giornali. In molti casi si tratta di fare gli opportuni collegamenti. Invito a fare lo stesso con il mio libro sulle spie, tenendo d’occhio l’indice analitico: due singole notizie in cui viene menzionato lo stesso nome possono essere del tutto innocenti, ma se collegate l’una all’altra aprono spiragli inquietanti.
Stai scrivendo un nuovo libro? Puoi anticiparci qualcosa?
Ho da poco finito il sesto romanzo di Nightshade, ambientato in parte anche a Napoli e a Milano. In questo momento sto eseguendo una sorta di “editing autoriale” su un libro a più mani, di cui ancora non si può svelare nulla. Sto anche lavorando a un progetto per un libro a quattro mani… solo che in questo momento è l’altro autore che ce ne sta mettendo tre perché io ho troppo da fare altrove; spero di rimediare presto, perché poi ho un altro progetto, sempre a quattro mani, in lista di attesa. Ho in programma il secondo romanzo lungo di Carlo Medina dopo “Ladykill/Morte accidentale di una lady” (che con 40.000 copie o giù di lì è stato anche il mio maggiore successo) e il settimo episodio di Nightshade. Ho in mente un romanzo di fantascienza in parte collegato alla mia nuova serie con protagonista padre Antonio Stanislawsky, prete d’assalto nel mondo del futuro con la passione per belle donne e armi pesanti. E ci sono parecchi racconti che premono per essere scritti… Quello che non manca sono le idee e la voglia di scrivere.
Rispondi