Posts Tagged ‘Fantascienza Fantasy Horror’

:: Quaranta segni di pioggia di Kim Stanely Robinson (Fanucci 2025) a cura di Patrizia Debicke

6 novembre 2025

Fa caldo a Washington. Un calore quasi insopportabile, greve, stagnante e che sembra annunciare la tempesta. Il cielo resta immobile, nessuna nuvola in vista. Gli split dell’aria condizionata, circondati da  gente sudata, stentano a fare il loro lavoro.  
Questa è la realistica immagine iniziale di Quaranta segni di pioggia di Kim Stanley Robinson (Fanucci Editore), romanzo che suona come un monito per un’umanità cieca, intrappolata nella propria presunzione di dominio sulla natura.
Washington D.C. diventerà il cuore pulsante di un mondo prossimo al collasso, una capitale in cui la miopia dei governanti si è trasformata in simbolo dell’inerzia globale. Là si muovono i protagonisti, piccoli ingranaggi di un arrugginito meccanismo politico: Charlie Quibler, consulente per le politiche ambientali di un senatore illuminato ma impotente, e sua moglie Anna, brillante scienziata della National Science Foundation. Entrambi, in modi diversi, cercando di dare un senso a un futuro che pare volersi sfaldare sotto i loro occhi.
Charlie combatte contro il disinteresse dei potenti, costretto a tradurre in linguaggio politico l’urgenza scientifica del disastro climatico. Sente che la catastrofe non è più una minaccia lontana ma una realtà che avanza a passi misurabili: anno dopo anno il ghiaccio artico si ritira, le stagioni si deformano, i confini tra normalità e caos si assottigliano. Tuttavia, nei corridoi del potere prevale la riluttanza, l’incapacità di comprendere ciò che la scienza ripete da decenni. La politica, dominata da calcoli elettorali e interessi economici, preferisce rimandare, fingendo che la Terra possa attendere. Anna, dal canto suo, rappresenta la razionalità lucida della ricerca. Analizza, propone, tenta di orientare il sapere verso una tecnologia capace di invertire il processo, ma ogni passo avanti genera una nuova contesa. Nella competizione feroce per il controllo delle innovazioni, la scienza stessa diventa preda del mercato. E mentre la politica resta paralizzata, il sapere si piega al profitto. Accanto a loro, figure come Frank Vanderwal, biologo, idealista e inquieto, ampliano il quadro di una società che non sa più ascoltare i propri studiosi.  Scienziati che conducono ricerche sulla biotecnologia, assistono membri del governo o svolgono mansioni amministrative presso la National Science Foundation (NSF) degli Stati Uniti. Unica apparente diversità l’arrivo a Washington dei Khembalis, dotti monaci buddisti che lavorano per l’ambasciata dell’immaginaria isola di Khembalung, quasi sommersa dalla risalita delle acque dell’oceano.
Mentre questi eroi ordinari e straordinari lottano per trovare una soluzione, il destino sta per dare una svolta al loro lavoro, portandoli inevitabilmente nell’occhio del ciclone. E quando la natura si ribella, l’illusione del controllo umano si dissolve. Le tempeste devastano la costa occidentale, il mare inghiotte la California, e la capitale americana pare affondare sotto una pioggia interminabile. Constitution Avenue diventa una laguna, il Lincoln Memorial un simbolo d’impotenza. È la silenziosa ma terribile vendetta di un pianeta stanco e umiliato.
Robinson costruisce un romanzo corale e intenso, in cui la tensione non nasce dall’azione ma dalla consapevolezza. Il vero conflitto è morale e intellettuale: la scienza chiede ascolto, la politica risponde con il silenzio. La prosa, rigorosa e realistica, restituisce l’asfissiante atmosfera di un mondo sull’orlo della rovina, in cui ogni personaggio rappresenta una sfumatura del nostro smarrimento. Non ci sono eroi, solo esseri umani alle prese con la complessità del proprio tempo, incapaci di ammettere che il cambiamento è già iniziato.
Quaranta segni di pioggia è molto più di un romanzo di fantascientifica interpretazione distopica di un prossimo possibile futuro: è una parabola sul potere, sulla responsabilità e sull’arroganza della specie umana. L’autore non concede sconti né scorciatoie emotive. Mostra una Washington immobile, popolata da burocrati, scienziati e senatori che oscillano tra l’indifferenza e la paura, incapaci di agire finché l’acqua non invade le strade. Robinson invita a guardare sotto la superficie, a capire che la vera minaccia non è la furia della natura ma la nostra cecità. Con il ritmo misurato della riflessione e la precisione di un saggio travestito da romanzo, l’autore disegna un affresco inquietante del presente.
Quaranta segni di pioggia probabilmente è il più intelligente romanzo catastrofico che avrete l’occasione di leggere… Il vero protagonista è la scienza. Robinson, uno dei più visionari scrittori di fantascienza americani, bravo e preparato nello spiegare le  sfaccettature della natura, dimostra tuttavia come quest’umana dottrina  un tempo rispettata sia costretta a inchinarsi al capitalismo. Insomma il suo pare l’ultimo invito a tirare fuori la testa dalla sabbia e affrontare la minaccia del cambiamento climatico.
La temuta catastrofe non è più una possibilità: è già qui, e ci coglie di sorpresa mentre discutiamo, ancora convinti di poterla controllare.

Kim Stanley Robinson è nato nel 1952 in Illinois e si è laureato in letteratura inglese con una tesi su Philip K. Dick. Appassionato di alpinismo, vive a Davis, in California. I suoi romanzi sono stati insigniti di prestigiosi riconoscimenti, tra cui il premio Nebula, il premio John Wood Campbell Memorial e il World Fantasy. Di questo autore Fanucci Editore ha pubblicato il romanzo New York 2140 e la serie della Trilogia di Marte, capolavoro della letteratura di fantascienza, composta dai romanzi Il rosso di Marte, Il verde di Marte e Il blu di Marte.

:: La vedova di Hong Kong di Kristen Loesch (Marsilio 2025) a cura di Giulietta Iannone

20 ottobre 2025

Hong Kong è una città di fantasmi. Spiriti, spettri, presenze inquietanti, leggende, maledizioni fanno parte della sua storia ricca di leggende urbane su case infestate, tram che specie di notte si popolano oltre di passeggeri di ombre di spettri di persone morte tragicamente, di spiriti di annegati, e vendicativi. La stessa cultura cinese ha grande rispetto per i defunti, per gli spiriti degli antenati che vengono celebrati in templi domestici, o anche in grandi feste cicliche come la principale la Qingming Jie (o Festa degli Antenati), durante la quale le famiglie visitano le tombe per pulirle e onorare i defunti con offerte di cibo, fiori e “banconote” finte da bruciare. Poi c’è la Zhongyuan Jie (Festa dei Fantasmi) o altro modo detta La Festa degli spiriti Affamati.

Il confine tra mondo terreno e aldilà è da sempre non solo frutto di superstizione ma legato alla religiosità cinese delle tradizioni taoiste e buddiste. Il sovrannaturale acquista per cui anche una valenza culturale, e identitaria molto radicata.

La vedova di Hong Kong (The Hong Kong Widow, 2025) di Kristen Loesch, tradotto dall’inglese da Isabella Zani, e pubblicato in Italia da Marsilio, pressappoco in concomitanza con la pubblicazione in lingua inglese, è un romanzo in parte ambientato a Hong Kong, che racchiude storie appartenute al patrimonio culturale e alle radici cinesi dell’autrice.

La vedova di Hong Kong è innanzitutto un romanzo misterioso e piuttosto complesso, che per originalità e profondità non assomiglia a nessun altro romanzo da me letto finora. Difficile classificarlo: in parte romanzo storico, in parte gotico e horror con venature di sovrannaturale sia tradizionale cinese che in parte anche occidentale, memoria familiare, thriller investigativo, romanzo psicologico con elaborazione del lutto, e anche romanzo di formazione, – Mei la protagonista cresce e si evolve e noi l’accompagniamo da bambina fino ad anziana- e tutte queste componenti si amalgamano, senza sovrapporsi, in modo armonico e naturale.

Diciamo che la storia ruota intorno a un mistero, uno delle tante leggende metropolitane hongkonghesi, qui drammatizzata e rivisitata dall’autrice: cosa successe realmente nel settembre del 1953 in una sontuosa villa coloniale di Hong Kong chiamata Maidenhair House di proprietà di George Maidenhair, personaggio centrale del romanzo? Il tema della casa infestata non è certo nuovo nel romanzo gotico, con venature horror, ma qui non mira a fare paura, piuttosto a inquietare il lettore per approfondire temi come l’elaborazione del lutto, i traumi bellici, il desiderio di vendetta, l’amore tra madri e figlie.

La struttura narrativa è a capitoli alternati con indicativamente tre linee temporali: Shanghai negli anni 30 e 40, Hong Kong nel settembre del 1953, e Hong Kong nel 2015. All’inizio si fa un po’ fatica a seguire le direttive temporali, ma poi tutti i nodi vengono al pettine.

Poi si parla di vendetta di Mei la protagonista e per tutto il romanzo non si capisce di cosa si debba vendicare, per quello è anche misterioso, poi in un capitolo sul finale lo dice ed è uno dei principali colpi di scena. Ma ce ne sono altri che non vi anticipo. 

La scrittura è poetica, aulica, ci riporta alle antiche saghe e leggende cinese, alle storie di spiriti, maledizioni e miti ancestrali. Mi sono piaciuti tutti i personaggi: Mei, soprattutto, Jamie, Susanna, Max, Holly Zhang, la vedova russa Volkova, anche George, più una figura paterna, un insegnante, che un amante di Mei, e questo equivoco forse rende anche complesso il loro rapporto.

In conclusione, La vedova di Hong Kong è un romanzo originale, raffinato e inquietante al punto giusto, che si distingue per la capacità di fondere mito, storia e introspezione in una narrazione che affascina e coinvolge fino all’ultima pagina. Un’opera che cattura, e quasi imprigiona nelle pagine e lascia un’eco profonda nel lettore, come solo le storie più autentiche sanno fare.

Kristen Loesch è cresciuta a San Francisco. Laureata in Storia, ha poi conseguito un master in Studi slavistici all’Università di Cambridge.  La bambola di porcellana  è il suo romanzo d’esordio, da cui verrà anche tratta una serie tv. Vive sulla costa ovest degli Stati Uniti con il marito e i tre figli.

:: La figlia del drago di ferro di Michael Swanwick: un fantasy anarchico e iconoclasta, a cura di Emilio Patavini

6 ottobre 2025

The Iron Dragon’s Daughter è uscito in America nel 1993, per poi essere pubblicato come Cuore d’acciaio da Fanucci nel 1995 e con il suo seguito The Dragons of Babel (I draghi di Babele, 2007) per Urania all’interno della raccolta I draghi del ferro e del fuoco (2011). Nel novembre 2024 è stato finalmente ristampato da Mercurio Books, una nuova casa editrice indipendente. L’autore, Michael Swanwick, americano, classe 1950, ha vinto i premi Nebula, Hugo e il World Fantasy Award e ha scritto racconti a quattro mani con William Gibson e Gardner Dozois.

Prima di passare alla recensione mi si permetta una nota su questa nuova edizione. Nel colophon troviamo un trigger warning, ovvero un’avvertenza volta a indicare la presenza di un contenuto che potrebbe urtare la sensibilità dei lettori. Spero che questa pratica politically correct importata dagli Stati Uniti non diventi un’abitudine nell’editoria, e ammetto che trovarla riportata all’interno di un libro mi ha allarmato ben più del presunto elemento perturbante da cui voleva mettermi in guardia. Mi trovo quasi in imbarazzo a dover ribadire che un libro, in quanto veicolo di cultura, non ha alcun bisogno di bollini colorati come i film o di altre insensate misure affini. La traduzione di Susanna Bini qui riproposta a volte inciampa in calchi dall’inglese fin troppo evidenti, ma tutto sommato si lascia leggere con scorrevolezza.

Ciò premesso, veniamo alla trama. Jane Alderberry è una changeling, una bambina umana che nelle leggende viene scambiata nella culla con un figlio delle fate. Jane si ritrova così a vivere nella dura realtà del Mondo delle Fate e a lavorare a ritmi estenuanti in una fabbrica in cui vengono prodotti draghi meccanici. Se l’atmosfera steampunk echeggia la dickensiana Coketown di Tempi difficili (1854), qui troviamo già un aspetto innovativo del romanzo di Swanwick, in cui la figura del drago viene modernizzata traendo ispirazione dal cyberpunk: i draghi sono infatti creature meccaniche e cibernetiche, rivestite di ferro e dotate di circuiti elettrici, che vengono pilotate come caccia militari. Se Ann McCaffrey, con il suo ciclo dei Dragonieri di Pern, aveva inserito i draghi in un’ambientazione fantascientifica, Swanwick è andato ben oltre rendendoli cyberpunk.

Jane entra in contatto con uno dei questi draghi, il più potente e maligno, destinato alla demolizione. Il suo nome, Melanchton, è un chiaro rimando a Filippo Melantone, nome ellenizzato di Philipp Schwarzerdt (1497-1560), teologo amico di Martin Lutero e animatore della Riforma protestante. Il drago Melanchton è una creatura manipolatrice, astuta e subdola, blasfema e nichilista, animata dall’odio e dalla vendetta. Jane e Melanchton stringono un patto e progettano la fuga. Scappata dalla fabbrica, Jane frequenta prima il liceo e poi l’università di alchimia, stringendo nuove amicizie, sperimentando droghe, praticando sesso occasionale e dedicandosi al taccheggio e alle arti magiche. Il suo percorso non è un arco lineare di crescita bensì una continua spirale distruttiva, scandita dagli stessi errori, dalle stesse perdite e dagli stessi sensi di colpa, in cui incarnazioni diverse degli stessi personaggi tornano a rivivere in un eterno ritorno. Non è un caso che all’interno del romanzo si menzioni il nastro di Möbius, la superficie non orientabile descritta dalla topologia matematica che ha ispirato la struttura di alcuni film di David Lynch.

Un’altra innovazione che salta subito all’occhio del lettore è indubbiamente l’ambientazione. Swanwick descrive con capacità immaginativa e abilità creativa apparentemente inesauribili un universo che sovverte sia i canoni dell’high fantasy classico, di matrice tolkieniana, in cui il Mondo Secondario è sub-creazione del Mondo Primario, sia dell’urban fantasy, in cui elementi fantastici vengono trapiantati nel nostro mondo. Si potrebbe parlare di portal fantasy, quel sottogenere in cui un personaggio del nostro mondo si ritrova per qualche ragione catapultato in un mondo altro, ma La figlia del drago di ferro è un romanzo che proprio in virtù della sua natura camaleontica e ibrida sfugge a ogni tentativo di classificazione. Le etichette di science fantasy e di dark fantasy, pur se applicate con una certa ragionevolezza, appaiono riduttive se non eufemistiche. In effetti, la critica specializzata non ha lesinato tentativi di categorizzare di quest’opera con le definizioni più fantasiose e disparate: c’è chi ha parlato di elfpunk, chi di technofantasy, chi di industrial fantasy o ancora chi, come John Clute[1], ha parlato di anti-fantasy per via dell’amoralità dei suoi personaggi e in particolare della sua anti-eroina. Una definizione che potrebbe apparire calzante, ma che è stata rispedita al mittente dallo stesso Swanwick, che nel suo blog  ha affermato che «[q]uesto non è mai stato il mio intento»[2]. In un’intervista si è detto «scioccato» dalla definizione di anti-fantasy, perché «amo il fantasy e non stavo certo cercando di demistificarlo»[3].  

È anzi proprio l’ibridazione dei generi, unitamente alla complessità del testo, al gusto citazionista e alla tendenza alla decostruzione, che a mio avviso dovrebbe far pensare al carattere postmoderno di questo romanzo sui generis. Il tono oscilla tra il tecnico-scientifico alla Gibson, il colloquiale, il grottesco e il volgare, in una continua commistione di magia e cibernetica, che può essere sintetizzata in sintagmi molto espressivi ideati dall’autore come «cloruro d’ammonio e fegato di rospo» o «cornamuse elfiche e sintetizzatori». Il ricorso a visioni psichedeliche e allucinazioni lisergiche può ricordare Hunther S. Thompson, mentre tra gli scrittori che più hanno influenzato Swanwick troviamo Hope Mirrlees, autrice di Lud nella Nebbia (1926), cui l’autore ha dedicato anche una monografia[4], e naturalmente J.R.R. Tolkien. Il Wall Street Journal ha definito quello creato da Swanwick «l’universo fantastico più accuratamente immaginato dopo quello di J.R.R. Tolkien». Certo, si potrebbe pensare che si tratti di esagerazioni pubblicitarie che lasciano il tempo che trovano e da prendere con le dovute cautele; eppure va detto che Swanwick non appartiene a quel novero di autori che rinnegano Tolkien, non è affetto (come Michael Moorcock e altri) da quel complesso edipico che vorrebbe uccidere il padre putativo del fantasy moderno, ma ha ammesso il debito nei suoi confronti:

«A livello profondo e inconscio, [La figlia del drago di ferro] è una dura critica di ciò che il fantasy è diventato. Mi sono innamorato del fantasy al liceo, e ho letto La compagnia dell’anello nel corso di una lunga nottata. Finii i miei compiti alle 11 di sera, e lo aprii, pensando di leggere un capitolo o due prima di addormentarmi, e finii l’ultima pagina proprio quando suonò la campanella dell’appello nel mio liceo la mattina dopo. Dopodiché cercai e lessi tutti i grandi autori fantasy – E.R. Eddison, Mervyn Peake, Fritz Leiber, Hope Mirrlees, Amos Tutuola, e così via. Perciò la recente ondata di trilogie fantasy intercambiabili mi ha scosso quasi allo stesso modo della scoperta che i boschi in cui ero solito giocare da bambino sono stati rasi al suolo per fare spazio a mediocri complessi residenziali»[5]

Benché a mio avviso si sia lontani dalle vette letterarie e artistiche di quell’immortale capolavoro che è Il Signore degli Anelli, è possibile tracciare alcuni punti di contatto tra le due opere. Per esempio, si può notare come Swanwick mutui dall’opus magnum tolkieniano il tema della quest, volta non già alla distruzione di un artefatto magico, bensì alla distruzione dell’universo stesso e alla morte di Dio (anzi, della Dea). Parimenti tolkieniani sono l’importanza che i nomi rivestono all’interno dei due romanzi, e come la conoscenza dei veri nomi delle cose consenta di avere potere su di esse, o ancora si potrebbe vedere nella fuga di Jane dalla sua realtà un parallelo alle accuse di escapismo rivolte alla letteratura fantastica in generale e alle opere di Tolkien in particolare. Infine, The Iron Dragon’s Daughter (1993), The Dragons of Babel (2008) e The Iron Dragon’s Mother (2019) costituiscono una trilogia di romanzi autoconclusivi che condividono la stessa ambientazione, mentre – come è noto – la divisione de Il Signore degli Anelli in tre libri è stata una scelta dettata dall’editore.

Peraltro non bisogna dimenticare che Swanwick attinge a una delle fonti da cui trasse ispirazione Tolkien, la mitologia celtica. Non solo troviamo citati luoghi leggendari come Avalon, Lyonesse, Ys, Tír na nÓg, Mag Mell, Broceliande, a volte spogliati del loro significato mitico, ma anche nomi gallesi (o grafie simil-gallesi) e riferimenti alla mitologia gallese, come per esempio Caer Gwydion (letteralmente la “fortezza di Gwydion”), ovvero il nome gallese della Via Lattea; i Tylwyth Teg, nome gallese per indicare il Popolo delle Fate; Gwenhidwy, nome della moglie di Gwydion e di una sirena del folklore gallese; o l’awen, l’ispirazione poetica dei bardi gallesi. Inoltre, secondo Tom Shippey, il massimo critico tolkieniano, Swanwick potrebbe essersi ispirato ai The Denham Tracts – una raccolta di folklore britannico risalente alla seconda metà dell’Ottocento –per la lista di creature magiche che compaiono nella sua opera[6]. Nel secondo volume di questa raccolta compare un lunghissimo elenco di termini associati al folklore dell’Inghilterra settentrionale, tra cui la prima occorrenza del termine hobbits[7].

Il mondo in cui vive Jane è Faërie, il Mondo delle Fate, ma è una realtà parallela e superiore alla nostra. Un mondo popolato di ogni sorta di abitante del Piccolo Popolo e del folklore europeo: elfi, demoni, folletti, coboldi, orchi, troll, gargoyle, nani, streghe, fate, ninfe, gnomi, goblin, ma anche varie figure di spiritelli meno noti, come lutin (dalle leggende francesi), hogboon (dal folklore delle Orcadi), powrie (dal folklore scozzese), lešij (dalla mitologia slava), gwarchell (dal folklore gallese, citato anche da Grimm nel suo Deutsche Mythologie), nisse (dal folklore scandinavo), pillywiggin (dal folklore britannico). Queste creature fatate, tuttavia, non hanno nulla a che spartire con le fays vittoriane e gli alti elfi descritti da Swanwick – uomini d’affari senza scrupoli che vestono completi firmati – sono ben altra cosa rispetto agli aristocratici elfi tolkieniani. Un mondo spietato, violento, corrotto, industrializzato e consumista, in cui troviamo centri commerciali, locali notturni, catene di fast food, nani comunisti che combattono in nome della lotta di classe ed elfi dell’alta società che aspirano strisce di “polvere di fata”, ma anche reginette della scuola coinvolte in sacrifici umani alla The Wicker Man, mani di gloria e magia sessuale. L’uso di termini o elementi familiari al lettore calati in un contesto fantastico crea una sensazione di spaesamento, di dissonanza cognitiva, e questa sovrapposizione tra i due mondi contribuisce ad aumentare lo straniamento. Talvolta ci si trova di fronte ad apparenti incongruenze, come il riferimento a un «completo italiano», una «scarpa italiana» o ancora alle «sciarpe italiane» finite non si sa come nel Mondo delle Fate o al vino cecubo decantato da Orazio. In altri casi, l’autore si vale di un procedimento inverso, quello di camuffare oggetti della nostra realtà sotto nomi che ci risultano disorientanti, alieni: per esempio,  così come i draghi vengono usati come caccia militari, le auto sono dunque «cavalli di cromo» e i camion in «behemoth d’acciaio».

Come se non bastasse, ad arricchire questo chimerico calderone ribollente di spunti filosofici e contaminazioni letterarie non mancano citazioni neanche troppo velate al nostro mondo: Swanwick mette in bocca ai suoi personaggi le parole pronunciate da Neil Armstrong durante l’allunaggio, una  celebre frase di Robert Oppenheimer tratta dalla Bhagavadgītā, riferimenti all’incipit di Neuromante (1984) di William Gibson, alla poesia Goblin Market (1862) di Christina Rossettie allo pseudobiblion Culti indicibili inventato da Robert E. Howard.


[1]J. Clute – J. Grant (ed. by), The Encyclopedia of Fantasy, St. Martin’s Press, New York 1997, p. 914

[2]<https://floggingbabel.blogspot.com/2019/06/my-accidental-trilogy_25.html&gt;

[3]<https://paulsemel.com/exclusive-interview-the-iron-dragons-mother-author-michael-swanwick/>. Sul rapporto con Tolkien, cfr. anche M. Swanwick, “A Changeling Returns” in K. Haber (ed. by), Meditations on Middle-earth, St. Martin’s Press, New York 2001, pp. 33-46

[4]M. Swanwick, Hope-in-the-Mist: The Extraordinary Career and Mysterious Life of Hope Mirrlees, Temporary Culture, 2009

[5]<http://www.infinityplus.co.uk/nonfiction/intms.htm&gt;

[6]Cfr. T. Shippey, “Fighting the Long Defeat: Philology in Tolkien’s Life and Fiction” in id. Roots and Branches, Walking Tree Publishers, Zurich and Berne 2007,p. 154 e “The Faërie World of Michael Swanswick” in D. Fimi – T. Honegger (ed. by), Sub-creating Arda: World-building in J.R.R. Tolkien’s Works, its Precursors, and Legacies, Walking Tree Publishers, Zurich and Berne 2019.

[7]J. Hardy (ed.), The Denham TractsA Collection of Folklore by Michael Aislabie Denham, and Reprinted from the Original Tracts and Pamphlets printed by Mr. Denham between 1846 and 1859, Vol. II, The Folklore Society, London 1895, p. 79

:: Broken Moonlight di Mariachiara Lobefaro (Gallucci 2025) a cura di Giulietta Iannone

30 luglio 2025

La sedicenne Vicky Middleton si è appena trasferita nella frenetica metropoli di Hong Kong. L’incontro con Sean Lau – occhi a mandorla e capelli neri come la pece – è un colpo di fulmine. Affascinante e misterioso, Sean le rivela il suo segreto: il Dio della Guerra ha scagliato su di lui una maledizione, che lo trasformerà per sempre in una creatura della notte. L’unica possibilità di salvezza, secondo il negromante Fang-Shi, è ritrovare un antichissimo manufatto, andato perduto due secoli prima. L’amore spinge Vicky a offrire il proprio aiuto incondizionato, ammesso che Sean le dica tutta la verità…

Esce dopo domani, primo agosto, un young adult un po’ diverso dal solito, dedicato agli adolescenti dai sedici anni in su, dal titolo Broken Moonlight di Mariachiara Lobefaro con l’editore Gallucci. Ho potuto leggerlo in anteprima e mi ha subito incuriosito l’ambientazione Hong Kong, perla del magico oriente, luogo abbastanza originale per ambientare un romanfantasy, così viene definito questo genere letterario che unisce il romance (c’è una tenera storia d’amore tra adolescenti) e il fantasy (c’è magia, maledizioni, sortilegi, divinità vendicative). Oltre allo scenario esotico, di una Hong Kong contemporanea, perlopiù notturna, descritta nelle sue vie, nei suoi, mercati, nei suoi locali, la parte riguardante il folklore locale è molto accurata, segno che l’autrice ha fatto approfondite ricerche, tra leggende tradizionali cinesi, e divinità del pantheon cinese (il tempio di Man Mo esiste davvero e fu costruito intorno al 1847 da alcuni ricchi mercanti cinesi, durante i primi anni del dominio coloniale britannico di Hong Kong). Protagonisti sono due ragazzi Vicky Middleton, un’inglesina che ha appena perso il padre, e Sean Lau, un affascinante cinese che sfortuna volle si è trovato vittima di una maledizione scagliata niente di meno che dal dio della Guerra. Per salvarsi Sean Lau dovrà trovare un antico manufatto andato perduto due secoli prima. Manufatto anch’esso cercato da un boss locale anche lui vittima della maledizione dell’irascibile dio. Vicky innamoratasi a prima vista del ragazzo farà di tutto per aiutarlo. Ma siamo sicuri che Sean Lau le abbia raccontato davvero tutto? O nasconde altri segreti? In una labirintica Hong Kong inizia per ciò questa sorta di caccia la tesoro dai risvolti imprevedibili. Naturalmente non vi racconto il finale se no vi rovino tutto il divertimento, ma è davvero bello. La Lobefaro scrive bene e ha senso dei tempi e un amore sincero per l’oriente. Buona lettura e arrivederci a settembre.

Mariachiara Lobefaro è nata in Puglia, ha studiato a Bologna e vive a Firenze, dove insegna Lettere alle superiori. È stata finalista al Premio Strega Ragazze e Ragazzi 2024, nella sezione dedicata al miglior esordio. Con Gallucci ha pubblicato anche Diamond Palace ed è tra gli autori della raccolta Le farfalle nello stomaco.

Source: inviato dall’editore.

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:: Libri fantasy: nel 2024 le vendite crescono del 27,1%

7 dicembre 2024

Una notizia confortante ci giunge, forse inaspettata, da Più libri più liberi, Fiera nazionale della piccola e media editoria, sembra, e lo dicono i dati, che il genere fantasy (la classificazione è quella utilizzata da NielsenIQ-GfK che raggruppa fantasy e fantascienza in un’unica categoria) sia in controtendenza e registri una crescita del ben 27,1% a valore raggiungendo i 17,666 milioni di euro, del 26% a copie superando il milione di libri venduti (1.060.000). Dunque il fantasy è un genere emergente nel mercato italiano e registra un incremento di vendite e non di poco. I dati sono stati presentati a Più libri più liberi durante l’incontro del programma professionale Libri fantasy e dove trovarli. Fenomeno che si è enunciato, durante l’incontro, è sicuramente l’ibridazione, ovvero la nascita di sottogeneri che uniscono per esempio il romance e il fantasy, allargando non di poco il parco lettori. A cui si potrà aggiungere il sottogenere che unisce il fantasy e il giallo, perchè no? Nella top 10 dei titoli più venduti secondo la classificazione di NielsenIQ-GfK, troviamo al primo e al secondo posto due volumi della saga di Rebecca Yarros edita in Italia da Sperling & Kupfer, Iron Flame al primo posto e Fourth Wing al secondo. Powerless. Potere e inganno, di L. Roberts (Newton Compton) al terzo posto, al quarto Il problema dei tre corpi, di C. Liu (Mondadori). Dal quinto al nono posto troviamo cinque classici della fantascienza e del fantasy: Fahrenheit 451, di R. Bradbury (Mondadori), La strada, di C. McCarthy (Einaudi), Dune volume 1 di F. Herbert (Fanucci), Lo Hobbit. Un viaggio inaspettato di J. R. R. Tolkien (Bompiani), Dune volume 2 (Fanucci). Chiude la classifica Half a soul. Metà di un’anima di O. Atwater, (Rizzoli).​ Nessun autore italiano tra i primi 10, ricollegandoci all’articolo di qualche giorno fa, ma nonostante questo è una gran bella notizia che fa ben sperare per il futuro. La fantascienza, e il fantasy, stanno bene, e vi salutano tutti!

L’Enciclopedia del Fantasy scritta per Edizioni NPE a cura di Elena Romanello

21 aprile 2024

Edizioni NPE propone l’Enciclopedia del Fantasy, scritta da me, dopo una lunga gestazione e varie revisioni che si sono succedute in questi ultimi anni.
Averla in mano è indubbiamente una bella soddisfazione, perché rappresenta un ulteriore tassello di una passione che è diventata un lavoro, in un percorso iniziato tempo fa, quando da adolescente rimasi folgorata nell’ordine dal libro La storia infinita, dal film Labyrinth e in seguito da ExcaliburLe nebbie di Avalon, rispettivamente un film e un libro. Poi è arrivato tutto il resto e ho visto il fantasy passare da fenomeno di nicchia, come era negli anni Novanta, con l’evento Itinerari fantastici, a mainstream grazie al successo mondiale di Harry PotterIl Signore degli Anelli e Game of Thrones. Ma ci sono molte altre storie dentro questo genere.
L’idea di fare un’Enciclopedia sul fantasy risale a qualche anno fa, quando presi il libro Torino magica fantastica leggendaria scritto da Massimo Centini per Piemonte in bancarella, organizzato come un’enciclopedia e pensai che poteva essere interessante fare qualcosa del genere sul fantasy. In tema, avevo già pubblicato la Storia del fantasy per Anguana edizioni e ero al lavoro sulle guide non ufficiali a due serie cult di questi ultimi anni, Once upon a time Game of thrones, poi uscite rispettivamente per Yume edizioni e per Ultralit.
In un primo tempo, pensavo di mescolare tutte le voci, su qualsiasi argomento, poi ho deciso di dividerle in quindici aree tematiche: Le Origini Fiaba ed Epica, I filoni del fantasy, Autori e Autrici, Storie e personaggi, Icone, Luoghi, Illustratori, Fumetti, Anime e manga, Cartoni animati, Cinema, Serie TV, Giochi e Videogiochi, Fantasy e società.
Meglio essere ordinati, anche se il mondo del fantasy invita davvero a mille e mille viaggi nella fantasia, sempre gratificanti e che si sono spesso organizzati su più media, partendo spesso comunque e sempre dai libri, alla base della maggior parte delle serie.
Ho cercato di essere il più esauriente possibile, senz’altro ho tralasciato qualcosa, confesso che su alcune cose, come i giochi, non so moltissimo. Non ho fatto l’impaginazione, ma ho fatto la ricerca iconografica, molto stimolante anche lei.
Come è capitato anche con gli altri miei libri, questa Enciclopedia è un punto di arrivo e un punto di partenza, perché rappresenta il coronamento di ricerche, studi, letture, visioni, ma anche un nuovo stimolo ad andare avanti, del resto la fantasia non ha confini, come dicono appunto ne La Storia infinita. E sono sempre in cerca di nuove storie in tema ma riprendo volentieri in mano anche quelle classiche, scoprendo nuovi aspetti e sfumature. Perché il fantasy non è solo storielle per ragazzini, ma molto e molto di più.

:: La mosca di George Langelaan (NPE 2022) a cura di Emilio Patavini

8 dicembre 2022

«Una mattina Gregorio Samsa, destandosi da sogni inquieti,

si trovò mutato, nel suo letto, in un insetto mostruoso»

(Franz Kafka, La metamorfosi, 1915)

Ritorna nelle librerie La mosca dello scrittore franco-britannico George Langelaan, un racconto breve che mischia orrore, fantascienza e dramma familiare. Dopo essere stato disponibile solo in antologie fuori catalogo, è stato recentemente ripubblicato dalla casa editrice specializzata in fumetto d’autore NPE Editore in una bellissima edizione curata da Denis Pitter, che ne è sia l’illustratore che il traduttore. Il racconto, intitolato The Fly, fu pubblicato originariamente in inglese su Playboy nel giugno 1957. Nel 1962 Langelaan riscrisse il racconto in francese pubblicandolo nell’antologia Nouvelles de l’Anti-Monde. Curioso il fatto che nel racconto originale (scritto in inglese) i nomi dei personaggi e le ambientazioni fossero francesi, mentre nella riscrittura in francese de La mouche (1962) tutti i riferimenti francofoni sono stati sostituiti da nomi anglofoni. Per fare alcuni esempi, François, André, madame Hélène e Henri Delambre diventano Arthur, Robert, lady Anne e Harry Delambre, o ancora il commissario Charas diventa l’ispettore Twinker. La traduzione della presente edizione è condotta sulla versione francese e contiene le integrazioni delle parti tagliate dalla seconda versione (1962). Il racconto ha avuto una fortunata serie di trasposizioni cinematografiche e persino una trasposizione operistica (2008), composta da Howard Shore su libretto di David Henry Hwang. La prima di queste trasposizioni cinematografiche è sicuramente The Fly, un film del 1958 con Vincent Price prodotto e diretto da Kurt Neumann. La pellicola uscì l’anno dopo la pubblicazione dell’omonimo racconto di Langelaan, ma da noi venne intitolata L’esperimento del dottor K. in riferimento a La metamorfosi di Kafka. Il film è ambientato in Canada e si apre con l’omicidio di André Delambre, il cui cadavere viene ritrovato sotto la pressa idraulica della sua fabbrica. Sua moglie Hélène (lady Anne, nel racconto) confessa l’omicidio del marito ma si rifiuta di spiegarne il movente. La strana calma di lady Anne / madame Hélène viene interpretata dai medici come sintomo di follia. Il film di Neumann e il racconto originale hanno la struttura di un noir, con un mistero da risolvere. Nel film il mistero viene svelato ricorrendo all’espediente del flashback di Hélène, mentre nel racconto lady Anne consegna una confessione scritta al cognato Arthur Browning. Se la sceneggiatura di James Clavell per il film di Neumann è molto fedele al racconto originale, tanto da trasporre intere scene e persino alcuni dialoghi, essa si discosta però nel finale. A The Fly di Neumann seguirono altri due film che composero una trilogia cinematografica: La vendetta del dottor K. (The Return of the Fly, 1959), diretto da Edward Bernds, e La maledizione della mosca (Curse of the Fly, 1965), diretto da Don Sharp.

Nel 1986 il regista canadese David Cronenberg realizzò un celebre remake di The Fly, uscito con lo stesso titolo e divenuto un film di culto. La sceneggiatura era scritta da Charles Edward Pogue e da David Cronenberg, mentre la colonna sonora, come in moltissimi altri film del maestro del body horror, venne affidata a Howard Shore. La mosca di Cronenberg ha anche un seguito, La mosca 2 (The Fly II, 1989), diretto da Chris Walas, vincitore dell’Oscar al miglior trucco 1987 assieme a Stephan Dupuis proprio per La mosca di Cronenberg.

La storia è la stessa: uno scienziato geniale è alle prese con una macchina capace di disintegrare la materia e di teletrasportarla da un luogo a un altro. Da notare che nel racconto – e nel film di Neumann – non si parla mai di “teletrasporto”, bensì della «disgregazione e la riaggregazione della materia» (p. 15). Dopo i primi tentativi fallimentari, il teletrasporto sembra funzionare, così lo scienziato decide di entrare nella macchina in prima persona, senza accorgersi che una mosca è entrata nella cabina, causando una inattesa fusione uomo-insetto. Ne L’esperimento del dottor K., quello di Delambre non è il lento e mostruoso deterioramento fisico e morale di Seth Brundle, ma un incidente improvviso. Tuttavia, nel racconto, dopo un ulteriore esperimento, Robert Browning non ha più solo la testa di mosca ma anche alcune parti appartenenti a Dandelo, il gatto disintegrato in uno dei suoi primi esperimenti, che compare anche nel film di Neumann con il nome di Isabelle, la povera gatta che continua a miagolare misteriosamente anche una volta dematerializzata.

In entrambe le pellicole è sempre l’hybris a spingere uno scienziato a varcare «confini che l’uomo non dovrebbe superare», per usare una citazione dal film di Neumann, e inoltre è di primaria importanza l’amore che lega lo scienziato a sua moglie Hélène (L’esperimento del dottor K.) o alla giornalista di cui si è innamorato (La mosca), tanto che Cronenberg ha definito il suo remake una «commedia romantica». Nel film di Neumann la tensione viene scandita dal costante ronzio della mosca in sottofondo fino al ritrovamento finale che permette a Hélène di non essere accusata dell’omicidio del marito. Ne La mosca di Cronenberg il crescendo di tensione segue il declino fisico e morale di Brundle e si accompagna a una abbondanza di sequenze raccapriccianti e disgustose.

George Langelaan (1908-1972), nato a Parigi da padre inglese e madre inglese, lavorò prima come giornalista e poi, durante la Seconda Guerra Mondiale, come spia per lo Special Operations Executive (SOE) dei servizi segreti inglesi. Come scrisse nella sua autobiografia The Masks of War (1959), fu sottoposto a interventi di chirurgia plastica per rimuovere alcuni tratti distintivi del suo aspetto, come le orecchie troppo sporgenti. Dopo la Liberazione si dedicò alla scrittura di romanzi di spionaggio e di racconti del soprannaturale. Era inoltre amico dell’occultista e scrittore britannico Aleister Crowley.

Source: inviato dall’editore. Si ringrazia l’Ufficio Stampa NPE Editore.

:: Kane. La saga di Karl Edward Wagner (Mondadori 2022)

10 ottobre 2022

Kane porta il marchio dell’uomo maledetto: si narra che abbia strangolato suo fratello e da allora sia condannato da una divinità folle a vagare per il mondo senza pace, fino a quando sarà distrutto dalla stessa violenza che ha creato. Guerriero spietato e sottile tessitore di intrighi, vive da millenni passando di regno in regno, di avventura in avventura, senza posa. Personaggio complesso e sfaccettato, è uno dei più riusciti protagonisti del genere Sword & Sorcery.

Uscito il 22 settembre nella pregiata collana Draghi di Mondadori Kane di Karl Edward Wagner, volume deluxe da collezionare per una volta senz’altro in cartaceo, capostipite del dark fantasy, è un fantasy che piace anche a chi non ama il fantasy tanto che è ben scritto, appassionante, ricco di avventura, ironia e azione. Tradotto da un manipolo di giovani traduttori, di cui mi pregio di conoscere uno di loro il mitico Davide Mana, (un’autorità in materia di fantasy) è senz’altro un’edizione di lusso da intenditori. Appena avrò i 28 Euro non mi sfuggirà, ne ho letto l’anteprima su Amazon e devo dire ero tentata di far sforare il budget familiare pur di comprarlo, poi sono tornata in me (mio fratello ringrazia, Amazon forse mi maledice), e posticipo l’acquisto appena mi arriva un pagamento che mi devono, lo investirò almeno in parte in questo libro prezioso da conservare sulla mensola più alta della mia biblioteca personale. A dire il vero era mia madre che adorava il fantasy e collezionava libri dei classici di questa narrativa, (e sicuramente Karl Edward Wagner è uno di loro, anzi un caposaldo) ma questa nuova traduzione merita senz’altro. Buona lettura!

Segnalo un’intervista a Davide Mana: Tradurre il fantasy moderno.

Edward Karl Wagner (Knoxville, Tennessee, 1945-1994). Ha scritto soprattutto opere di horror, fantascienza e fantasy eroico; curatore dei racconti di Conan il Barbaro, è stato tra i fondatori della Carcosa Press, specializzata in lussuose edizioni di autori pulp.

Le mie Donne di Magia per Yume

9 marzo 2022

9788854941557_0_536_0_75Ho pubblicato un nuovo libro presso la casa editrice mia concittadina Yume Books, dopo quello di due anni e mezzo fa su Once upon a time, e cioè Donne di magia: Streghe e maghe nella cultura del fantastico.
Yume Books si è già occupata varie volte della figura storica e antropologica delle streghe, donne perseguitate nel corso dei secoli spesso solo perché vivevano ai margini della società e diventate emblematiche di tutte le discriminazioni subite da chi era percepito come diverso.
Nel mio libro, come nerd e otaku, io mi sono invece concentrata su come le streghe sono state viste e raccontate nelle storie, soprattutto di genere fantastico, partendo dai poemi epici, dalle fiabe e dalle leggende e arrivando ai serial televisivi, agli anime e ai fumetti degli ultimi anni.
La strega è un personaggio che mi ha sempre affascinata, anche quando era la nemica delle fiabe: alzi la mano chi non trova più carismatiche la regina Crimilde di Biancaneve e i sette nani o Malefica de La Bella addormentata che non le protagoniste. Poi,  a scuola, conobbi personaggi come la maga Circe dell’Odissea, o Alcina dell’Orlando furioso, e ad un certo punto lessi uno di quei libri che ha cambiato la mia vita, Le nebbie di Avalon di Marion Zimmer Bradley, con una nuova lettura di un personaggio sempre visto come cattiva, Morgana, la strega del ciclo arturiano, qui eroina ribelle.
Negli ultimi decenni sono state tantissime le streghe, stavolta quasi sempre buone, che mi hanno appassionata, a cominciare da Willow di Buffy per arrivare alle sorelle Halliwell di Charmed e senza dimenticarne altre, come Sabrina, o come le WITCH, e la figura della donna o ragazza che pratica magia è diventata una delle protagoniste dell’immaginario fantastico moderno. Sono tutti personaggi che ho amato molto, anche se ogni tanto mi piacciono le streghe di nuovo un po’ cattive, come Melisandre di Game of Thrones.
Nelle pagine di questo libro ho cercato di tracciare e omaggiare tutte queste figure femminili, buone e cattive, che hanno rappresentato delle icone in storie che da anni sono entrate nella nostra fantasia e che continuano ad appassionarmi molto.
Quali sono le mie preferite, come fan? Beh, continuo a sentire una fascinazione per Circe, ricordandola nel mirabile sceneggiato Odissea di Franco Rosi, adoro Morgana raccontata da Marion Zimmer Bradley, Willow di Buffy è e resta il mio personaggio preferito della serie, amo molto Hermione di Harry Potter e apprezzo sia la Malefica cattiva del cartone Disney che quella tormentata ma buona di Angelina Jolie nei due film.
E adesso, mi dedicherò ad un’altra icona al femminile dell’immaginario, la guerriera.

Il sogno della regina in rosso di Camilletti, Moberly e Jourdain (ABEditore, 2021) a cura di Elena Romanello

21 febbraio 2022

9788865513439_0_536_0_75ABEditore presenta nel suo catalogo una via di mezzo tra romanzo e saggio, Il sogno della regina in rosso, che presenta la prima edizione di un libro che cambiò molte coscienze all’inizio del Novecento, capace di influenzare l’immaginario ancora oggi e basato su un fatto realmente accaduto, o comunque realmente percepito dalle sue autrici.
Era un sabato d’agosto del 1901 quando le due professoresse inglesi Charlotte Anne Moberly e Eleanor Jourdain, in vacanza a Parigi, decisero di andare a fare un giro alla reggia di Versailles, allora in buona parte abbandonata. Le due signore, colte e istruite, di mentalità vittoriana, con una visione comunque pragmatica della vita, decisero di arrivare fino al Petit Trianon, l’antica residenza della regina Maria Antonietta, anche se il Baedeker, la guida inseparabile di ogni turista inglese dell’epoca, era molto laconico.
Le due amiche e colleghe di lavoro si persero nei meandri di un giardino in disarmo e qui incrociarono otto persone, scambiando due parole con alcune di loro, e sentendo una strana sensazione di inquietudine crescente. Tutto sembrava irreale, alberi e luce del giorno compresi, e le presenze che videro, tra cui una donna bionda che disegnava con un grande cappello sulla testa, erano vestiti come all’epoca di Maria Antonietta, e da ricerche che le due fecero successivamente, in quel periodo non si stava girando nessun film e non c’era nessuna festa in maschera.
Charlotte Anne Moberly ed Eleanor Jourdain dedicarono il resto della loro vita a raccontare questa loro esperienza ai confini della realtà, scrivendo poi il libro An Adventure e facendo ricerche in tema per suffragare la tesi che avessero trovato una porta per cadere in un’altra dimensione e compiere un viaggio nel tempo.
Il sogno della regina in rosso è  la prima traduzione italiana assoluta di An Adventure, ma è anche la storia di un libro che ebbe cinque edizioni, dal 1911 al 1958, appassionando il pubblico, dividendolo tra scettici e credenti e attirando l’attenzione di spiritisti e poeti, di filosofi e psicoanalisti, di fisici e di scrittori di fantascienza. Una storia contemporanea di Freud e Georges Méliès, di H.G. Wells e di Albert Einstein, un’opera aperta che si può leggere come una storia di fantasmi, un sogno, un viaggio nel tempo su un Tardis invisibile ante litteram, un’allucinazione, un ricordo di una delle vicende, quella della regina Maria Antonietta, che non ha cessato di influenzare e ispirare l’immaginario.
Il giudizio sulla veridicità del racconto è ovviamente sospeso, ma ci sono tanti elementi inquietanti e strani presenti, tra passaggi che c’erano solo nel Settecento e non in quell’epoca, e eventi che furono scoperti dalle due donne a posteriori.
Il sogno della regina in rosso è un libro, quindi, con più livelli di lettura, per appassionati di paranormale, di fantastico, di viaggi nel tempo e per chi ha continuato a trovare suggestioni nel parco del Trianon, il racconto di due donne adulte che caddero nella tana di un coniglio, e del mondo incantato, surreale e spaventoso che trovarono una volta varcata la soglia.

Fabio Camilletti,  classe 1977, è professore di Letteratura italiana all’università di Warwick, nel Regno Unito. Ha di recente pubblicato una Guida alla letteratura gotica e curato la prima edizione italiana di Fantasmagoriana, oltre a tradurre ed editare il manoscritto originale del Frankenstein e le opere di John Polidori. Con ABEditore ha già curato La casa infestata di Place du Lion d’Or (2020) ed è in uscita Spettriana (2022).
Charlotte Anne Elizabeth Moberly (1846-1937) fu la prima direttrice di St Hugh’s Hall (1886), una residenza femminile di Oxford che sotto la sua presidenza si trasformò in vero e proprio college universitario. “Settima figlia di un settimo figlio”, come amava definirsi, riferì molte esperienze paranormali vissute in prima persona.
Eleanor Jourdain (1863-1924) fu studiosa di Dante e insegnante di scuola; nel 1915 succedette a Moberly nella presidenza di St Hugh’s. Neanche lei era nuova a esperienze insolite: si riteneva dotata di facoltà paranormali, a suo dire ereditarie.

Provenienza: libro del recensore.

:: L’ombra degli dei di John Gwynne (Fanucci 2022) Recensione a cura di Emilio Patavini

19 febbraio 2022

«Vígríðr si chiama il campo
dove si daranno battaglia
Surtr e gli dei benigni.
Cento miglia
si stende d’ogni parte;
quello è il campo loro destinato»

(Edda poetica, Vaftþrúðnismál 18; traduzione dal norreno di Gianna Chiesa Isnardi)

Un anno fa è uscito nel Regno Unito l’ultimo romanzo di John Gwynne, The Shadow of the Gods, primo capitolo della Saga dei Fratelli di sangue, cui presto si aggiungerà il secondo volume, The Hunger of the Gods, in uscita il 14 aprile 2022 per Orbit Books. Così, quando il 27 gennaio Fanucci Editore ha portato in Italia la traduzione, a opera di Francesco Vitellini, di questo romanzo fantasy ispirato alla mitologia nordica non ho potuto fare a meno di leggerlo.

Immaginate un’ambientazione post-Ragnarök, in cui gli dei sono morti ma i loro resti e la loro progenie continuano a influenzare la vita degli uomini sotto forma di magia. Immaginate due continenti, un po’ come Westeros ed Essos nei romanzi di G.R.R. Martin: Vigrið, a nord, che prende il nome dalla Piana della Battaglia in cui gli dei persero la vita secondo il mito norreno, e Iskidan a sud, creato su modello di un impero orientale. La storia è ambientata nel continente di Vigrið, una terra del ghiaccio e del fuoco (che deve qualcosa all’Islanda e ai suoi fiordi), in cui si consuma la lotta per il potere di re, regine e jarl. La narrazione si snoda su tre fili narrativi, seguendo le vicende di altrettanti personaggi: Orka, una proprietaria terriera dall’oscuro passato; Varg, uno schiavo che vorrebbe entrare a far parte dei Fratelli di Sangue; e infine Elvar, la figlia di uno jarl che si è unita alla compagnia degli Sterminatori per guadagnarsi fama in battaglia.

Quelli descritti da Gwynne sono personaggi vividi, ben caratterizzati, con le loro ombre e i loro segreti, spietati come il mondo in cui vivono. Superata la prima parte, in cui il lettore deve prendere confidenza con i personaggi e l’ambientazione, la storia diventa via via più dinamica, ricca di azione, le scene si fanno più movimentate grazie ai continui colpi di scena, per arrivare a un finale che è un crescendo di epicità e rivelazioni. Lo stile è evocativo e scorrevole: un ottimo esempio di show, don’t tell.

Il romanzo fonde un world-building di ispirazione nordica (l’autore è un re-enactor vichingo, perciò le armi, il vestiario, le armature, le tecniche di combattimento sono molto approfondite), con il folklore scandinavo (vaesen, tennúr, näcken, troll diverranno figure familiari per il lettore), attingendo a piene mani da fonti come il Beowulf e l’Edda. Come scrive l’autore nei Ringraziamenti: «Nella sua essenza, questo libro è ispirato sia a Beowulf che al Ragnarök, la battaglia della fine dei tempi in cui caddero gli dei e il mondo fu rinnovato» (p. 458). Infatti, sono presenti numerosi riferimenti alla mitologia norrena e al grande poema epico anglosassone. Gwynne non si è limitato a riciclare i miti nordici e a riproporli nella forma in cui li conosciamo: non compaiono Odino, Loki e Thor ma divinità di sua invenzione. L’autore ha reinterpretato i miti in un modo molto originale, ha recuperato gli archetipi e li ha impiegati per la creazione di propri miti, per inventare la propria epica. Di conseguenza, il suo word-building risulta coerente e credibile, con un passato mitico sullo sfondo. Secondo la sua mitologia, nel Guðfalla, la Caduta degli Dei (=Ragnarök), tutte le divinità persero la vita in uno scontro mortale: a capo del pantheon creato da Gwynne c’è Snaka (sorta di Jörmungandr), il dio serpente e padre degli dei; altre divinità sono Ulfrir, il dio lupo incatenato (=il lupo Fenrir) e Lik-Rifa, la dea drago imprigionata sotto il frassino Oskutreð (=Yggdrasill), di cui rosicchia le radici (come il drago Níðhöggr). Inoltre, dai miti scandinavi sono riprese le figure del berserkir (guerriero ricoperto di pelli d’orso), degli úlfheðnar (guerrieri ricoperti di pelli di lupo) e i riferimenti alla pratica magica del seiðr. Nel romanzo, inoltre, compaiono alcune frasi in norreno, che viene chiamato «lingua antica» o lingua Galdur, cioè la lingua degli incantesimi. Al Beowulf, invece, può essere fatto risalire il nome del figlio di Orka, Breca, nome del rivale di Beowulf in una famosa gara di nuoto. La terminologia norrena contribuisce ad arricchire l’ambientazione, rendendola ancora più credibile, tanto che in alcuni punti (soprattutto all’inizio) si ha quasi la sensazione di leggere un romanzo storico ambientato all’epoca dei vichinghi e non un fantasy. Ma come in ogni saga nordica che si rispetti ci sono i mostri, come troll con tanto di corna e zanne e una viscida creatura simile a Gollum che vive in una caverna subacquea.

In questo mondo sul baratro dell’oscurità, non solo gli dei sono morti, ma sono odiati e viene data la caccia ai loro discendenti, i Corrotti, nelle cui vene scorre sangue divino. L’Ombra degli dei può essere definito come un fantasy alla G.R.R. Martin con tinte dark fantasy, epiche scene di combattimento e la presenza del folklore scandinavo e della caccia ai mostri, come nella saga letteraria di The Witcher di Andrzej Sapkowski. Quello raccontato da John Gwynne è un «mondo oscuro e le azioni oscure lo governano» (p. 141), un mondo fatto di muri di scudi, di sale dell’idromele, di sangue e vendette. I tre fili narrativi sono accomunati da un senso di rivalsa e di riscatto, in un tempo in cui l’inverno sembra arrivare e le forze del male ridestarsi. Un romanzo che rievoca atmosfere dense di immaginazione e inventiva. Salite a bordo di un drakkar e lasciatevi trasportare a Vigrið, una terra in cui la leggenda diventa realtà.

John Gwynne è nato a Singapore e in seguito ha viaggiato molto. Attualmente vive con la moglie e i quattro figli nell’East Sussex. Autore della serie bestseller La fede e l’inganno, composta dai romanzi Malice – La guerra degli dèi, con cui si è aggiudicato il David Gemmell Morningstar Award per la categoria “Miglior fantasy”; Valour – L’astro splendente; Ruin – La lancia di Skald e Wrath – Nuove alleanze. È autore anche della trilogia Di sangue e ossa, che si compone dei romanzi Venti di guerra, Tempo di sangue e Tempo del coraggio.

Source: inviato dall’editore al recensore. Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Fanucci Editore.

Il re che fu, il re che sarà di Terence Hanbury White (Mondadori, 2021) a cura di Elena Romanello

14 gennaio 2022

La collana Oscar Draghi presenta in unico volume la pentalogia del Ciclo del Re in eterno, una delle saghe fondanti del fantasy contemporaneo, scritta a partire dal 1938 da Terence Hanbury White, e assente da un po’ di anni dagli scaffali delle librerie.
La vicenda ricostruisce una storia senza tempo, quella di Re Artù, in una chiave comunque originale e interessante: il primo romanzo della serie, La spada nella roccia, era rivolto ad un pubblico di ragazzi, poi i toni diventano man mano più adulti, ed è noto per la trasposizione animata fatta dalla Walt Disney negli anni Sessanta.
Come è ormai abitudine, anche questo volume si distingue per la cura grafica, perfetta per immergere il lettore o la lettrice nel mondo della corte di Camelot, seguendo la crescita di Artù e dei personaggi con cui entra in contatto, a iniziare dal mago Merlino, suo mentore per tutta la vita.
I libri successivi al primo sono dai toni più adulti e complicati, ma non per questo meno interessanti: come è accaduto poi decenni dopo con la saga di Harry Potter, anche il pubblico del Ciclo del Re in eterno è cresciuto man mano che i capitoli uscivano.
Nel secondo libro, La regina dell’aria e delle tenebre Artù va incontro al suo destino dopo aver estratto la spada, e l’autore racconta la fondazione dei Cavalieri della Tavolta Rotonda, da cui però nascerà anche la caduta del sogno di Camelot.
Il terzo capitolo, Il cavaliere malcreato, è incentrato sul personaggio di Lancillotto, il campione della corte, che però si innamora di Ginevra, moglie di Artù, creando un triangolo fatale. La candela nel vento prosegue la storia con la morte di Artù per mano del suo figlio illegittimo Mordred. Il quinto libro, inedito fino ad oggi, è Il libro di Merlino, dove si concludono le vicende dei personaggi principali.
La saga di Terence Hanbury White è stata ed è fondamentale per come ha portato nell’immaginario contemporaneo uno dei miti fondanti di sempre, con uno stile di scrittura originale che mette insieme modernità e antico, per creare un ponte tra i classici dei secoli passati e l’oggi. Una storia da leggere e rileggere, nota ma raccontata con uno stile che poi ha fatto scuola per le versioni successive, come quelle di Marion Zimmer Bradley e di Mary Stewart.

Terence Hanbury White (Bombay 29 maggio 1906 – Atene 17 gennaio 1964) fu uno scrittore inglese, è noto soprattutto per la serie di romanzi Re in eterno (The Once and Future King), che rappresenta una delle più influenti opere moderne sul mito di Re Artù.
Si laureò al Queens’ College di Cambridge e per qualche tempo insegnò a Stowe, nel Buckinghamshire, per poi diventare scrittore a tempo pieno. Amava la caccia e la pesca, era un falconiere e un naturalista, e lottò tutta la vita contro i pregiudizi che lo colpirono in quanto omosessuale.
La sua opera più nota, Re in eterno è una raccolta di romanzi che reinterpretano la leggenda di Re Artù, principalmente sulla base di Le Morte d’Arthur di Thomas Malory.  I suoi romanzi introdussero alcuni elementi poi diventati fondanti dell’immaginario contemporaneo in tema, come per esempio la spada conficcata nella roccia che solo Artù riesce ad estrarre.
White scrisse altri libri, come Mistress Masham’s Repose, in cui omaggiò Jonathan Swift e i suoi Viaggi di Gulliver. Morì in viaggio, a bordo di una nave ancorata al Pireo di Atene e lì è stato sepolto.

Provenienza: omaggio dell’Ufficio stampa che ringraziamo.