Posts Tagged ‘Fantascienza Fantasy Horror’

:: La mosca di George Langelaan (NPE 2022) a cura di Emilio Patavini

8 dicembre 2022

«Una mattina Gregorio Samsa, destandosi da sogni inquieti,

si trovò mutato, nel suo letto, in un insetto mostruoso»

(Franz Kafka, La metamorfosi, 1915)

Ritorna nelle librerie La mosca dello scrittore franco-britannico George Langelaan, un racconto breve che mischia orrore, fantascienza e dramma familiare. Dopo essere stato disponibile solo in antologie fuori catalogo, è stato recentemente ripubblicato dalla casa editrice specializzata in fumetto d’autore NPE Editore in una bellissima edizione curata da Denis Pitter, che ne è sia l’illustratore che il traduttore. Il racconto, intitolato The Fly, fu pubblicato originariamente in inglese su Playboy nel giugno 1957. Nel 1962 Langelaan riscrisse il racconto in francese pubblicandolo nell’antologia Nouvelles de l’Anti-Monde. Curioso il fatto che nel racconto originale (scritto in inglese) i nomi dei personaggi e le ambientazioni fossero francesi, mentre nella riscrittura in francese de La mouche (1962) tutti i riferimenti francofoni sono stati sostituiti da nomi anglofoni. Per fare alcuni esempi, François, André, madame Hélène e Henri Delambre diventano Arthur, Robert, lady Anne e Harry Delambre, o ancora il commissario Charas diventa l’ispettore Twinker. La traduzione della presente edizione è condotta sulla versione francese e contiene le integrazioni delle parti tagliate dalla seconda versione (1962). Il racconto ha avuto una fortunata serie di trasposizioni cinematografiche e persino una trasposizione operistica (2008), composta da Howard Shore su libretto di David Henry Hwang. La prima di queste trasposizioni cinematografiche è sicuramente The Fly, un film del 1958 con Vincent Price prodotto e diretto da Kurt Neumann. La pellicola uscì l’anno dopo la pubblicazione dell’omonimo racconto di Langelaan, ma da noi venne intitolata L’esperimento del dottor K. in riferimento a La metamorfosi di Kafka. Il film è ambientato in Canada e si apre con l’omicidio di André Delambre, il cui cadavere viene ritrovato sotto la pressa idraulica della sua fabbrica. Sua moglie Hélène (lady Anne, nel racconto) confessa l’omicidio del marito ma si rifiuta di spiegarne il movente. La strana calma di lady Anne / madame Hélène viene interpretata dai medici come sintomo di follia. Il film di Neumann e il racconto originale hanno la struttura di un noir, con un mistero da risolvere. Nel film il mistero viene svelato ricorrendo all’espediente del flashback di Hélène, mentre nel racconto lady Anne consegna una confessione scritta al cognato Arthur Browning. Se la sceneggiatura di James Clavell per il film di Neumann è molto fedele al racconto originale, tanto da trasporre intere scene e persino alcuni dialoghi, essa si discosta però nel finale. A The Fly di Neumann seguirono altri due film che composero una trilogia cinematografica: La vendetta del dottor K. (The Return of the Fly, 1959), diretto da Edward Bernds, e La maledizione della mosca (Curse of the Fly, 1965), diretto da Don Sharp.

Nel 1986 il regista canadese David Cronenberg realizzò un celebre remake di The Fly, uscito con lo stesso titolo e divenuto un film di culto. La sceneggiatura era scritta da Charles Edward Pogue e da David Cronenberg, mentre la colonna sonora, come in moltissimi altri film del maestro del body horror, venne affidata a Howard Shore. La mosca di Cronenberg ha anche un seguito, La mosca 2 (The Fly II, 1989), diretto da Chris Walas, vincitore dell’Oscar al miglior trucco 1987 assieme a Stephan Dupuis proprio per La mosca di Cronenberg.

La storia è la stessa: uno scienziato geniale è alle prese con una macchina capace di disintegrare la materia e di teletrasportarla da un luogo a un altro. Da notare che nel racconto – e nel film di Neumann – non si parla mai di “teletrasporto”, bensì della «disgregazione e la riaggregazione della materia» (p. 15). Dopo i primi tentativi fallimentari, il teletrasporto sembra funzionare, così lo scienziato decide di entrare nella macchina in prima persona, senza accorgersi che una mosca è entrata nella cabina, causando una inattesa fusione uomo-insetto. Ne L’esperimento del dottor K., quello di Delambre non è il lento e mostruoso deterioramento fisico e morale di Seth Brundle, ma un incidente improvviso. Tuttavia, nel racconto, dopo un ulteriore esperimento, Robert Browning non ha più solo la testa di mosca ma anche alcune parti appartenenti a Dandelo, il gatto disintegrato in uno dei suoi primi esperimenti, che compare anche nel film di Neumann con il nome di Isabelle, la povera gatta che continua a miagolare misteriosamente anche una volta dematerializzata.

In entrambe le pellicole è sempre l’hybris a spingere uno scienziato a varcare «confini che l’uomo non dovrebbe superare», per usare una citazione dal film di Neumann, e inoltre è di primaria importanza l’amore che lega lo scienziato a sua moglie Hélène (L’esperimento del dottor K.) o alla giornalista di cui si è innamorato (La mosca), tanto che Cronenberg ha definito il suo remake una «commedia romantica». Nel film di Neumann la tensione viene scandita dal costante ronzio della mosca in sottofondo fino al ritrovamento finale che permette a Hélène di non essere accusata dell’omicidio del marito. Ne La mosca di Cronenberg il crescendo di tensione segue il declino fisico e morale di Brundle e si accompagna a una abbondanza di sequenze raccapriccianti e disgustose.

George Langelaan (1908-1972), nato a Parigi da padre inglese e madre inglese, lavorò prima come giornalista e poi, durante la Seconda Guerra Mondiale, come spia per lo Special Operations Executive (SOE) dei servizi segreti inglesi. Come scrisse nella sua autobiografia The Masks of War (1959), fu sottoposto a interventi di chirurgia plastica per rimuovere alcuni tratti distintivi del suo aspetto, come le orecchie troppo sporgenti. Dopo la Liberazione si dedicò alla scrittura di romanzi di spionaggio e di racconti del soprannaturale. Era inoltre amico dell’occultista e scrittore britannico Aleister Crowley.

Source: inviato dall’editore. Si ringrazia l’Ufficio Stampa NPE Editore.

:: Kane. La saga di Karl Edward Wagner (Mondadori 2022)

10 ottobre 2022

Kane porta il marchio dell’uomo maledetto: si narra che abbia strangolato suo fratello e da allora sia condannato da una divinità folle a vagare per il mondo senza pace, fino a quando sarà distrutto dalla stessa violenza che ha creato. Guerriero spietato e sottile tessitore di intrighi, vive da millenni passando di regno in regno, di avventura in avventura, senza posa. Personaggio complesso e sfaccettato, è uno dei più riusciti protagonisti del genere Sword & Sorcery.

Uscito il 22 settembre nella pregiata collana Draghi di Mondadori Kane di Karl Edward Wagner, volume deluxe da collezionare per una volta senz’altro in cartaceo, capostipite del dark fantasy, è un fantasy che piace anche a chi non ama il fantasy tanto che è ben scritto, appassionante, ricco di avventura, ironia e azione. Tradotto da un manipolo di giovani traduttori, di cui mi pregio di conoscere uno di loro il mitico Davide Mana, (un’autorità in materia di fantasy) è senz’altro un’edizione di lusso da intenditori. Appena avrò i 28 Euro non mi sfuggirà, ne ho letto l’anteprima su Amazon e devo dire ero tentata di far sforare il budget familiare pur di comprarlo, poi sono tornata in me (mio fratello ringrazia, Amazon forse mi maledice), e posticipo l’acquisto appena mi arriva un pagamento che mi devono, lo investirò almeno in parte in questo libro prezioso da conservare sulla mensola più alta della mia biblioteca personale. A dire il vero era mia madre che adorava il fantasy e collezionava libri dei classici di questa narrativa, (e sicuramente Karl Edward Wagner è uno di loro, anzi un caposaldo) ma questa nuova traduzione merita senz’altro. Buona lettura!

Edward Karl Wagner (Knoxville, Tennessee, 1945-1994). Ha scritto soprattutto opere di horror, fantascienza e fantasy eroico; curatore dei racconti di Conan il Barbaro, è stato tra i fondatori della Carcosa Press, specializzata in lussuose edizioni di autori pulp.

Le mie Donne di Magia per Yume

9 marzo 2022

9788854941557_0_536_0_75Ho pubblicato un nuovo libro presso la casa editrice mia concittadina Yume Books, dopo quello di due anni e mezzo fa su Once upon a time, e cioè Donne di magia: Streghe e maghe nella cultura del fantastico.
Yume Books si è già occupata varie volte della figura storica e antropologica delle streghe, donne perseguitate nel corso dei secoli spesso solo perché vivevano ai margini della società e diventate emblematiche di tutte le discriminazioni subite da chi era percepito come diverso.
Nel mio libro, come nerd e otaku, io mi sono invece concentrata su come le streghe sono state viste e raccontate nelle storie, soprattutto di genere fantastico, partendo dai poemi epici, dalle fiabe e dalle leggende e arrivando ai serial televisivi, agli anime e ai fumetti degli ultimi anni.
La strega è un personaggio che mi ha sempre affascinata, anche quando era la nemica delle fiabe: alzi la mano chi non trova più carismatiche la regina Crimilde di Biancaneve e i sette nani o Malefica de La Bella addormentata che non le protagoniste. Poi,  a scuola, conobbi personaggi come la maga Circe dell’Odissea, o Alcina dell’Orlando furioso, e ad un certo punto lessi uno di quei libri che ha cambiato la mia vita, Le nebbie di Avalon di Marion Zimmer Bradley, con una nuova lettura di un personaggio sempre visto come cattiva, Morgana, la strega del ciclo arturiano, qui eroina ribelle.
Negli ultimi decenni sono state tantissime le streghe, stavolta quasi sempre buone, che mi hanno appassionata, a cominciare da Willow di Buffy per arrivare alle sorelle Halliwell di Charmed e senza dimenticarne altre, come Sabrina, o come le WITCH, e la figura della donna o ragazza che pratica magia è diventata una delle protagoniste dell’immaginario fantastico moderno. Sono tutti personaggi che ho amato molto, anche se ogni tanto mi piacciono le streghe di nuovo un po’ cattive, come Melisandre di Game of Thrones.
Nelle pagine di questo libro ho cercato di tracciare e omaggiare tutte queste figure femminili, buone e cattive, che hanno rappresentato delle icone in storie che da anni sono entrate nella nostra fantasia e che continuano ad appassionarmi molto.
Quali sono le mie preferite, come fan? Beh, continuo a sentire una fascinazione per Circe, ricordandola nel mirabile sceneggiato Odissea di Franco Rosi, adoro Morgana raccontata da Marion Zimmer Bradley, Willow di Buffy è e resta il mio personaggio preferito della serie, amo molto Hermione di Harry Potter e apprezzo sia la Malefica cattiva del cartone Disney che quella tormentata ma buona di Angelina Jolie nei due film.
E adesso, mi dedicherò ad un’altra icona al femminile dell’immaginario, la guerriera.

Il sogno della regina in rosso di Camilletti, Moberly e Jourdain (ABEditore, 2021) a cura di Elena Romanello

21 febbraio 2022

9788865513439_0_536_0_75ABEditore presenta nel suo catalogo una via di mezzo tra romanzo e saggio, Il sogno della regina in rosso, che presenta la prima edizione di un libro che cambiò molte coscienze all’inizio del Novecento, capace di influenzare l’immaginario ancora oggi e basato su un fatto realmente accaduto, o comunque realmente percepito dalle sue autrici.
Era un sabato d’agosto del 1901 quando le due professoresse inglesi Charlotte Anne Moberly e Eleanor Jourdain, in vacanza a Parigi, decisero di andare a fare un giro alla reggia di Versailles, allora in buona parte abbandonata. Le due signore, colte e istruite, di mentalità vittoriana, con una visione comunque pragmatica della vita, decisero di arrivare fino al Petit Trianon, l’antica residenza della regina Maria Antonietta, anche se il Baedeker, la guida inseparabile di ogni turista inglese dell’epoca, era molto laconico.
Le due amiche e colleghe di lavoro si persero nei meandri di un giardino in disarmo e qui incrociarono otto persone, scambiando due parole con alcune di loro, e sentendo una strana sensazione di inquietudine crescente. Tutto sembrava irreale, alberi e luce del giorno compresi, e le presenze che videro, tra cui una donna bionda che disegnava con un grande cappello sulla testa, erano vestiti come all’epoca di Maria Antonietta, e da ricerche che le due fecero successivamente, in quel periodo non si stava girando nessun film e non c’era nessuna festa in maschera.
Charlotte Anne Moberly ed Eleanor Jourdain dedicarono il resto della loro vita a raccontare questa loro esperienza ai confini della realtà, scrivendo poi il libro An Adventure e facendo ricerche in tema per suffragare la tesi che avessero trovato una porta per cadere in un’altra dimensione e compiere un viaggio nel tempo.
Il sogno della regina in rosso è  la prima traduzione italiana assoluta di An Adventure, ma è anche la storia di un libro che ebbe cinque edizioni, dal 1911 al 1958, appassionando il pubblico, dividendolo tra scettici e credenti e attirando l’attenzione di spiritisti e poeti, di filosofi e psicoanalisti, di fisici e di scrittori di fantascienza. Una storia contemporanea di Freud e Georges Méliès, di H.G. Wells e di Albert Einstein, un’opera aperta che si può leggere come una storia di fantasmi, un sogno, un viaggio nel tempo su un Tardis invisibile ante litteram, un’allucinazione, un ricordo di una delle vicende, quella della regina Maria Antonietta, che non ha cessato di influenzare e ispirare l’immaginario.
Il giudizio sulla veridicità del racconto è ovviamente sospeso, ma ci sono tanti elementi inquietanti e strani presenti, tra passaggi che c’erano solo nel Settecento e non in quell’epoca, e eventi che furono scoperti dalle due donne a posteriori.
Il sogno della regina in rosso è un libro, quindi, con più livelli di lettura, per appassionati di paranormale, di fantastico, di viaggi nel tempo e per chi ha continuato a trovare suggestioni nel parco del Trianon, il racconto di due donne adulte che caddero nella tana di un coniglio, e del mondo incantato, surreale e spaventoso che trovarono una volta varcata la soglia.

Fabio Camilletti,  classe 1977, è professore di Letteratura italiana all’università di Warwick, nel Regno Unito. Ha di recente pubblicato una Guida alla letteratura gotica e curato la prima edizione italiana di Fantasmagoriana, oltre a tradurre ed editare il manoscritto originale del Frankenstein e le opere di John Polidori. Con ABEditore ha già curato La casa infestata di Place du Lion d’Or (2020) ed è in uscita Spettriana (2022).
Charlotte Anne Elizabeth Moberly (1846-1937) fu la prima direttrice di St Hugh’s Hall (1886), una residenza femminile di Oxford che sotto la sua presidenza si trasformò in vero e proprio college universitario. “Settima figlia di un settimo figlio”, come amava definirsi, riferì molte esperienze paranormali vissute in prima persona.
Eleanor Jourdain (1863-1924) fu studiosa di Dante e insegnante di scuola; nel 1915 succedette a Moberly nella presidenza di St Hugh’s. Neanche lei era nuova a esperienze insolite: si riteneva dotata di facoltà paranormali, a suo dire ereditarie.

Provenienza: libro del recensore.

:: L’ombra degli dei di John Gwynne (Fanucci 2022) Recensione a cura di Emilio Patavini

19 febbraio 2022

«Vígríðr si chiama il campo
dove si daranno battaglia
Surtr e gli dei benigni.
Cento miglia
si stende d’ogni parte;
quello è il campo loro destinato»

(Edda poetica, Vaftþrúðnismál 18; traduzione dal norreno di Gianna Chiesa Isnardi)

Un anno fa è uscito nel Regno Unito l’ultimo romanzo di John Gwynne, The Shadow of the Gods, primo capitolo della Saga dei Fratelli di sangue, cui presto si aggiungerà il secondo volume, The Hunger of the Gods, in uscita il 14 aprile 2022 per Orbit Books. Così, quando il 27 gennaio Fanucci Editore ha portato in Italia la traduzione, a opera di Francesco Vitellini, di questo romanzo fantasy ispirato alla mitologia nordica non ho potuto fare a meno di leggerlo.

Immaginate un’ambientazione post-Ragnarök, in cui gli dei sono morti ma i loro resti e la loro progenie continuano a influenzare la vita degli uomini sotto forma di magia. Immaginate due continenti, un po’ come Westeros ed Essos nei romanzi di G.R.R. Martin: Vigrið, a nord, che prende il nome dalla Piana della Battaglia in cui gli dei persero la vita secondo il mito norreno, e Iskidan a sud, creato su modello di un impero orientale. La storia è ambientata nel continente di Vigrið, una terra del ghiaccio e del fuoco (che deve qualcosa all’Islanda e ai suoi fiordi), in cui si consuma la lotta per il potere di re, regine e jarl. La narrazione si snoda su tre fili narrativi, seguendo le vicende di altrettanti personaggi: Orka, una proprietaria terriera dall’oscuro passato; Varg, uno schiavo che vorrebbe entrare a far parte dei Fratelli di Sangue; e infine Elvar, la figlia di uno jarl che si è unita alla compagnia degli Sterminatori per guadagnarsi fama in battaglia.

Quelli descritti da Gwynne sono personaggi vividi, ben caratterizzati, con le loro ombre e i loro segreti, spietati come il mondo in cui vivono. Superata la prima parte, in cui il lettore deve prendere confidenza con i personaggi e l’ambientazione, la storia diventa via via più dinamica, ricca di azione, le scene si fanno più movimentate grazie ai continui colpi di scena, per arrivare a un finale che è un crescendo di epicità e rivelazioni. Lo stile è evocativo e scorrevole: un ottimo esempio di show, don’t tell.

Il romanzo fonde un world-building di ispirazione nordica (l’autore è un re-enactor vichingo, perciò le armi, il vestiario, le armature, le tecniche di combattimento sono molto approfondite), con il folklore scandinavo (vaesen, tennúr, näcken, troll diverranno figure familiari per il lettore), attingendo a piene mani da fonti come il Beowulf e l’Edda. Come scrive l’autore nei Ringraziamenti: «Nella sua essenza, questo libro è ispirato sia a Beowulf che al Ragnarök, la battaglia della fine dei tempi in cui caddero gli dei e il mondo fu rinnovato» (p. 458). Infatti, sono presenti numerosi riferimenti alla mitologia norrena e al grande poema epico anglosassone. Gwynne non si è limitato a riciclare i miti nordici e a riproporli nella forma in cui li conosciamo: non compaiono Odino, Loki e Thor ma divinità di sua invenzione. L’autore ha reinterpretato i miti in un modo molto originale, ha recuperato gli archetipi e li ha impiegati per la creazione di propri miti, per inventare la propria epica. Di conseguenza, il suo word-building risulta coerente e credibile, con un passato mitico sullo sfondo. Secondo la sua mitologia, nel Guðfalla, la Caduta degli Dei (=Ragnarök), tutte le divinità persero la vita in uno scontro mortale: a capo del pantheon creato da Gwynne c’è Snaka (sorta di Jörmungandr), il dio serpente e padre degli dei; altre divinità sono Ulfrir, il dio lupo incatenato (=il lupo Fenrir) e Lik-Rifa, la dea drago imprigionata sotto il frassino Oskutreð (=Yggdrasill), di cui rosicchia le radici (come il drago Níðhöggr). Inoltre, dai miti scandinavi sono riprese le figure del berserkir (guerriero ricoperto di pelli d’orso), degli úlfheðnar (guerrieri ricoperti di pelli di lupo) e i riferimenti alla pratica magica del seiðr. Nel romanzo, inoltre, compaiono alcune frasi in norreno, che viene chiamato «lingua antica» o lingua Galdur, cioè la lingua degli incantesimi. Al Beowulf, invece, può essere fatto risalire il nome del figlio di Orka, Breca, nome del rivale di Beowulf in una famosa gara di nuoto. La terminologia norrena contribuisce ad arricchire l’ambientazione, rendendola ancora più credibile, tanto che in alcuni punti (soprattutto all’inizio) si ha quasi la sensazione di leggere un romanzo storico ambientato all’epoca dei vichinghi e non un fantasy. Ma come in ogni saga nordica che si rispetti ci sono i mostri, come troll con tanto di corna e zanne e una viscida creatura simile a Gollum che vive in una caverna subacquea.

In questo mondo sul baratro dell’oscurità, non solo gli dei sono morti, ma sono odiati e viene data la caccia ai loro discendenti, i Corrotti, nelle cui vene scorre sangue divino. L’Ombra degli dei può essere definito come un fantasy alla G.R.R. Martin con tinte dark fantasy, epiche scene di combattimento e la presenza del folklore scandinavo e della caccia ai mostri, come nella saga letteraria di The Witcher di Andrzej Sapkowski. Quello raccontato da John Gwynne è un «mondo oscuro e le azioni oscure lo governano» (p. 141), un mondo fatto di muri di scudi, di sale dell’idromele, di sangue e vendette. I tre fili narrativi sono accomunati da un senso di rivalsa e di riscatto, in un tempo in cui l’inverno sembra arrivare e le forze del male ridestarsi. Un romanzo che rievoca atmosfere dense di immaginazione e inventiva. Salite a bordo di un drakkar e lasciatevi trasportare a Vigrið, una terra in cui la leggenda diventa realtà.

John Gwynne è nato a Singapore e in seguito ha viaggiato molto. Attualmente vive con la moglie e i quattro figli nell’East Sussex. Autore della serie bestseller La fede e l’inganno, composta dai romanzi Malice – La guerra degli dèi, con cui si è aggiudicato il David Gemmell Morningstar Award per la categoria “Miglior fantasy”; Valour – L’astro splendente; Ruin – La lancia di Skald e Wrath – Nuove alleanze. È autore anche della trilogia Di sangue e ossa, che si compone dei romanzi Venti di guerra, Tempo di sangue e Tempo del coraggio.

Source: inviato dall’editore al recensore. Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Fanucci Editore.

Il re che fu, il re che sarà di Terence Hanbury White (Mondadori, 2021) a cura di Elena Romanello

14 gennaio 2022

La collana Oscar Draghi presenta in unico volume la pentalogia del Ciclo del Re in eterno, una delle saghe fondanti del fantasy contemporaneo, scritta a partire dal 1938 da Terence Hanbury White, e assente da un po’ di anni dagli scaffali delle librerie.
La vicenda ricostruisce una storia senza tempo, quella di Re Artù, in una chiave comunque originale e interessante: il primo romanzo della serie, La spada nella roccia, era rivolto ad un pubblico di ragazzi, poi i toni diventano man mano più adulti, ed è noto per la trasposizione animata fatta dalla Walt Disney negli anni Sessanta.
Come è ormai abitudine, anche questo volume si distingue per la cura grafica, perfetta per immergere il lettore o la lettrice nel mondo della corte di Camelot, seguendo la crescita di Artù e dei personaggi con cui entra in contatto, a iniziare dal mago Merlino, suo mentore per tutta la vita.
I libri successivi al primo sono dai toni più adulti e complicati, ma non per questo meno interessanti: come è accaduto poi decenni dopo con la saga di Harry Potter, anche il pubblico del Ciclo del Re in eterno è cresciuto man mano che i capitoli uscivano.
Nel secondo libro, La regina dell’aria e delle tenebre Artù va incontro al suo destino dopo aver estratto la spada, e l’autore racconta la fondazione dei Cavalieri della Tavolta Rotonda, da cui però nascerà anche la caduta del sogno di Camelot.
Il terzo capitolo, Il cavaliere malcreato, è incentrato sul personaggio di Lancillotto, il campione della corte, che però si innamora di Ginevra, moglie di Artù, creando un triangolo fatale. La candela nel vento prosegue la storia con la morte di Artù per mano del suo figlio illegittimo Mordred. Il quinto libro, inedito fino ad oggi, è Il libro di Merlino, dove si concludono le vicende dei personaggi principali.
La saga di Terence Hanbury White è stata ed è fondamentale per come ha portato nell’immaginario contemporaneo uno dei miti fondanti di sempre, con uno stile di scrittura originale che mette insieme modernità e antico, per creare un ponte tra i classici dei secoli passati e l’oggi. Una storia da leggere e rileggere, nota ma raccontata con uno stile che poi ha fatto scuola per le versioni successive, come quelle di Marion Zimmer Bradley e di Mary Stewart.

Terence Hanbury White (Bombay 29 maggio 1906 – Atene 17 gennaio 1964) fu uno scrittore inglese, è noto soprattutto per la serie di romanzi Re in eterno (The Once and Future King), che rappresenta una delle più influenti opere moderne sul mito di Re Artù.
Si laureò al Queens’ College di Cambridge e per qualche tempo insegnò a Stowe, nel Buckinghamshire, per poi diventare scrittore a tempo pieno. Amava la caccia e la pesca, era un falconiere e un naturalista, e lottò tutta la vita contro i pregiudizi che lo colpirono in quanto omosessuale.
La sua opera più nota, Re in eterno è una raccolta di romanzi che reinterpretano la leggenda di Re Artù, principalmente sulla base di Le Morte d’Arthur di Thomas Malory.  I suoi romanzi introdussero alcuni elementi poi diventati fondanti dell’immaginario contemporaneo in tema, come per esempio la spada conficcata nella roccia che solo Artù riesce ad estrarre.
White scrisse altri libri, come Mistress Masham’s Repose, in cui omaggiò Jonathan Swift e i suoi Viaggi di Gulliver. Morì in viaggio, a bordo di una nave ancorata al Pireo di Atene e lì è stato sepolto.

Provenienza: omaggio dell’Ufficio stampa che ringraziamo.

Il ritorno di Jonathan Strange & il signor Norrell, a cura di Elena Romanello

17 dicembre 2021

jonathan-strange-il-signor-norrellA quindici anni di distanza dalla prima edizione italiana, e sull’onda dell’uscita del nuovo, atteso romanzo dell’autrice Susanna Clarke, Fazi editore ripropone uno degli urban fantasy più interessanti e innovativi di sempre, Jonathan Strange & il signor Norrell, in una nuova edizione.
Definito da Neil Gaiman il migliore romanzo inglese scritto negli ultimi settant’anni e definito il più grande libro fantasy uscito nel Regno Unito dai tempi di Tolkien e Lewis, Jonathan Strange & il signor Norrell porta in un’Inghilterra alternativa dell’epoca delle guerre napoleoniche, in cui è presente la magia, o meglio, si crede che sia completamente scomparsa. Ma un bel giorno, il timido e erudito signor Norrell rivela pubblicamente le sue abilità di mago, dando vita a un’ondata di entusiasmo che dilaga per tutto il paese e lo trasporta fino ai salotti dell’alta società di Londra, dove si lega ai politici e scende a patti con un gentiluomo proveniente da un regno fatato. Ma il signor Norrell non è l’unico mago presente: poco dopo emerge il giovane e audace Jonathan Strange, che prima diventa suo discepolo e poi mette in discussione tutte le sue teorie, perché è attratto dagli incantesimi e dalle magie oscure. Nel corso degli anni i due si scontreranno in maniera ancora più definitiva di quanto il loro Paese non stia facendo con Napoleone, mentre le loro ossessioni e ambizioni segrete metteranno a rischio le vite di molti e cambieranno per sempre la magia inglese e la vita.
Un long seller che è bello leggere o rileggere, da proporre innanzitutto a chi pensa che l’urban fantasy non sia capace di proporre storie interessanti e insolite, finalista al Man Booker Prize, con quattro milioni di copie vendute nel mondo in 34 Paesi diversi, un libro per chi ama il fantastico in tutte le sue sfumature, l’ucronia e il romanzo storico. Da questo romanzo è stata tratta anche una miniserie della BBC, per ora inedita, ma che speriamo arrivi presto anche in italiano, sull’onda di questa nuova edizione.

Un’antologia di fantasmi per il Natale a cura di Elena Romanello

4 dicembre 2021

Oggi come oggi non si pensa di primo acchito al Natale come una festa legata alle storie di fantasmi e261216339_3466060413620688_3349053176877004012_n simili, visto che questa caratteristica è stata persa da Halloween o Samhain, un’antica festa europea e celtica tornata a casa dopo essere stata oltre oceano.
In realtà, durante il lungo regno della regina Vittoria in Inghilterra, che durò dal 1837 al 1901, le storie di fantasmi erano legate invece proprio al Natale, il momento dell’anno in cui i giorni sono più corti e le ombre più lunghe, il tempo del solstizio d’inverno.
Non è un caso, infatti,  che la più celebre storia di Natale, il Canto di Natale di Charles Dickens, più volte celebrata da vari media fino ad oggi, sia innanzitutto una storia di fantasmi e che fantasmi.
Oscar Draghi presenta in vista del prossimo Natale la preziosa antologia Il grande libro dei fantasmi di Natale, che raccoglie tutta una serie di storie composte tra fine Settecento e l’inizio del Novecento per raccontare un aspetto di questa festa tutto da riscoprire, con nomi anche famosi che si sono confrontati con il mix solstizio d’inverno, nascita di varie importanti divinità e creature che tornano dal regno dei morti in questi momenti dove luce e ombra si affiancano e dove l’atmosfera di festa porta anche malinconia e sconforto.
Gli autori e le autrici presenti in antologia sono davvero tanti, e ci sono sorprese: si va dal fondatore del romanzo storico Walter Scott all’inventore di Sherlock Holmes Arthur Conan Doyle, dall’autrice di Piccole donne, amante anche dei romanzi gotici con cui manteneva la famiglia Louisa May Alcott all’uomo dietro Peter Pan James Matthew Barrie, dalla maestra di intrecci vittoriani Elizabeth Gaskell alla fondatrice dell’horror a fosche tinte Marie Corelli, senza dimenticare i contributi dell’altrove esilarante Jerome K. Jerome, dell’esperto H. P. Lovecraft, e degli autori di classici Edith Wharton e James Joyce.
Un libro quindi esaustivo e imperdibile, per capire ancora una volta che la letteratura non è fatta di alto e  basso, ma di maestri che hanno saputo rielaborare e confrontarsi con archetipi sempiterni dell’animo umano, come la vita e la morte, e la soglia fantastica e inquietante che c’è tra le due.

Le streghe in eterno di Alix E. Harrow (Mondadori, 2021) a cura di Elena Romanello

28 novembre 2021

978880473767HIG-333x480Oscar Fantastica propone la nuova fatica di Alix E. Harrow, già autrice de Le diecimila porte di January, in cui si mescolano ancora una volta suggestioni fantasy e del fantastico con una visione alternativa della Storia reale.
Siamo di nuovo a fine Ottocento, alle prese con figure iconiche come le streghe, antesignane del femminismo per molti, nella città di New Salem, che echeggia il più celebre processo di stregoneria reale, raccontato anche da Arthur Miller in una delle sue opere più famose, e avvenuto nel 1692, pare come fenomeno di isteria collettiva.
Alix E. Harrow mette insieme le streghe con quelle che furono viste tra Otto e Novecento come il loro equivalente come sovversione, le suffragette, coloro che si battevano per garantire il diritto di voto alle donne, all’epoca negato e visto come una rivendicazione inaccettabile.
A New Salem, le sorelle Eastwood, James Juniper, Agnes Amaranth e Beatrice Belladonna sono depositarie di un antico sapere magico, ora solo presente in filastrocche e fiabe per bambini, ma quando entrano nell’Associazione per le Donne di New Salem iniziano a chiedersi se non sia possibile trasformare il movimento delle suffragette in una congrega di streghe. Ma le persecuzioni non mancheranno e anche le conseguenze tragiche per le sorelle e per le loro adepte.
Alix E. Harrow conferma il suo talento in un romanzo interessante e intrigante, dove la narrazione delle vicende delle sorelle streghe è alternata da riletture insolite di celebri fiabe, come Hansel e GretelRaperonzolo Barbablù. Le streghe sono oggi molto popolari grazie ad un immaginario che le ha fatte cambiare rispetto alle cattive delle fiabe tradizionali, ma le protagoniste del romanzo hanno comunque una loro originalità rispetto ad altre famose e iconiche, non sono certo le sorelle Halliwell trasposte a fine Ottocento, con tutto il rispetto per questi personaggi.
Il legame tra streghe e femminismo non è nuovo ma funziona sempre, e Le streghe in eterno appassiona e coinvolge, con uno stile originale e personaggi non scontati. Del resto, gli archetipi sono sempre interessanti e eterni, ma saperli riprendere in maniera originale non è facile.

Alix E. Harrow è nata negli Stati Uniti nel 1989. Laureata in storia, nel 2014 ha cominciato a pubblicare racconti di fantascienza, tra cui A Witch’s Guide to Escape: A Practical Compendium of Portal Fantasies che si è aggiudicato il premio Hugo 2019. Altri racconti sono stati nominati per i premi Locus, Nebula e World Fantasy. Il suo romanzo d’esordio, Le diecimila porte di January, 2020, ha ricevuto numerosi consensi.

Provenienza: libro del recensore.

:: SOLARIS, UN PIANETA DAI TRE VOLTI – Gli adattamenti cinematografici del più famoso romanzo di Stanislaw Lem a cura di Michele Tetro

12 novembre 2021

Il primissimo adattamento del romanzo di Stanislaw Lem Solaris si ebbe nel 1968, l’anno di uscita di 2001: odissea nello spazio, a firma dei registi Boris Nirenburg e Lydya Ishimbayeva, un film per la televisione in due parti realizzato dalla Central Television Production sovietica, in bianco e nero. Questa versione è del tutto fedelissima al libro originale (quindi rimandiamo al capitolo 6 per la trama), non offre varianti alla materia trattata né rilevanti cambiamenti di trama. E’ Solaris esattamente come concepito da Lem, che si mostrò poco convinto, quando non addirittura polemico, sia della versione successiva di Tarkovskij sia di quella americana. La messa in scena è di tipo teatrale, con totale mancanza di effetti speciali, virtuosismi scenografici, decorazioni tecnologiche o futuristiche. Gli ambienti della stazione orbitante sull’oceano pensante di Solaris sembrano le quinte di un moderno teatro, con corridoi curvilinei immersi nell’ombra, stanze che ricordano le camere di alberghi d’infima categoria, scale di metallo su alte e vuote pareti. L’unica concessione alla tecnologia è data da una postazione di controllo sull’astronave Prometheus con due tecnici, simile a un’antiquata redazione televisiva, un quadro di comando presso l’hangar di ricezione, due televisori a circuito chiuso visibili durante gli incontri video dei tre scienziati, qualche apparato di scena non meglio identificabile. I costumi sono anonimi, lo scafandro di Kelvin assomiglia a tutto tranne che una tuta spaziale, il casco più simile a un collare ortopedico d’ospedale. Il massimo della spettacolarità è dato da immagini di repertorio di pochi secondi, con missili e capsule spaziali americane sgranate in video degli anni Sessanta, che ricostruiscono l’invio di Kelvin dalla Prometheus alla stazione e la liberazione dalla prima copia di Harey. Come nei remakes seguenti, anche qui (data l’impossibilità produttiva di ottenere determinati effetti) sono assolutamente mancanti le colossali “creazioni” plastiche sulla superficie di Solaris, che rappresentavano la parte più visionaria del romanzo, e il pianeta stesso risulta sempre fuori scena, anche se la sua “azione” immobile si percepisce costantemente (basta un’occhiata sbigottita di Kelvin verso una delle finestre sempre semi-chiuse della stazione, particolare ripreso poi nel successivo film di Tarkovskij, che invece ci concede diversi campi lunghi sul fluido oceano colloidale).

Le riprese sono incentrate prevalentemente sui primi piani degli attori, tutti calati nei loro ruoli e credibili, la storia è raccontata più a parole che a immagini, come nella miglior tradizione teatrale. Tutt’altro che noiosa, la produzione coinvolge e tiene desta l’attenzione dello spettatore, assorbito profondamente in questo dramma scientifico dalle implicazioni sconvolgenti.

Le cose cambiano invece nella versione del regista Andrej Tarkovskij del 1972, che per altro ottenne gran riscontro di critica e pubblico nel mondo occidentale. Pur rispettando ed evidenziando i punti cardine del romanzo di Lem (soprattutto il tema del contatto con l’entità aliena di Solaris), mantenendosi perciò fedele al testo scritto nelle parti estrapolate da esso per l’adattamento, il cineasta russo siringa in apertura, svolgimento e finale della pellicola elementi profondamente peculiari del proprio spirito e del tutto assenti in Lem. Facendo ovviamente riferimento alla pellicola originale sottotitolata e non allo scempio vergognoso che il film subì nel doppiaggio e nella riduzione italiana (in cui addirittura nel personaggio di Kris Kelvin si fondono due atteggiamenti del tutto contrastanti tra loro, il suo e quello dell’astronauta Berton, figura completamente eliminata dal film con un incomprensibile taglio di montaggio), Tarkovskij rende perno centrale della vicenda il problema del mancato equilibrio, nell’animo umano, tra la linea di sviluppo materiale esterna (il progresso, la tecnologia, la scienza) e quella spirituale interna (la coscienza, l’etica e la morale), con la seconda non in grado di bilanciarsi con la prima, poiché ancora “immatura” e quindi pericolosamente incline a innescare la crisi esistenziale.

Nell’inizio ambientato sulla Terra (mancante nel romanzo e pesantemente tagliato nella versione italiana del film) Kelvin, che pure è sensibile, come ogni anima russa, all’abbandono della propria patria per il viaggio di 16 mesi su Solaris e cerca un’ultima e intima comunione con la natura attorno alla dacia paterna, è però del tutto refrattario ad ascoltare i consigli di un ex astronauta che ha vissuto un’esperienza terribile sull’oceano pensante e si prodiga per avvisarlo di non intraprendere azioni distruttive nei confronti dell’ignoto, solo perché tale al cospetto umano. Kelvin sconterà amaramente la sua leggerezza, dovendo affrontare il penoso e doloroso rimosso della sua coscienza (la moglie suicida) incarnato dall’oceano, così come i suoi dogmatici e razionali colleghi scienziati, di classe tecnocratica, propensi ad attaccare ciò che non comprendono (la diversa intelligenza del pianeta), devono fronteggiare la loro statura morale quantificatasi in ospiti mostruosi, ripugnanti e insopportabili, il riflesso del loro volto interiore, reso reale dal magma oceanico. E solo la vergogna, qui sentimento nobile, è la chiave della salvezza per l’uomo, la pulsione che gli consente di uscire da un punto morto, prendendo coscienza dell’imperfezione del proprio apparato cognitivo, del non sapere ancora nulla di se stessi. Tarkovskij, lirico e malinconicamente elegiaco, evita intenzionalmente ogni lusinga tecnologica tipica dei film di fantascienza spaziale americani (la risposta sovietica a 2001: odissea nello spazio pubblicizzata dai cartelloni cinematografici è tale solo se considerata antipodicamente), riducendo al minimo l’impatto scenografico della sua pellicola (ed eliminando virtualmente ogni effetto speciale): la stazione orbitale è piena di oggetti del tutto inammissibili in un contesto del genere e di forte valenza simbolica (statue greche classiche, busti di Platone e di Beethoven, icone religiose russe, dipinti di Brueghel il Vecchio, fotografie di cavalli, corni da caccia ottocenteschi, vetrate policrome di una chiesa, immagini di cavalli, servizi da te in ceramica, candelabri e lampadari di cristallo), che rimandano prepotentemente alla Terra, all’anima contadina russa (Kelvin si porta con sé in volo una scatoletta di alluminio con una piantina della sua dacia), al legame col passato, la memoria, gli affetti familiari. Il regista sembra rispecchiare una sorta di adesione ai precetti del Cosmismo russo (le apparizioni della moglie defunta di Kelvin in qualche modo alludono alla resurrezione degli antenati defunti della fase fedoroviana cosmista, una promessa d’immortalità, l’integrità morale che si dovrebbe coltivare adeguatamente per assorbire il gap tecnologico-coscienziale era conditio sine qua non per l’emigrazione cosmica della perfezionata razza umana prevista da Fedorov e Ciolkovskij).

Praticamente, pur a fronte della forte spinta verso la conquista dello spazio, l’uomo sembra incapace di lasciare indietro la Terra e tende a portarsela con sé. Parafrasando il suo omologo letterario, il malinconico personaggio di Snaut del film, figura molto umana, esclama:

In questa situazione la mediocrità e il genio sono ugualmente inutili! Noi non vogliamo affatto conquistare il cosmo. Noi vogliamo allargare la terra alle sue dimensioni. Non abbiamo bisogno di altri mondi: abbiamo bisogno di uno specchio. Ci affanniamo per ottenere un contatto e non lo troveremo mai. Ci troviamo nella sciocca posizione di chi anela una meta di cui ha paura e di cui non ha bisogno. L’uomo ha bisogno solo dell’uomo!”

La figura del padre, che intuisce le problematiche che dovrà affrontare Kelvin nello spazio, conscio della sua “impreparazione” morale, rimanda a un trascorso tarkovskiano che non avrebbe modo di essere nel testo di Lem, la sua è un’odissea nella coscienza più che nello spazio, che attraverso il pianeta Solaris si pone come “territorio proibito” all’uomo. Se Lem è del tutto pessimista sulla possibilità di un reale contatto con l’oceano, Tarkowskij crede invece nei miracoli e conclude il film in modo splendidamente ambiguo: Kelvin, figliol prodigo dell’era spaziale, torna alla dacia del padre, che lo abbraccia riaccogliendolo nell’alveo del solo universo alla sua portata, quello del trascorso esistenziale, ma il piccolo villino è in realtà posto su un’isola circondata dall’immenso oceano di Solaris. Forse l’imperscrutabile entità aliena ha saputo leggere nella mente dell’uomo, individuando il più riposto dei suoi desideri, più forte del senso di colpa relativo al rimorso per la perdita della moglie, e cioè la sua struggente ansia del ritorno alla terra rimpianta, ai veri valori della vita? O forse si tratta solo di un’immagine simbolica di quanto piccola sia l’isoletta di placida ignoranza in cui è confinato il genere umano, circondata dai mari dell’infinito, dalla quale non è previsto che ci possa allontanare troppo, come rimarcato da Lovecraft in un celebre incipit del racconto Il richiamo di Cthulhu? Ad ogni modo, l’approccio del regista al romanzo di Lem, con la messa a fuoco sul problema morale e le leggi del progredire della ragione umana, impreziosisce un dramma scientifico di nuove valenze, creando le premesse di ulteriori riflessioni e approfondimenti.

Il terzo adattamento di Solaris, realizzato nel 2002 da Steven Soderbergh, sceglie un via del tutto differente: non è più il tema del contatto al cuore del film, né tantomeno la riflessione coscienziale tarkovskiana, bensì l’approfondimento del rapporto di coppia tra i due protagonisti, il recupero del loro passato traumatico in virtù della “seconda occasione” offerta per riparare gli errori commessi, la redenzione dei peccati da parte di un’entità superiore, che però concede tale dono non ai veri Kris e Rheyna, bensì alle loro repliche, che sopravvivono a entrambi (questa è la novità concettuale del rifacimento, gli “ospiti” sono così umani da volersi sostituire ai loro originali). In realtà il pianeta Solaris è del tutto marginale al film, una presenza tenuta sullo sfondo, non indagata, e l’intera l’attenzione è rivolta alla vicenda emotiva che s’instaura tra marito e moglie, al punto da indurre Stanislaw Lem a rimarcare: “Ci sarà stato un motivo per cui ho intitolato il libro Solaris e non Love Story!” Obiettivamente, la pellicola, che pure offre alcune sequenze spaziali degne di nota e un’intrigante colonna sonora, non sfugge a quella tipica monotonia di un film americano che cerca di scimmiottare stilemi europei, risultando il più delle volte irrisolto, se non addirittura irritante.

Tratto dal volume “Spazio – Il vuoto davanti”, di Michele Tetro, Odoya 2021, per gentile concessione dell’autore.

The calculating stars di Mary Robinette Kowal (Mondadori, 2021) a cura di Elena Romanello

9 novembre 2021

978880472532HIG-313x480Il rapporto tra le donne e i viaggi nello spazio è presente fin dagli albori e non solo nell’immaginario fantastico, con personaggi come il comandante Uhura di Star Trek: fu grazie ad una squadra di donne matematiche che gli Stati Uniti poterono andare in orbita prima e poi sulla Luna, come racconta il bel film Il diritto di contare, e donne che sono andate fuori dall’atmosfera, da Valentina Tereskova alla nostra Samanta Cristoforetti ce ne sono state e altre seguiranno.
L’originale romanzo di fantascienza The calculating stars, uscito per Oscar Fantastica, racconta un passato recente diverso e alternativo, una cosiddetta ucronia sulla conquista dello spazio, in cui le donne sono più coinvolte. 
In una fredda mattina della primavera del 1952, un gigantesco meteorite precipita sulla Terra e cancella buona parte della costa orientale degli Stati Uniti, a cominciare dalla capitale Washington. I danni si ripercuotono in tutto il mondo, a cominciare da uno sconvolgimento climatico che crea disastri ambientali e negli approvvigionamenti, e per gli esseri umani il destino può essere lo stesso dei dinosauri milioni di anni fa.
L’unica soluzione diventa quindi cercare una casa altrove, nello spazio, e il programma spaziale mondiale subisce una rapida accelerazione, coinvolgendo molti, e andando oltre i conflitti della Guerra fredda e i problemi razziali.
Tra le persone coinvolte c’è la voce narrante della storia, Elma York, pilota militare durante la Seconda Guerra mondiale e matematica, che viene reclutata dall’International Aerospace Coalition, che vuol portare l’uomo sulla Luna e poi oltre. Non è l’unica donna, con lei ce ne sono altre, provenienti da altri Paesi e non solo bianche, ma a loro viene chiesto, malgrado le loro competenze e il loro valore, di stare a terra e occuparsi dei calcoli.
Elma però vuole salire su una navicella spaziale e andare oltre l’atmosfera e non capisce perché solo gli uomini possano farlo: tra l’altro, mentre i progetti per trasferirsi fuori dalla Terra procedono, ci si rende conto che le donne ci vanno per dare un futuro all’umanità sulle stazioni spaziali e sui pianeti.
Elma vuole diventare la prima Donna Astronauta e nella sua battaglia spazzerà via molte delle assurde convenzioni sociali del tempo, presenti anche in quella linea temporale alternativa anche di fronte ad eventi che chiedono un rapido cambio di rotta.
Primo romanzo della serie Lady AstronautThe calculating stars è stato accolto da molti consensi, vincendo il Premio Hugo per il miglior romanzo, il Premio Nebula per il miglior romanzo, il Premio Locus per il miglior romanzo di fantascienza e il Premio Sidewise per la storia alternativa nel 2019.
The calculating stars mette bene insieme elementi sempre interessanti come il filone post apocalittico, l’ucronia e le tematiche di genere, costruendo nuovi personaggi femminili interessanti, donne di un altro passato che cercano un riscatto e un futuro affrontando l’ignoto. Un libro interessante per più generazioni, e per la ricostruzione di anni Cinquanta alternativi ma fedeli in buona parte a quelli originali e per l’originalità della vicenda raccontata, prova ormai della centralità delle donne come autrici e protagoniste nei generi del fantastico. Rispetto ad Away, epopea televisiva su una donna astronauta in un futuro prossimo, The calculating stars è più avvincente e appassionante, anche se non sarebbe male vedere Elma interpretata da Hilary Swank.

Mary Robinette Kowal è autrice di Ghost Talkers e delle serie “The Glamourist Histories” e “Lady Astronaut”. Presiede la Science Fiction & Fantasy Writers of America, partecipa al pluripremiato podcast Writing Excuses e ha vinto quattro premi Hugo. Ha pubblicato racconti su “Uncanny”, “Tor.com” e “Asimov’s”. Burattinaia professionista, vive a Nashville. Il suo sito è maryrobinettekowal.com.

Provenienza: libro del recensore.

La casa di cenere di Angharad Walker (Rizzoli, 2021) a cura Elena Romanello

28 ottobre 2021

5366033-9788817154314-285x424Rizzoli propone nella sua collana rivolta ai ragazzi il romanzo di una nuova voce della narrativa inglese, La casa di cenere, dai toni decisamente originali e inquietanti, tra richiami a storie classiche e contemporanee e variazioni sul tema del fantastico per giovanissimi e non solo.
Quando arriva alla Casa di Cenere, il ragazzo nuovo è in cerca di una cura per il male alla schiena che lo tormenta da tempo, e al lettore non viene svelato il suo nome. Anziché però arrivare nella solita clinica come quelle che ha già visto, il Ragazzo si trova in una dimora con le pareti di fumo ed accolto da un gruppo di ragazzi che lo ribattezzano Sol, per Solitudine.
Con questo nuovo nome, Sol scopre un microcosmo di coetanei che si chiamano Concordia o Giustizia o Bontà, una cosa a cui tengono molto. Non ci sono adulti in quella casa, solo un misterioso Direttore che echeggia nelle Regole e che tutti attendono con ansia che ritorni.
Presto Sol però capisce che quella casa non è un luogo per curarsi, visto che non si può essere malati né cercare di andarsene. Un giorno alla fine arriva il Dottore e le cose di colpo precipitano.
La casa di cenere è stato paragonato a un best seller degli ultimi anni come La casa dei bambini speciali di Miss Peregrine e ad un classico come Il signore delle mosche e come i suoi modelli è potente e inquietante, con al centro un gruppo di bambini che imparano ad interagire e a ribellarsi.

Angharad Walker è una scrittrice inglese, cresciuta in diverse basi militari in Gran Bretagna, Germania e a Cipro. Ha studiato letteratura inglese e scrittura creativa all’Università di Warwick e all’Università della California Irvine. Ora vive a Londra e si occupa di comunicazione per enti benefici. La Casa di Cenere è il suo primo romanzo.

Provenienza: omaggio dell’Ufficio stampa che ringraziamo.