Posts Tagged ‘Fanucci’

:: Il codice di Dean R. Koontz (Fanucci 2022) a cura di Emilio Patavini

5 aprile 2022

È da poco uscito per Fanucci Il codice di Dean R. Koontz, nella traduzione di Annarita Guarnieri. Il romanzo (titolo originale: Elsewhere), è stato pubblicato per la prima volta nel 2020, ma nel frattempo Koontz ha scritto due romanzi, mentre altri due sono già pronti per essere pubblicati. Autore di successo con all’attivo più di 120 titoli e oltre 450 milioni di copie vendute, Dean R. Koontz, è nato in Pennsylvania nel 1945, e attualmente vive in California. Ha scritto numerosi thriller, horror e romanzi di fantascienza (pubblicati da Urania ed Editrice Nord), e viene spesso accostato a Stephen King. Le analogie non si fermano al genere di romanzi che scrivono o al fatto di essere scrittori bestseller (anche se inaspettatamente King ha venduto e scritto meno di Koontz): entrambi sono stati insegnanti di inglese prima di dedicarsi alla scrittura e le loro opere sono state adattate per il grande schermo.

Il codice, diciamolo, non parte da premesse particolarmente originali: un senzatetto, noto come Ed l’Inquietante, affida a Jeffy Coltrane una scatola apparentemente innocua, ricercata dagli agenti federali poiché contiene nientemeno che la “chiave di tutto”. Jeffy Coltrane vive in California, ed è l’unico a prendersi cura della figlia undicenne Amity da quando sua moglie Michelle è misteriosamente scomparsa sette anni prima. Ed gli raccomanda di nascondere la chiave di tutto e soprattutto di non usarla per nessuna ragione. Le cose si complicano quando Jeffy e Amity scoprono che la chiave di tutto dà accesso a infiniti mondi paralleli, e qui iniziano le loro disavventure. Il what if alla base del libro è: “Cosa accadrebbe se i due avessero la possibilità di trovare un mondo parallelo in cui Michelle è ancora viva?”

I mondi paralleli sono intesi da Koontz come linee temporali alternative, in cui il destino della Terra ha subito un corso differente da quello che conosciamo. Nel libro si cita Hugh Everett III, fisico dell’Università di Princeton, noto per la sua “interpretazione a molti mondi” della meccanica quantistica proposta nel 1957, secondo cui ogni evento della realtà produce infinite diramazioni dell’universo. La teoria del multiverso è stata anche l’oggetto dell’ultimo articolo scientifico di Stephen Hawking, completato pochi giorni prima della sua morte e pubblicato nel 2018 sul Journal of High Energy Physics.

Dean Koontz è un maestro della suspense. Il codice è un romanzo che intrattiene senza particolari pretese o aspirazioni, e può contare su uno stile scorrevole e una narrazione serrata e avvincente. Difficile categorizzarlo in un solo genere: è anzitutto una storia basata su spunti speculativi come il multiverso e le infinite realtà alternative della Terra; è anche un thriller, per chi ama le storie avventurose, ricche di tensione e azione; ma nei mondi che Jeffy e Amity visitano sono presenti anche scorci di mondi distopici e orrifici a metà tra 1984 e L’isola del dottor Moreau. Numerosi sono i riferimenti al fantasy disseminati in tutto il libro: da Tolkien a La principessa sposa di William Goldman.

Dean R. Koontz, classe 1945, è autore di thriller di successo e bestseller di fama internazionale. Nato e cresciuto in Pennsylvania, attualmente vive in California insieme a sua moglie e due cani. Per tanti anni è stato insegnante di inglese in una scuola superiore, prima di dedicarsi alla scrittura pubblicando nel 1968 il suo primo romanzo: Jumbo-10. Il Rinnegato. Con più di 120 titoli all’attivo e oltre 500 milioni di copie vendute, Dean Koontz è considerato uno dei maestri del genere thriller.

Source: inviato dall’editore. Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Fanucci Editore.

:: L’ombra degli dei di John Gwynne (Fanucci 2022) Recensione a cura di Emilio Patavini

19 febbraio 2022

«Vígríðr si chiama il campo
dove si daranno battaglia
Surtr e gli dei benigni.
Cento miglia
si stende d’ogni parte;
quello è il campo loro destinato»

(Edda poetica, Vaftþrúðnismál 18; traduzione dal norreno di Gianna Chiesa Isnardi)

Un anno fa è uscito nel Regno Unito l’ultimo romanzo di John Gwynne, The Shadow of the Gods, primo capitolo della Saga dei Fratelli di sangue, cui presto si aggiungerà il secondo volume, The Hunger of the Gods, in uscita il 14 aprile 2022 per Orbit Books. Così, quando il 27 gennaio Fanucci Editore ha portato in Italia la traduzione, a opera di Francesco Vitellini, di questo romanzo fantasy ispirato alla mitologia nordica non ho potuto fare a meno di leggerlo.

Immaginate un’ambientazione post-Ragnarök, in cui gli dei sono morti ma i loro resti e la loro progenie continuano a influenzare la vita degli uomini sotto forma di magia. Immaginate due continenti, un po’ come Westeros ed Essos nei romanzi di G.R.R. Martin: Vigrið, a nord, che prende il nome dalla Piana della Battaglia in cui gli dei persero la vita secondo il mito norreno, e Iskidan a sud, creato su modello di un impero orientale. La storia è ambientata nel continente di Vigrið, una terra del ghiaccio e del fuoco (che deve qualcosa all’Islanda e ai suoi fiordi), in cui si consuma la lotta per il potere di re, regine e jarl. La narrazione si snoda su tre fili narrativi, seguendo le vicende di altrettanti personaggi: Orka, una proprietaria terriera dall’oscuro passato; Varg, uno schiavo che vorrebbe entrare a far parte dei Fratelli di Sangue; e infine Elvar, la figlia di uno jarl che si è unita alla compagnia degli Sterminatori per guadagnarsi fama in battaglia.

Quelli descritti da Gwynne sono personaggi vividi, ben caratterizzati, con le loro ombre e i loro segreti, spietati come il mondo in cui vivono. Superata la prima parte, in cui il lettore deve prendere confidenza con i personaggi e l’ambientazione, la storia diventa via via più dinamica, ricca di azione, le scene si fanno più movimentate grazie ai continui colpi di scena, per arrivare a un finale che è un crescendo di epicità e rivelazioni. Lo stile è evocativo e scorrevole: un ottimo esempio di show, don’t tell.

Il romanzo fonde un world-building di ispirazione nordica (l’autore è un re-enactor vichingo, perciò le armi, il vestiario, le armature, le tecniche di combattimento sono molto approfondite), con il folklore scandinavo (vaesen, tennúr, näcken, troll diverranno figure familiari per il lettore), attingendo a piene mani da fonti come il Beowulf e l’Edda. Come scrive l’autore nei Ringraziamenti: «Nella sua essenza, questo libro è ispirato sia a Beowulf che al Ragnarök, la battaglia della fine dei tempi in cui caddero gli dei e il mondo fu rinnovato» (p. 458). Infatti, sono presenti numerosi riferimenti alla mitologia norrena e al grande poema epico anglosassone. Gwynne non si è limitato a riciclare i miti nordici e a riproporli nella forma in cui li conosciamo: non compaiono Odino, Loki e Thor ma divinità di sua invenzione. L’autore ha reinterpretato i miti in un modo molto originale, ha recuperato gli archetipi e li ha impiegati per la creazione di propri miti, per inventare la propria epica. Di conseguenza, il suo word-building risulta coerente e credibile, con un passato mitico sullo sfondo. Secondo la sua mitologia, nel Guðfalla, la Caduta degli Dei (=Ragnarök), tutte le divinità persero la vita in uno scontro mortale: a capo del pantheon creato da Gwynne c’è Snaka (sorta di Jörmungandr), il dio serpente e padre degli dei; altre divinità sono Ulfrir, il dio lupo incatenato (=il lupo Fenrir) e Lik-Rifa, la dea drago imprigionata sotto il frassino Oskutreð (=Yggdrasill), di cui rosicchia le radici (come il drago Níðhöggr). Inoltre, dai miti scandinavi sono riprese le figure del berserkir (guerriero ricoperto di pelli d’orso), degli úlfheðnar (guerrieri ricoperti di pelli di lupo) e i riferimenti alla pratica magica del seiðr. Nel romanzo, inoltre, compaiono alcune frasi in norreno, che viene chiamato «lingua antica» o lingua Galdur, cioè la lingua degli incantesimi. Al Beowulf, invece, può essere fatto risalire il nome del figlio di Orka, Breca, nome del rivale di Beowulf in una famosa gara di nuoto. La terminologia norrena contribuisce ad arricchire l’ambientazione, rendendola ancora più credibile, tanto che in alcuni punti (soprattutto all’inizio) si ha quasi la sensazione di leggere un romanzo storico ambientato all’epoca dei vichinghi e non un fantasy. Ma come in ogni saga nordica che si rispetti ci sono i mostri, come troll con tanto di corna e zanne e una viscida creatura simile a Gollum che vive in una caverna subacquea.

In questo mondo sul baratro dell’oscurità, non solo gli dei sono morti, ma sono odiati e viene data la caccia ai loro discendenti, i Corrotti, nelle cui vene scorre sangue divino. L’Ombra degli dei può essere definito come un fantasy alla G.R.R. Martin con tinte dark fantasy, epiche scene di combattimento e la presenza del folklore scandinavo e della caccia ai mostri, come nella saga letteraria di The Witcher di Andrzej Sapkowski. Quello raccontato da John Gwynne è un «mondo oscuro e le azioni oscure lo governano» (p. 141), un mondo fatto di muri di scudi, di sale dell’idromele, di sangue e vendette. I tre fili narrativi sono accomunati da un senso di rivalsa e di riscatto, in un tempo in cui l’inverno sembra arrivare e le forze del male ridestarsi. Un romanzo che rievoca atmosfere dense di immaginazione e inventiva. Salite a bordo di un drakkar e lasciatevi trasportare a Vigrið, una terra in cui la leggenda diventa realtà.

John Gwynne è nato a Singapore e in seguito ha viaggiato molto. Attualmente vive con la moglie e i quattro figli nell’East Sussex. Autore della serie bestseller La fede e l’inganno, composta dai romanzi Malice – La guerra degli dèi, con cui si è aggiudicato il David Gemmell Morningstar Award per la categoria “Miglior fantasy”; Valour – L’astro splendente; Ruin – La lancia di Skald e Wrath – Nuove alleanze. È autore anche della trilogia Di sangue e ossa, che si compone dei romanzi Venti di guerra, Tempo di sangue e Tempo del coraggio.

Source: inviato dall’editore al recensore. Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Fanucci Editore.

:: Il grande dio Pan di Arthur Machen (Fanucci 2021) a cura di Emilio Patavini

1 settembre 2021

Scritto nel 1890, The Great God Pan è il grande e perturbante capolavoro di Arthur Machen, che unisce il folk horror celtico alla pseudoscienza occultista. Fu dato alle stampe nel 1894, lo stesso anno in cui il Premio Nobel Knut Hamsun pubblicò il suo romanzo più famoso, chiamato per l’appunto Pan.

Non posso esimermi dal presentare questo romanzo breve o racconto lungo dello scrittore gallese a partire dalle parole di un suo epigono, che di orrore se ne intendeva. Sto parlando di H.P. Lovecraft, e le parole che sto per citare sono tratte dal decimo capitolo (The Modern Masters) del suo saggio Supernatural Horror in Literature (“L’orrore soprannaturale nella letteratura”):

«Tra i creatori viventi di paura cosmica, assurti all’apice dell’arte, pochi, o forse nessuno, possono sperare di eguagliare il versatile Arthur Machen. […] Delle storie dell’orrore del signor Machen, la più famosa è forse “Il grande dio Pan” (1894), che racconta di un singolare e terribile esperimento e delle sue conseguenze. […] Tutto questo mistero è stranamente intrecciato alle divinità rurali romane del posto, come erano raffigurate negli antichi frammenti scultorei. […] Ma il fascino della storia sta in come è raccontata. Nessuno riuscirebbe a descrivere l’intera suspense e l’orrore finale di cui abbonda ogni paragrafo senza seguire un ordine preciso in cui il signor Machen disvela a poco a poco i suoi indizi e le sue rivelazioni […] e il lettore attento giunge alla fine solo con un brivido di apprezzamento e una propensione a ripetere le parole di uno dei personaggi: ‘È troppo incredibile, troppo mostruoso… non è possibile che esistano cose simili in questo mondo tranquillo […] Diamine, se un caso del genere fosse possibile, la terra sarebbe un luogo da incubo.’»

La sua è una terra pregna di leggende che affondano le radici in un tempo così antico da sfumare nel mito. Arthur Llewelyn Jones Machen nacque nel 1863 a Caerleon, così era chiamata Isca Silururm, prima centro della tribù celtica dei Siluri, poi castrum romano (ambientazione finale de L’ultima legione di Valerio Massimo Manfredi), bagnata dal fiume Usk (uisge, in gaelico scozzese, significa “acqua”; da uisge beatha “acqua di vita”, traduzione del latino aqua vitae “acquavite”, deriva whiskey). Secondo la raccolta dei miti gallesi del Mabinogion, Caer Llion sull’Usk è la residenza principale di re Artù, il luogo che egli aveva eletto a propria dimora, e corrisponde, secondo alcuni, alla celebre Camelot. A pochi passi dal Gwent, la regione del Gallese in cui Machen era nato e cresciuto, sorgeva, nel Gloucestershire, il tempio romano-celtico di Lydney Park, risalente al quarto secolo. Anni dopo, nel 1928, un giovane filologo di Oxford fu incaricato dagli archeologi Sir Mortimer e Tessa Wheeler di risalire all’origine del nome della divinità celtica invocata in una delle tabulae defixionis scoperte nel tempio, situato su una collina dal nome anglosassone di Dwarf’s Hill. Il dio invocato nelle tavole di bronzo era Nodens e il giovane filologo era J.R.R. Tolkien, che scriverà un saggio, intitolato “The Name Nodens”, pubblicato in appendice al ‘‘Report on the Excavation of the Prehistoric, Roman and Post-Roman Site in Lydney Park, Gloucestershire’’ (1932) di Wheeler per la Società degli Antiquari di Londra.

Essendoci ora chiara l’influenza che Machen ebbe su Lovecraft, possiamo anche supporre che il Solitario di Providence prese in prestito alcuni elementi de Il grande dio Pan, per trasporli nella propria opera. Uno di questi è sicuramente il dio Nodens, citato a p. 101 come «il dio del Profondo o dell’Abisso». Sicuramente Machen, da cultore di storia locale gallese ed esperto di antichità celtiche, doveva aver letto le Roman Antiquities at Lydney Park, Gloucestershire (London: Longmans, Green, and Co., 1879) di W.H. Bathurst (la cui famiglia possiede ancora Lydney Park), che a p. 39 della sua opera definisce Nodens proprio come «‘God of the deeps’ » e «‘God of the abyss’». Non è un caso se anche in H.P. Lovecraft troviamo citato Nodens due volte. Nel suo racconto del 1926 La casa misteriosa lassù nella nebbia (The Strange High House in the Mist), Lovecraft citerà «the gay and awful form of primal Nodens, Lord of the Great Abyss». Il nome Nodens apparirà anche nel suo romanzo breve del 1927 La ricerca onirica dello sconosciuto Kadath (The Dream-Quest of Unknown Kadath). In questi testi, Nodens è presentato, seguendo l’interpretazione data da Bathurst nelle Roman Antiquities at Lydney Park, Gloucestershire, come un dio marino, al pari di Poseidone e Nettuno, e Lovecraft lo mette a capo dei Night-Gaunts (i “magri notturni”, le figure che popolavano i suoi incubi infantili).

Ma veniamo alla trama del romanzo: di cosa parla Il grande dio Pan?

Il dottor Raymond è un chirurgo che da molti anni si è consacrato alla «medicina trascendentale». Tenta così un folle e tremendo esperimento: il suo intento è quello di «sollevare il velo» del reale e guardare in faccia la cruda e mostruosa realtà delle cose. Gli antichi «chiamavano questa esperienza ‘vedere il dio Pan’» (p. 11). Il dottore opera la figlia adottiva Mary al cervello, alterando le cellule della materia grigia così da poter aprire l’ «occhio interno», l’occhio della mente, e poter entrare in contatto con il dio Pan e tutte quelle forze primigenie che popolano il mondo sconosciuto che si cela oltre il velo del reale. Un pantheon che deve avere colpito molto H.P. Lovecraft, tanto che ne riproporrà uno lui stesso, unendo le entità malefiche cui Machen allude con le fantasmagorie mitopoietiche dell’irlandese Lord Dunsany, presentate in The Gods of Pegāna .

Dopo l’esperimento, forze sconosciute si mettono all’opera e strani avvenimenti hanno luogo. Episodi singolari e inquietanti, sempre più misteriosi, si susseguono in città, gettandola nel caos e nello scompiglio, mettendola in subbuglio e trasformandola in una «città da incubo» (p. 78).

La città, la Londra brumosa, cupa e notturna evocata dal romanzo, teatro di un’epidemia inspiegabile di suicidi, fa da contraltare alle atmosfere silvestri delle campagne gallesi, in cui Machen trova il tempo di accennare al proprio borgo natale, senza menzionarlo direttamente: «un villaggio al confine gallese, un centro di discreta importanza ai tempi dell’occupazione romana, ora ridotto a un borgo di case sparse, abitato da non più di cinquecento anime. Si trova su declivio a circa sei miglia dal mare, ed è riparato da una foresta imponente e pittoresca» (p. 26).

Questa Londra richiama perfettamente le atmosfere delle detective stories di Sherlock Holmes, ma anche la Londra del mystery di dottor Jekyll e di Mr. Hyde.

Nel romanzo di Machen, il Dio-Tutto Pan non si prende mai la scena da solo, si tratta di una «presenza che non era né umana né animale, né viva né morta, ma che in sé comprendeva tutto, racchiudeva la forma di ogni cosa, ma era a sua volta del tutto priva di forma» (pp. 18-19). Una figura cui si può solo alludere timidamente, un’entità tanto malefica che non si ha il coraggio di pronunciare.

Leggere quella che Stephen King (un altro scrittore che di orrore se ne intende) ha definito come «una delle migliori storie dell’orrore mai scritte», è stata un’esperienza un po’ diversa dal solito. Non è la classica storia dell’orrore contro cui, nel corso del tempo, abbiamo sviluppato anticorpi ben efficaci. Non c’è posto né per vampiri né per fantasmi, in questo storia. Solo il principio del male, l’hybris scellerata di uno scienziato che, seguendo l’archetipo shelleyano del dottor Victor Frankenstein, vuole scavalcare i limiti preimposti, che sono i limiti della nostra realtà, per guardare al di là di essa, per «sollevare il velo» e scoperchiare il vaso di Pandora.

Il tutto è qui proposto sotto forma di una storia avvincente e ricca di suspense, in cui troviamo atmosfere gotiche e l’influenza stevensoniana, riconosciuta dallo stesso Machen. Una nuova forma di romanzo gotico, che anche grazie alla sua brevità, si fa leggere piacevolmente e tutta d’un fiato, nonostante siano passati ormai quasi centotrenta anni dalla sua pubblicazione.

Ma allo stesso tempo restituisce un quadro chiaroscurale di quel clima tutto fin de siècle di un’Europa (e soprattutto un’Inghilterra) decadente, fatta di misticismo, fenomeni dell’occulto, passioni per il proibito, il torbido, l’arcano e il misterioso.

Un ritratto, questo, non certo privo di contraddizioni. È il caso di Arthur Conan Doyle: creatore di Sherlock Holmes, l’investigatore divenuto sinonimo di razionalità, ma allo stesso tempo convinto sostenitore dello spiritismo e appassionato del paranormale.

Questa edizione Fanucci de Il grande dio Pan, uscita il 26 agosto e facente parte della collana Piccola Biblioteca del Fantastico, riporta nelle librerie italiane uno degli orrori preferiti dal Solitario di Providence in una veste editoriale molto accattivante: il libro, 120 pagine, in copertina rigida, ha un splendida illustrazione in sovraccoperta di Antonello Silverini. Tuttavia il libro, se confrontato con le precedenti edizioni, è piuttosto povero di contenuti: si compone solo di una breve “Nota dell’editore”, del testo efficacemente tradotto da Annalisa Di Liddo e dell’immancabile “Postfazione” di Carlo Pagetti. I prezzi di questa Collana, che vuole ricalcare, nel suo formato, la mitica Fantacollana Nord, sono molto accessibili, e tra i titoli usciti precedentemente possiamo ricordare John Carter e la principessa di Marte di Edgar Rice Burroughs e Noi di Evgenij Ivanovič Zamjatin. Del 2018 è l’edizione Adiaphora, 190 pagine, con testo originale a fronte, traduzione e note critiche di M. Olivetti Zapparelli e una postfazione di H.P. Lovecraft. Nel 2017, è uscita anche un’edizione di 96 pagine per la collana Eureka delle Edizioni Theoria, sempre con l’ottima traduzione di Annalisa Di Liddo. L’anno prima, per la collana Tre Sotterranei di Tre Editori uscì un’edizione di ben 260 pagine, completa della prefazione di Machen, un’introduzione di H.P. Lovecraft tratta dal suo già citato saggio, la traduzione di Alessandro Zabini, il saggio “Appunti su alcune fonti di Arthur Machen” del curatore, lo scritto “Il risveglio della selva” di S.J. Graf e una “breve antologia panica”, con brani tratti da Plutarco a John Milton, da R.L. Stevenson a W.B. Yeats.

Arthur Machen (1863-1947), scrittore gallese di narrativa del terrore, è oggi ritenuto uno dei maestri del genere. La sua prosa decadente e misurata, lontana da quella fin troppo carica di aggettivi e immagini deliranti del suo epigono H.P. Lovecraft, si inserisce a pieno titolo nel solco della tradizione letteraria fantastica anglosassone.
Fra le sue svariate influenze si possono citare Stevenson, de Quincey, Coleridge e Poe. Il suo stile e le tematiche da lui affrontate sono comunque originali e si può considerare come un innovatore del genere della narrativa soprannaturale. Infatti, nonostante abbia scritto numerosi libri di argomento storico, filosofico e teologico e sia stato anche membro di una compagnia teatrale shakespeariana, Machen deve oggi la sua fama ai racconti del terrore, in particolare a Il grande dio Pan.

Source: del recensore.

Il dominio del sangue di Giordano Drago (Fanucci, 2019) a cura di Elena Romanello

9 marzo 2020

47307-giordano-drago-il-dominio-del-sangue-highworldFanucci editore continua la sua missione di promuovere e presentare fantasy scritto da autori italiani con Il dominio del sangue, primo volume di una trilogia che porta in un mondo che può rassicurare e far passare il tempo agli orfani di George R. R. Martin, in attesa degli ultimi due volumi della Saga del Ghiaccio e del Fuoco che continuano a latitare nelle nostre librerie e biblioteche, dopo la fine del serial che non ha accontentato tutti.
Non bisogna però credere che questo avvincente libro sia una copia degli universi di Westeros e dintorni, perché possiede una sua originalità, presentando un mondo dove i contrasti sono dovuti a lotte di potere ma anche a scelte economiche e logistiche: le Terre Alte sono un microcosmo fatto di arcipelaghi posizionati ad altitudini diverse, che si sono difesi da oceani e maree grazie ad enormi dighe in pietra.
Le Terre Alte non sono un luogo tranquillo, ci sono lotte per potere e predominio, ma c’è un’entità che è guardata da tutti con rispetto, i Custodi delle Dighe. Come suggerisce il nome, costoro si tramandano da generazioni la conoscenza del potere più distruttivo che possa esistere in quel mondo, aprire le Dighe lasciando che le acque sommergano tutte le Terre Alte, distruggendo le vite e i popoli che li abitano.
Rispetto quindi al mondo intrigante e rutilante di Martin, qui c’è una spada di Damocle su tutti gli abitanti delle Terre Alte, perché c’è qualcuno al di sopra di tutto, non una divinità, che può decidere di distruggere tutto, se motivato: tra le righe gli appassionati di folklore e leggende potranno leggere anche un richiamo ai miti presenti in varie culture della distruzione di una civiltà con piogge e maremoti, dal Diluvio universale all’inabissamento di Atlantide. Se si è invece profondi conoscitori dell’animazione giapponese anni Ottanta, tra le righe c’è anche qualche ricordo, magari non voluto, di un bell’anime di genere fantasy da recuperare, C’era una volta Windaria, in cui c’erano guerre tra regni e l’acqua che distrugge civiltà e città, sia pure in un contesto che non diventa così devastante come potrebbe essere qui.
Il libro racconta che, dopo una tregua durata abbastanza, il delicato equilibrio tra le dinastie eredi di re Rhodeon il Conquistare è sul punto di spezzarsi, perché le altre casate delle Terre Alte, gli Artakis, gli Oleone, i Sertan e i Misgarian sanno conducendo di nuovo il mondo sull’orlo di una guerra, ma questo forse non è l’unico problema. Ci sono quindi vari personaggi da seguire, nelle singole casate, mentre si preparano ad un conflitto che rischia di essere senza vincitori ma con solo vinti.
La storia continuerà con altri due volumi, Il dominio del Ferro Il dominio della Terra, che concluderanno la vicenda.

Il nome de plume Giordano Drago raccoglie un collettivo di autori che hanno deciso di rinunciare alla propria fama perché credono nella circolazione delle storie. Prima dei nomi viene il racconto, e questo racconto attraversa il mondo ricco di storie delle Terre Alte, vero protagonista della saga.

Provenienza: omaggio dell’Ufficio stampa che ringraziamo.

Il pianeta di ghiaccio di Andrea Scavongelli (Fanucci, 2019) a cura di Elena Romanello

25 giugno 2019

unnamedLa fantascienza continua ad essere un genere amato da un nutrito gruppo di appassionati, che è cresciuto grazie a nuove storie, come quelle raccontate in alcune serie TV di grande successo, ma negli ultimi anni ha preferito concentrarsi su scenari distopici, grazie anche all’attuale momento storico politico non proprio facile, trascurando un filone amatissimo, quello della space opera, le avventure nello spazio, che per anni è stato pane quotidiano per chi sognava un oltre le prime spedizioni nel cosmo.
Per questo motivo, se si sono letti ed amati Asimov e Hamilton e se si sono seguite con passione le avventure televisive di Star TrekSpazio: 1999  e degli anime di Leiji Matsumoto, Capitan Harlock in testa, non si può che essere felici per l’arrivo nel catalogo Fanucci tra l’altro dell’opera prima di un autore italiano, Andrea Scavongelli: Il pianeta di ghiaccio.
Primo capitolo del Ciclo di Rizor, e infatti la storia non si esaurisce qui, il libro ci porta sullo sfondo di un universo ormai dominato dagli esseri umani, che hanno colonizzato pianeti e stazioni spaziali, non sempre in modo pacifico e non sempre andando d’accordo tra di loro. Gli uomini di potere vogliono conquistare il dominio assoluto, ma non hanno calcolato che ci potrebbero essere delle pedine ribelli, stanche di un dominio dispotico.
Rickard Hill è tormentato dal suo passato e si trova disperso nel deserto di ghiaccio del pianeta Rizor 4, dove incontra un popolo semisconosciuto, che gli fa capire il suo valore e come uscire dai sensi di colpa che lo attanagliano. Romeo Davis è un giovane e idealista soldato, membro del corpo scelto dei Volmarix, e si trova costretto a fare i conti con la violenza del mondo a cui appartiene e a cercare un’altra strada per salvare chi ama.
Entrambi, e non solo loro, non hanno fatto i conti con un cinico agente segreto che è disposto a qualsiasi cosa per risolvere il conflitto tra esseri umani e una pericolosa razza aliena,  a vantaggio degli umani certo, ma sacrificandone una parte. Rizor 4 sarà il teatro dello scontro definitivo ma non risolutivo di una guerra che si è trascinata per troppo tempo.
Ci sono echi di Asimov con il ciclo della Fondazione e di Herbert con la saga di Dune in una storia in cui la fantascienza è riflessione sui troppi conflitti contemporanei, che rappresenta comunque un futuro non certo utopico ma dove gli spazi dell’universo e i pianeti altri diventano di nuovo protagonisti. Un romanzo di fantascienza che riflette e appassiona, che non rinuncia a raccontare una versione metaforica della realtà ma nello stesso tempo intrattiene, riaprendo lo sguardo verso nuovi mondi da scoprire, per arrivare là dove nessuno è mai giunto prima.

Andrea Scavongelli  è nato a Ortona (Chieti) nel 1985, è laureato in Tecniche sanitarie di radiologia medica e lavora presso la UO di Radioterapia dell’ospedale di Chieti. È un grande appassionato di basket, di musica metal, rock, country e jazz, ma soprattutto è un assiduo lettore di fantasy e fantascienza. Tra i suoi autori preferiti, David Gemmell, Frank Herbert, Dan Simmons e Gene Wolfe. Con Il pianeta di ghiaccio fa il suo esordio nel catalogo Fanucci Editore.

Provenienza: omaggio dell’Ufficio stampa che ringraziamo.

Alika di Sara Segantin e Silvia Poli (Fanucci, 2019) a cura di Elena Romanello

24 giugno 2019

alika_1024x1024Fanucci editore continua a portare avanti un discorso in sostegno del fantasy, uno dei generi più amati oggi ma a tratti forse più difficile da incasellare, dando spazio a voci italiane, con il primo volume di una saga per ragazzi e non solo, Alika, scritta a quattro mani dalle due appassionate del genere e ora scrittrici Sara Segantin e Silvia Poli.
La Alika del titolo è il nome di un piccolo continente, dove vivono umani, ninfe, draghi, mutaforma e altre creature fantastiche: non è un luogo pacifico, perché ci sono guerre civili e maledizioni, i mari sono infestati dai pirati e nelle foreste è meglio non addentrarsi.
In questo mondo di spavento e d’incanto si incrociano le strade di quattro ragazzi,  Ayeres, Jean, Miluna e Cyrniev, diversi tra di loro ma accomunati da una missione comune.
Infatti ad ognuno di loro, in separata sede per ciascuno, è stato affidato il compito di rubare Tarima, un medaglione su cui incombe una maledizione sconosciuta ai più, simbolo del potere in uno degli Stati del continente di Alika. La ricerca del medaglione porta i quattro, prima rivali e poi amici, a scoprire il mondo di Alika, tra mille avventure, ma non sanno che sulle loro tracce c’è lo Stratega, un generale del paese dei mutaforma.
I quattro ragazzi, Ayeres, Jean, Miluna e Cyrniev dovranno non solo portare a termine la missione e scampare ai pericoli, ma anche confrontarsi, giorno dopo giorno, con chi sono e chi vorrebbero essere e diventare, cercando di scegliere la strada migliore, in quello che è un romanzo non solo fantasy ma di formazione.
Alika recupera una tradizione importante del genere fantasy, quello della quest, dell’avventura in un mondo fantastico, introdotta tanti anni fa da Tolkien e Lewis e portata avanti da molti altri, a cominciare da Terry Brooks con la serie di Shannara. Ci sono echi del mondo di Shannara, anche se Alika non è una Terra post apocalittica ma un mondo a parte, inquietante e favoloso, che riesce a conquistare.
Un libro per ragazzi ma anche per chi legge fantasy da anni ed è sempre in cerca di nuovi intrecci, che lo rassicurino con la ripresa di archetipi sempre validi e lo appassionino con nuove avventure. Bella e evocativa è anche l’illustrazione di copertina, ad opera della brava Cristiana Leone.

Sara Segantin, 22 anni, è cresciuta sulle Dolomiti, e dopo un periodo alla Montana State University negli USA si è laureata in Lingue e letterature straniere a Trieste., dove ha deciso di restare per proseguire gli studi in Turismo culturale. Da sempre impegnata nella difesa dei diritti delle persone e dell’ambiente, è organizzatrice di scambi e progetti internazionali e svolge anche attività come regista, giornalista e ogni tanto attrice. Le sue grandi passioni sono scrivere, il public speaking, viaggiare e ama le storie, vicine e lontane, inventate o vissute, di luoghi, persone e semplici istanti.

Silvia Poli, nata nel 1996 sulle Dolomiti trentine, ama da sempre le storie, di qualunque tipo, che siano libri, fumetti, serie TV, film, giochi da tavolo. La sua passione per fantasy e fantascienza si è trasformata in studio e lavoro, tra fiere e giornali del settore. Dal 2015 vive a Bologna, dove si è laureata con una tesi su Magic: The Gathering  e ora studia Forecasting, Innovation and Change, pratica aikido e cucina dolci.

Provenienza: omaggio dell’Ufficio stampa che ringraziamo.

L’orso e l’usignolo di Katharine Arden (Fanucci, 2019) a cura di Elena Romanello

21 giugno 2019

45569-51osarxaxtl.-sx322-bo1-204-203-200-Fanucci editore propone il primo volume di una nuova serie fantasy, La notte dell’inverno, che pesca dalle fiabe e dalle leggende di un mondo particolare e forse non abbastanza esplorato, quello russo, che l’autrice ha conosciuto e apprezzato durante un suo soggiorno per motivi di studio. Lo stesso mondo che fu raccolto da Afanasev in quella che è ancora oggi una delle fondamentali antologie di fiabe e studiato da Propp per cercare le regole delle storie del fantastico.
La vicenda ci porta in un mondo fuori dal tempo, in uno sperduto villaggio ai confini della tundra russa, dove l’inverno dura per la maggior parte dell’anno e dove i mucchi di neve sono più alti delle case, un mondo che fa somigliare Grande Inverno e la Barriera al confronto un villaggio turistico.
Vasilisa e i suoi fratelli amano il loro villaggio, e passano le lunghe notte polari di un luogo dove per metà anno le tenebre dominano oltre al freddo ad ascoltare le fiabe della loro balia. In particolare Vasilisa ama la storia di Frost, il demone invernale dagli occhi blu, che arriva nelle notti più gelide per reclamare le anime imprudenti.: per questo da sempre si sa che bisogna temerlo ed onorare invece gli spiriti che proteggono le case dal male.
Il padre di Vasilisa, da tempo vedovo, si risposa e la matrigna è una donna che viene dalla città, che crede nella religione ortodossa e disprezza chi crede agli spiriti: la sfortuna si abbatte sul loro villaggio, Vasilisa decide di ribellarsi e la matrigna, con la complicità anche di un pope giunto in paese per evangelizzare i pagani, minaccia di farla sposare con un marito scelto da lei o chiuderla in convento.
Ma la minaccia degli spiriti maligni non è una cosa da sottovalutare, il villaggio è in pericolo e Vasilisa decide di affrontare l’ignoto a qualsiasi costo.
L’orso e l’usignolo è un libro interessante e originale, che fa scoprire come si diceva il folklore russo, con al centro una protagonista che ha il nome dell’eroina per antonomasia delle fiabe della Russia, Vasilisa la bella, non una principessina in cerca di un principe che la salvi, ma una vera e propria guerriera che affronta pericoli e creature non umane. Come altri libri fantasy ambientati in altre zone del mondo, quali quelli sul mondo celtico, rievoca anche l’incontro scontro tra la cultura pagana tradizionale e quella cristiana, in questo caso ortodossa, ma gli archetipi non si fermano qui, Vasilisa che affronta le forze del male è un’icona del fantastico al femminile, massicciamente presente nell’immaginario di oggi e sempre interessante, soprattutto quando è trattata senza cadere nel banale come capita talvolta.
L’orso e l’usignolo è un libro per gli amanti del fantastico che vogliono provare nuove storie magari un po’ fuori da schemi sentiti troppe volte e per chi pensa che davvero la fantasia non abbia confine, e che gli immaginari di tutto il mondo possono servire da spunto per immaginare nuovi universi.

Katherine Arden, classe 1987, è nata a Austin e attualmente risiede nel Vermont. Dopo il liceo ha trascorso un anno a Mosca, prima di frequentare il Middlebury College e laurearsi in russo e francese. Con il suo romanzo d’esordio, L’Orso e l’Usignolo, primo capitolo della trilogia La notte dell’inverno, fa il suo esordio nel catalogo Fanucci.

Provenienza: omaggio al recensore dell’Ufficio stampa che ringraziamo.

La leggenda del libro sacro L’Ondembrah di Teresa Maria Desiderio (Fanucci, 2019) a cura di Elena Romanello

20 aprile 2019

3453239Fanucci editore tiene a battesimo una nuova voce italiana con il primo volume di una nuova saga, La leggenda del libro sacro L’Ondembrah, rivolta in teoria ad un pubblico di giovanissimi ma in realtà piacevole per tutte le età, cosa poi non così frequente, soprattutto ultimamente, se si escludono fenomeni letterari come la saga di Harry Potter e quella di Hunger Games.
L’autrice, da sempre interessata al fantastico e con fonti di ispirazione che spaziano da Lewis Carroll a Leiji Matsumoto. da Tolkien a Rumiko Takahashi, da J. K. Rowling a Sailormoon, porta nel mondo di Sannoth, universo alternativo dove vivono ben nove razze differenti, in rapporti più o meno amichevoli, tra di loro, metafora della difficoltà ad accettare la diversità presente nel nostro mondo.
Ogni abitante del luogo possiede una scintilla di magia dentro di sé chiamata Shinpa: gli Shannobrah,, una delle stirpi del mondo, iniziano ad usarla dopo aver compiuto dieci anni, dopo aver festeggiato il Phatiobrah, la festa che consacra per ogni piccolo abitante l’ingresso nella vita magica, una specie di bar mitzah o di cresima magica.
Goshda e Fadfra sono gemelli, compiono dieci anni e si accingono a celebrare questo evento e  a rompere il Grongo, il sigillo blocca magia. Ma qualcosa non va per il verso giusto, oscuri presagi emergono, come l’apparizione di una piuma, tutto tranne che innocua. I due ragazzi vengono divisi: Fadfra viene rapita da Yonah, il re degli Elfi, che nasconde un segreto  inimmaginabile, mentre Goshda deve imbarcarsi in un compito ancora più difficile.
Sui due ragazzi si staglia una profezia, perché uno o una di loro potrebbe essere  il leggendario Ondembrah, il detentore del tanto atteso ‘nono dono’ magico, che dovrà risvegliare i dormienti e portare ad un cambiamento cruciale e forse non positivo per il mondo conosciuto: quindi i due ragazzi non dovranno solo crescere ma capire anche le conseguenze della loro crescita e di scelte che possono non essere facili, univoche e positive.
A tratti ci sono degli archetipi che tornano, il ruolo del prescelto (o prescelta), il viaggio dell’eroe in cerca di sé, la coesistenza di diverse razze, il mistero da risolvere, ma tutto è trattato in maniera fresca e originale, con una narrazione incalzante, due personaggi magici che come età strizzano l’occhio ai coetanei, ma l’insieme è interessante anche per i fan del fantasy di lunga data, che giocheranno con le citazioni ma scopriranno un nuovo mondo in cui si viene trasportati e in cui si tornerà.
Fa piacere vedere comunque che si sta tornando a proporre storie fantasy per i più giovani basate su avventure in mondi alternativi, non a storielle più da Harmony dove di fantastico ce ne è ben poco, con la costruzione quindi di un mondo che sa essere nuovo senza dimenticare il passato di storie che si sono succedute, da Tolkien a Terry Brooks.
A questo punto, non resta che aspettare il secondo capitolo della saga, come è già successo con due nuove voci italiane recenti, Helena Paoli e Rebecca Moro.

Provenienza: omaggio dell’ufficio stampa che ringraziamo.

Teresa M. Desiderio è mamma di tre splendidi bambini e grande sognatrice, e fin da piccola ha avuto una predilezione per la magia e il fantastico in generale. Letture e interessi avevano sempre un unico filo conduttore, e oggi le idee che l’hanno accompagnata per anni si sono riassunte in un mondo narrativo originale e complesso che prende il nome di Sannoth. Con Ondembrah, il primo capitolo della saga fantasy La leggenda del Libro Sacro, fa il suo ingresso nel catalogo Fanucci.

La maga tessitrice di Helena Paoli (Fanucci, 2019) a cura di Elena Romanello

18 febbraio 2019

La_maga_tessitrice_-_Helena_Paoli_1024x1024Fanucci editore inizia una nuova saga, La figlia del cielo, dando spazio ad una giovane voce italiana, Helena Paoli, di certo non priva di interesse, già nota per il suo blog e il suo canale youtube, con il primo capitolo, La maga tessitrice.
In una qualunque cittadina italiana contemporanea vive Aspasia, diciotto anni, una vita segnata dalla tragica morte di sua madre, da un padre che si è chiuso in se stesso dimenticandosi di avere una figlia e da un’aggressione che ha subito da qualcuno di cui si fidava. La ragazza si è rinchiusa in se stessa, con come unica compagnia i libri.
Ma un giorno la sua vita cambia, e viene risucchiata in una dimensione parallela, dove la porta un giovane dai capelli bianchi, Septimus.
L’Altrove è infatti una terra governata da miti e magie, dove regna incontrastato un dittatore sanguinario e dove un gruppo di donne, le Tessitrici, cercano di mantenere l’ordine. Aracne, la più temuta e potente di loro, è morta, e Aspasia, che le somiglia come una goccia d’acqua deve prendere il suo posto, e forse trovare il suo destino.
Il tema della ragazza che giunge in un mondo alternativo ha nobili antenati, da Alice alla serie del Mago di Oz, e anche in tempi recenti è stato frequentato, da storie di culto, basti pensare a Labyrinth. Qui ci sono anche richiami alla cultura classica, sia greca che romana, mentre il mondo costruito ha non pochi echi di quello di Westeros di George R. R. Martin.
Un libro però tutt’altro che privo di una sua originalità, avvincente e che riesce a salvarsi dalle trappole di troppi romanzi rosa travestiti da storie fantasy, con un viaggio dell’eroina intrigante, per salvare un mondo e forse per salvare anche se stessa da una vita inaccettabile ma in fondo metaforica di tutte le difficoltà dell’adolescenza.
La maga tessitrice piacerà senz’altro agli appassionati più giovani, magari in cerca di un’alternativa alle storielle di vampiretti che luccicano, ma è godibile anche per chi ha qualche anno e un po’ di letture del genere in più, in attesa comunque del secondo capitolo.

Helena Paoli è nata a Bari nel 1998 e studia Lettere moderne presso l’università degli studi Aldo Moro di Bari. Divora libri fin da bambina e ha pubblicato il suo primo romanzo fantasy all’età di diciassette anni. Ha già pubblicato i primi due volumi della saga fantasy Cronache dell’eternità (Bibliotheka Edizioni): Principessa del tempoPrigioniera delle tenebre. Parla di storie che l’appassionano sul suo blog HeleNarrazioni e sull’omonimo canale YouTube.
Con La Maga Tessitrice, primo capitolo della saga fantasy La figlia del Cielo, fa il suo ingresso nel catalogo Fanucci.

Provenienza: omaggio dell’ufficio stampa che ringraziamo.

Il principe degli sciacalli di Rebecca Moro (Fanucci, 2018) a cura di Elena Romanello

12 dicembre 2018

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Fanucci editore torna ad arricchire la sezione fantasy con una voce italiana, Rebecca Moro, che esordisce con Il principe degli sciacalli, primo volume della saga dei Quadranti.
Se il buon giorno si vede dal mattino, come dicevano le nostre nonne, c’è da essere soddisfatti, perché finalmente si legge un qualcosa di interessante, intrigante, dark e crudo, decisamente fantasy e non una storiella che di fantastico ha poco per ragazzine in cerca di emozioni terra terra. Tra le righe ci sono echi di autori come ovviamente George R. R. Martin, di cui i fan aspettano con impazienza la conclusione della saga di Westeros, ma nell’attesa non disdegnano certo altre storie di passioni e lotte, cruente il giusto e con la costruzione di un mondo a tratti terribile ma che sa conquistare.
Un altro autore che viene in mente, leggendo queste pagine, è Terry Goodkind con la saga de La spada della verità, non per la somiglianza della vicenda, ma per le atmosfere simili, di un fantasy che non è certo favolette per ragazzini ma ricostruzione e elaborazione di un mondo immaginario ma con tante metafore storiche e non.
In pochi giorni e in una lunga notte di sangue la Schiera degli Sciacalli è riuscita a invade il più forte dei Quadranti dell’Impero umano, in un macrocosmo dominato da varie stirpi di esseri. La famiglia del Mastro è stata travolta, nessuno degli storici alleati si è fatto vedere e i Ti-Jak, creature tra uomini e rettili hanno falciato la resistenza.
Il principe Raven e le principesse Sarissa e Ioni sono sopravvissuti ma il loro destino sembra essere peggiore della morte, perché Raven è destinato a diventare lo schiavo sessuale del Jekret, mentre le due ragazze dovranno andare in sposa a due principi dei Ti-Jak.
Un cambiamento improvviso e inumano, ma forse ci saranno sorprese per tutti e tre, e quelli che dovevano essere i mostri si riveleranno diversi e ci sarà una speranza di rinascita. Anche perché non è detto che gli invasori siano le vere bestie e il vero pericolo, che può arrivare da altri umani.
Una storia avvincente, con tra le righe tematiche come la diversità, il ruolo della donna, la guerra, l’omosessualità, non nuove al fantasy ma qui viste comunque in un’ottica interessante e innovativa, per una vicenda che non si esaurisce qui e continuerà.
Il principe degli sciacalli alla fine entra nell’abisso più profondo dell’animo umano, racconta il confronto presente dai tempi più antichi tra uomo e bestia, tra abissi di follia e voglia di eroismo. E’ d’obbligo a questo punto attendere i nuovi capitoli, magari sognando un adattamento cinematografico, e forse, date le tematiche, non ci starebbe male un Guillermo del Toro..

Rebecca Moro, pseudonimo di Silvia M. Moro, vive a Padova ed è mamma di 3 bimbi, avvocato, lettrice accanita, blogger. Adora tutto ciò che è sopra le righe e diffida dei sentimenti tiepidi, perché se non c’è la passione non c’è sapore. Con l’altro pseudonimo di S.M. May ha pubblicato i romanzi Nuvole (2013) per Triskell Edizioni e Addio è solo una parola (2015) per Youfeel Rizzoli. Come autrice self, inoltre, ha pubblicato, nel genere gay romance, la serie Lara Haralds – The Strange Matchmaker (Cambio gomme, Neve fresca, Ghiaccio salato, Doppio velo e Infinito Stupore); nel genere sci-fi la serie Oro (Il sangue non è acqua e Oro); il romanzo Secret Funding (2015), uscito anche in edizione inglese e in edizione tedesca per Dead Soft Verlag; e infine il legal thriller Gabbia per uccellini (2017).

Provenienza: omaggio dell’ufficio stampa Fanucci che ringraziamo.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: La saga di Evermen di James Maxwell a cura di Elena Romanello

20 dicembre 2017

evermenPer gli orfani in attesa dei prossimi romanzi di George R. R. Martin può essere interessante provare a leggere la saga di Evermen di James Maxwell, uscita per Fanucci e composta finora da Evermen L’incantatrice, Evermen La reliquia nascosta, Evermen il sentiero della tempesta e Evermen La tradizione.
Una storia di intrighi, battaglie, magie, guerre, passioni, tradimenti che parte da un fratello e da una sorella, Miro e Ella, rimasti orfani giovanissimi e obbligati a cercare la propria strada. Miro si arruola nell’esercito, per combattere le forze oscure che si sono impossessate della sua terra, mentre Ella scopre di avere poteri magici e inizia a frequentare l’Accademia degli Incantatori. Presto i due ragazzi capiscono che da loro può dipendere il destino del loro mondo, proteggendo una reliquia perduta, in grado di dare il potere massimo e per questo ricercata dal Primate, capo degli invasori. E del resto la pace sarà sempre in pericolo, una pace in cui Miro cerca di iniziare una nuova vita con l’amata Amber, mentre Ella approndisce le arti magiche e di costruzione di manufatti, per contrastare il potere degli Evermen, antico e che può essere scatenato in ogni momento. Miro troverà potere e onore, ma la sua posizione verrà minacciata in ogni momento e sarà Ella a cercare di andare in suo aiuto rivolgendosi al nuovo imperatore Killian, che ha già incrociato la sua strada in altre occasioni.
Ci troviamo di fronte ad un fantasy avvincente, che continuerà con nuovi capitoli, dai toni adulti, con personaggi interessanti, tante sottotrame e tematiche che spaziano dal conflitto tra potere e morale all’importanza della devozione e dell’amicizia, dalla ricerca di un mondo migliore alla lotta contro le ingiustizie. I protagonisti non sono perfetti, non ci sono eroi senza macchia e senza paura, e hanno grande importanza, come è ormai d’obbligo, i personaggi femminili, in particolare Ella, all’inizio una ragazzina che somiglia a tratti a Harry Potter nel suo intraprendere una scuola di magia (più dark di Hogwards, comunque) e poi una donna consapevole del suo potere e dilaniata comunque da mille dubbi.
Tra l’altro, leggendo i libri di Evermen viene anche da pensare che se ne potrebbe trarre un bel serial tv: gli elementi ci sono tutti e il mondo descritto, più cupo di Shannara ma non così estremo come Westeros, avrebbe tutti i requisiti per piacere. Nell’attesa ci sono un bel po’ di pagine in cui immergersi, con nuovi libri in arrivo.

James Maxwell è cresciuto nell’incantevole Bay of Islands, in Nuova Zelanda, e ha studiato in Australia. Fin da piccolo, ha divorato romanzi di fantascienza e classici del fantasy e il suo amore per i libri si è tradotto in una passione per la scrittura, che coltiva da quando ha undici anni. Ventenne, ha deciso di partire alla scoperta del mondo. Ha vissuto a Londra, in Thailandia, Messico, Australia e a Malta. Quando non scrive o non è in viaggio, si diletta tra vela, snowboard, chitarra classica e cucina francese. Sta lavorando alla saga di Evermen di cui sono usciti ormai vari capitoli.

Provenienza: acquisto personale del recensore.

:: Una spaventosa faccenda e altri racconti di Jim Thompson (Fanucci 2006) a cura di Giulietta Iannone

3 novembre 2017

una spaventosa faccendaJim Thompson credo sia un nome che non necessiti di grandi presentazioni, specie tra noi lettori amanti del noir contemporaneo americano. Nel mio ipotetico pantheon ha un posto di rilievo, e non solo io tendo a pensare che sia stato uno dei più grandi e versatili, perlomeno della sua generazione, se non il più grande.
Nacque nel 1906 in una sperduta e minuscola cittadina dell’ Oklahoma, una generazione dopo Chandler (1888- 1959) per intenderci, e morì a Hollywood verso la fine degli anni ’70 solo e alcolizzato, come un tipico personaggio dei suoi libri, libri che almeno in vita furono considerati, dopo un effimero successo negli anni ‘50, niente di più che romanzetti pulp da quattro soldi (a parte tre, tutti i ventinove libri pubblicati tra il 1942 e il 1973 erano tascabili).
Per capire il suo valore arrivarono in massa i critici dagli anni ’80 in poi del Novecento, facendo accostamenti vertiginosi più che ai maestri del noir e dell’ hardboiled, ad autori prettamente letterari e non di genere come Céline, Erskine Caldwell per non parlare di William Faulkner o addirittura Dostoevskij. Insomma quando un autore viene sdoganato, gli osanna della critica arrivano fino al Cielo.
Ma insomma Jim Thompson se lo meritava, avrebbe certo meritato anche più riconoscimenti in vita, meno disperazione e indifferenza specie negli ultimi anni di vita, ma forse avrebbero alterato il suo stile, (o forse il successo stesso non apparteneva alle sue corde) e noi oggi non avremmo avuto opere come L’assassino che è in me, Un uomo da niente, o Colpo di spugna, romanzi che se vogliamo rappresentano un punto di non ritorno e una nuova ridefinizione del genere.
Dunque sebbene più famoso per i suoi romanzi Jim Thompson non evitò la narrativa breve, e se volete accostarvi a questo autore vi consiglio proprio di iniziare dai racconti. Non sarà un innamoramento veloce, Jim Thompson non utilizza artifici letterari ed effetti speciali o fuochi d’artificio, anzi ha uno stile sobrio, piano se vogliamo, che utilizza anche cinicamente un’ apparente calma compositiva per poi mordere all’improvviso come un serpente a sonagli. Ma ragazzi se amate l’arte del racconto da Jim Thompson c’è solo da imparare, dalla caratterizzazione dei personaggi (truffatori, prostitute, psicopatici, assassini e tutto il sottobosco borderline dell’ epoca che lui conosceva per esperienza diretta), all’ambientazione (perlopiù squallida e degradata, e metropolitana), a quel mood che oscilla tra cieca disperazione e ottusa speranza, che naturalmente noi lettori sappiamo benissimo quanto sia senza futuro.
Jim Thompson tocca corde profonde, grazie a un’autenticità che nasce da una profonda sofferenza. Lo sguardo di pietà umana e tenerezza che getta sui i suoi antieroi, è qualcosa che commuove e rende splendide storie di per sé sordide, deprimenti e sporche, anzi cattive ma Jim Thompson non giudica né giustifica, i suoi perdenti sono gentaglia, ma forse l’intera umanità è fatta di gentaglia, di cialtroni per cui stare dal lato giusto della legge non è una grande priorità e che cercano sempre una nuova occasione ma non la trovano mai.
Una spaventosa faccenda e altri racconti (Fireworks. The Lost Writings, 1998), raccolta curata da Robert Polito, il suo biografo ufficiale, autore anche della breve e brillante prefazione, edita in Italia nel marzo del 2006 da Fanucci con traduzioni di Eleonora Lacorte, raccoglie 12 racconti usciti nell’arco di vent’anni (1946-1967) e pubblicati sulle più famose riviste americane di genere.
Abbiamo un Jim Thompson in splendida forma capace di scrivere racconti come Buio in sala, Per sempre (il mio preferito), Una spaventosa faccenda, Pagare all’uscita e La falla del sistema il più insolito e filosofico se vogliamo. Jim Thompson scrive racconti di suspense, neri fino nel midollo. Il cinismo di Aurora a mezzanotte è difficilmente sostenibile, nonostante l’apparente dolcezza con cui è scritto. La storia è sordida, dolorosa, disturbante, e lascia poco spazio a forme anche velate di redenzione o lieto fine.
I suoi truffatori sono quasi sempre falliti e mezze tacche, alle prese col colpo che gli dovrebbe cambiare la vita, ma tutto gli si ritorce sempre contro, e non perché il male deve essere punito e meglio se in modo eclatante, ma perché la vita e i meccanismi corrotti e contorti che la regolano portano a questo fallimento esistenziale prima che etico o morale. In un lento e inesorabile sgretolamento di difese.
Mitch Allison il truffatore sfortunato (ma criminale nel midollo) de Il calice di Cellini, lo ritroviamo anche in un secondo racconto, Una spaventosa faccenda (che dà il titolo italiano alla raccolta) ed è se vogliamo il più limpido esempio dell’antieroe tipicamente americano caro a Jim Thompson.
Gli elementi autobiografici si perdono in una densa struttura narrativa in cui la realtà è deformata dalle aspirazioni e da un disperato desiderio di riscatto e di conservazione e sopravvivenza. Truffare una compagnia, uccidere, prestarsi a grandi e piccoli raggiri è quasi una forma di compensazione, un desiderio folle di ottenere un risarcimento per una vita di stenti, povertà e miseria.
I personaggi sono fermamente convinti che la loro condizione è una grande ingiustizia, loro cercano solo di pareggiare la bilancia, come la sfortunata Ardis Clinton (non vi anticipo il colpo di scena finale, ma è geniale) e il suo folle piano congeniato col suo amante che porterà a derive horror e soprannaturali.
Ho in lettura Un uomo da niente, vi saprò dire, intanto buona lettura per questo.

Per approfondire: Lia Volpatti – Senza speranza da Vita da niente, Omnibus Gialli Mondadori

Jim Thompson, per tutti Jim, nacque in Oklahoma, nel 1906. A causa di dissesti finanziari familiari fin da ragazzo fu costretto a fare i lavori più umili, dal manovale al fattorino, dall’operaio nei pozzi petroliferi al gestore di sale cinematografiche. La scrittura arriva piuttosto tardi tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta. Thompson deve la sua fama principalmente ai romanzi. Ne ha scritti più di trenta, molti dei quali nel suo periodo più prolifico, dalla fine degli anni Quaranta alla metà degli anni Cinquanta. Poco apprezzato in vita, la sua statura di autore cresce negli anni Ottanta con le riedizioni dei suoi romanzi per la casa editrice Black Lizard.
I personaggi che popolano i libri di Thompson sono truffatori, perdenti, psicopatici; alcuni di questi vivono ai margini della società, altri vi sono perfettamente inseriti. La visione nichilista dell’autore è quasi sempre espressa da una narrazione in prima persona; la profondità della sua comprensione degli abissi della follia criminale è quasi spaventosa. Difficile trovare personaggi “buoni”, nei suoi libri: anche quelli apparentemente più innocui mascherano egoismo, opportunismo e vizio.

Source: libro preso in prestito dalle biblioteche del circuito SBAM.