Posts Tagged ‘I classici del noir’

:: I bastardi vanno all’inferno di Frédéric Dard (Rizzoli 2021) a cura di Giulietta Iannone

10 giugno 2021

Teso e violento Les salauds vont en enfer è un dramma poliziesco criminale di Frederic Dard, in parte di ambiente carcerario, nato come piece teatrale e poi passato sul grande schermo, grazie a Robert Hossein come regista, nel 1955. Solo dopo Dard decise di pubblicare con lo stesso titolo anche il romanzo, percorso anomalo sicuramente determinato dal grande successo sia teatrale (fu portato in scena a Parigi e all’estero per più di 500 volte) che dopo cinematografico. Nella sua meritoria impresa di portare in Italia le opere di Dard, Rizzoli nella collana Nero Rizzoli, ce lo presenta nell’edizione tradotta da Elena Cappellini. Dopo Gli Scellerati e Il Montacarichi, ecco dunque I bastardi vanno all’inferno (Les salauds vont en enfer, 1956). Una storia nerissima che ha per protagonista una coppia anomala di personaggi: una spia e un poliziotto sotto copertura, e per tutto il romanzo non sapremo chi dei due tra Hal e Frank sia l’uno o l’altro, lo sapremo solo alla fine, prima del tragico, inevitabile, finale. Tutto è giocato sul filo dell’ambiguità, davvero è impossibile distinguere il poliziotto dal criminale, e questa in fin dei conti è la morale del libro, non esistono i bastardi, ma tutti si trovano a recitare un ruolo restando fondamentalmente uomini con pregi e difetti. Il linguaggio è secco, tagliente, lo scambio di battute tra i protagonisti è ambiguo e realistico, insomma è una storia scritta e ambientata negli anni ’50 ma conserva un’impronta di vita vera, e vissuta. E cosa sorprendente non è la violenza o l’atto criminoso in sé la cifra distintiva del romanzo ma l’amicizia che inaspettatamente nasce tra i due personaggi, e che Dard approfondisce con grande acume psicologico e spessore morale. Dunque siamo nel Midi de la France, negli anni ‘50, in un carcere in cui le condizioni di vita dei prigionieri non sono tanto diverse da quelle del secolo precedente: guardie carcerarie sadiche e violente, periodi di isolamento in segrete infestate dai topi, esecuzioni tramite la ghigliottina, negli anni ‘50 in Francia la pena di morte veniva somministrata con queste modalità. Hal e Frank si trovano reclusi nella stessa cella, assieme ad un altro prigioniero sordomuto che ha ucciso la moglie. Sin dall’inizio il rapporto tra i due e di diffidenza e di paura. Giungono persino alle mani, tanto da finire in isolamento. Poi una strana solidarietà e complicità si instaura tra i due personaggi tanto che decidono di evadere e fuggire insieme aiutandosi l’un l’altro. Il romanzo è breve non anticipo altro della trama, ma da questo momento in poi l’azione si fa convulsa e frenetica e entrerà in scena anche un altro personaggio, Dora, una donna bellissima dagli occhi viola che causerà una rottura degli equilibri e se vogliamo porterà la storia verso l’inevitabile epilogo. Dunque un noir, forse tra i più famosi di Dard che se vogliamo analizza e approfondisce le dinamiche dell’animo umano di personaggi che non hanno nulla da perdere e lottano per la propria sopravvivenza pur conservando un barlume di umanità che li rende essere umani prima che poliziotti o criminali. Il personaggio di Dora, poi la classica dark lady, creerà quella tensione sessuale priva di sentimentalismo capace di accrescere le ombre di una storia già tragica e violenta di suo. Per chi ama Dard e i noir anni ’50.

Frederic Dard (1921-2000) ha iniziato a pubblicare romanzi negli anni Quaranta. Il grande successo sarebbe arrivato però più tardi, con lo pseudonimo San-Antonio. È in atto una riscoperta internazionale della sua opera, vastissima, inaugurata in Italia da Rizzoli con Gli scellerati (2018), Il montacarichi (20219) e I bastardi vanno all’inferno (2021).

Elena Cappellini, dopo la laurea in Lettere moderne presso l’Università di Bologna, ha studiato a Siena, dove ha conseguito il dottorato in Letteratura comparata e Traduzione del testo letterario. Ha partecipato a convegni e pubblicato saggi su Michel Tournier, sul fantastico, sull’immaginario radiofonico, fotografico e radiologico. Dal 2002, a Cremona, è stata curatrice del festival Pensare la differenza, percorsi, incontri e spettacoli sulla cultura di genere.

Source: libro inviato al recensore dall’ editore. Ringraziamo Giulia e Claudia dell’ Ufficio stampa Rizzoli.

:: La verità su Bébé Donge di Georges Simenon (Gedi 2019) a cura di Giulietta Iannone

24 ottobre 2019

SimenonIl nostro piccolo mondo di provincia.

La verità su Bébé Donge (La Vérité sur Bébé Donge, 1941) è un breve romanzo scritto da Simenon negli anni ’40. Edito per la prima volta in Italia negli anni ’50 e ripubblicato da Adelphi nel 2001, tradotto da Marco Bevilacqua, è un romanzo senza Maigret, per intenderci.
Se vogliamo un dramma psicologico più che un autentico giallo investigativo, anche se l’investigazione c’è ma è fatta dalla vittima di un tentato omicidio, che tenta in tutti i modi di capire le ragioni che hanno spinto la moglie, la bella, elegante e diafana Bébé Donge, a mettere l’arsenico nel caffè che gli serve un mattino nel giardino della loro bella casa di campagna.
Forse non uno dei libri più famosi di Simenon, ma sicuramente uno dei più autobiografici e profondi nello scavo psicologico delle ragioni dell’infedeltà, del tradimento e della solitudine profonda che ne deriva.
François Donge, il protagonista è un solido uomo d’affari, di successo, ben piantato, ama la vita, le donne, e le piccole comodità, sposa Bébé, perché lo fa sentire a suo agio, parole sue, da sempre convinto che lei abbia sposato lui per sistemarsi, per non restare con la madre, e non essere da meno della sorella Jeanne, che sposa il fratello di François, Felix.
Sulle prime François è disorientato, non si spiega perché l’equilibrio raggiunto in dieci anni di matrimonio, con un figlio e un accordo che permetteva a lui di avere le sue frequenti storie con altre donna senza scenate, sia sfociato in tragedia. François è anzi convinto di dare tutto il necessario alla moglie, soldi, benessere, vestiti eleganti, rispettabilità, tutto insomma quello che una donna desidera dal matrimonio, e invece Bébé è infelice, anzi disperata.
Il fatto che Bébé lo ami davvero giunge sul finale del libro come una folgorazione capace di fargli comprendere quanto il suo egoismo e la sua meschinità l’abbiano reso cieco e sordo alle esigenze della moglie, prima una ragazza poi una giovane donna di cui ignora molto, se non quasi tutto. Bébé Donge è un mistero, e proprio scoprire chi è davvero diventa la ragione prima del romanzo, come anche candidamente afferma il titolo del libro.
Il carattere di Bébé Donge viene disvelato pagina dopo pagina, e più François fa chiarezza e prende coscienza di sé e di lei, e più si accorge che ormai è tutto perduto, e solo allora si accorge di esserne finalmente innamorato e che è pronto ad aspettarla fin dopo che avrà scontato la condanna di cinque anni di lavori forzati, pur conscio di non sapere chi troverà allora.
Anatomia di un matrimonio, dramma intimo e privato, La verità su Bébé Donge è un ennesimo ritratto del piccolo e claustrofobico mondo di provincia che costituisce il fulcro della poetica simenoniana. La scrittura è come sempre molto rapida, essenziale, impressionista. Con pochi tratti, con cambi di luce, crea universi capaci di far vivere personaggi che acquistano consistenza e spessore.
Sembra di vederla Bébé Donge nei suoi vaporosi completi di alta sartoria sul verde pallido, muoversi come un’ombra svagata e nello stesso tempo molto nitida. Simenon si sofferma in ogni dettaglio, quasi arrivando a focalizzare i suoi pori come in un ritratto iperrealista, ed è quasi spietato nello scavare nell’intimo di questo dramma borghese, apparentemente quasi banale, superfluo.
Una donna tradita, un uomo grossolano, ma non cattivo, diventano i protagonisti di questo intreccio di vite denso di infelicità, solitudine e incomunicabilità, e Simenon ce lo racconta con la solita capacità di non dare giudizi, ma anzi di avere somma comprensione e compassione per i colpevoli, di qualsiasi crimine si siano macchiati.

Georges Simenon – Scrittore belga di lingua francese (Liegi 1903 – Losanna 1989). Tra i più celebri e più letti esponenti non anglosassoni del genere poliziesco, la sua produzione letteraria, soprattutto romanzi gialli, è monumentale: essa conta poco meno di duecento romanzi, fra cui emergono − per popolarità in tutto il mondo e per salda invenzione − quelli della serie di Maigret, quasi tutti tradotti in italiano. Dopo il suo primo romanzo, scritto a 17 anni (Au pont des arches, 1921), si trasferì a Parigi dove pubblicò sotto svariati pseudonimi opere di narrativa popolare. Nel 1931 con Pietr le Letton, che uscì sotto il suo nome, inaugurò la fortunatissima serie dei romanzi (circa 102) incentrati sul commissario Maigret, che rinnovarono profondamente il genere poliziesco. Negli USA dal 1944 al 1955, tornò poi in Europa, stabilendosi in Svizzera; nel 1972 smise di scrivere, limitandosi a dettare al magnetofono, e tornò alla scrittura solo per redigere i Mémoires intimes (1981). Autore straordinariamente prolifico, con stile semplice e sobrio ha narrato nei suoi romanzi, caratterizzati da suggestive analisi di ambienti, la solitudine, il disagio esistenziale, il vuoto interiore, l’ossessione, il delitto (La fenêtre des Rouet, 1946; Trois chambres à Manhattan, 1946; La neige était sale, 1948, trad. it. 1952; L’horloger d’Everton, 1954; Le fils, 1957). Gran parte di questa abbondante produzione, che ha ispirato molti film ed è stata tradotta in 55 lingue, è stata riunita nelle Oeuvres complètes (72 voll., 1967-73) e in Tout Simenon (27 voll., 1988-93). Ricordiamo inoltre i racconti e le prose autobiografiche (Je me souviens, 1945; Pedigree, 1948, trad. it. 1987; Quand j’étais vieux, 1970; Lettre à ma mère, 1974, trad. it. 1985; la serie Mes dictées, 21 voll., 1975-85), e le raccolte di articoli À la recherche de l’homme nu (1976), À la decouverte de la France (1976), À la rencontre des autres (1989). Nel 2009, in occasione del ventennale della morte, è stato pubblicato in Francia a cura di P. Assouline il monumentale Autodictionnaire Simenon, lungo le cui voci (in gran parte tratte da interviste, carteggi e appunti dello stesso S.) si snoda un’originalissima e dettagliata biografia dello scrittore.

Source: libro del recensore, acquistato come supplemento de La Stampa.

:: Il Montacarichi di Frederic Dard (Rizzoli, 2019) a cura di Giulietta Iannone

13 giugno 2019

Il Montacarichi

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Parigi, inizio anni’60, vigilia di Natale.
Albert Herbin, scontati gli anni di carcere per aver ucciso la sua amante, moglie del suo principale, torna nel suo vecchio quartiere, a Levellois, al confine con il XVII arrondissement di Parigi, nella casa di sua madre, nel frattempo morta (di dispiacere?)
I ricordi dell’infanzia lo assalgono, assieme alla solitudine e al rimpianto per tutto quello che non è stato. Non sopportando più quel claustrofobico e ristretto ambiente, esce per le strade addobbate di lucine e festoni e piena di gente che si affolla per i preparativi del pranzo della vigilia.
Vaga senza meta nel tentativo di sfuggire all’angoscia. Compra in una piccola cartoleria – libreria- emporio una gabbietta di cartone argentato spolverata di quarzo con all’interno un uccellino esotico di velluto blu e giallo che si dondolava sul trespolo dorato (che ritornerà nel romanzo, tenetevelo a mente).

Sembrava di essere in una grotta fatata piena di tesori inestimabili. Le decorazioni per l’albero di Natale riempivano gli scaffali: uccellini di vetro, Babbi Natale di carta, cestini di frutta di ovatta colorata e tutte quelle palline fragili come bolle di sapone che trasformano un semplice abete in una favola.

Entra in un bar tabacchi per bere un aperitivo. Cammina sotto la pioggia vischiosa. Poi il suo destino si compie: le terribili coincidenze del fato, che lo imprigionano più delle sbarre della prigione, si materializzano sul suo cammino. Entra verso le 8 in un grande ristorante del centro:

Era una trattoria tradizionale, con specchi, perlinato, portatovaglioli, lunghe panche sormontate da piante rampicanti, buffet e camerieri in pantaloni neri e giacca bianca. I vetri erano muniti di tendine, e d’estate le piante verdi venivano spostate sul marciapiedi. Era il tipico ristorante rinomato di provincia. E rinomato doveva esserlo. Quando da bambino storcevo il naso davanti ai suoi piatti, mia madre sospirava: «Vai a mangiare da Chiclet!»

Un miraggio di felicità borghese, in cui anche sua madre fantasticava di entrare ma avevano solo e sempre visto da fuori.
Ed è lì che la vede in compagnia di una bambina: lei, a cui basta un sorriso, uno sguardo per farlo innamorare. Lei così simile ad Anna, la donna che ha ucciso tanti anni prima. La donna di cui scoprirà il nome solo all’ultima pagina.

Era strano vedere una madre e una figlia al ristorante la vigilia di Natale. Quell’immagine mi strinse il cuore. In fondo, la loro solitudine a due era più tragica della mia, che tutto sommato era una solitudine vera, gestibile.

E mentre lui si innamora, lei tesse la sua tela, come una temibile vedova nera, di seduzione e ritrosia. Escono dal ristornate, si rincontrano davanti a un cinema, e il caso, sempre lui che gioca un ruolo temibile in questa storia, li fa sedere vicini. Da lì attrazione, complicità, mani sfiorate ed è fatta. Potrebbe essere l’incontro di due solitudini ma è ben altro. Albert le accompagna a case, sale sul montacarichi, che funge d’ascensore, (sarà il montacarichi perno di tutta la storia e del diabolico piano intessuto dalla donna) e a questo punto il destino di Albert è segnato. Come quello di tutti i personaggi.
Ingegnoso, malinconico, crudele, bizzarro, tipicamente francese, Il Montacarichi (Le montecharge, Trad. Elena Cappellini) è un breve romanzo noir pubblicato in Francia nel 1961 da quel genio eclettico che fu Frederic Dard, di cui Rizzoli sta riscoprendo la principale produzione che esula dalle inchieste del commissario Sanantonio (San-Antonio nell’originale francese), serie umoristico-poliziesca che ne decretò il successo ben oltre i confini d’oltralpe.
Come già ebbi a dire recensendo Gli scellerati, Il Montacarichi, ventitreesimo romanzo pubblicato da Dard con Fleuve Noir, fa parte dei cosiddetti romans de la nuit dell’autore, una sorta di catalogazione comparabile ai romans durs di Simenon ma questo parallelismo di ferma ai termini di catalogazione, perché Dard senza volerlo contrapporre al genio di Simenon in sterili diritti di precedenza, ha caratteristiche sue proprie se non antitetiche, perlomeno discordanti.
Insomma Dard non è la brutta copia di Simenon, è altro. È un autore in cui l’ironia e il paradosso sono capaci di emergere nelle pieghe più amare della vita, dalla solitudine, al rimpianto, dall’amore impossibile, alla beffa più amara e tragica.
Questo breve romanzo, come molti dei romanzi di Dard, fu adattato per il cinema, questo  da Marcel Bluwal,  il padre del televisivo Vidocq, nel 1962, con Léa Massari nel ruolo di Marthe Dravet, Robert Hossein in quello di Albert Herbin, Maurice Biraud in quello di Ferrie, e Robert Dalban in quello dell’ispettore.
Antieroi di questo piccolo capolavoro del noir dunque sono due assassini che si incontrano e subito non si riconoscono. E questo fraintendimento condanna entrambi a commettere errori, a giocare male le loro carte, anche se l’ago della bilancia propenderà verso uno dei due. Albert Herbin paga per il suo delitto, con anni di carcere a Marsiglia, Marthe non lo sapremo mai.
Folgorante l’attimo in cui Albert scorge due gocce di sangue sulla manica della signora Dravet, basta quello per rivelare tutto al lettore, anche se non c’è ancora un corpo, non c’è ancora un movente, non c’è ancora un crimine manifesto.
Ma esiste il delitto perfetto? No, sembra dirci l’autore, anche il piano più perfetto, più machiavellicamente congegnato ha le sue crepe, le sue discordanze, e Marthe Dravet, femme fatale che se vogliamo cade sempre in piedi, difficilmente avrà quel rigurgito di coscienza che Albert vorrebbe, ma noi lasciamoglielo sperare. Lasciamogli questa ultima illusione.

Frédéric Dard (1921-2000) ha iniziato a pubblicare romanzi negli anni Quaranta. Il grande successo sarebbe arrivato però più tardi, con la creazione dello pseudonimo di San Antonio. È in atto una riscoperta internazionale della sua opera, che conta quattrocento titoli. Nel 2018 è uscito per Rizzoli Gli scellerati.

Source: libro inviato dall’ editore. Ringraziamo Giulia e Claudia dell’ Ufficio stampa Rizzoli.

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:: La vedova Couderc di Georges Simenon (Adelphi 2018) a cura di Nicola Vacca

18 dicembre 2018

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La vedova Couderc è un romanzo di Georges Simenon uscito nel 1942.
André Gide entusiasta lo accostò allo Straniero di Albert Camus aggiungendo che il romanzo di Simenon si spingeva «molto oltre, quasi inconsapevolmente».
Adesso Adelphi lo ripropone (traduzione di Edgardo Franzosini).
Un romanzo duro, anzi durissimo, in cui il grande scrittore belga scende nell’abisso dell’animo umano.
C’è una finezza straordinaria dell’indagine psicologica, una discesa meticolosa nell’abisso di due esistenze.
Con una scrittura limpida e sintetica Simenon racconta, senza mai rinunciare a un ritmo incessante, una storia in cui l’angoscia e il disagio non concedono alcuna via di scampo.
Jean è un giovane appena uscito dal carcere e vaga senza una meta. Su un autobus che scorrazza per la campagna francese incontra la vedova Couderc. Lui finisce per fare il garzone nella fattoria di questa donna. Trai due si stabilisce uno strano rapporto. Lei gli si concede sessualmente senza alcuna complicazione sentimentale.
Jean vive in simbiosi con il nuovo ambiente. La vedova Couderc è una donna sola, odiata dai suoi parenti con cui ingaggia una guerra. Tra questi c’è la giovane nipote di cui Jean si innamora.
Jean comincia a abituarsi alle regole di quel rozzo mondo rurale nel quale è capitato per caso. Simenon è grande nelle descrizioni di questa strana campagna francese dove il progresso non è arrivato e i rapporti umani sono duri e difficili.
La vedova Couderc (Tati nel romanzo) è possessiva, Jean non riesce a sottrarsi al fascino della nipote.
Simenon entra nei dettagli dello squallore di queste esistenze disagiate che non riusciranno a sottrarsi al loro destino.
Jean, lo straniero che improvvisamente si trova coinvolto in un microcosmo di passioni di famiglia perverso e depravato, sarà travolto dagli eventi fino a essere coinvolto in un finale tragico che sarà la sua condanna definitiva.
La vedova Couderc è uno dei capolavori di Georges Simenon. Un romanzo sociale dalle intense tinte noir, uno spaccato della condizione umana dove troviamo ancora una volta i suoi personaggi: uomini e donne che si portano dentro inconsapevolmente un male di vivere che li annienterà.

Georges Joseph Christian Simenon (Liegi, 13 febbraio 1903 – Losanna, 4 settembre 1989) è stato uno scrittore belga di lingua francese, autore di numerosi romanzi, noto al grande pubblico soprattutto per avere inventato il personaggio di Jules Maigret, commissario di polizia francese.

Source: Libro inviato dall’Editore al recensore. Ringraziamo Benedetta Senin dell’Ufficio Stampa “Adelphi”.

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:: Scambiare i lupi per cani di Hervé Le Corre (Edizioni E/O 2018) a cura di Giulietta Iannone

9 dicembre 2018

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Franck è un ragazzo di poco più di venticinque anni appena uscito di prigione. C’è poco altro da dire, se non che si è fatto cinque anni di carcere per non tradire il fratello Fabien, con cui fece una rapina sfortunata raccogliendo però un discreto bottino, che se vogliamo sarà il centro su cui ruoterà tutta la storia. Comunque Franck è stato zitto, nonostante il buon senso e l’avvocato difensore gli consigliassero di non prendersi tutta la colpa. Dopo la condanna ha affrontato coraggiosamente gli anni di privazione della libertà in compagnia di delinquenti ben peggiori di lui e di tutte le limitazioni e disagi che comportano vivere in celle anguste, senza donne, sempre pronti a subire un’ aggressione se non si sta bene attenti a chi si frequenta, a chi si pesta i piedi.
Purtroppo però se dentro almeno ci sono regole che se rispettate ti garantiscono una relativa tranquillità, e poi c’è sempre il miraggio di uscire, di tornare nel mondo libero a darti la forza di andare avanti, fuori se è possibile è ancora peggio, e Franck lo capirà sulla propria pelle, nel peggiore dei modi.
Questa in breve è la morale piuttosto nera di Scambiare i lupi per cani (Prendre les loups pour des chiens, 2017) di Hervé Le Corre, tradotto dal francese da Alberto Bracci Testasecca. Di Le Corre, sempre grazie a Edizioni E/O si è già potuto leggere Dopo la guerra, apprezzando la scrittura notevole di questo autore originario di Bordeaux e pluripremiato in patria. Un noirista di razza insomma, che sicuramente interesserà chi ama questo genere di letteratura che non risparmia le declinazioni più nere della violenza, spesso senza riscatto.
Se vogliamo in questo romanzo abbiamo tutti i principali archetipi del noir criminale, aggiornati ai tempi di oggi, con un tocco di follia in più, e acuiti dalle disparità sociali, dalla povertà morale e materiale sempre più diffusa, dalla crisi e la disoccupazione che rendono il crimine una strada come un’altra da intraprendere nella dura lotta per la sopravvivenza, dal consumo di alcool e droghe di tutti i tipi per sopportare violenza, umiliazioni e sconfitte, dalla difficoltà per i piccoli delinquenti di arrangiarsi con furti, rapine, e traffici più o meno illeciti, dal contrabbando allo sfruttamento più gratuito.
Franck però non è esattamente un criminale incallito, anzi manco il carcere l’ha indurito e reso capace di perdere la sua umanità e questo se vogliamo è la sua condanna e nello stesso tempo la sua salvezza.
Ma andiamo con ordine, quando ad attenderlo fuori dalla prigione trova Jessica, la ragazza di suo fratello, accetta il passaggio e l’ospitalità, senza sospettare minimamente il guaio in cui si sta cacciando.
Jessica vive coi genitori Roland e Maryse, e la figlia di otto anni Rachel in una grande casa persa nella campagna, sul limitare di un bosco, difesa unicamente da un cane nero pazzo come i padroni.
Anche se ingenuo infatti Franck capisce che qualcosa non va in quella famiglia disfunzionale, anche se si lascia sedurre senza opporre troppe resistenze dal fascino di Jessica, che nei momenti buoni è solare, sexy e affascinante. Il fatto che sia la ragazza di suo fratello non lo ferma molto, ma seguirla nei suoi vagabondaggi notturni gli farà ben presto capire che più che una dark lady, o una femme fatale, è in realtà una ragazza con seri problemi, che pian piano diventano anche i suoi.
Intanto Fabien dovrebbe essere in Spagna per suoi traffici e non ritorna, e la convivenza con questa gente diventa sempre più difficile, senza contare l’incontro con Serge, un gitano con cui Roland porta avanti dei traffici legati apparentemente ad auto rubate, che poi si rivelerà un personaggio cardine in tutta questa intricata e sporca vicenda.
La situazione precipita quando entra in scena Ivan il Serbo una conoscenza di Jessica, da qui in poi la situazione precipiterà in un crescendo di violenza sempre più efferata, dove niente però è come sembra. Solo negli ultimi due capitoli ci sarà un disvelamento e si farà infatti luce sul ginepraio di sordidi inganni che hanno retto fin qua la trama, sapientemente fumosa e piena di contorte ambiguità che appunto acquisteranno un senso solo alla fine come in un improvviso gioco di prestigio.
Unica luce il tenero rapporto tra Franck e la bambina, Rachel, di cui bene o male il ragazzo si prenderà cura diventando per lei quasi una figura paterna, la bambina è infatti la sola davvero innocente in tutta questa storia, la sola che sapeva tutto fin dall’inizio, da questo infatti acquista un senso il suo comportamento apparentemente strano, il suo mutismo, il suo non voler mangiare, il suo guardare gli adulti con rassegnazione e disprezzo.
A tratti crudo, per poi riservare improvvisamente e senza preavviso momenti di dolcezza e delicatezza, solo sporcati da una velata disperazione, lo stile di Le Corre alterna registri e stili, arrivando a permettersi uno linguaggio letterario e evocativo quando descrive la natura, i mutevoli colori del cielo, o anche il semplice scoppiare di un temporale. La periferia, i supermercati e i centri commerciali, i campi riarsi di mais, i palazzoni anonimi e grigi, fanno poi da sfondo a una storia in cui il degrado sociale si insinua nelle pieghe di una narrazione a tratti poetica, nella costrizione delle frasi e nell’accostamento azzardato e imprevedibile delle parole, funzionale a un attento scavo psicologico dei personaggi che più borderline di così è difficile immaginare.
Roland e Maryse, i Vecchi come li chiama Franck, due inariditi e usurati alcolizzati, recitano alla perfezione la loro parte senza lasciare il tempo a Franck di decifrare le increspature, le piccole frantumazioni di vite vissute ai margini, sempre in cerca di soldi, droga, o auto rubate. E il fascino di Jessica, più strega che sirena, fa il resto. Ma Franck ce ne metterà di tempo a capirlo, forse solo il lettore lo farà un attimo prima, ma Le Corre è bravo a depistare pure lui.
Notevole.

Hervé Le Corre vive nella regione di Bordeaux, dove insegna. Autore molto apprezzato, ha vinto numerosi premi tra cui il Prix Mystère, il Prix du roman noir Nouvel Obs/Bibliobs e il Grand Prix de Littérature policière. Con Il perfezionista (Piemme 2012), che in Francia ha venduto più di 50.000 copie, ha ottenuto il prestigioso Grand Prix du roman noir français di Cognac e il Prix Mystère de la critique. Nel 2015 le Edizioni E/O hanno pubblicato Dopo la guerra.

Source: libro inviato dall’editore. Ringraziamo Colomba e Giulio dell’Ufficio stampa EO.

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:: Gli scellerati di Frédéric Dard (Rizzoli, 2018) a cura di Giulietta Iannone

10 settembre 2018

DardLouise Lacroix è la voce narrante di Gli scellerati (Les Scélérats, 1959) piccolo gioiellino noir scovato da Rizzoli dal vastissimo repertorio di Frédéric Dard (1921-2000) e tradotto dal francese, senza sbavature, da Elena Cappellini.
Ancora inedito in Italia, da noi fino a ieri per molti Frédéric Dard sembrava essere unicamente l’autore delle inchieste del commissario Sanantonio, serie poliziesco-umoristica di indiscutibile successo certo, ma Frédéric Dard insomma scrisse anche altro e di notevole valore. Sia con il suo nome, sia usando svariati pseudonimi. Di qui la difficoltà di catalogare la sua intera produzione che si aggira sulle 400 opere.
Gli scellerati uscì nel 1959 per Fleuve noir con il suo vero nome, e fa parte dei cosiddetti romans de la nuit dell’autore, una sorta di catalogazione comparabile ai romans durs di Simenon di cui fu amico e confidente, oltre al fatto che vi fu spesso accostato per tematiche e prolificità.
Gli scellerati in Francia ebbe una buona accoglienza e fu portato anche sullo schermo nel 1960 da Robert Hossein, con il quale Dard aveva iniziato una proficua collaborazione teatrale. Star della pellicola oltre a Robert Hossein, che era sia regista che protagonista principale, troviamo anche l’allora quarantenne Michèle Morgan, bionda e algida, una Thelma un po’ troppo eterea e cerebrale, se vogliamo, rispetto al personaggio del libro. Molte licenze furono prese infatti ma insomma la storia si riduce a un nucleo narrativo molto semplice, quasi prosaico, che sarebbe bastato un attimo per fare cadere nella pochezza più trita: un banale ménage à trois tra una ricca coppia borghese di americani espatriati in Francia e la loro giovanissima e proletaria cameriera francese.
Dard non calca tanto sulle differenze sociali, seppure le annota, ma fa qualcos’altro, trasforma la storia in una lunga opera di seduzione esercitata da Louise verso il lettore, facendo di tutto per trascinarlo dalla sua parte, per poi finirlo con il colpo di grazia conclusivo delle ultime tre righe del romanzo.
Louise Lacroix infatti racconta la sua storia dal principio, la sua squallida vita di operaia imprigionata in una squallida e moralmente corrotta famiglia e in un’ ancora più squallida periferia parigina, tra ciminiere di fabbriche che impestano l’aria con i loro gas venefici e le coltivazioni di cavolo che sembrano il simbolo stesso della povertà, della degradazione, della miseria.
Ma la pena che Louise vuole farci rientra nel suo gioco, che conduce su piani paralleli sia col lettore che con la coppia di (ingenui?) americani, Jess e Thelma Rooland. Se sua madre è un’ avida disperata, (il suo unico lusso è concedersi un caffè di qualità) la figlia è troppo intelligente per svelare subito le sue carte e quando lo farà, il lettore ormai sarà troppo invischiato nella sua tela di ragno per non perdonarla. Opera di disvelamenti dunque, in cui la voce narrante non è quella di un narratore del tutto affidabile, anzi tutto il contrario.
Ma andiamo con ordine.
Louise Lacroix ha diciassette anni, è mora, carina e vive a Leopoldville (della cui amenità vi ho già accennato), sobborgo industriale di Parigi in un punto imprecisato degli anni Cinquanta.
Abita in una villetta in affitto scalcinata e tetra, in cui si respira odore di chiuso come Dard annota nella dedica a inizio libro, con la madre sfregiata dal labbro leporino e il patrigno Arthur, comunista (a dire il vero il suo unico rigurgito di coscienza sociale è leggere l’ Humanité, definire con disprezzo gli americani yankees e distribuire volantini), infelice, alcolizzato, sempre incollato alla tv, violento (perlomeno a parole), ridicolo, un altro tassello nello squallore dello sfondo.
Lavora come operaia in una fabbrica di sedili per automobili, disdegna gli approcci rozzi e grossolani dei suoi coetanei e sogna una via di fuga da quel mondo che non ama e non accetta.
Quando devia la strada per tornare a casa dalla fabbrica e passando per il centro sempre grigio ma ricco di Leopoldville scopre la villetta dei Rooland, un’isola di luce e meraviglia sul grigiore della sua vita, scatta nella sua mente un piano, ma è troppo scaltra per esporlo apertamente al lettore, anzi giocando come il gatto col topo inizierà a parlare di sogni, aspettative, felicità, amore, quando pur lasciandolo sullo sfondo evidenzia che ciò che l’ ha colpita è la casa di pietra a due piani, l’auto di lusso sul vialetto, i vestiti eleganti dei proprietari, i dischi di jazz o Elvis Presley, il loro modo di vivere così poco francese, e la prospettiva di andare in America, sorta di mitica terra promessa, lontano dalla povertà e dal degrado in cui è nata e vissuta.
Louise è una manipolatrice, ma terribilmente ingenua tuttavia, una vipera, come grida in un momento di rivelazione Jess verso la fine, forse l’unica vera scellerata della storia. E nonostante questo noi parteggiamo per lei, e per il suo sogno di riscatto sociale e perchè no d’amore. E quando tutto le si sgretola tra le dita, perché alla fine Leopoldville è più forte, e non ha nessuna intenzione di allentare i suoi artigli su di lei, prendiamo coscienza con tristezza del suo penoso destino, e della condanna che dovrà scontare.
E allora sì, forse è la follia la sua vera condanna e sentire il fantasma di Jess e Thelma ridere di lei dondolandosi pigramente sul dondolo con i cuscini blu in giardino. Che siano loro due i veri scellerati (dopo tutto Dard usa il plurale nel titolo) della storia, e Louise, solo la loro vittima?
Ai lettori il difficile rompicapo.

Frédéric Dard (1921-2000) ha iniziato prestissimo a pubblicare i suoi libri, negli anni Quaranta. Il grande successo sarebbe arrivato però più tardi, con la creazione dello pseudonimo di San Antonio. La sua bibliografia conta quattrocento titoli.

Elena Cappellini, dopo la laurea in Lettere moderne presso l’Università di Bologna, ha studiato a Siena, dove ha conseguito il dottorato in Letteratura comparata e Traduzione del testo letterario. Ha partecipato a convegni e pubblicato saggi su Michel Tournier, sul fantastico, sull’immaginario radiofonico, fotografico e radiologico. Dal 2002, a Cremona, è stata curatrice del festival Pensare la differenza, percorsi, incontri e spettacoli sulla cultura di genere.

Source: libro inviato dall’ editore. Ringraziamo Giulia e Claudia dell’ Ufficio stampa Rizzoli.

:: Cargo di Georges Simenon (Adelphi 2017) a cura di Daniela Distefano

5 marzo 2018

CARGO - SIMENON

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Sulla costa del Pacifico splendeva un sole opprimente, che non brillava, un sole senza allegria.

Scordiamoci per un attimo del commissario Maigret, trasferiamoci nel mondo di Conrad e respiriamo a pieni polmoni l’aria truce delle ambientazioni così care a Simenon. No. Non è un tentativo fallito, bensì lo sfondo di un libro davvero magnetico: “Cargo”, scritto dal genio di Georges Simenon a Parigi nel 1935 e apparso a stampa l’anno seguente. Un viaggio avventuroso e fatale, dalla Francia a Panama, dalla Colombia a Tahiti.
Fin dall’inizio tutto accade come in un incubo. E proprio come in un incubo Joseph Mittel viene travolto da eventi che non controlla, e il cui senso gli è oscuro: prima la fuga da Parigi insieme a Charlotte, la sua compagna, che in nome dell’ ”Idea” ha ucciso il commerciante che la manteneva e che le aveva rifiutato il denaro per finanziare il loro mensile anarchico; poi l’arrivo a Dieppe, dove Mittel precipita “in un universo incoerente, buio e fradicio”; e per finire l’imbarco, in piena notte, sul Croix-de-Vie, che nella stiva trasporta un carico di mitragliatrici destinate a un gruppo rivoluzionario ecuadoriano. Qui al ragazzo toccherà lavorare come fuochista, mentre il comandante Mopps fa di Charlotte la propria amante.
Ma questo sarà, appunto, solo l’inizio: a Panama, Mittel e Charlotte scopriranno che la donna è stata colpita da un mandato di cattura internazionale e saranno quindi costretti a proseguire il viaggio verso il Sudamerica, dove nel frattempo la rivoluzione è fallita e delle mitragliatrici del comandante Mopps nessuno ha più bisogno – mentre lui, Mopps, non riesce più a fare a meno di Charlotte. Joseph Mittel si lascerà così trascinare da un continente all’altro nella costante, illusoria speranza che da qualche parte le cose possano assumere un senso, che lui stesso possa finalmente non essere più soltanto il gracile, solitario figlio del grande Mittelhauser, il “martire” anarchico che si era tagliato le vene in carcere quando lui aveva due anni e la cui ombra gigantesca lo ha sovrastato per tutta la vita.
Un romanzo abissale, una discesa nella bolgia più profonda, un intrico di circostanze infernali; tutto è sordido: le giornate appiccicose, il caldo asfissiante, la permanenza in un pianeta lontano dal mondo, e poi l’analisi spietata della psicologia dei personaggi. Non se ne esce facilmente, è un libro che rimane nello stomaco, che fa sudare le pagine, che corrode i nostri sensi. Simenon dà il meglio di sé in un racconto che sembra baciato da una scrittura impeccabile. Uno stato di grazia perenne tra fuochi di sentimenti che implodono perché non riescono mai a trovare l’uscita agognata.

Georges Simenon è un romanziere francese di origine belga. La sua vastissima produzione (circa 500 romanzi) occupa un posto di primo piano nella narrativa europea.
Grande importanza ha poi all’interno del genere poliziesco, grazie soprattutto al celebre personaggio del commissario Maigret.
La tiratura complessiva delle sue opere, tradotte in oltre cinquanta lingue e pubblicate in più di quaranta paesi, supera i settecento milioni di copie. Secondo l’Index Translationum, un database curato dall’UNESCO, Georges Simenon è il quindicesimo autore più tradotto di sempre.
Grande lettore fin da ragazzo in particolare di Dumas, Dickens, Balzac, Stendhal, Conrad e Stevenson, e dei classici. Nel 1919 entra come cronista alla «Gazette de Liège», dove rimane per oltre tre anni firmando con lo pseudonimo di Georges Sim.
Contemporaneamente collabora con altre riviste e all’età di diciotto anni pubblica il suo primo romanzo.
Dopo la morte del padre, nel 1922, si trasferisce a Parigi dove inizia a scrivere utilizzando vari pseudonimi; già nel 1923 collabora con una serie di riviste pubblicando racconti settimanali: la sua produzione è notevole e nell’arco di 3 anni scrive oltre 750 racconti. Intraprende poi la strada del romanzo popolare e tra il 1925 e il 1930 pubblica oltre 170 romanzi sotto vari pseudonimi e con vari editori: anni di apprendistato prima di dedicarsi a una letteratura di maggior impegno.
Nel 1929, in una serie di novelle scritte per la rivista «Détective», appare per la prima volta il personaggio del Commissario Maigret.

Source: Libro inviato dall’Editore al recensore. Ringraziamo Benedetta dell’Ufficio Stampa “Adelphi”.

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:: 120, rue de la Gare di Leo Malet (Fazi 2018) a cura di Marcello Caccialanza

15 febbraio 2018

Leo Malet

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Leo Malet è da considerarsi autore ecclettico e geniale, vero ed incontrastato Maestro del Noir d’Oltralpe e la sua ultima fatica letteraria dal titolo “120, rue de la Gare” rappresenta per i molti suoi fedeli estimatori una vera e propria chicca.
Ci troviamo catapultati nelle nebulose atmosfere della Seconda Guerra Mondiale ed il protagonista di questa avvicente storia, Nestor Burma, rientrato dalla prigionia, incontra casualmente il socio con cui anni addietro aveva gestito un’agenzia di investigazioni.
Mentre Nestor sta per salutarlo, il suo ex socio crolla improvvisamente a terra, colpito a tradimento da un colpo esploso da un’arma da fuoco. L’uomo resta annichilito, come ipnotizzato dall’assurdo incantesimo di un perfido mago e nel frattempo l’amico spira, sussurrando un indirizzo: 120, rue de la Gare. Da qui partiranno le indagini di Nestor Burma.
Un libro ben scritto e strutturato; ambientazione e trama camminano a braccetto, creando un pathos sempre più avvolgente man mano che ci si addentra nella lettura. Romanzo che si legge tutto d’un fiato e che è in grado di coinvolgerti a pieno. Non solo per gli amanti del genere.

Léo Malet, l’anarchico conservatore, come amava definirsi, è uno dei padri del romanzo noir francese. Nato al numero cinque di Rue du Bassin, a Montpellier, figlio di una sarta e di un impiegato, rimane prestissimo orfano. Quando Léo ha due anni muoiono prima il padre e il fratellino e, a distanza di un anno, la madre. Tutti e tre di tubercolosi. Così, è il nonno bottaio e grande lettore che si prende cura del nipote e lo inizia, in modo non certo canonico, alla letteratura. A sedici anni Léo Malet si trasferisce a Parigi in cerca di fortuna. Determinante è l’incontro con André Colomer, disertore e pacifista: Colomer gli dà una famiglia e soprattutto lo introduce in ambienti anarchici. In questo periodo Malet collabora anche a vari giornali e riviste (En dehors, Journal de l’Homme aux Sandales, Revue Anarchiste). A Parigi abita in molti posti, anche sotto il ponte Sully, vive alla giornata, fa l’impiegato, il manovale, il vagabondo, il gestore di un negozio d’abbigliamento, il magazziniere, il giornalista, la comparsa cinematografica, lo strillone, il telefonista. Nel 1931 l’incontro con André Breton gli dà accesso al mondo delle case editrici e degli scrittori; Malet entra a far parte del Gruppo dei Surrealisti. Per qualche tempo il suo vicino di casa è Prévert, uno dei suoi migliori amici Aragon. Si sposa con Paulette Doucet e insieme fondano il Cabaret du Poète Pendu. Dopo una dura esperienza in un campo di concentramento nazista, nel 1941 inizia a scrivere polizieschi firmandosi con svariati pseudonimi: Frank Harding, Leo Latimer, Louis Refreger, Omer Refreger, Lionel Doucet, Jean de Selneuves, John Silver Lee. Con lo pseudonimo di Frank Harding crea il personaggio del reporter Johnny Métal, protagonista di una decina di romanzi gialli. Nel 1943 pubblica 120 Rue de la Gare con cui esordisce la sua creazione narrativa più celebre, l’investigatore privato Nestor Burma. Burma sarà protagonista di una trentina di avventure, inclusa una “serie nella serie” intitolata I nuovi misteri di Parigi, che comprende quindici racconti, ognuno dei quali dedicato a un diverso “arrondissment” di Parigi. Con Nestor Burma, Malet da un lato riscuote i primi consensi di pubblico, anche attraverso successive trasposizioni cinematografiche, una serie televisiva (1991-1995) di 85 episodi e l’adattamento a fumetti. Ma d’altro canto si allontana dal movimento anarchico: nel 1949 il gruppo dei Surrealisti lo espelle con l’accusa di essere diventato “seguace di una pedagogia poliziesca”. In realtà Malet è uno scrittore dai mille volti: accanto al poliziesco, si cimenta nei romanzi di cappa e spada e, soprattutto, nel noir. La critica gli concede proprio in questo filone i maggiori riconoscimenti: la Trilogie noir, di cui fanno parte Nodo alle budella, La vita è uno schifo e Il sole non è per noi, viene considerato il suo capolavoro. Malet muore nel 1996. Chi vuole andare a visitare la sua tomba, la trova al cimitero di Chatillon-sous-Bagneux.

Source: libro del recensore.

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:: I bastardi dovranno morire di Emmanuel Grand (Neri Pozza 2017) a cura di Giulietta Iannone

13 dicembre 2017

i bastardi dovranno morire

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Pauline lasciò la drogheria e risalì rue Jules-Guesde, che era meno illuminata ma rappresentava la via più breve per rincasare. Tutte quelle viuzze le conosceva a memoria, avrebbe potuto percorrerle a occhi chiusi. E tutto questo, presto, sarebbe stato solo un ricordo. Se un giorno avesse avuto dei figli, gli avrebbe parlato delle strade di Wollaing? Dei canaletti di scolo, delle buche sull’asfalto, dell’ intonaco scrostato sui muri, dell’ erba che spuntava sui marciapiedi? Gli avrebbe parlato di quell’ ultima volta in cui aveva preso rue Jules-Guesde al calar della sera, in un buio d’ inchiostro perché non c’erano lampioni?

Dopo Terminus Belz, polar con cui esordì nel 2014, insignito nel 2016 del premio “SNCF du polar”, il più importante premio dei lettori francesi, Emmanuel Grand arriva finalmente anche in Italia con il suo secondo romanzo, I bastardi dovranno morire (Les salauds devront payer, 2016), grazie a Neri Pozza e alla traduzione di Alberto Folin. E conferma un talento davvero notevole.
Insomma se non l’avete ancora letto Les salauds devront payer dovreste leggerlo al più presto, a tutt’ oggi, e il 2017 è ormai agli sgoccioli, è il più bel libro che ho letto quest’anno. Un noir se vogliamo, un polar per meglio dire, originale e ruvido che colpisce nel profondo, presentandoci un affresco sociale indubbiamente realistico e inquietante.
A volte un romanzo è migliore di un saggio sociologico, più incisivo e schietto, nel sensibilizzare l’opinione pubblica su certi temi, e I bastardi dovranno morire riesce nell’intento. Si sente che Emmanuel Grand parla di una realtà che conosce bene, che alimenta le sue preoccupazioni e le sue inquietudini, che immancabilmente si trasmettono al lettore.
Insomma il libro è molto più che un’ indagine poliziesca, una caccia al colpevole, la struttura poliziesca è un pretesto quasi per parlarci d’altro, di una parte dell’ Europa, il nord della Francia, devastata dalla crisi, messa in ginocchio dalla disoccupazione, e da tutti i mali ad essa collegati dall’alcolismo, alla droga, al ricorrere a strozzini e usurai via internet quando la situazione si fa disperata, o al rifugiarsi nei partiti di estrema destra, come il Front National, quando si cerca un capro espiatorio per tutto questo e lo si trova nello straniero, nel diverso.
Pur non essendo un romanzo militante nel vero senso della parola, I bastardi dovranno morire ha quel quid, quella rabbia che non scade mai in ferocia, ma ci porta a riflettere su questioni serie, su ideali più o meno traditi, sul capitalismo stesso, da sempre interessato ad un accumulo di denaro quasi fine a se stesso, più che al benessere e alla pace sociale.
Le vicende della Berga, la grande fabbrica chiusa da 30 anni dopo strenue lotte sindacali, e conflitti sociali devastanti, è un po’ il convitato di pietra del romanzo. Piuttosto impressionante la parte in cui la poliziotta Saliha Bouzem, e il giovane fotografo Jeremy fanno una specie di pellegrinaggio in questa grande cattedrale arrugginita, vestigia di un tempo lontano, che sembra impossibile da fare risorgere. Sembra come Jeremy, di sentirli davvero i fantasmi degli operai animare quel luogo.
La chiusura della fabbrica ha segnato la fine della regione, trasformandola in quella terra desolata che è oggi. La concorrenza dei paesi asiatici ne ha segnato l’immancabile uscita dal mercato prima, e la mancanza di politiche statali di sostegno, la drammatica estinzione definitiva dopo.
In questo quadro, che più noir di così non si può, si muovono i personaggi principali: il comandante Erik Buchmeyer, e il tenente Saliha Bouazem, incaricati di indagare sull‘ omicidio di una ragazza di Wollaing, Pauline Leroy. Una tossicodipendente, commessa di una drogheria che sembra invischiata in una storia di prestiti con quelle finanziarie che spuntano come funghi su internet, che danno soldi senza garanzie e senza tante domande, per poi lanciarti dietro veri picchiatori alla prima rata non pagata.
I candidati ideali al ruolo di bastardi sembrano essere Frederic Wallet e il suo scagnozzo Gerard Waterlos, conosciuti da tutti come il braccio armato per riscuotere i crediti di queste finanziarie. Sarebbe facile chiudere il caso così, incolpando quei due balordi, un caso in realtà senza nessuna reale importanza, ma il comandante Erik Buchmeyer che da sempre ha fatto prevalere l’intuito ai fatti, (esatto opposto della sua collega Saliha), sente puzza di bruciato, sente che bisogna indagare sulle dinamiche sommerse di quella cittadina del profondo Nord. Chi poi avrebbe pensato che quella morte “insignificante” avrebbe fatto scatenare una vendetta ben più cruenta covata così lungamente negli anni? Quando la situazione sembra esplodergli in mano, Erik Buchmeyer non potrà far altro che sperare in un colpo di fortuna, l’ultima ratio di ogni poliziotto.

Emmanuel Grand (Versailles, 1966) è un informatico cresciuto a Vandea, a venti chilometri dalla costa atlantica. Il suo romanzo, I bastardi dovranno morire, ha riscosso, al suo apparire in Francia, un grandissimo successo di pubblico e critica. Oggi vive a Colombes, vicino Parigi.

Source: libro inviato dall’ editore. Ringraziamo Martina dell’ ufficio stampa Neri Pozza.

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Il Grande Sonno – un Guest Post

13 dicembre 2017

ilgiornodeglizombi

La mia amica Giulia del blog Liberi di Scrivere si occupa (come da titolo del blog) di libri ed è una grande appassionata di noir; io, lo sapete, scrivo di cinema e parlo di soprattutto di horror. E così abbiamo pensato di scambiarci di ruolo: io vado a parlare di un libro horror da lei e lei viene qui da me a parlare di un film noir. Buona lettura a tutti. 

It was about eleven o’clock in the morning, mid October, with the sun not shining and a look of hard wet rain in the clearness of the foothills. I was wearing my powder-blue suit, with dark blue shirt, tie and display handkerchief, black brogues, black wool socks with dark little clocks on them. I was neat, clean, shaved and sober, and I didn’t care who knew it. I was everything the well-dressed private detective ought to be. I was…

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#Libriinarrivo #Novità #InLettura #N°4

29 novembre 2017

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:: Una spaventosa faccenda e altri racconti di Jim Thompson (Fanucci 2006) a cura di Giulietta Iannone

3 novembre 2017

una spaventosa faccendaJim Thompson credo sia un nome che non necessiti di grandi presentazioni, specie tra noi lettori amanti del noir contemporaneo americano. Nel mio ipotetico pantheon ha un posto di rilievo, e non solo io tendo a pensare che sia stato uno dei più grandi e versatili, perlomeno della sua generazione, se non il più grande.
Nacque nel 1906 in una sperduta e minuscola cittadina dell’ Oklahoma, una generazione dopo Chandler (1888- 1959) per intenderci, e morì a Hollywood verso la fine degli anni ’70 solo e alcolizzato, come un tipico personaggio dei suoi libri, libri che almeno in vita furono considerati, dopo un effimero successo negli anni ‘50, niente di più che romanzetti pulp da quattro soldi (a parte tre, tutti i ventinove libri pubblicati tra il 1942 e il 1973 erano tascabili).
Per capire il suo valore arrivarono in massa i critici dagli anni ’80 in poi del Novecento, facendo accostamenti vertiginosi più che ai maestri del noir e dell’ hardboiled, ad autori prettamente letterari e non di genere come Céline, Erskine Caldwell per non parlare di William Faulkner o addirittura Dostoevskij. Insomma quando un autore viene sdoganato, gli osanna della critica arrivano fino al Cielo.
Ma insomma Jim Thompson se lo meritava, avrebbe certo meritato anche più riconoscimenti in vita, meno disperazione e indifferenza specie negli ultimi anni di vita, ma forse avrebbero alterato il suo stile, (o forse il successo stesso non apparteneva alle sue corde) e noi oggi non avremmo avuto opere come L’assassino che è in me, Un uomo da niente, o Colpo di spugna, romanzi che se vogliamo rappresentano un punto di non ritorno e una nuova ridefinizione del genere.
Dunque sebbene più famoso per i suoi romanzi Jim Thompson non evitò la narrativa breve, e se volete accostarvi a questo autore vi consiglio proprio di iniziare dai racconti. Non sarà un innamoramento veloce, Jim Thompson non utilizza artifici letterari ed effetti speciali o fuochi d’artificio, anzi ha uno stile sobrio, piano se vogliamo, che utilizza anche cinicamente un’ apparente calma compositiva per poi mordere all’improvviso come un serpente a sonagli. Ma ragazzi se amate l’arte del racconto da Jim Thompson c’è solo da imparare, dalla caratterizzazione dei personaggi (truffatori, prostitute, psicopatici, assassini e tutto il sottobosco borderline dell’ epoca che lui conosceva per esperienza diretta), all’ambientazione (perlopiù squallida e degradata, e metropolitana), a quel mood che oscilla tra cieca disperazione e ottusa speranza, che naturalmente noi lettori sappiamo benissimo quanto sia senza futuro.
Jim Thompson tocca corde profonde, grazie a un’autenticità che nasce da una profonda sofferenza. Lo sguardo di pietà umana e tenerezza che getta sui i suoi antieroi, è qualcosa che commuove e rende splendide storie di per sé sordide, deprimenti e sporche, anzi cattive ma Jim Thompson non giudica né giustifica, i suoi perdenti sono gentaglia, ma forse l’intera umanità è fatta di gentaglia, di cialtroni per cui stare dal lato giusto della legge non è una grande priorità e che cercano sempre una nuova occasione ma non la trovano mai.
Una spaventosa faccenda e altri racconti (Fireworks. The Lost Writings, 1998), raccolta curata da Robert Polito, il suo biografo ufficiale, autore anche della breve e brillante prefazione, edita in Italia nel marzo del 2006 da Fanucci con traduzioni di Eleonora Lacorte, raccoglie 12 racconti usciti nell’arco di vent’anni (1946-1967) e pubblicati sulle più famose riviste americane di genere.
Abbiamo un Jim Thompson in splendida forma capace di scrivere racconti come Buio in sala, Per sempre (il mio preferito), Una spaventosa faccenda, Pagare all’uscita e La falla del sistema il più insolito e filosofico se vogliamo. Jim Thompson scrive racconti di suspense, neri fino nel midollo. Il cinismo di Aurora a mezzanotte è difficilmente sostenibile, nonostante l’apparente dolcezza con cui è scritto. La storia è sordida, dolorosa, disturbante, e lascia poco spazio a forme anche velate di redenzione o lieto fine.
I suoi truffatori sono quasi sempre falliti e mezze tacche, alle prese col colpo che gli dovrebbe cambiare la vita, ma tutto gli si ritorce sempre contro, e non perché il male deve essere punito e meglio se in modo eclatante, ma perché la vita e i meccanismi corrotti e contorti che la regolano portano a questo fallimento esistenziale prima che etico o morale. In un lento e inesorabile sgretolamento di difese.
Mitch Allison il truffatore sfortunato (ma criminale nel midollo) de Il calice di Cellini, lo ritroviamo anche in un secondo racconto, Una spaventosa faccenda (che dà il titolo italiano alla raccolta) ed è se vogliamo il più limpido esempio dell’antieroe tipicamente americano caro a Jim Thompson.
Gli elementi autobiografici si perdono in una densa struttura narrativa in cui la realtà è deformata dalle aspirazioni e da un disperato desiderio di riscatto e di conservazione e sopravvivenza. Truffare una compagnia, uccidere, prestarsi a grandi e piccoli raggiri è quasi una forma di compensazione, un desiderio folle di ottenere un risarcimento per una vita di stenti, povertà e miseria.
I personaggi sono fermamente convinti che la loro condizione è una grande ingiustizia, loro cercano solo di pareggiare la bilancia, come la sfortunata Ardis Clinton (non vi anticipo il colpo di scena finale, ma è geniale) e il suo folle piano congeniato col suo amante che porterà a derive horror e soprannaturali.
Ho in lettura Un uomo da niente, vi saprò dire, intanto buona lettura per questo.

Per approfondire: Lia Volpatti – Senza speranza da Vita da niente, Omnibus Gialli Mondadori

Jim Thompson, per tutti Jim, nacque in Oklahoma, nel 1906. A causa di dissesti finanziari familiari fin da ragazzo fu costretto a fare i lavori più umili, dal manovale al fattorino, dall’operaio nei pozzi petroliferi al gestore di sale cinematografiche. La scrittura arriva piuttosto tardi tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta. Thompson deve la sua fama principalmente ai romanzi. Ne ha scritti più di trenta, molti dei quali nel suo periodo più prolifico, dalla fine degli anni Quaranta alla metà degli anni Cinquanta. Poco apprezzato in vita, la sua statura di autore cresce negli anni Ottanta con le riedizioni dei suoi romanzi per la casa editrice Black Lizard.
I personaggi che popolano i libri di Thompson sono truffatori, perdenti, psicopatici; alcuni di questi vivono ai margini della società, altri vi sono perfettamente inseriti. La visione nichilista dell’autore è quasi sempre espressa da una narrazione in prima persona; la profondità della sua comprensione degli abissi della follia criminale è quasi spaventosa. Difficile trovare personaggi “buoni”, nei suoi libri: anche quelli apparentemente più innocui mascherano egoismo, opportunismo e vizio.

Source: libro preso in prestito dalle biblioteche del circuito SBAM.