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:: I bastardi dovranno morire di Emmanuel Grand (Neri Pozza 2017) a cura di Giulietta Iannone

13 dicembre 2017
i bastardi dovranno morire

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Pauline lasciò la drogheria e risalì rue Jules-Guesde, che era meno illuminata ma rappresentava la via più breve per rincasare. Tutte quelle viuzze le conosceva a memoria, avrebbe potuto percorrerle a occhi chiusi. E tutto questo, presto, sarebbe stato solo un ricordo. Se un giorno avesse avuto dei figli, gli avrebbe parlato delle strade di Wollaing? Dei canaletti di scolo, delle buche sull’asfalto, dell’ intonaco scrostato sui muri, dell’ erba che spuntava sui marciapiedi? Gli avrebbe parlato di quell’ ultima volta in cui aveva preso rue Jules-Guesde al calar della sera, in un buio d’ inchiostro perché non c’erano lampioni?

Dopo Terminus Belz, polar con cui esordì nel 2014, insignito nel 2016 del premio “SNCF du polar”, il più importante premio dei lettori francesi, Emmanuel Grand arriva finalmente anche in Italia con il suo secondo romanzo, I bastardi dovranno morire (Les salauds devront payer, 2016), grazie a Neri Pozza e alla traduzione di Alberto Folin. E conferma un talento davvero notevole.
Insomma se non l’avete ancora letto Les salauds devront payer dovreste leggerlo al più presto, a tutt’ oggi, e il 2017 è ormai agli sgoccioli, è il più bel libro che ho letto quest’anno. Un noir se vogliamo, un polar per meglio dire, originale e ruvido che colpisce nel profondo, presentandoci un affresco sociale indubbiamente realistico e inquietante.
A volte un romanzo è migliore di un saggio sociologico, più incisivo e schietto, nel sensibilizzare l’opinione pubblica su certi temi, e I bastardi dovranno morire riesce nell’intento. Si sente che Emmanuel Grand parla di una realtà che conosce bene, che alimenta le sue preoccupazioni e le sue inquietudini, che immancabilmente si trasmettono al lettore.
Insomma il libro è molto più che un’ indagine poliziesca, una caccia al colpevole, la struttura poliziesca è un pretesto quasi per parlarci d’altro, di una parte dell’ Europa, il nord della Francia, devastata dalla crisi, messa in ginocchio dalla disoccupazione, e da tutti i mali ad essa collegati dall’alcolismo, alla droga, al ricorrere a strozzini e usurai via internet quando la situazione si fa disperata, o al rifugiarsi nei partiti di estrema destra, come il Front National, quando si cerca un capro espiatorio per tutto questo e lo si trova nello straniero, nel diverso.
Pur non essendo un romanzo militante nel vero senso della parola, I bastardi dovranno morire ha quel quid, quella rabbia che non scade mai in ferocia, ma ci porta a riflettere su questioni serie, su ideali più o meno traditi, sul capitalismo stesso, da sempre interessato ad un accumulo di denaro quasi fine a se stesso, più che al benessere e alla pace sociale.
Le vicende della Berga, la grande fabbrica chiusa da 30 anni dopo strenue lotte sindacali, e conflitti sociali devastanti, è un po’ il convitato di pietra del romanzo. Piuttosto impressionante la parte in cui la poliziotta Saliha Bouzem, e il giovane fotografo Jeremy fanno una specie di pellegrinaggio in questa grande cattedrale arrugginita, vestigia di un tempo lontano, che sembra impossibile da fare risorgere. Sembra come Jeremy, di sentirli davvero i fantasmi degli operai animare quel luogo.
La chiusura della fabbrica ha segnato la fine della regione, trasformandola in quella terra desolata che è oggi. La concorrenza dei paesi asiatici ne ha segnato l’immancabile uscita dal mercato prima, e la mancanza di politiche statali di sostegno, la drammatica estinzione definitiva dopo.
In questo quadro, che più noir di così non si può, si muovono i personaggi principali: il comandante Erik Buchmeyer, e il tenente Saliha Bouazem, incaricati di indagare sull‘ omicidio di una ragazza di Wollaing, Pauline Leroy. Una tossicodipendente, commessa di una drogheria che sembra invischiata in una storia di prestiti con quelle finanziarie che spuntano come funghi su internet, che danno soldi senza garanzie e senza tante domande, per poi lanciarti dietro veri picchiatori alla prima rata non pagata.
I candidati ideali al ruolo di bastardi sembrano essere Frederic Wallet e il suo scagnozzo Gerard Waterlos, conosciuti da tutti come il braccio armato per riscuotere i crediti di queste finanziarie. Sarebbe facile chiudere il caso così, incolpando quei due balordi, un caso in realtà senza nessuna reale importanza, ma il comandante Erik Buchmeyer che da sempre ha fatto prevalere l’intuito ai fatti, (esatto opposto della sua collega Saliha), sente puzza di bruciato, sente che bisogna indagare sulle dinamiche sommerse di quella cittadina del profondo Nord. Chi poi avrebbe pensato che quella morte “insignificante” avrebbe fatto scatenare una vendetta ben più cruenta covata così lungamente negli anni? Quando la situazione sembra esplodergli in mano, Erik Buchmeyer non potrà far altro che sperare in un colpo di fortuna, l’ultima ratio di ogni poliziotto.

Emmanuel Grand (Versailles, 1966) è un informatico cresciuto a Vandea, a venti chilometri dalla costa atlantica. Il suo romanzo, I bastardi dovranno morire, ha riscosso, al suo apparire in Francia, un grandissimo successo di pubblico e critica. Oggi vive a Colombes, vicino Parigi.

Source: libro inviato dall’ editore. Ringraziamo Martina dell’ ufficio stampa Neri Pozza.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: Parla come mangi – Libri letti in lingua originale: Tabous di Danielle Thiery (Editions J’ai Lu, 2016) a cura di Stefano Di Marino

7 dicembre 2017

tabousA ulteriore riprova che le autrici di thriller se sono brave sanno imporsi (se siano discriminate non lo so, io non credo) e conquistare anche un pubblico che non è tradizionalmente quello che s’immagina. Il thriller familiare non è il mio preferito, ma non sono così stupido da non leggere un romanzo quando ‘annuso’ che è buono. Danielle Thiery, prima donna ‘commissarie divisionnaire’ della polizia francese nonché figura di spicco del polar con un catalogo di titoli impressionante, affronta il filone con piglio e mordente. Da buona sbirra spara col calibro grosso e costruisce una storia complicata senza risparmiare colpi. Segreti di famiglia, incesti, sevizie su bambini, e tutta una serie di altre problematiche che farebbero rizzare i capelli in testa a più di un editor nel timore di suscitare vespai per questioni di correttezza politica. Dall’omosessualità all’ identità razziale di alcuni colpevoli. Dico ‘alcuni’ perché nell’intreccio ce ne sono diversi. Eppure la Thiery lo fa con mano sicura, una scrittura curata ma la capacità di seguire limpidamente una narrazione che spesso mescola le carte. Esperta poliziotta, e narratrice di talento, racconta la vicenda, senza perdersi in inutili psicologismi, tentazioni di fare la bella pagina per riempire l’incapacità di costruire un ‘giallo’, perché questo, alla fine, è il suo libro. Non cade mai nel truculento, nello scabroso gratuito, nell’effettaccio anche se di sangue e morti ce ne sono diversi. Evita così anche la trappola del patetico e del ridicolo. Edwige Marion, la sua protagonista, nei giorni di Natale appare acciaccata dalla sciatica, forse si prepara a lasciare la scena. Ad Alix, giovane psicologa con qualche difficoltà nel rapporto con gli altri, e a Valentine Cara, la ‘capitanne’ della Scientifica che invece conduce una felice vita di coppia con Rose, l’anatomopatologa. Le due (Alix e Cara) non si sopportano ma arrivano in qualche modo a completarsi in un’indagine difficile che parte da un ospedale in cui una giovane donna prima getta la sua bimba in un cassonetto, poi ‘si fa violentare’ da un disgraziato mediorientale e poi sparisce. Letteralmente. E da lì emergono vari quadri poco edificanti della società con altrettanti problemi. Bambini abusati, famiglie disfunzionali, padri padroni, madri consenzienti a ogni nequizia riusciate a immaginare. Il romanzo si intitola Tabous, al plurale, non per caso. Un assassino, una capanna nei boschi, una tempesta. Gli elementi classici si incastrano con quelli più innovativi, meno di filone nel senso classico. In modo omogeneo, sempre chiaro e leggibile. Perché si scrive per essere letti. E con il trascorrere del tempo la storia si compatta, tutto trova una spiegazione, le stesse dicotomie che mettono Eva contro Eva, forniscono una soluzione. Senza sconti, forse con un finale dove arriva una piccola consolazione, ma ci sta benissimo. Un nero da leggere, da studiare. Peccato che il prodotto francese (questa volta sì) sia discriminato nella produzione nostrana, ma Tabous si trova facilmente nella collezione J’ai Lu a un prezzo più che accettabile. Chapeau, madame la Commissaire!

Danielle Thiéry est née en 1947 en Bourgogne, dans une ambiance rurale, d’une mère-poule et d’un poulet (papa professeur de judo dans la police).
Après le bac, une formation d’éducatrice spécialisée et un “mai 68” décevant au bout du compte, l’ouverture aux femmes du concours d’officier de police la fait bifurquer vers un nouveau défi : affirmer la place des femmes dans toutes les sphères de la société, surtout celles que l’on disait réservée aux hommes.
Le slogan “la police un métier d’homme” a-t-il vécu ? Pas sûr… Car le chemin n’est pas semé de roses ! Après avoir occupé différents postes : brigade des mineurs, stupéfiants, proxénétisme, brigade territoriale, police aux frontières, police des chemins de fer et passé plusieurs concours, elle est nommée, en 1991, première femme commissaire divisionnaire de l’histoire de la police française.
Un évènement qui fait date car, curieusement, il lui donne le top départ d’une autre carrière, littéraire cette fois, menée en parallèle avec une deuxième vie professionnelle au sein de grandes entreprises (AIr France, France Telecom, La Poste). C’est par la télévision et une grande série diffusée sur France 2 qu’elle s’engage dans l’écriture. Quai N°1 est l’histoire de sa vie et aussi celle de Marie Gare, son aïeule, abandonnée dans … une gare !
Depuis 2008, elle ne se consacre plus qu’à l’écriture. Plusieurs de ses romans ont été traduits à l’étranger et ont reçu des prix dont le prestigieux Prix du quai des Orfèvres en novembre 2012 pour “Des clous dans le coeur”.

Source: romanzo del recensore.

:: La ragazza scomparsa di Angela Marsons (Newton Compton 2017) a cura di Federica Belleri

3 ottobre 2017

la-ragazza-scomparsaKim Stone è ispettore di polizia a Black Country. È tenace, efficente, preparata. Ha sofferto una determinante mancanza d’affetto in gioventù, ma è decisa a portare avanti il suo lavoro con passione. Quando Amy e Charlie di nove anni scompaiono, Kim rivive in pochi attimi un caso di qualche tempo prima, difficile e drammatico. Si ritrova ad assistere alle stesse scene: due bambine rapite, felici e molto unite. Due coppie di genitori disperati che vivono nell’angoscia, con effetto immediato. La richiesta urgente del silenzio stampa, per evitare i giornalisti sciacalli. La riunione della sua squadra e la necessità di una base operativa sicura. La Stone inizia a scavare nella vita personale e lavorativa delle due famiglie coinvolte, ed è inevitabile il flusso dei ricordi che comincia a serrarle il respiro. Fino a che punto si sente parte di questa vicenda? Ha il coraggio di affrontare la rabbia e la frustrazione di genitori sofferenti? È in grado di proteggersi e di proteggere le due bambine, evitando loro inutili crudeltà? Con che genere di delinquenti si deve rapportare?
Con La ragazza scomparsa prosegue la vita di Kim Stone, già protagonista dei precedenti romanzi di Angela Marsons. Ancora una volta questa scrittrice inglese si dimostra in grado di costruire una trama agghiacciante, dove i vuoti dell’anima distorcono ogni tipo di sentimento, e lo rendono malato, terribile. Il ritmo è scandito da una sorta di gioco, di sfida tra i rapitori e le famiglie, obbligate a fronteggiarsi e a scontrarsi in modo pesante. Un allucinante scambio di sms sconvolge qualsiasi equilibrio con prepotenza, ma dettando regole precise. Grida di aiuto arrivano dal passato e segreti inconfessabili vengono urlati con rabbia. Una lotta contro il tempo, una trattativa che lascia il lettore in apnea e chiude lo stomaco.
Quanto vale la vita di Amy e Charlie? Chi delle due sarà l’agnello da sacrificare?
Lettura assolutamente consigliata.

Angela Marsons ha esordito nel thriller con Urla nel silenzio, bestseller internazionale ai primi posti delle classifiche anche in Italia. La serie di libri che vede protagonista la detective Kim Stone prosegue con Il gioco del male e La ragazza scomparsa. Angela vive nella Black Country, in Inghilterra, la stessa regione in cui sono ambientati i suoi thriller. I suoi libri hanno già venduto più di 2 milioni di copie. Per informazioni, visitate il sito: http://www.angelamarsons-books.com.

Source: inviato dall’ editore al recensore, si ringrazia l’ Ufficio stampa.

:: Come cani selvaggi, Ian Rankin, (Longanesi, 2016) a cura di Micol Borzatta

9 giugno 2016
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John Rebus non è adatto per la vita da pensionato. Le sue giornate sono tutte uguali passate in solitudine e le serate al bar. Una sera viene chiamato da Siobhan Clarke che insieme a Malcolm Fox sta indagando sul ritrovamento di un avvocato ucciso, e cosa ancora più strana nel portafoglio della vittima viene ritrovato un bigliettino con su scritta una minaccia di morte.
Quella stessa sera, dall’altra parte della città di Edimburgo a Big Ger Cafferty, la nemesi di Rebus, sparano attraverso la finestra, ma per fortuna il proiettile lo manca. Dopo una chiacchierata con Rebus si scopre che anche lui aveva ricevuto lo stesso biglietto. Clarke inizia subito a indagare mentre Fox viene incaricato di aiutare la squadra speciale arrivata per indagare sugli Stark, rivali mafiosi di Cafferty.
Tutto sembra portare a un regolamento di conti tra capi mafia, quando viene trovato morto Dennis Stark e anche lui con lo stesso biglietto.
La polizia decide di riprendere in servizio Rebus come consulente esterno perché è l’unico che potrà fare chiarezza sia su quello che sta succedendo tra le famiglie che riguardo al serial killer.
Un romanzo avvincente come ci ha abituato Rankin, con il suo classico ritmo veloce che rispecchia appieno l’andamento frenetico delle indagini poliziesche.
Le descrizioni sono molto minuziose, sia per quanto riguarda i paesaggi che per quanto riguarda i personaggi, specialmente la descrizione relativa a Rebus che è esattamente come ce lo ricordavamo, un poliziotto fuori dai canoni che sa come affrontare le persone, siano malavitosi o persone perbene.
Molto intuitivo e un po’ scorbutico, in questo libro lo vediamo ammorbidirsi un po’ grazie al ritrovamento di un cagnolino abbandonato che fa breccia nel suo cuore, cuore che non avremmo mai immaginato potesse aprirsi e provare sentimenti del genere. Un gran cambiamento che rivela una crescita del personaggio che lo fa amare ancora di più dal lettore.
Un romanzo che si legge tutto in un fiato grazie alla bravura di Rankin di saper coinvolgere il lettore trasportandolo all’interno del romanzo.

Ian Rankin nasce a Fife nel 1960.
Inizia a scrivere già ai tempi del liceo, prevalentemente poesie e brevi racconti. Guidato da questa passione decide di iscriversi all’università di Edimburgo dove si laurea in Letteratura Inglese e si specializza in Letteratura Americana e Scozzese.
Nel 1997 vince il Macallan Gold Dagger con il romanzo Morte grezza e nel 2004 vince l’Edgar Award con il romanzo Casi sepolti.

Source: ebook inviato dall’editore, ringraziamo Tommaso dell’Ufficio Stampa Longanesi.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: Recensione di Arab Jazz di Karim Miské (Fazi, 2013) a cura di Giulietta Iannone

3 luglio 2013

karimVincitore del Grand Prix de littérature policière 2012, Arab Jazz (Arab Jazz, 2012) di Karim Miské è un interessante polar francese che rischia, ingiustamente, di passare inosservato. E sarebbe un peccato. Pubblicato in Italia da Fazi e tradotto da Maurizio Ferrara,  questo romanzo è l’opera d’ esordio di Karim Miské, nato in Costa d’Avorio da madre francese e padre mauritano, ma cresciuto in Francia, fulgido esempio dello stile di vita cosmopolita parigino che emerge in tutte le sue sfaccettature in questo romanzo, notevole sia per stile, la sua scrittura originale, quasi impressionista, è la prima cosa che noterete iniziando a leggere il romanzo, che per ambientazione e tematiche.
Arab Jazz, già dal titolo (lo dice espressamente in una pagina fintamente citazionista) un omaggio neanche tanto velato a White Jazz di James Ellroy, potremmo definirlo un poliziesco esistenzialista, contaminato da sprazzi vividi e caldi di colore locale, multietnici suoni di un’ umanità variopinta e caratterizzata da usanze, culture, credi religiosi contrapposti e spesso stridenti. Arabi, ebrei, asiatici, africani, turchi, armeni, mille volti di un quartiere parigino dove convivono varie comunità che quasi si ignorano tra loro, chiuse nelle loro enclavi etniche, familiari, sociali e che fa da sfondo a una storia amara e crudele, che come ogni poliziesco inizia con un delitto.
Laura, giovane hostess dell’Air France, viene ritrovata cadavere nel suo appartamento, legata al balcone, lasciata a dissanguare dopo innumerevoli coltellate inferte con efferata violenza. La tavola apparecchiata per due, il coltello conficcato in un trancio di maiale. Una messinscena grottesca, apparentemente legata a qualche fanatismo religioso, di impurità e punizione.
Ad avvisare la polizia una telefonata anonima, ma anche Ahmed, il vicino del piano di sotto, vede piovere delle gocce di sangue sul suo balcone e alzando la testa vede i piedi della ragazza. Una ragazza che forse lo amava, ma lui questo amore non è mai riuscito a ricambiare chiuso nella sua depressione cronica e senza speranza. Per lei, solo un rituale che paradossalmente lo pone in una posizione delicata. Ha le chiavi di casa della ragazza, perché si era offerto di innaffiare le sue orchidee durante le sue lunghe trasferte. Solo lui era abbastanza ossessivo e fanatico per dare la giusta acqua a fiori così bizzarri e incontentabili.
La portinaia lo sa, e non mancherà di dirlo alla polizia, facendo di Ahmed il primo sospettato. Ma i due poliziotti incaricati dell’indagine fanno presto, vedendolo, a capire che lui non centra niente. Il suo sguardo è troppo dolce, fragile, la sua casa piena di romanzi polizieschi comprati un tanto al chilo da Paul, il librario armeno, che per lui ha sempre qualche raro volume da aggiungere ai suoi acquisti, non è la casa di un assassino. Jean il poliziotto bretone, figlio di comunisti e Rachel la rossa poliziotta ebrea lo capiscono subito, per istinto, per esperienza.
Ma Ahmed, sa che quei due strani poliziotti, non verranno mai a capo di quella storia, deve indagare lui, deve scoprire lui chi ha ucciso Laura, non può certo cambiare il passato, vivere quell’ amore ormai irraggiungibile, ma può scoprire la verità. Glielo deve.
Ecco un accenno di trama, una breve traccia che ci porta nel cuore di questo romanzo, scritto al presente, in un susseguirsi di accelerazioni e cambi di prospettiva. Punti focali Ahmed, Rachel e Jean, in un’ alternanza di vie di fuga narrate da un narratore partecipe che analizza fatti e pensieri dei personaggi, e ci porta nel loro mondo, nel segreto labirinto che è la loro anima.
Vagamente joyciano il dormiveglia solitario di Rachel, mentre immagina di consumare un infuocato amplesso con Tony Leung, a questo servono i divi cinematografici considera quasi in un’ epifania catartica. Vagamente proustiano l’attaccamento di Jean verso il cibo, la bistecca sognata e condivisa con Rachel, le patatine ai gamberetti prese al ristorante cinese. Miské crea con eleganza uno stile insolitamente raffinato per un polar, letterariamente denso e per alcuni versi anche d’avanguardia. Una lettura interessante. Forse non per tutti, ma personalmente l’ho trovata molto affascinante.

Karim Miskè è nato nel 1964 ad Abidjan da padre mauritano e madre francese. Cresciuto a Parigi, si è trasferito a Dakar per gli studi in giornalismo. È da più di vent’anni regista di documentari che vengno trasmessi su Arte, France 2 e Canal+. A partire dal 2010 pubblica numerosi articoli sul tema del razzismo e tiene un blog sul sito de «les inrockuptibles». Arab Jazz è il suo primo romanzo. Nel 2012 ha vinto il Grand prix de littérature policière.