Chi è Hillary Clinton? Probabile 45° presidente degli Stati Uniti d’America. Alternativa democratica al miliardario Donald Trump, sul fronte repubblicano. Bernie Sanders non si arrende, ma resta un outsider fuori dall’ establishment, sebbene è di queste ore la vittoria in West Virginia. Insomma tutto è ancora in forse, ma alla Convention di Philadelphia di luglio è praticamente sicuro che sarà la Clinton l’alfiere per battere Trump. Lo stesso Sanders ha detto: «Ho un messaggio per i delegati a Filadelfia. Se con Hillary Clinton abbiamo molte differenze, su una cosa siamo d’accordo: dobbiamo sconfiggere Donald Trump». Certo noi non voteremo per le presidenziali americane, ma chi sarà l’inquilino della Sala Ovale cambierà anche i nostri destini, per cui informarsi è un obbligo, oltre che un diritto. È uscito un libro, fuori dal coro, che parla di Hillary Clinton con toni sicuramente critici ma animati da un autentico idealismo. Ce ne parlerà oggi, con un pezzo in esclusiva per il nostro blog, l’autorevole penna di Jean Toschi Marazzani Visconti. Lascio quindi a lei la parola, sicuramente più competente di me nel trattare questi temi.
Nel suo ultimo libro Hillary Clinton – Regina del caos (Zambon 2016, traduzione di Cristiano Screm, titolo originale: Queen of Chaos: The Misadventures of Hillary Clinton, pp. 247, 15,00 €), Diana Johnstone prende spunto dalle disavventure politiche della candidata democratica alla presidenza statunitense per raccontare, con grande chiarezza e coraggio, i meccanismi dell’attuale politica americana. I lettori di questo testo, indipendentemente dal credo politico, troveranno una spiegazione logica a vicende e fatti sia passati sia attuali, spesso inspiegabili. Lo scenario che Johnstone delinea è molto più intrigante delle trame di fantapolitica prodotte da Hollywood, anche quando tali film si basano su documenti reali, poiché la Mecca del cinema americano è stata, spesso, fucina di propaganda o di accusa alla politica nazionale e ai suoi rappresentanti.
L’autrice racconta con precisione documentata il funzionamento delle lobby e il peso degli sponsor nelle scelte del Congresso, non mancando di ironia pungente, quasi a esorcizzare quanto lei reputa un male assoluto.
I lettori, sorpresi dalla durezza del racconto, potrebbero chiedersi se per caso l’autrice sia antiamericana e antifemminista. Nessuna delle due cose. Diana Johnstone è soltanto un’idealista delusa.
Cresciuta in una famiglia colta, attenta alla politica e al sociale, Johnstone respira sin da bambina l’atmosfera del New Deal, i suoi stessi genitori lavorano in un brain-trust del governo di Franklin Delano Roosevelt, 32° Presidente degli Stati Uniti d’America, unico eletto per quattro mandati (1933-1945), nonostante le difficoltà fisiche dovute a un attacco di polio che lo inchioda alla sedia a rotelle all’età di ventinove anni. Roosevelt morirà nel 1945 lasciando il compito di terminare la Seconda guerra mondiale a Harry Truman nel Pacifico e in Europa.
Roosevelt era stato colui che aveva guidato gli Stati Uniti fuori dalla terribile Depressione del 1929 e restituito il sogno americano, applicando tre regole: sollievo, recupero, rilancio. In tal modo, aveva superato la drammatica disoccupazione e povertà che avevano coinvolto i ceti piccoli e medi.
«Nessuna impresa ha diritto di realizzarsi in questo Paese se, per avere successo, deve pagare i lavoratori meno di quanto serva loro per vivere», affermava Roosevelt. E ancora: «La misura del nostro progresso non sta nell’aggiungere di più all’abbondanza di quelli che hanno molto, ma nel provvedere abbastanza per quelli che hanno troppo poco». Con questi assiomi Roosevelt aveva riportato il Paese ai valori dell’America migliore.
È evidente che chi ha vissuto con il mito di tali idealità non si riconosca nell’America attuale. Se l’autrice descrive con sarcasmo i giochi politici, gli intrighi di coloro che portano la responsabilità di guidare un grande Paese e delle redini della politica internazionale, ciò è dovuto alla profonda amarezza di fronte al decadimento di quelli che erano i grandi valori americani. Diana Johnstone ama l’America, ma non quella attuale.
L’autrice di Hillary Clinton – Regina del caos fa risalire la fine del periodo d’oro al 17 gennaio 1961, giorno del discorso d’addio alla Casa Bianca del Presidente Dwight Eisenhower, il quale si congedava inaugurando il MIC (Military-Industrial Complex), nuovo sistema politico-finanziario-militare che avrebbe completamente stravolto i principî del New Deal e della politica americana trasformandosi nel tempo in un mostro, come lo definisce Diana Johnstone. In effetti, gli Stati Uniti si sono costruiti una trappola da cui non possono liberarsi e che li trascina sempre di più in un percorso perverso, nella necessità assoluta di mantenere l’immagine di nazione eccezionale.
A conferma della malattia di questa grande democrazia, le conclusioni di uno studio, commissionato dall’Università di Princeton nel 2014, secondo cui gli Stati Uniti non sarebbero una democrazia, bensì un’oligarchia guidata da un’élite economica: il MIC, appunto.
Ogni quattro anni gli americani hanno il diritto di votare o confermare un Presidente, repubblicano o democratico, ma l’eletto finisce per seguire la politica precedente con delle variazioni superficiali, l’indirizzo politico è dettato, infatti, dal MIC, i cui membri sono anche gli sponsor delle campagne presidenziali.
È particolarmente interessante il racconto della nascita della Guerra Fredda messa in scena per favorire il MIC. È Storia ma ha avuto un grosso peso per molte generazioni, e attualmente sembra verificarsi un ricorso storico.
In Hillary Clinton – Regina del caos, Johnstone scrive:
«La nascita di questo mostro si può far risalire al NSC-68, il documento n. 68 del Consiglio di Sicurezza Nazionale, sottoposto al Presidente Harry S. Truman il 14 aprile 1950. Il suo principale artefice era Paul Nitze, un facoltoso ed erudito banchiere d’investimento sconosciuto al grande pubblico. Nitze sintetizzò l’opinione maggioritaria delle élite, che di fatto allontanò nettamente gli Stati Uniti dai suoi programmi sociali del New Deal indirizzandoli verso un’incessante escalation militare. Al termine della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti correvano il rischio di ricadere nella Depressione, soprattutto perché i loro clienti d’oltremare erano impoveriti dalla guerra. Occorreva una decisa manovra keynesiana, ma l’élite era implicitamente favorevole a investire nelle forze armate più che nelle opere pubbliche. Per conquistare il sostegno del Congresso e dell’opinione pubblica era quindi necessario ingigantire la “minaccia sovietica”» (pp. 28-29).
Secondo Johnstone, il comunismo non aveva mai rappresentato una minaccia reale per l’Europa sia sul piano politico sia su quello militare, poiché Stalin era troppo concentrato sulla ricostruzione del suo Paese, uscito devastato dalla guerra, e sulla conseguente messa a punto di un sistema di difesa contro le possibili aggressioni che uno slittamento della Guerra Fredda avrebbe potuto scatenare da parte occidentale. Il clima di allarme nei confronti del pericolo rosso aveva fatto sì che il Pentagono autorizzasse contratti vantaggiosi per le industrie militari, e non solo, vivificando così l’economia degli Stati Uniti ma, al tempo stesso, lasciando un segno sul percorso di intere generazioni a venire.
La Guerra Fredda prese forma ufficialmente nel 1947 con un discorso tenuto nella Carolina del Sud da Bernard Baruch, che si avvalse della minaccia comunista come argomentazione contro l’ondata postbellica di rivendicazioni dei lavoratori. Invocò l’unità tra lavoratori e dirigenti, l’impegno da parte dei sindacati a non proclamare scioperi, poiché «oggi siamo nel pieno di una Guerra Fredda». Con la minaccia sovietica – in gran parte inventata e certamente ingigantita, spiega Johnstone – il MIC ottenne stanziamenti dal Congresso a favore del Pentagono e tenne sotto controllo i sindacati che, in una tale situazione di pericolo, si sarebbero mostrati antiamericani se avessero organizzato scioperi o proteste.
Gli Stati Uniti sono appena usciti da una crisi, e il mondo intero con loro, crisi causata dalla famosa bolla, generata proprio all’interno di questo macrosistema politico-finanziario-militare. Un peggioramento, però, potrebbe ritornare come un boomerang per ragioni simili a quelle sostenute dal banchiere Paul Nitze nel 1950, e allora la soluzione potrebbe essere proprio ricercata nelle teorie del PNAC elaborate dai Neocons. Per averne un’idea: «La Storia del XX secolo avrebbe dovuto insegnarci che è importante plasmare le circostanze prima che le crisi emergano e affrontare le minacce prima che diventino tragiche. La Storia di questo secolo avrebbe dovuto insegnarci ad abbracciare la causa di una leadership americana». E ancora: «Stabilire una presenza strategica militare in tutto il mondo attraverso una rivoluzione tecnologica in ambito militare, scoraggiare l’emergere di qualsiasi super potenza competitiva, lanciare attacchi preventivi contro qualsiasi potere che minacci gli interessi americani». Un programma applicabile a qualsiasi minaccia di crisi.
Se a questi principî si aggiunge l’attività instancabile delle lobby al servizio di qualsiasi entità che possa pagare, ad esempio, per ottenere una legge ad hoc o il finanziamento di una guerra nel Medio Oriente oppure l’approvazione dell’indipendenza di una regione del mondo, il panorama non è affatto rassicurante. Si tratta di azioni tutte sul filo dell’etica e della legge internazionale, che coinvolgono potere e molto denaro. Le conseguenze sono ovvie: dalla corruzione al clientelismo fino all’uso improprio dei media per coprire iniziative non esattamente corrette.
Oggi il mondo sta vivendo una situazione d’incertezza economica, ritrovare un nemico potrebbe fare comodo agli Stati Uniti, specie ora che la Russia appare ancora più temibile, in quanto maggiormente capace di influenzare la politica internazionale, qualcosa di assolutamente inaccettabile per l’establishment politico americano.
Diana Johnstone trasferisce su Hillary Clinton la sua delusione americana. Per la prima volta una donna potrebbe salire al massimo potere mondiale, ma le sue condotte e le sue scelte come Segretario di Stato sono criticabili, i suoi coinvolgimenti politici, inoltre, non fanno sperare niente di nuovo rispetto ai suoi predecessori.
Hillary Clinton vuol far credere di rappresentare le donne americane per ottenerne i voti, dichiara di voler sfondare il soffitto di cristallo – quel limite che impedirebbe alle donne americane di raggiungere incarichi importanti – ma, sostiene Johnstone, le americane arrivano a posizioni di rilievo anche senza i compromessi della front-runner dem.
L’antifemminismo non c’entra. È proprio la figura di Hillary Clinton che lascia dubbiosi. È sufficiente una scorsa ai nomi degli sponsor della Fondazione Clinton a sostegno della campagna presidenziale.
«Per sapere chi siano questi sponsor, basta dare un’occhiata all’elenco dei donatori della Clinton Foundation che hanno offerto milioni di dollari, teoricamente per beneficenza – quel tipo di beneficenza che comincia a casa propria. Si tratta di filantropi che danno allo scopo di ricevere. Tra i donatori a otto cifre figurano l’Arabia Saudita, l’oligarca ucraino filo-israeliano Viktor Pinchuk e la famiglia Saban. Tra i donatori a sette cifre troviamo il Kuwait, Exxon Mobil, gli “Amici dell’Arabia Saudita”, James Murdoch, il Qatar, Boeing, Dow, Goldman Sachs, Walmart e gli Emirati Arabi Uniti. Gli spilorci che hanno versato ai Clinton contributi di appena mezzo milione o più comprendono tra gli altri Bank of America, Chevron, Monsanto, Citigroup e l’immancabile Fondazione Soros. Che cosa rende tanto popolari i Clinton in Arabia Saudita?» (p. 240)
È ragionevole pensare che una volta insediata alla Casa Bianca, Hillary Clinton riceva prima o poi la fattura da parte dei suoi sostenitori. Cosa potrebbero chiedere questi cortesi investitori, per esempio, riguardo all’Arabia Saudita? L’occupazione dello Yemen? Della Siria? Per quanto riguarda l’Ucraina, un maggior appoggio alle destre filonaziste? E la Russia? Non esiste più il pericolo rosso, però la Russia è percepita nuovamente forte. Forse troppo. Si vedono già nei media i primi spot che preparano la strada a una nuova Guerra Fredda. Sperando che rimanga tale.
Jean Toschi Marazzani Visconti è scrittrice e saggista. Il suo ultimo libro, La porta d’ingresso dell’Islam: Bosnia-Erzegovina, un Paese ingovernabile (prefazione di Paolo Borgognone, postfazione di Manlio Dinucci, pp. 301, 18 €) è in uscita per i tipi di Zambon Editore.
Diana Johnstone, giornalista, analista politica e studiosa di geopolitica. Nasce a Saint Paul, nello Stato del Minnesota, nel 1931 ma cresce a Washington in un ambiente progressista, dato che i suoi genitori facevano entrambi del Brain Trust del New Deal del presidente Franklin D. Roosevelt: sua madre contribuirà alla nascita del Social Security Act del 1935, mentre suo padre sarà al fianco del segretario all’Agricoltura, Henry Wallace, futuro 33° presidente degli usa. Johnstone consegue un’istruzione cosmopolita (baccalaureato in Russian Studies e Phd in letteratura francese) e, durante la guerra del Vietnam, organizza i primi contatti internazionali tra cittadini americani e rappresentanti vietnamiti. Dal 1990 al 1996 lavora nell’ufficio stampa dei Verdi al Parlamento europeo. È autrice di The Politics of Euromissiles: Europe in America’s World (1983), Fools’ Crusade: Yugoslavia, nato and Western Delusions (2003) – discusso pamphlet in difesa del quale si sono mobilitati Noam Chomsky, Arundhati Roy, Tariq Ali e John Pilger – e di Hillary Clinton. Regina del caos (2015). Vive a Parigi da più di trent’anni.