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:: Guest post – Final Girls: Le sopravvissute di Riley Sager (Giunti 2017) di Lucia Patrizi

21 novembre 2017

final girlsSe è vero che quasi ogni genere cinematografico ha un suo omologo letterario da cui discende e di cui, con fare parassitario, si nutre, esistono dei sotto-generi e dei filoni che hanno avuto una propria genesi e vivono in totale autonomia. Uno di essi è di sicuro lo slasher, in cui al massimo si può trovare qualche traccia sparsa di Dieci Piccoli Indiani, ma che è assolutamente cinematografico di nascita. Un po’ come la figura dello zombie moderno, che ha dei debiti contratti con Matheson, ma esiste e prospera in quanto creatura concepita apposta per il grande schermo, anche gli assassini dello slasher sono stati visti per la prima volta in sala e non tra le pagine di un libro.
E tuttavia, mentre di romanzi a tema morti viventi ce ne sono in quantità industriale, la stessa cosa non si può dire di romanzi dichiaratamente slasher. A parte un paio di titoli come L’Isola di Richard Laymon e il thriller young adult I Know What you Did Last Summer di Lois Duncan, che però rientra nel genere più perché ne è stato tratto un film slasher che per le sue intrinseche caratteristiche da slasher, la narrativa di questo tipo è virtualmente inesistente.
La ragione è anche abbastanza semplice: lo slasher è un genere che, per avere una qualche efficacia, deve esprimersi attraverso le immagini. Il suo schematismo, la sua struttura fissa e codificata tramite regole rigidissime da cui è quasi impossibile fuggire e che bisogna essere davvero bravi per aggirare o forzare, funzionano molto bene al cinema, ma hanno meno possibilità in narrativa.
E così arriva Riley Sager (uno pseudonimo dietro cui si nasconde con ogni probabilità un uomo) e usa, sin dal titolo, l’elemento più riconoscibile dello slasher, la final girl, ovvero l’unica superstite di un massacro, colei che ha visto morire tutti i suoi amici ed è uscita viva, trionfante e coperta di sangue dall’incontro con l’assassino di turno.
Di final girl il cinema è pieno. Per comodità e risparmio di spazio, diremo che la capostipite di ogni final girl che si rispetti è la Jamie Lee Curtis di Halloween, fingendo di ignorare i numerosi precedenti. Dal 1978 in poi, innumerevoli ragazze hanno sconfitto altrettanti innumerevoli killer, cosa che di solito coincideva con la fine del film.
Sager ha invece l’ambizione di rispondere alla domanda che tutti gli appassionati di slasher si sono posti dopo i titoli di coda dei loro filmacci preferiti: cosa succede alla final girl una volta tornata a casa?
In realtà, la risposta a questa domanda l’aveva già data lo scrittore horror Stephen Graham Jones nel 2012, con il bellissimo The Last Final Girl, ma purtroppo il suo romanzo in Italia non è mai arrivato e non fa parte della narrativa mainstream.
Final Girls, al contrario, è un best seller tempestivamente tradotto in italiano e pronto per un adattamento cinematografico che la Universal ha programmato per l’anno prossimo.
Un successo, di pubblico e persino di critica.
Solo che non è uno slasher, non è un (se mi passate il termine applicato alla narrativa) un B-movie; per continuare con i paragoni cinematografici, Final Girls è il corrispettivo di quei thriller con un grande cast di star un po’ bollite, un regista da discount al servizio della produzione e degli alti valori produttivi. Roba da serie A, insomma. Roba da scaffale del supermercato. Roba da ombrellone. L’esatto opposto rispetto alla natura scalcinata e un po’ miserabile dello slasher. Non esistono slasher di serie A, lo slasher è serie B per definizione.

Appurato che Final Girls non è uno slasher quanto non lo è un qualsiasi romanzo sui serial killer, andiamo a vedere che relazione ha con lo slasher, perché è il genere cui fa riferimento fin dal titolo e da cui prende di peso situazioni e cliché, per poi andare in tutt’altra direzione.
La protagonista del romanzo è Quincy Carpenter (il cognome non è casuale), unica sopravvissuta al brutale assassinio di tutti i suoi amici: durante un fine settimana in una classica “cabin in the woods” all’insegna di festeggiamenti, alcol e sesso promiscuo, un paziente evaso da un manicomio nei dintorni ha ucciso, uno dopo l’altro, i ragazzi, mentre Quincy è riuscita a fuggire e ha avuto la fortuna di incontrare un poliziotto che ha sparato al killer poco prima che facesse fuori anche lei.
Sono passati dieci anni e Quincy ancora non ricorda nulla di quella notte: dal momento in cui la sua migliore amica le è morta tra le braccia a quello in cui l’agente l’ha salvata, nella sua memoria c’è un buco nero.
Quincy, nel frattempo, è diventata una blogger di cucina con un discreto seguito e, grazie al risarcimento ottenuto dalla direzione dell’istituto che si era lasciato scappare l’assassino, vive da benestante in un lussuoso appartamento a New York, con un compagno che la adora e il poliziotto responsabile di averle salvato la vita che forse è innamorato di lei e accorre ogni volta che ne ha bisogno.
Quincy non è l’unica final girl che incontreremo nel corso del romanzo. Altre due donne infatti condividono un destino simile: Lisa, sopravvissuta al massacro di tutte le sue consorelle negli anni ’90, e Sam, che è riuscita ad avere la meglio su un assassino introdottosi nell’hotel dove faceva la cameriera durante il turno di notte.
La notizia del suicidio di Lisa dà il via alla narrazione vera e propria, alternata alla frammentaria ricostruzione della notte in cui Quincy è diventata una final girl.
La struttura è quindi quella del thriller investigativo più che dello slasher: cosa è successo davvero a Quincy dieci anni fa? Perché Lisa si è uccisa? Si è veramente uccisa? E cosa vuole da Quincy l’altra final girl rimasta, Sam, che un bel giorno si presenta a casa sua con lo scopo apparente di aiutarla a ricordare?
Ovvio che la parte di maggiore interesse sia quella relativa al passato, perché è lì che Sager gioca davvero con il materiale da slasher. Il resto del romanzo è una fiacca serie di indagini condotte da una protagonista ai limiti del sostenibile e da personaggi di contorno privi di qualunque spessore o interesse.

Si dice che lo slasher sia un sotto-genere fortemente reazionario e misogino: un assassino, il più delle volte mascherato, si accanisce su giovani che vogliono solo divertirsi, colpendo con più ferocia le donne ed eliminando quelle che si danno con gioia al sesso promiscuo, mentre la final girl sopravvive in virtù della sua purezza.
Questo è uno schema valido, difficile negarlo. Eppure il paradosso dello slasher, nonché gran parte del fascino che ancora esercita sul pubblico, sta proprio nel fatto di aver regalato al cinema una galleria di personaggi femminili difficili da dimenticare. Le varie final girl cinematografiche (e non soltanto loro: tutti ricordano con affetto Wendy di Prom Night e Lynda e Annie di Halloween, tanto per nominare le prime che mi vengono in mente) hanno tutte un tratto distintivo che le accomuna, e che avrebbe sintetizzato magnificamente Sidney Prescott nel secondo Scream: sono delle guerriere, sono delle combattenti; non si limitano a stare nascoste o a scappare mentre attorno a loro muoiono tutti malissimo, no. Loro contrattaccano, mettono in difficoltà l’Uomo Nero di turno, lo superano in astuzia, riescono, pagando un prezzo altissimo, a neutralizzarlo. Almeno fino al capitolo successivo.
Quincy non è una final girl e non si merita questo status: lei non si è salvata da sola, è stata tirata fuori dai guai da un cavaliere maschio in scintillante armatura e distintivo.
È qui che un romanzo mediocre, tuttavia, piazza il suo colpo di genio: Final Girls non risponde alla domanda su che cosa accada a una final girl dopo essere sopravvissuta; al contrario racconta la formazione di una final girl. Nel momento in cui le due linee temporali si incontrano, nelle pagine conclusive del romanzo, Quincy, l’insopportabile, passiva, autoindulgente Quincy, si trasforma nella final girl che avrebbe dovuto essere dieci anni prima. È lì che il libro diventa il B movie che tutti volevamo che fosse.
Purtroppo questa bella svolta narrativa arriva tardissimo e, per vederla concretizzarsi sulle pagine, tocca aspettare un po’ troppo.
Final Girls è un ibrido citazionista costruito con una certa maestria, pieno di riferimenti cinematografici che dimostrano che almeno Sager ha studiato e sa di cosa sta parlando. Ma annega in un mare di ovvietà e in un colpo di scena finale telefonato sin dalle prime pagine. È comunque interessante per chi ama il genere di riferimento vedere come la materia perda un po’ in efficacia quando passa dal grande schermo alla pagina scritta.
Non tutti sono Richard Laymon e non tutti hanno la volontà di far narrativa marginale per definizione e scelta.
In fin dei conti, Final Girls è un romanzo adatto a chi non guarderebbe mai film come Terror Train o Sleepaway Camp senza sentirsi un po’ sporco, ma che vuole comunque provare qualche brivido da serie B standosene tranquillo nei ranghi della narrativa generalista.

Riley Sager vive a Princeton, New Jersey. Prima di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura ha lavorato come editor e graphic designer. Final Girls è in corso di traduzione in 14 Paesi.

Lucia Patrizi è l’autrice del blog Il giorno degli zombi- cinema horror e velleità culturali.

:: Il libro del male, James Oswald, (Giunti, 2015) a cura di Giulietta Iannone

16 febbraio 2015
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Lasciando la chiesa in rovina si addentrò nel cimitero. Le lapidi si ergevano sbilenche, come se i monaci sepolti lì sotto tentassero di rialzarsi e riprendersi quello che un tempo era stato loro. Alcune erano antiche, i solchi delle incisioni ormai consumati e sbiaditi, su altre si leggevano ancora chiaramente i nomi degli uomini che commemoravano. Erano iscrizioni semplici, senza sentimentalismi. Solo un nome, una data, una preghiera. Alcune indicavano il ruolo svolto nella comunità – apicoltore, pescatore, erborista. L’ultima lapide attirò la sua  attenzione. McLean non si sorpese affatto. Finalmente tutto aveva un senso.

Nascono come ebook autoprodotti i romanzi polizieschi dello scozzese James Oswald, barbuto allevatore di bovini e pecore (per la precisione Highland Cattle e New Zealand Romney Sheep) nella contea di North East Fife. Scrittore per caso dunque, che con il suo primo thriller della serie dell’ispettore McLean, Nel nome del male, è riuscito a fare tutto quello che gli autoprodotti sognano, vendere 350.000 copie nel giro di poche settimane, e sia con Nel nome del male, che con il successivo Il libro del male (libro che ho avuto occasione di leggere e di cui parlerò in questa recensione) rientrare come finalista del concorso di opere inedite organizzato dalla Crime Writer’s Association.
Come è noto i grandi editori sono a caccia dei successi del web e così è capitato ai libri di Oswald, (a tutt’oggi ne sono disponibili quattro: Natural Causes e The Book of Souls, e gli inediti in Italia The Hangman’s Song e Dead Men’s Bones) i diritti di tutta la saga sono infatti stati acquistati dalla Penguin Random House, e in Italia da Giunti.
Acclamato in patria come l’erede di Ian Rankin, ma è stato accostato anche ad autori come Val McDermid, Peter James e Stuart McBride, James Oswald è un autore che non disdegna componenti horror e paranormali nei suoi crime (è anche autore di una epic fantasy series), e se vogliamo si discosta un po’ dalla cosiddetta ortodossia del tartan noir. Resta piacevole la lettura? Senz’ altro e anche la piana e scorrevole traduzione di Leonardo Taiuti non guasta.
Ambientato a Edimburgo, a gloomy and dark town, Il libro del male (The Book of Souls, 2013) è il secondo libro della serie, seppur può essere letto come uno stand-alone. Donald Anderson, il killer di Natale, ormai al sicuro in carcere, muore accoltellato al cuore dal suo compagno di cella. Per Tony McLean una liberazione, anche la fidanzata dell’ispettore fu una delle vittime del killer, ma il senso di sollievo non dura a lungo. Dodici anni dopo la cattura di Anderson, all’avvicinarsi delle festività natalizie il corpo di una giovane donna viene ritrovato vicino a un ponte: nuda, lavata, con la gola squarciata. Stesso modus operandi del killer di Natale. Ma non può essere lui, McLean ha visto di persona la bara di Anderson scendere nella fossa.
I dubbi dell’ispettore subito si moltiplicano: c’era davvero lui nella bara? c’è un imitatore in città che segue le orme del Killer di Natale?, ma soprattutto era davvero Anderson il Killer di Natale? E poi perché McLean continua a vedere Anderson in giro per le strade di Edinburgo? Sta impazzendo e comincia a vedere i fantasmi? A complicare il tutto l’azione di un piromane, che continua a disseminare la città di acre fumo nero e la visita di misterioso monaco che farnetica di un libro capace di disseminare la morte.
Sicuramente originale.
In libreria dal 25 febbraio 2015.

Elena Romanello

Dopo il successo di Nel nome del male, torna l’ispettore McLean dell’autore scozzese James Oswald, per una storia che si svolge circa dieci anni dopo la prima indagine, prima autopubblicata dall’autore e poi diventata un best-seller editoriale.
Di nuovo, la grande protagonista è Edimburgo, la capitale della Scozia, qui vista nei suoi aspetti più sporchi e degradati, lontani mille miglia dell’idea che ne ha un visitatore e da quella che viene propagandata come idea nel mondo, ma non per questo meno affascinante.
Il secondo capitolo si aggancia al primo, dove McLean era riuscito a catturare il cosiddetto serial killer di Natale, l’insospettabile libraio antiquario Donald Anderson, non prima che questi uccida come ultima vittima Kristy, la fidanzata del poliziotto. Anderson muore in cella, e da quel momento iniziano ad avvenire omicidi sempre di donne, diversissime tra loro come età, vita e provenienza sociale, più ravvicinati ma con le stesse modalità di Anderson. In parallelo, McLean verrà contattato da un misterioso ex monaco che gli parlerà di un antico libro capace di stravolgere la mente di chiunque lo prenda in mano.
Il libro del male è una storia interessante, che si inserisce bene nel thriller, con echi di Ian Rankin e comunque di tutta la narrativa in tema con taglio realistico, portando il lettore per mano in tanti inferni quotidiani, esterni ed interni ai personaggi. Il tema del serial killer, soprattutto di donne, non è nuovo, ma l’autore riesce a trattarlo in maniera non banale e scontata, non togliendo nulla alla suspense e alla devastazione di queste storie.
A tutti questi elementi realistici, il romanzo aggiunge, scombinando le carte, alcune tematiche esoteriche e paranormali, con la storia del libro del male, sorta di grimorio alla Lovecraft, che ispirerebbe le azioni peggiori, e con un finale aperto a nuovi sviluppi, più vicino ad X-Files comunque che a romanzi più sensazionalistici di Dan Brown e Glenn Cooper, anche se la spiegazione resta ambigua e può essere alla fine molto più razionale di quello che si pensa.
Nel complesso Il libro del male, godibile anche se non si conosce il primo libro a cui ci sono comunque riferimenti continui e sul quale si rimane informati (o spoilerati, come si suol dire), è un thriller di sicuro interesse, il secondo di una serie, perché troveremo senz’altro l’ispettore McLean in qualche altra storia. E meno male, perché il suo è un personaggio davvero interessante, un antieroe dolente e un vinto in cerca di verità e di una giustizia non trionfalistica ma che per un attimo gli scaldi il cuore.

James Oswald vive in una fattoria in Scozia, dove nel tempo libero si dedica all’allevamento. Per vent’anni ha scritto solo per passione, finchè un giorno ha deciso di autopubblicare su Amazon il primo thriller della serie dell’ispettore McLean, Nel nome del male: nel giro di pochi mesi l’e-Book è stato scaricato da oltre 350.000 lettori. Questo incredibile successo ha attirato l’attenzione di Penguin, che con un’offerta altissima ha acquistato i diritti di tutta la serie, poi venduta in 12 Paesi. Un successo mondiale, confermato da questo secondo episodio, Il libro del male, che ha suscitato grande entusiasmo di critica e pubblico.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Maya di BizUp.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.