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:: JOHANNE LYKKE HOLM: STREGA (NN editore) a cura di Fabio Orrico

24 Maggio 2023

Mi chiedo se Johanne Lykke Holm (svedese, classe ’87), autrice esordiente di Strega conosca Suspiria, il cult horror diretto dal nostro Dario Argento nel 1977. Fatta salva la decisione di usare un vocabolo italiano per dare il titolo al suo libro, ci sono almeno un paio di sequenze in cui la pellicola argentiana sembra venire citata esplicitamente. Durante una delle scene più cupe e allucinate, la protagonista Rafaela vede “una ragazza sanguinante pendere dal soffitto” (il riferimento sarebbe in questo caso al primo omicidio messo in scena nel film) mentre qualche pagina prima si fa riferimento a un segreto e a un iris (e chi conosce Suspiria sa che questo fiore rappresenta una svolta nella decodifica dell’intreccio). Naturalmente la risposta alla domanda posta in apertura non toglie nulla alla malìa esercitata da questo romanzo così originale e inquietante. Johanne Lykke Holm, va detto, guarda a una tradizione ben precisa seppur sotterranea. Una tradizione così ben codificata da poter costituire un sottogenere e che potremmo definire sintetizzando al massimo Ragazze-chiuse-in-un’istituzione-concentrazionaria sia essa una scuola, un collegio, un educandato o, come nel nostro caso, un albergo. Nel libro di Holm sentiamo riverberare il grande modello di Mine-Haha di Franz Wedekind, da cui eredita suggestioni e senso dell’assurdo ma anche il Picnic ad Hanging Rock di Joan Lindsay poi filmato da Peter Weir e, spostandoci nei territori della celluloide aldilà del classico argentiano, arriviamo a lambire opere spurie come Innocence di Lucile Hadzihalilovic o Zombi child di Bertrand Bonello senza dimenticare il bellissimo remake di Suspiria firmato da Guadagnino.

Rafaela, diciannovenne, viene spedita dai genitori all’hotel Olimpyc per lavorare come cameriera durante la stagione invernale. Siamo sulle alpi, accanto all’albergo c’è un monastero gestito da suore e un paese, Strega appunto, che è necessario attraversare per raggiungere il posto di lavoro e che diventa teatro di sporadiche quanto enigmatiche uscite sociali di Rafaela e delle sue nove colleghe e coetanee. La trama è tutta qui, l’unico significativo punto di svolta si può rintracciare nella scomparsa di Cassie, una delle ragazze, e che darà origine a una sorta di depotenziata deriva gialla. Per il resto l’hotel Olimpyc si dimostra ben presto una variante della Fortezza Bastiani in cui le ragazze devono aspettare non meglio precisati ospiti e tenersi pronte per dimostrarsi servizievoli e professionali, pena il ricorso da parte delle figure dirigenziali (Rex, Costas e Toni, donne dal confine sessuale incerto fin dal nome) a pene corporali inflitte nella più assoluta indifferenza.

Il fascino e la solidità di Strega non stanno quindi in cosa si racconta ma in come lo si racconta. La prosa inventiva, densa, stratificata di Holm si muove a trecentosessanta gradi richiamando ogni possibile appiglio sensoriale, sceglie metafore incongrue e sincopate, crea sintesi impossibili. Nel mondo di Rafaela tutto è virtualmente possibile anche se, allo stesso tempo, tutto è mortalmente immobile. Una visita al bar del paese dà origine a un grappolo di incubi, una sorta di nastro trasportatore di immagini surreali che sembra riverberare il ricordo del cinema delle origini. Anche l’occorrenza più banale, l’esplorazione di un interno casalingo, può spalancare un immaginario goticheggiante: “C’era odore di tarmicida, di mattatoio. Non riuscivo a vedere dove conducesse la scala, ma osservando quel rosso sentivo il terrore crescere dentro di me, come quando si entra in una stanza e si ha la percezione che sia infestata da spiriti maligni. Seduti sulle sedie, i fantasmi bevono acqua dai bicchieri e aprono la frutta con le mani. Mi sporsi per guardare in alto, ma c’era soltanto un’opaca penombra”.

Difficile dire in che epoca sia ambientato Strega. Su questo Holm è volutamente reticente e punta a creare un luogo senza tempo, collocabile nell’arco degli ultimi due secoli mantenendo una grande coerenza interna, a tratti messa in discussione dall’uso di termini decisamente contemporanei (uno per tutti: femminicidio). L’autrice crea una sorta di fiaba gotica definitiva proprio perché svincolata dalle più urgenti esigenze di trama e percorsa da una costante sensazione di minaccia. Senza anticipare nulla (ma il concetto di spoiler applicato al romanzo di Holm è semplicemente ridicolo) vorrei dire che anche l’ultima parola dell’ultima riga dell’ultima pagina di Strega vibra di tensione e rilancia una suspense che non riposa su nulla di concreto e definibile e, forse proprio per questo, risulta quasi tattile. Un esordio straordinario.

:: Costruisci la tua casa intorno al mio corpo di Violet Kupersmith (NN editore 2023) a cura di Fabio Orrico

15 marzo 2023

Spesso la nozione di genere è un fardello, un qualcosa di troppo se forzatamente applicato a determinate narrazioni. Allo stesso modo, esistono romanzi che, pur esondando da etichette e mode, rispondono con intelligenza alla logica di genere ma rifiutando di accoglierla in toto e piuttosto facendone uso soltanto laddove lo si ritiene utile. Mi sembra che l’esordio della giovane (classe ’89) quanto talentuosa Violet Kupersmith si muova proprio in questa direzione. Innanzitutto, il titolo, bellissimo e labirintico: Costruisci la tua casa intorno al mio corpo, un titolo interlocutorio e assertivo e insieme una sorta di invocazione al gesto pensante del lettore. Il romanzo di Kupersmith (d’ora in poi per comodità taglio il titolo riducendolo alla prima parola, Costruisci) lavora ostinatamente sul concetto di confine. Non sono confini geografici, che sarebbe il minimo, visto che Winnie, la ragazza al centro della storia, lascia l’America per raggiungere il Vietnam e spostarsi occasionalmente in Cambogia. Il confine che più significativamente tratta Kupersmith è un confine fisico e riguarda il proprio corpo, l’ultimo strato di pelle che ci protegge dalle insidie del mondo; il confine della propria scatola cranica che segna il passo prima che pensieri impossibili si impadroniscano della nostra volontà raziocinante. Ho cominciato parlando di genere perché qui abbiamo topoi fieramente branditi ma anche questi a rischio di continuo sconfinamento. Il romanzo di formazione si fonde con l’horror o con una più generica atmosfera da urban fantasy e allo stesso tempo non credo sarebbe sbagliato definire Costruisci come una lunga e stratificata ghost story in cui i fantasmi, tale è la potenza della prosa di Kupersmith, sembrano principalmente trovarsi fra le persone vive.

La scrittura dell’autrice, americana di origine vietnamita esattamente come la sua protagonista, è rarefatta e vischiosa; leggere le vicende di Winnie in terra straniera restituisce a noi lettori lo stesso spaesamento della ragazza e in questo senso l’autrice raggiunge vette di autentico virtuosismo descrittivo: l’evocazione della routine vietnamita, gli scorci di uno Saigon a tratti immobile a tratti sincopata, sono punti di forza del romanzo e forse rappresentano anche il mezzo più efficace per tenere insieme una trama che tende naturalmente alla digressione se non addirittura alla dissipazione. Se infatti possiamo rintracciare in Winnie e la sua improvvisa scomparsa il cuore della narrazione, dobbiamo tenere a mente che Costruisci è un romanzo corale, una storia di storie, che attraversa almeno settant’anni di cronaca vietnamita, colonialismo, guerra, assetti politici mutati e soprattutto un profondissimo senso del folklore che apre la porta a visioni orrorifiche. Bisogna fare attenzione a parlare di Costruisci e non perché, banalmente, si rischia di spoilerare parti della trama, quanto perché i colpi di scena non sono messi lì per sorprendere il lettore ma semmai per misurare la tenuta della sua sospensione dell’incredulità, la sua propensione a lasciarsi trascinare da un continuum di avvenimenti radicati in una cultura di cui tutto sommato, almeno nelle nostre contrade, si sa poco. Violet Kupersmith, infatti, attraverso l’odissea di Winnie, sembra voler fare i conti con le proprie radici a tutti i livelli, culturali ma anche naturali e in questo senso non può essere un caso l’insistenza con cui ci viene descritta la natura vietnamita. Organizzato per imponenti blocchi narrativi, sostenuti da una suspense discreta quanto ammorbante, Costruisci definisce il ritratto di una giovane donna a partire dal suo scomparire. Da lì in poi sarà solo indagine, ricordo, rievocazione, il tutto incastrato in almeno altre tre linee narrative di pari importanza e teletrasportate lungo il novecento asiatico per oltre quattrocento pagine. È un romanzo, Costruisci la tua casa intorno al mio corpo, che pretende attenzione dal suo lettore ma che sa rifonderlo con gli interessi in termini di suggestione e malìa.

Violet Kupersmith (1989) è una scrittrice americana di origine vietnamita. Tra il 2011 e il 2015 ha vissuto in diverse città del Vietnam, e nel 2014 ha esordito con la raccolta di racconti The Frangipani Hotel. Tra il 2015 e il 2016 è stata “creative writing fellow” alla University of East Anglia, mentre nel 2022 ha ricevuto la fellowship del National Endownment for the Arts. Selezionato per il First Novel Prize del Center for Fiction, per il Women’s Prize for Fiction, e vincitore del Bard Fiction Prize, Costruisci la tua casa intorno al mio corpo è il suo primo romanzo.

Source: libro inviato dall’editore al recensore. Ringraziamo Francesca Ufficio stampa NN.

:: Che razza di libro! Jason Mott (NN editore, 2022)A cura di Viviana Filippini

21 giugno 2022

“Che razza di libo!” Un titolo, ma anche l’esclamazione che ogni tanto ti balza per la testa leggendo appunto “Che razza di libro!” di Jason Mott, edito da NN editore. Il lettore segue passo passo le vicende di questo scrittore americano dalla pelle nera che ha appena pubblicato un libro di grande successo e che sta girando gli Stati Uniti d’America per presentarlo. Durante il tour promozionale il protagonista non si fa mancare nulla: scappatelle amorose, interviste, sbronze pazzesche, situazioni che evidenziano un progressivo andare verso la sregolatezza. A mettere un po’ un freno alla dissolutezza del noto scrittore compare dal nulla, così sembra, questo ragazzino con la pelle scura, ma così scura da essere vista come una peculiarità sua ed esclusiva. Lo scrittore ascolta questo giovanotto che ha scelto di essere invisibile ai più, ma che ad ogni comparsata gli racconta un pezzo della sua vita  e getta nel panico l’affermato autore perché lui, conoscendosi bene, si domanda se quello che sta vivendo sia un sogno o realtà e se quel ragazzino che parla lo sente solo lui o anche gli altri che gli stanno attorno. Lo scrittore protagonista della storia si tormenta con tali domande per il semplice fatto che è conscio di essere affetto da una strana sindrome che gli impedisce di capire dove finisce il confine tra realtà e fantasia, ed è convito che forse quel ragazzino dalla vita non tanto facile sia reale, ma il dubbio che lo tormenta lo spinge di continuo a chiedersi se lo è davvero. Vero è che questa storia dal ritmo serrato porta chi legge a zonzo per gli Stati Uniti d’America in situazioni a volte davvero a limite del surreale e Mott mette in campo diversi temi come la diversità, il razzismo del passato radicato ancora nel presente e rivolto verso coloro che sono identificati come i diversi, unito agli effetti che tale pregiudizio scatena in chi li subisce e sulla società. Il lettore immerso nelle pagine potrebbe quindi davvero trovarsi ad esclamare: “Che razza di libro!”, perché durante la lettura si ha come la sensazione che lo scrittore, alle prese con quel ragazzino con la pelle scura e con un passato di sofferenza alle spalle, stia facendo i conti con il suo io bambino. Mettendo assieme le caratteristiche dei protagonisti della storia e di chi l’ha scritta nella realtà, non è difficile pensare che lo scrittore del libro sia lo stesso Mott e allora sì che ci sta l’esclamazione: “Che razza di libro!” (detta in senso buono e positivo), perché la geniale struttura narrativa creata da Mott porta chi legge  a scoprire una storia nella storia, un libro che racconta come è nato lo stesso libro in lettura. Ecco che quello scrittore tra le pagine, impegnato in un serrato faccia a faccia con quel misterioso bambino senza un nome preciso, mi ha dato la sensazione di un adulto alla prese con la sua coscienza più pura, libera da paletti e pregiudizi che richiama l’autore protagonista nel libro, l’autore del libro (Mott) e anche il lettore odierno diventato uomo adulto a ritrovarsi e a non scordarsi del proprio passato e delle proprie radici.  

Jason Mott è uno scrittore americano, autore di romanzi e poesie. Che razza di libro! è stato selezionato in diversi premi, tra cui il Carnegie Medals for Excellence in Fiction, l’Aspen Words Literary Prize, il Joyce Carol Oates Prize. Ha vinto il Sir Walter Raleigh Prize for Fiction e il National Book Award for Fiction 2021. “Che razza di libro!” Romanzo vincitore del National Book Award 2021. Questo libro è per chi ha inventato un pianeta senza nome, un luogo felice dove riconoscersi e sentirsi finalmente a casa.

Source: richiesto dal recensore. Grazie all’ufficio stampa NNeditore

:: L’albero della nostra vita, Joyce Maynard (NNeditore2022) A cura di Viviana Filippini

29 aprile 2022

Tutto parte nel presente, da una casa di campagna nel New Hempshire sotto ad un immenso frassino. Poi, all’improvviso, ci si trova nella stessa abitazione verso la fine degli anni Settanta dove c’è già il frassino, testimone muto, paziente e silenzioso di quello che sembra un luogo fatato, dove la protagonista cerca di dimenticare i dolorosi spettri del proprio passato (la perdita dei genitori e violenze subite) per trovare finalmente la propria pace. Lei è Eleanor, una giovane donna illustratrice di libri per bambini. In questo modo ci si addentra in “L’albero della nostra vita” della scrittrice americana Joyce Maynard, edito da NN, che sviluppa la sua trama attorno alle vicende familiari di Eleanor e di Cam, un giovanotto dai capelli rossi che cambierà per sempre l’esistenza di colori e disegni della giovane solitaria. Quello che colpisce del romanzo della Maynard è la sua capacità di creare una trama narrativa in grado di accompagnare, passo dopo passo, il lettore nella vita della protagonista e di coloro che le stanno attorno. Eleanor, Cam, Alison, Ursula, Toby, sono una famiglia i cui caratteri cambieranno nel corso degli anni, a dimostrazione che per l’autrice queste creature letterarie sono simili in tutto e per tutto, per la loro complessità psicologica e emotiva, ai lettori. A scompaginare ogni cosa basterà un fatto accaduto a Toby, un evento che avrà conseguenze irreparabili per tutti quanti. Eleanor, attanagliata dal dolore  e anche dal rancore verso il marito che quel giorno avrebbe dovuto occuparsi di Toby, una volta scoperte verità dolorose e inconfessabili ai figli si chiuderà sempre più nel suo silenzio e nel suo mondo lavorativo, allontanandosi ma mantenendo  sempre viva l’attenzione verso i suoi bambini, quei consanguinei che non comprenderanno fino in fondo (in una prima fase) le sue azioni di cambiamento di vita e quel suo proteggerli in modo perenne da ciò che potrebbero faticare ad accettare e che potrebbe farli soffrire più di quanto loro riescano ad immaginare. Il romanzo della Maynard è lo spaccato di vita di una famiglia americana dagli anni Settanta a oggi, nel quale riecheggiano fatti politici, eventi spaziali come il disastro del Challenger, il video “Thriller” di Michael Jackson tutto da imparare e ballare e quel bisogno di viaggiare per trovare davvero la pace con il proprio io e con ciò che circonda. Nel libro si parla di una donna, però si racconta pure della sua vita di coppia; del vero amore che non muore mai nonostante tutti gli ostacoli; del senso di responsabilità sempre presente -forse troppo, qualcuno potrebbe dire- per Eleanor e di quell’ essere perennemente bambino un po’ incosciente del marito Cam. Altro aspetto interessante sono i figli della coppia con Alison, un po’ scontrosa e minata dalla sensazione di non sentirsi al posto giusto, o meglio, nel corpo giusto. Ursula, l’ipersensibile super patita dello spazio che non sempre riuscirà ad accettare le dolorose verità della madre. Toby che con il suo piede palmato riuscirà a lasciare un segno evidente nelle vite di chi lo ha conosciuto prima e dopo il tragico fatto che lo ha per protagonista. Attorno a loro tanti altri personaggi comprimari, alla ricerca di pace e tranquillità, i cui destini si intrecceranno in modo impensabile alla vita di Eleanor e Cam. “L’albero della nostra vita” di Joyce Maynard corre via veloce ed è una storia quotidiana con protagonista una donna, la sua famiglia e la provincia americana. Una storia singola che diventa corale e nella quale l’illustratrice  Eleanor, grazie alla sua garbata tenacia e forza d’animo, riuscirà a rimettere assieme tutti i cocci della sua vita. Traduzione Silvia Castoldi.

Joyce Maynard è una scrittrice e sceneggiatrice americana, giornalista per il New York Times, Vogue, O, The Oprah Magazine, e The New York Times Magazine. Ha pubblicato diciassette libri, tra cui At Home in the World, che racconta la sua relazione da giovanissima con J.D. Salinger. Il suo romanzo To Die For è diventato il celebre film Da morire, così come Labor Day, di prossima pubblicazione per NNE, è stato portato sul grande schermo da Jason Reitman.

Source: richiesto dal recensore. Grazie a Francesca Rodella dell’ufficio stampa NNeditore.

:: DEBORAH LEVY: L’UOMO CHE AVEVA VISTO TUTTO (NN editore, 2022) a cura di Fabio Orrico

4 febbraio 2022

Già nota ai lettori italiani grazie a Garzanti che ha tradotto A nuoto verso casa (2014) e Come l’acqua che spezza la polvere (2018), Deborah Levy è una scrittrice inglese che ama focalizzarsi su un momento decisivo, un punctum barthesiano che marchia le sue storie. Questa epifania può riferirsi semplicemente a un avvenimento o a una situazione esistenziale o, come in A nuoto verso casa, concretizzarsi in un’immagine ben precisa (una donna a mollo in una piscina, nella fattispecie) ed è il caso anche di L’uomo che aveva visto tutto, pubblicato da NN editore.

Saul Adler, il protagonista del libro, viene immortalato dalla sua fidanzata Jennifer Moreau, giovane artista, mentre attraversa la strada sulle strisce pedonali di Abbey Road, mimando quindi la famosa copertina dell’omonimo album dei Beatles. Mentre compie quest’azione viene investito da un’auto. Così si apre il romanzo di Levy ma la stessa situazione si ripete identica in apertura della seconda parte. Il primo incidente avviene nel 1988, il secondo ai giorni nostri; la palizzata d’anni che separa i due traumi contiene, di fatto, il cuore di L’uomo che aveva visto tutto. Cominciamo dal titolo, che ha un sapore fantascientifico, quasi dickiano. Saul ha visto tutto, come e perché non è bene rivelarlo per ovvie ragioni di godibilità della lettura, basti dire che il suo resoconto (il romanzo è narrato in prima persona) vive dei mille riflessi e delle schegge improvvise di un prisma o, meglio ancora, ha l’aspetto di uno specchio in frantumi. L’esercizio che Levy chiede al lettore è quello di ricomporre questi frammenti affinché Saul possa specchiarcisi e rivelare la sua esatta fisionomia.

Giovane storico, Saul si trasferisce a vivere nella Germania dell’Est immediatamente prima che crolli il muro di Berlino ed esploda un assetto geopolitico che, in qualche modo, è stato alla base della sua formazione. Figlio di un attivista del partito comunista, Saul si addentra nello studio della storia con la stessa ansia di decodifica che informa i suoi ricordi. Levy descrive il suo eroe a più riprese come una sorta di rockstar, forse in ritardo di un decennio, per atteggiamenti e look, rispetto ai tempi in cui agisce (gli anni ’80). Inquieto e dagli atteggiamenti gender fluid, Saul identifica nel padre e nel fratello Matt i detentori della sua scatola nera di uomo, un vero e proprio scrigno di segreti che, fatalmente, peseranno sui rapporti intrattenuti con gli altri personaggi del romanzo. Straordinaria la parte ambientata a Berlino Est, interamente percorsa dal gioco a tre di Saul e dei suoi amici Walter e Luna. Un rapporto in cui i non detti contano quanto e più delle ammissioni esplicite e che si aggancia, come d’altra parte tutta la narrazione, a occorrenze più volte ripetute, oggetti comuni, per esempio un ananas, spie di qualcosa che non torna, specie in termini strettamente temporali. La realtà filtrata dallo sguardo di Saul è sempre più asimmetrica, incongrua, e dal nulla arrivano le profezie del nostro protagonista, il suo sereno sentenziare sugli avvenimenti storici che, per tutti gli altri protagonisti, altro non sono che contemporaneità. Il capitale accumulato nella prima parte di L’uomo che aveva visto tutto, verrà fatto fruttare nella seconda parte, dove i nodi verranno al pettine e chi in precedenza è stato un figurante acquisterà nuovo spessore.

Libro sulle realtà possibili e sui percorsi alternati, L’uomo che aveva visto tutto mescola le carte della sua narrazione con precisione e naturalezza, senza mai perdere d’occhio il proprio possibile lettore che, come se assistesse a una sparatoria filmata da Michael Mann, anche laddove il montaggio si fa concitato, sa sempre orientarsi perfettamente e decifrare che cosa succede a chi. Grande dono di Debora Levy, scrittrice che possiede l’intelligenza del labirinto.

Deborah Levy (1959) è tra le maggiori scrittrici inglesi. Nata in Sudafrica, è autrice di romanzi come A nuoto verso casa (Garzanti 2014), finalista al Man Booker Prize, e Come l’acqua che spezza la polvere (Garzanti 2018). L’uomo che aveva visto tutto è stato selezionato per il Man Booker Prize 2020 ed è entrato nella short list del Goldsmiths Prize 2019. NNE pubblicherà anche il suo prossimo romanzo.

Source: libro inviato dall’editore al recensore. Ringraziamo Francesca dell’Ufficio stampa NN editore.

:: Hard Cash Valley di Brian Panowich (NNEditore 2021) a cura di Fabio Orrico

28 febbraio 2021

Si arricchisce di un nuovo volume la toponomastica letteraria di Brian Panowich, scrittore americano fautore di un noir capace di flirtare, in quanto a senso del paesaggio e consapevolezza della tradizione, a più riprese col western. Dopo il grande dittico su Clayton Burroughs e la sua famiglia criminale era fisiologicamente impossibile restare a simili altezze ma Hard Cash Valley decisamente non è un titolo di secondo piano. La figura di Burroughs è ancora presente a un livello quasi mitopoietico e l’ombra del suo retaggio di violenza famigliare si stende anche su questa storia. Detto ciò, è bene rimarcare che Hard Cash Valley è testo del tutto autonomo e mette in scena un protagonista, il capitano di polizia Dane Kirby, la cui parabola è meno arroventata di dolore cosmico rispetto a quella dello sceriffo Burroughs ma non certo tranquilla né pacificata. Anche Kirby sconta il suo fatal flaw: ha perso infatti l’amata moglie e la figlia in un incidente stradale e il fantasma del perduto amore finisce per giocare una parte importante anche nel suo presente, condizionandolo e in parte addirittura indirizzandolo.
Chiamato sul luogo di un delitto commesso da un vecchio amico, Kirby si trova improvvisamente a dover gestire un’indagine che ha il suo epicentro proprio nella comunità in cui vive. Accanto a lui l’agente dell’FBI c’è Roselita Velazquez, una sbirra tosta e dal brutto carattere. Arnold Blackwell, un criminale di piccolo cabotaggio ha fatto saltare il banco dello Slasher, sorta di superbowl dei galli da combattimento, vincendo in pratica tutte le scommesse. L’incasso sfiora i due milioni di dollari. Sulle sue tracce si sono buttati due spietati sicari filippini e un misterioso assassino nerovestito. Imprevedibilmente, si scopre che la mente del colpo è William, fratello undicenne di Arnold affetto dalla sindrome di Asperger, un piccolo genio la cui mostruosa capacità di calcolo fa gola a uomini avidi di soldi e dai pochissimi scrupoli. Come sempre, Panowich è straordinario nel delineare il milieu delle sue storie. Dane, di fatto, è un Virgilio incaricato di far orientare poliziotti meno esperti nel suo mondo, quell’Hard Cash Valley che domina il romanzo fin dal titolo, segnandone i confini geografici.
Costruito su una progressione tanto incalzante quanto fascinosa, il libro di Panowich non dà veramente un attimo di tregua. Come sempre, il mondo del narratore statunitense non è un posto facile in cui vivere. Tradimenti e crudeltà sono dietro l’angolo e l’unica nota di conforto viene dalla lealtà che, quasi in maniera illogica, sedimenta il percorso di alcuni personaggi. Lealtà e amore, sembrano queste le bussole usate da Panowich per resistere al caos e allo sfacelo di un paese che ha messo il Dio Denaro in cima al suo sistema di valori. Il tema del denaro è calcato con insistenza. Attorno ai soldi scomparsi dello Slasher si inscena una vera e propria danza macabra in cui si uccide senza passione e forse senza risentimento. Per i protagonisti di questa storia, la violenza è principalmente una professione. Proprio per questo risalta con maggior forza l’idealismo di Dane Kirby, come dicevamo personaggio meno tragico di Clayton Burroughs ma altrettanto affascinante. A parte Dane, in Hard Cash Valley nessuno è quello che sembra ma, e qui sta la dimensione morale di uno scrittore come Panowich, a tutti è concessa una redenzione. Come un moderno (e incanaglito) Zola, Panowich osserva al microscopio i suoi eroi per constatare se e in che modo questa occasione può essere colta ed eventualmente quanto sia alto il prezzo da pagare per afferrarla. Il romanzo ha una vertiginosa accelerazione nelle ultime cento pagine, dove il ritmo delle agnizioni e le logiche causa-effetto hanno forse troppi punti di accumulo. Ma è il peccato veniale di un libro che se sbaglia, lo fa per generosità. In effetti, la grandezza di Panowich è confermata dalla sua voglia di sperimentare. Dopo due romanzi cupi e oscuri come i precedenti, ha in parte alleggerito i toni (solo in parte però, perché la violenza è messa in scena senza scorciatoie né volontà di edulcorare) e privilegiato lo scavo psicologico di protagonisti più sfaccettati. Se mi perdonate l’icasticità dell’affermazione, direi che i precedenti Bull Mountain e Come leoni erano una sorta di antico testamento noir di cui Hard Cash Valley leviga qualche asperità, pur mantenendone intatta la malìa.

Brian Panowich è stato per anni un musicista itinerante prima di fermarsi in Georgia, dove vive tuttora e lavora come pompiere. Il suo romanzo d’esordio, Bull Mountain, pubblicato da NNE nel 2017, è stato finalista nella categoria Mystery/Thriller del Los Angeles Times Book Prize 2016 accanto ad autori del calibro di Don Winslow. La saga di Bull Mountain prosegue con il secondo episodio, Come i leoni (2018).

Source: libro inviato al recensore dall’editore. Ringraziamo Francesca dell’Ufficio stampa NNEditore.

:: Lady Chevy di John Woods (NN Editore, 2021) a cura di Fabio Orrico

22 gennaio 2021

Amy Wirkner ha diciotto anni, vive a Barnesville, una piccola città dell’Ohio, militarmente occupata da un’azienda petrolifera che, per poter praticare il fracking, ha preso in affitto i terreni di quasi tutti gli abitanti, famiglia di Amy compresa. Le conseguenze, seppure non affrontate in tribunale, sono terribili, nascono bambini deformi (il fratellino della nostra protagonista, per esempio), la gente muore di cancro. Non è tutto: Amy ha pochi amici, è costantemente bullizzata dai compagni di scuola perché è obesa e infatti sulla copertina del bell’esordio di John Woods campeggia come titolo il suo soprannome: Lady Chevy. L’epiteto, non proprio lusinghiero, è dovuto al suo fondoschiena, ingombrante e massiccio come una Chevrolet.
Ennesimo spaccato dell’America profonda? Anche, ma non solo. Woods dimostra al primo romanzo una maturità di stile e una fluidità di racconto impressionanti. Da un lato accetta passivamente i cliché che un determinato contesto sociale si porta dietro, nel nostro caso i bifolchi tutti bibbia e fucili, razzisti e fortemente tentati da folli teorie del complotto (e la cronaca dei nostri giorni è lì a ricordarci che non sono clichè innocui, anzi, forse non sono nemmeno clichè in senso stretto), dall’altro se ne fa forza, riposizionandoli in una prospettiva antropologica. Alternando la prima persona di Chevy, credibilissima e piena di sfumature, con il resoconto parallelo delle vicende di Hastings, un poliziotto dalla cupa e oscura morale, Woods dipana un racconto di formazione nerissimo, inscritto in una tradizione di sangue e violenza.
Chevy, dicevamo, ha pochi amici, sostanzialmente due: Sadie, la ragazza più popolare della scuola, praticamente il suo esatto contrario, e Paul, bellissimo e idealista, amore non corrisposto ma presenza costante nella vita della ragazza e occasionalmente spalla cui appoggiarsi nei momenti duri. Il padre di Paul sta morendo di cancro a causa del fracking e il ragazzo vuole vendicarlo con un atto di ecoterrorismo ma ha bisogno di un complice: Amy, naturalmente. Andrà malissimo. E qui è bene fermarsi perché trama e sviluppi meritano di essere goduti leggendo, abbandonandosi al presente storico usato da Woods con tanta sapienza che, quasi, potremmo pensare che la storia si stia mano a mano costruendo sotto i nostri occhi.
Amy ha una sorta di mentore, suo zio Tom, reduce dall’Iraq, suprematista bianco con bunker sotterraneo di serie, in caso che gli Stati Uniti, ormai percepiti come una nazione in decadenza, razzialmente compromessa, dichiarino guerra. Ma il vero incontro che cambierà la vita della ragazza e getterà una luce nera sul suo futuro è quello con Hastings, amico dello zio, meno vistoso nell’enunciare le sue filosofie deviate ma più dolorosamente estremo nel metterle in pratica. La scena del dialogo tra i due, a un terzo dalla fine, è semplicemente magistrale, così come splendido è il lungo, ritmato capitolo, in cui Woods elenca i fatti di cronaca nera di una normale settimana a Barnesville, la follia che sembra pervadere ogni angolo della contea, tanto da renderla una succursale della kinghiana Castle Rock. Con una differenza: Barnesville esiste e la scorciatoia del soprannaturale non è prevista.
Il retaggio di violenza che informa la vita di Amy d’altra parte ha un suo patriarca, il nonno materno del quale circolano inquietanti fotografie negli album di famiglia: sfogliandoli ti imbatti in una normale riunione familiare, un picnic, una gita al luna park, cose del genere, poi volti pagina ed ecco il vecchio abbracciato alle due figlie e alle loro spalle una croce incendiata che illumina un uomo di colore impiccato. Il tutto ordinatamente messo in serie accanto alle immagini più banali. L’orrore: una dimensione che Woods riesce a rendere così tremendamente quotidiana da inabissare il suo romanzo dentro correnti di pensiero metafisiche, pure astrazioni. Probabilmente il segreto della riuscita del libro è proprio la capacità di mostrare crudeltà, deviazioni, bontà e capacità di cura tutte fuse insieme, senza frizioni, con inaspettata coerenza. Una soluzione che, si indovina, non è suggerita dalla voglia di sorprendere ma dalla conoscenza profonda della propria materia di indagine. Il male, sembra volerci dire l’autore, non riesce a scalfire quanto di tenero c’è in un amore adolescenziale o nella lealtà che si instaura tra i reietti della società. Woods è bravissimo a raccontare entrambi i lati del cuore umano, le parti presentabili della nostra personalità, così come quelle di cui ci vergogniamo, lo fa senza moralismi o gerarchie, con la consapevolezza che l’essere umano è una macchina complessa, in cui c’è posto per la grazia e per la ferocia. Come nella vita.

John Woods è uno scrittore americano. È cresciuto in Ohio e si è laureato all’Ohio University. Suoi racconti sono stati pubblicati su Meridian,Midwestern Gothic, Fiddleblack e The Rag. Lady Chevy è il suo romanzo d’esordio.

Source: inviato dall’editore al recensore. Ringraziamo Francesca dell’Ufficio Stampa NN editore.

Oregon Hill di Howard Owen, Traduttore : Chiara Baffa (NN editore 2020) a cura di Fabio Orrico

10 novembre 2020

Grazie a NN Editore, ormai punto di riferimento imprescindibile per chi ama la letteratura americana, arriva nelle librerie italiane Howard Owen, autore di una ventina di romanzi molti dei quali dedicati al giornalista Willie Black. E proprio Willie Black è il protagonista di questo Oregon Hill, noir dal forte impianto civile, attraversato da toni blueseggianti e malinconici. Ma partiamo dal titolo: Oregon Hill è il quartiere operaio della città di Richmond nello stato della Virginia in cui Black ha passato l’infanzia. È il posto in cui ancora abitano molti suoi amici, nonché una madre più bisognosa di venire accudita di quanto sia qualsiasi figlio. Non è un particolare secondario in un libro che fa della sua geografia un elemento narrativo di primo piano. L’indagine di Black attraversa infatti la città mappandone confini e anfratti, zone residenziali e bassifondi. Owen è attentissimo al genio del luogo, così come è preciso e minuzioso nel descrivere le differenze di classe dei suoi protagonisti. Anzi, in una realtà come la nostra, che ha progressivamente (e inesorabilmente) visto erodere il mondo del lavoro e i suoi diritti, lo sguardo di Owen acquista un rilievo sociologico raro nel poliziesco. In fondo la storia di Oregon Hill è anche una storia di odio di classe, declinata senza retorica e luoghi comuni. Uno degli aspetti più convincenti dell’arte di Owen è proprio quello di mettere in scena personaggi prismatici, dei quali è facile riconoscere i torti ma anche le ragioni. In questo senso Willie Black incarna un eroe noir archetipico. Abbastanza smagato da affrontare il male del mondo con sarcasmo e una buona dose di umanità, Black non si fa illusioni sugli esseri umani, ma non per questo sottovaluta il potenziale di bontà che chiunque può manifestare. Ma di cosa parla precisamente Oregon Hill? Di un delitto, naturalmente. Una studentessa viene trovata decapitata. Un poliziotto ansioso di chiudere il caso offre al pubblico e al sistema dei media il colpevole perfetto: un uomo frequentato dalla ragazza, un poco di buono manesco e con una certa inclinazione per le droghe. Ma le cose non sono così semplici e le apparenze, nel mondo a doppio fondo del thriller, facilmente ingannano. Lontanissimo da atteggiamenti stereotipati, Black conduce la sua inchiesta muovendosi tra sottotrame familiari che danno la misura della brillante capacità descrittiva di Owen. Bellissimo il modo in cui viene reso l’ambiente del giornalismo di piccolo cabotaggio del quale il nostro protagonista fa parte. La vita di redazione, con i suoi opportunismi e le sue reticenze, la precarietà che compromette anche i legami più saldi. Black è un uomo decisamente maturo, ha quasi cinquant’anni, diversi matrimoni alle spalle e una figlia con cui i rapporti non sono facili. Oltre a questo deve fatalmente fare le spese della grande crisi che ha sconvolto l’America e il mondo e soprattutto deve vedersela con la rivoluzione tecnologica (e antropologica) che ha trasformato il giornalismo per come lo conosceva. In fondo una delle grandi dialettiche del noir da Chandler in poi è quella che contrappone l’(anti)-eroe al proprio tempo. Da questo punto di vista Willie Black non fa eccezione: uomo e giornalista novecentesco che è costretto a fare i conti con l’informazione online, i blog, modalità del tutto nuove di fabbricare e guidare il consenso. Romanzo trascinante e ricco, abilissimo nel descrivere le mille complessità di una società imprendibile, Oregon Hill sembra dare ragione al maestro francese Jean Patrick Manchette quando individuava nel poliziesco il vero genere beahviourista nonché la più autentica letteratura di intervento sociale.

Howard Owen è nato in North Carolina, ma vive a Richmond, Virginia. Ha lavorato come giornalista per quarant’anni e ha scritto numerosi romanzi di genere. Con Oregon Hill, il primo libro della serie di Willie Black, ha vinto l’Hammett Prize, dopo scrittori come Elmore Leonard, Margaret Atwood, George Pelecanos e Stephen King.

Source: libro inviato dall’editore al recensore, ringraziamo Francesca Rodella dell’Ufficio stampa NN editore.

:: Nota di lettura: La memoria della cenere di Chiara Marchelli (NNE edizioni, 2018) a cura di Lidia Popolano

7 aprile 2020

La memoria della cenere

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La memoria della cenere è un bel romanzo dalla trama e dalla struttura drammatica molto ben curate. Immersi nello sfondo tragico dell’eruzione annunciata del vulcano, prodotto della fantasia dell’autrice: il Puy de Lúg, nell’Auvergne, assistiamo alla metaforica discesa all’inferno di Elena, una scrittrice ancora non troppo in sintonia con il suo talento e con molti nodi da sbrogliare sia nella personalità che nelle relazioni umane che intrattiene. Resi credibili i caratteri dei singoli personaggi e inevitabili le loro “non scelte”, l’occasione per far decollare la vicenda è fornita dalla scoperta di un segreto nella vita di Patrick, il compagno di Elena, che ha taciuto il suo passato recente più per l’incapacità di intrattenere una relazione autentica, che per la volontà di mentire. Nei giorni dell’eruzione e dell’immobilità forzata, Chiara Marchelli scioglierà il dramma così come era cominciato: molte le premesse e al punto giusto fumose, per un futuro tutto da ri-tessere.

ChiaraChiara Marchelli è nata ad Aosta e si è laureata in Lingue Orientali a Venezia. È autrice di quattro romanzi, una raccolta di racconti e un saggio su New York, la città dove vive. Insegna Letteratura Contemporanea, Traduzione e Scrittura Creativa alla New York University. Nel 2017 ha pubblicato Le notti blu (Giulio Perrone Editore), selezionato tra i dodici finalisti del Premio Strega.

Provenienza: libro del collaboratore.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

Nota: disponibile anche in ebook, in alternativa scegli il punto di consegna e ritira quando vuoi.

:: La babysitter e altre storie di Robert Coover (NNEDITORE 2019) a cura di Fabio Orrico

29 novembre 2019

Robert CooverDa colpevole semplificatore quale sono ho sempre pensato che la letteratura americana potesse essere facilmente (e banalmente) scissa in due macroaree. Da un lato autori passionali, viscerali, caldi, dall’altra scrittori mentali, azzimati, freddi. Da un lato una tradizione che potremmo far risalire a Hawthorne e alle sue indagini sulle origini di un paese che lui stesso vedeva assemblarsi, dall’altro una genia più complessa da definire e che può trovare padri spirituali in figure più asimmetriche come Washington Irving. In mezzo potremmo tranquillamente inserire la pietra angolare Hermann Melville, viscerale quant’altri mai ma anche capace di azzardi stilistici mai più ripetuti (salvo poi, in Mobydick, di fatto inventare il flusso di coscienza). Sono distinzioni pedestri e con le quali rivelo la mia fragilità di analisi di fronte a un gigante come Robert Coover da noi pochissimo tradotto (a memoria mia ricordo solo il bellissimo romanzo breve Sculacciando la cameriera) che, organico a un’idea di letteratura in cui possiamo incontrare John Barth e Kurt Vonnegut, William Gass e Donald Barthelme, brandisce la bandiera del post moderno ma da una prospettiva personalissima. Difficile, partendo da questa scelta antologica che abbraccia una produzione che, dal 1962 del primo racconto, arriva al 2016 de L’invasione dei marziani, immaginare uno scrittore meno propenso a farsi incasellare in un genere o anche semplicemente in un atteggiamento, in una propensione, in quel che volete. L’arte di Coover è doppia, tripla, prismatica. A dimostrarlo c’è il racconto che dà il titolo alla raccolta e cioè La babysitter dove l’alternarsi impazzito dei punti di vista detta il ritmo e determina la storia.
NN editore, che finora mi è sembrata la residenza italiana di autori ascrivibili al primo tipo da me sommariamente ipotizzato e cioè i viscerali (in modo quasi e diversamente imbarazzante se consideriamo gli apici di Haruf Drury Ward Woodrel e potremmo citare tutto il catalogo fino alla sintetica e poeticissima Sarah Manguso) adesso ci consegna questo volume polimorfo, tanti racconti di Coover disseminati nel corso della sua carriera quanti sono i traduttori che se ne occupano. Scelta decisamente in linea con le ragioni profonde dei testi, quella di differenziare la voce dei traduttori, e soluzione affascinante e felice. La babysitter e altre storie sembra proporsi come romanzo totale, cassetta degli attrezzi di uno scrittore sorprendente e intelligentissimo. Tutto è godibile, in termini di costruzione e suspense, ma tutto è assolutamente metaforizzabile. Si pensi a un racconto come L’ascensore, dove l’avventura del protagonista, un uomo che tutti i giorni prende lo stesso ascensore, assume i colori lividi di un episodio di Ai confini della realtà ma allo stesso tempo, proprio per l’ambientazione in uno spazio eccessivamente delimitato, diventa lo specchio di un altrove molto più ampio. Coover è autore metaforico per eccellenza ma anche satirico. Attinge a temi e stilemi del mainstream più spinto, esondando dal campo strettamente letterario. A dimostrarlo un racconto come You must remember this dove il nostro riscrive un caposaldo della cultura pop (seppur suo malgrado) come l’immortale Casablanca di Michael Curtiz o anche L’uomo invisibile dove si lambisce addirittura il territorio della narrazione supereroistica. A lato dell’opera cooveriana mi sembra riposi la tentazione della fantascienza. Una sorta di retrobottega mentale o addirittura sottofondo morale che, in quanto più politico tra i generi, fa da carburante all’ispirazione dello scrittore americano.
Purtroppo non conosco molto altro di Coover e sarebbe grande la mia curiosità di leggere un suo libro che per foliazione superasse Sculacciando la cameriera. Ciò che risulta perfetto nel romanzo breve e nel racconto sarebbe altrettanto efficace modulato su un passo più lungo? Insomma, se in questo momento cadesse una stella, saprei quale desiderio esprimere.

Robert Coover (1932) è autore di romanzi e raccolte di racconti, ed è considerato uno dei padri del postmoderno americano. Ha insegnato per più di trent’anni alla Brown University, dove ha fondato l’International Writers Project, un programma rivolto a scrittori internazionali perseguitati per le loro idee e i loro scritti. Con il suo primo romanzo, The Origin of the Brunists, ha ricevuto il William Faulkner Foundation First Novel Award, e con The Public Burning (1977) è stato finalista al National Book Award. NNE pubblicherà anche il suo romanzo Huck Out West.

Source: libro inviato dall’editore al recensore. Si ringrazia l’ufficio stampa NN Editore.

:: Il movimento delle foglie di Tom Drury (NN Editore 2019) a cura di Fabio Orrico

12 settembre 2019

il-movimento-delle-foglie

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Dopo la bellissima trilogia di Grouse County Tom Drury continua a illuminare angoli perduti d’America con la sua prosa limpida e partecipe. Il movimento delle foglie racconta la storia di Pierre Hunter, giovane barista con qualche talento musicale (suona la batteria e il violoncello, a dimostrazione del fatto che gli abbinamenti banali non fanno per lui) e abita in una regione del Midwest chiamata Driftless Area, un luogo la cui superficie geologica è costellata di burroni, canyon e foreste. Non è un particolare secondario perché, oltre a occupare la copertina dell’edizione americana in quanto titolo originale, questa Driftless Area, con la sua geografia inospitale gioca un ruolo decisivo nella vicenda terrena di Pierre. Se dico vicenda terrena è perchè questa volta Drury tenta un affondo ulteriore. A differenza del ciclo di Grouse County, tenacemente realista, Il movimento delle foglie ci porta in territori che flirtano col sovrannaturale. Sarebbe sbagliato però, inquadrare questo romanzo, gentile ma implacabile, come una storia dai risvolti horror. A tratti, Il movimento delle foglie, mi ha richiamato alla mente il capolavoro di Frank Capra, La vita è meravigliosa, per la capacità di aprire un punto di osservazione sulla vita degli uomini partendo dalla loro morte, facendo epica di quel complesso meccanismo di più o meno meditate scelte e false piste che spesso sembra essere l’esistenza. Il movimento delle foglie inanella senza un ordine preciso pezzi della vita di Pierre Hunter, la sua storia d’amore con la bellissima ed enigmatica Stella Rosmarin e, una volta scelto il focus del racconto, si concede una deriva crime che scuote le giornate di un ragazzo qualunque come Pierre, un ragazzo nel quale identificarsi è davvero molto facile.
Prima ancora del cosa si mette in scena, in Drury diventa importantissimo il come. Scrittore tenero e anarchico, innamoratissimo dei suoi personaggi, Drury illumina il personaggio di Pierre attraverso la descrizione, di volta in volta quasi impressionistica poi più accurata, di fasi cruciali della sua vita. Si parte con l’adolescenza e il primo amore, per poi riferire di un incidente che agisce da acceleratore per il suo destino. Libro stratificato eppure di cristallina semplicità, Il movimento delle foglie è un anti-manuale di scrittura creativa, idiosincratico e poetico, nel quale Drury si prende tutto il tempo che gli serve per dire ciò che gli preme dire e dà prova di una libertà stilistica senza pari.
Abilissimo nello scolpire il carattere e la fisionomia di una personaggio con due frasi, Drury crea in quest’ultimo romanzo un’altra memorabile galleria di tipi. Non solo Pierre ma anche il suo antagonista Shane Hall, criminale scalcinato e senza sensi di colpa, una versione più dark del Tiny de La fine dei vandalismi, e poi il misterioso Tim Geer, sorta di deus ex machina su cui Drury mantiene un riserbo che è dei grandi narratori, quelli che per comunicare non hanno bisogno di spiegare nulla.
Nota a margine preziosa e prismatica del mondo descritto in Grouse County, Il movimento delle foglie è il segnale della spigliatezza e del coraggio di uno scrittore come Tom Drury, tra i più imprevedibili in circolazione.

TomDrury_sitoTom Drury (Iowa 1956) è uno scrittore americano che ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui la fellowship della Fondazione Guggenheim. Dopo aver insegnato nelle università americane, attualmente vive e insegna a Berlino. La fine dei vandalismi, il suo primo romanzo, è uscito negli Stati Uniti nel 1994 ed è stato subito acclamato come miglior libro dell’anno dalle maggiori testate americane.
Uscito a puntate sul New Yorker, ha ricevuto il premio come Notable Book dell’Ala, l’associazione delle biblioteche americane.
NN Editore ha pubblicato anche gli altri due volumi della trilogia ambientata a Grouse County: A caccia nei sogni e Pacifico; nel corso dei prossimi anni pubblicherà la sua intera opera.

Source: libro inviato dall’ editore al recensore. Ringraziamo Francesca Rodella ufficio stampa dedicato.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: La versione della cameriera di Daniel Woodrell (NNEditore 2019) a cura di Giulietta Iannone

13 aprile 2019

La versione della camerieraDaniel Woodrell è uno dei più significativi esponenti del Southern gothic americano contemporaneo, lo stesso autore ha coniato poi il termine “country noir” per definire i suoi lavori, (vi rimando a questo interessante articolo di Luca Conti ancora disponibile in rete per capire lo spirito che unisce il Southern gothic al noir, e i padri nobili che vanta, da Faulkner, immenso, alla mia amatissima Flannery O’Connor, sovrana mai spodestata della narrativa breve americana, su tutti).
Se del primo la sua anima noir è stata timidamente messa in luce, ormai l’alta letteratura e il noir non sono più così lontani e inconciliabili, della seconda ancora non mi pare questo accostamento sia stato fatto ma leggetevi The Violent Bear It Away (Il cielo è dei violenti, Einaudi), per capire di cosa sto parlando.
Torniamo a Woodrell, classe 1953, autore di Un gelido inverno, che anche grazie al film di Debra Granik da cui è tratto ha aumentato le schiere degli adepti di quel genere di noir molto ruvido, molto particolare che lascia gli ambienti classici metropolitani per portarci nell’America più profonda, nella sua periferia più povera e sofferente, nella sua sconfinata campagna, nelle sue montagne impervie, tra depressione e crisi, tra rabbia e voglia di non abbandonarsi alle paludi della disperazione.
Daniel Woodrell ha portato avanti quella lezione, e l’ha fatta propria aggiungendoci il suo personalissimo stile, difficilmente imitabile, che fa di lui senz’altro uno dei maggiori scrittori americani viventi, come troverete scritto nelle note biografiche dell’editore.
La versione della cameriera (The Maid’s Version, 2013), tradotto da Guido Calza, (non perdetevi al termine della lettura le sue note sulla difficoltà di tradurlo e sulle caratteristiche salienti della scrittura densa e corposa di Woodrell), è il primo romanzo della serie detta di West Table.
Di per sé la storia è semplice, sì quella lineare, riassumibile in poche frasi: un ragazzino di dodici anni trascorre l’estate dalla nonna che gli racconta come persero la vita quasi una cinquantina di persone nell’esplosione all’Arbor Dance Hall nel 1929, fatto che ha drammaticamente influenzato tutta la sua vita soprattutto perché una delle vittime era la sua amatissima sorella Ruby.
Forse c’è un colpevole, forse nonna Alma sa chi è, o perlomeno si è fatta un’idea molto precisa di come le cose sono andate.
Questa dopo tutto è la sua versione, quanto sia affidabile come narratrice non è dato sapere, ma noi le crediamo, neanche per un attimo siamo tentati di sgretolare i suoi granitici convincimenti. Alek il ragazzino le crede, come crede a tutto quello che lei racconta della sua difficile vita, e dei personaggi al centro in questo affresco corale di un angolo sperduto tra i monti Ozark nel Missouri.
Che la tradizione orale sia determinante è un dato di fatto, dopo tutto l’intero romanzo è la narrazione di una storia passata di bocca in bocca da nonna a nipote, e del racconto orale ha il flusso e le derive. Il tempo è relativo, il passato e il presente si mischiano dando un ritmo altalenante al flusso narrativo, fatto di flashback e memorie.
Alek ormai è adulto quando ricorda la sua infanzia e parla di sua nonna Alma, figura carismatica e quasi mitologica del suo panteon familiare, almeno quanto Ruby, bellissima e sensuale creatura che trova la sua rovina diciamo quando incontra l’amore.
Ruby morirà nel rogo della sala da ballo e Alma non se lo perdona. Doveva fare qualcosa, e non l’ha fatto. Questo struggente senso di colpa avvelena la sua vita di contadina diventata cameriera nelle case dei ricchi della zona per sfamare i suoi figli, non aiutata da un marito beone e immaturo. Anche la morte di Buster (il marito di Alma) se vogliamo può essere aggiunto al conto delle vittime, sebbene lui non muoia direttamente nel rogo.
Se potessi parlare liberamente della trama, svelandovi la versione della cameriera, avrei più agio nel dirvi i fatti (li scoprirete nell’ultimo capitolo) ma se riflettiamo bene forse sono relativi. In fondo è una struggente storia d’amore, nelle sue molteplici forme. È una storia di oppressione, di ingiustizia, e di sopraffazione. Le colpe dei ricchi sono sempre meno gravi di quelle dei poveri, anche se a volte distinguere tra innocenti e colpevoli non è così agevole, come in quetso caso.
Woodrell lascia fluttuare gli eventi, li lascia decantare, e ci dà schegge di passato su cui riflettere. Chi sia il colpevole è facilmente intuibile, la rabbia di Alma è manifesta, anche se soprattutto con se stessa, ed unita a questo grande senso di colpa e dolore per cosa anche volendo non avrebbe potuto cambiare: le regole di una società che lei non accetta, ma di cui per alcuni versi in alcuni tratti addirittura si fa complice quando lava le camicie di Arthur Glencross perchè non si senta il profumo della sua amante.
Alek è l’osservatore imparziale, un po’ in disparte lascia ad Alma tutta la scena, e lei fa rivivere il passato, tiene viva la memoria di quell’esplosione che ha scosso equilibri più o meno manifesti, e mentre quasi tutti vogliono dimenticare, passare oltre, considerare il fatto poco più che un incidente, lei vuole una sorta di giustizia, di riscatto, e si accontenta di concludere che anche il colpevole ha pagato fino alla fine. È sfuggito forse alla giustizia umana, ma c’è una giustizia superiore e questa consapevolezza chiude un cerchio, e dona compimento a una vicenda tragica nella sua inevitabilità.
Aspettiamo le prossime storie della serie, che usciranno sempre per NNEditore.

Daniel Woodrell (1953) è considerato uno dei maggiori scrittori americani viventi. I suoi libri hanno ottenuto diversi premi e riconoscimenti, tra cui il Pen Award, l’International iMac Dublin Literary Award e il Sundance Film Festival Award per l’adattamento cinematografico del suo libro Un gelido inverno. Ama ambientare le sue storie nei panorami dei monti Ozark, in Missouri, e lui stesso ha coniato la definizione di “country noir” per descrivere la sua opera. NNE pubblicherà gli altri volumi della Serie di West Table.

Guido Calza traduce narrativa e saggistica dall’inglese e dal francese. Dopo un’ incauta deviazione in ambito economico è approdato ad attività più consone alla sua indole e vicine alle sue passioni. Per NNE ha tradotto Brian Turner e Jesse Ball.

Source: libro inviato dall’editore. Ringraziamo l’ufficio stampa NNE.