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:: JOHANNE LYKKE HOLM: STREGA (NN editore) a cura di Fabio Orrico

24 Maggio 2023

Mi chiedo se Johanne Lykke Holm (svedese, classe ’87), autrice esordiente di Strega conosca Suspiria, il cult horror diretto dal nostro Dario Argento nel 1977. Fatta salva la decisione di usare un vocabolo italiano per dare il titolo al suo libro, ci sono almeno un paio di sequenze in cui la pellicola argentiana sembra venire citata esplicitamente. Durante una delle scene più cupe e allucinate, la protagonista Rafaela vede “una ragazza sanguinante pendere dal soffitto” (il riferimento sarebbe in questo caso al primo omicidio messo in scena nel film) mentre qualche pagina prima si fa riferimento a un segreto e a un iris (e chi conosce Suspiria sa che questo fiore rappresenta una svolta nella decodifica dell’intreccio). Naturalmente la risposta alla domanda posta in apertura non toglie nulla alla malìa esercitata da questo romanzo così originale e inquietante. Johanne Lykke Holm, va detto, guarda a una tradizione ben precisa seppur sotterranea. Una tradizione così ben codificata da poter costituire un sottogenere e che potremmo definire sintetizzando al massimo Ragazze-chiuse-in-un’istituzione-concentrazionaria sia essa una scuola, un collegio, un educandato o, come nel nostro caso, un albergo. Nel libro di Holm sentiamo riverberare il grande modello di Mine-Haha di Franz Wedekind, da cui eredita suggestioni e senso dell’assurdo ma anche il Picnic ad Hanging Rock di Joan Lindsay poi filmato da Peter Weir e, spostandoci nei territori della celluloide aldilà del classico argentiano, arriviamo a lambire opere spurie come Innocence di Lucile Hadzihalilovic o Zombi child di Bertrand Bonello senza dimenticare il bellissimo remake di Suspiria firmato da Guadagnino.

Rafaela, diciannovenne, viene spedita dai genitori all’hotel Olimpyc per lavorare come cameriera durante la stagione invernale. Siamo sulle alpi, accanto all’albergo c’è un monastero gestito da suore e un paese, Strega appunto, che è necessario attraversare per raggiungere il posto di lavoro e che diventa teatro di sporadiche quanto enigmatiche uscite sociali di Rafaela e delle sue nove colleghe e coetanee. La trama è tutta qui, l’unico significativo punto di svolta si può rintracciare nella scomparsa di Cassie, una delle ragazze, e che darà origine a una sorta di depotenziata deriva gialla. Per il resto l’hotel Olimpyc si dimostra ben presto una variante della Fortezza Bastiani in cui le ragazze devono aspettare non meglio precisati ospiti e tenersi pronte per dimostrarsi servizievoli e professionali, pena il ricorso da parte delle figure dirigenziali (Rex, Costas e Toni, donne dal confine sessuale incerto fin dal nome) a pene corporali inflitte nella più assoluta indifferenza.

Il fascino e la solidità di Strega non stanno quindi in cosa si racconta ma in come lo si racconta. La prosa inventiva, densa, stratificata di Holm si muove a trecentosessanta gradi richiamando ogni possibile appiglio sensoriale, sceglie metafore incongrue e sincopate, crea sintesi impossibili. Nel mondo di Rafaela tutto è virtualmente possibile anche se, allo stesso tempo, tutto è mortalmente immobile. Una visita al bar del paese dà origine a un grappolo di incubi, una sorta di nastro trasportatore di immagini surreali che sembra riverberare il ricordo del cinema delle origini. Anche l’occorrenza più banale, l’esplorazione di un interno casalingo, può spalancare un immaginario goticheggiante: “C’era odore di tarmicida, di mattatoio. Non riuscivo a vedere dove conducesse la scala, ma osservando quel rosso sentivo il terrore crescere dentro di me, come quando si entra in una stanza e si ha la percezione che sia infestata da spiriti maligni. Seduti sulle sedie, i fantasmi bevono acqua dai bicchieri e aprono la frutta con le mani. Mi sporsi per guardare in alto, ma c’era soltanto un’opaca penombra”.

Difficile dire in che epoca sia ambientato Strega. Su questo Holm è volutamente reticente e punta a creare un luogo senza tempo, collocabile nell’arco degli ultimi due secoli mantenendo una grande coerenza interna, a tratti messa in discussione dall’uso di termini decisamente contemporanei (uno per tutti: femminicidio). L’autrice crea una sorta di fiaba gotica definitiva proprio perché svincolata dalle più urgenti esigenze di trama e percorsa da una costante sensazione di minaccia. Senza anticipare nulla (ma il concetto di spoiler applicato al romanzo di Holm è semplicemente ridicolo) vorrei dire che anche l’ultima parola dell’ultima riga dell’ultima pagina di Strega vibra di tensione e rilancia una suspense che non riposa su nulla di concreto e definibile e, forse proprio per questo, risulta quasi tattile. Un esordio straordinario.

:: Costruisci la tua casa intorno al mio corpo di Violet Kupersmith (NN editore 2023) a cura di Fabio Orrico

15 marzo 2023

Spesso la nozione di genere è un fardello, un qualcosa di troppo se forzatamente applicato a determinate narrazioni. Allo stesso modo, esistono romanzi che, pur esondando da etichette e mode, rispondono con intelligenza alla logica di genere ma rifiutando di accoglierla in toto e piuttosto facendone uso soltanto laddove lo si ritiene utile. Mi sembra che l’esordio della giovane (classe ’89) quanto talentuosa Violet Kupersmith si muova proprio in questa direzione. Innanzitutto, il titolo, bellissimo e labirintico: Costruisci la tua casa intorno al mio corpo, un titolo interlocutorio e assertivo e insieme una sorta di invocazione al gesto pensante del lettore. Il romanzo di Kupersmith (d’ora in poi per comodità taglio il titolo riducendolo alla prima parola, Costruisci) lavora ostinatamente sul concetto di confine. Non sono confini geografici, che sarebbe il minimo, visto che Winnie, la ragazza al centro della storia, lascia l’America per raggiungere il Vietnam e spostarsi occasionalmente in Cambogia. Il confine che più significativamente tratta Kupersmith è un confine fisico e riguarda il proprio corpo, l’ultimo strato di pelle che ci protegge dalle insidie del mondo; il confine della propria scatola cranica che segna il passo prima che pensieri impossibili si impadroniscano della nostra volontà raziocinante. Ho cominciato parlando di genere perché qui abbiamo topoi fieramente branditi ma anche questi a rischio di continuo sconfinamento. Il romanzo di formazione si fonde con l’horror o con una più generica atmosfera da urban fantasy e allo stesso tempo non credo sarebbe sbagliato definire Costruisci come una lunga e stratificata ghost story in cui i fantasmi, tale è la potenza della prosa di Kupersmith, sembrano principalmente trovarsi fra le persone vive.

La scrittura dell’autrice, americana di origine vietnamita esattamente come la sua protagonista, è rarefatta e vischiosa; leggere le vicende di Winnie in terra straniera restituisce a noi lettori lo stesso spaesamento della ragazza e in questo senso l’autrice raggiunge vette di autentico virtuosismo descrittivo: l’evocazione della routine vietnamita, gli scorci di uno Saigon a tratti immobile a tratti sincopata, sono punti di forza del romanzo e forse rappresentano anche il mezzo più efficace per tenere insieme una trama che tende naturalmente alla digressione se non addirittura alla dissipazione. Se infatti possiamo rintracciare in Winnie e la sua improvvisa scomparsa il cuore della narrazione, dobbiamo tenere a mente che Costruisci è un romanzo corale, una storia di storie, che attraversa almeno settant’anni di cronaca vietnamita, colonialismo, guerra, assetti politici mutati e soprattutto un profondissimo senso del folklore che apre la porta a visioni orrorifiche. Bisogna fare attenzione a parlare di Costruisci e non perché, banalmente, si rischia di spoilerare parti della trama, quanto perché i colpi di scena non sono messi lì per sorprendere il lettore ma semmai per misurare la tenuta della sua sospensione dell’incredulità, la sua propensione a lasciarsi trascinare da un continuum di avvenimenti radicati in una cultura di cui tutto sommato, almeno nelle nostre contrade, si sa poco. Violet Kupersmith, infatti, attraverso l’odissea di Winnie, sembra voler fare i conti con le proprie radici a tutti i livelli, culturali ma anche naturali e in questo senso non può essere un caso l’insistenza con cui ci viene descritta la natura vietnamita. Organizzato per imponenti blocchi narrativi, sostenuti da una suspense discreta quanto ammorbante, Costruisci definisce il ritratto di una giovane donna a partire dal suo scomparire. Da lì in poi sarà solo indagine, ricordo, rievocazione, il tutto incastrato in almeno altre tre linee narrative di pari importanza e teletrasportate lungo il novecento asiatico per oltre quattrocento pagine. È un romanzo, Costruisci la tua casa intorno al mio corpo, che pretende attenzione dal suo lettore ma che sa rifonderlo con gli interessi in termini di suggestione e malìa.

Violet Kupersmith (1989) è una scrittrice americana di origine vietnamita. Tra il 2011 e il 2015 ha vissuto in diverse città del Vietnam, e nel 2014 ha esordito con la raccolta di racconti The Frangipani Hotel. Tra il 2015 e il 2016 è stata “creative writing fellow” alla University of East Anglia, mentre nel 2022 ha ricevuto la fellowship del National Endownment for the Arts. Selezionato per il First Novel Prize del Center for Fiction, per il Women’s Prize for Fiction, e vincitore del Bard Fiction Prize, Costruisci la tua casa intorno al mio corpo è il suo primo romanzo.

Source: libro inviato dall’editore al recensore. Ringraziamo Francesca Ufficio stampa NN.

:: DEBORAH LEVY: L’UOMO CHE AVEVA VISTO TUTTO (NN editore, 2022) a cura di Fabio Orrico

4 febbraio 2022

Già nota ai lettori italiani grazie a Garzanti che ha tradotto A nuoto verso casa (2014) e Come l’acqua che spezza la polvere (2018), Deborah Levy è una scrittrice inglese che ama focalizzarsi su un momento decisivo, un punctum barthesiano che marchia le sue storie. Questa epifania può riferirsi semplicemente a un avvenimento o a una situazione esistenziale o, come in A nuoto verso casa, concretizzarsi in un’immagine ben precisa (una donna a mollo in una piscina, nella fattispecie) ed è il caso anche di L’uomo che aveva visto tutto, pubblicato da NN editore.

Saul Adler, il protagonista del libro, viene immortalato dalla sua fidanzata Jennifer Moreau, giovane artista, mentre attraversa la strada sulle strisce pedonali di Abbey Road, mimando quindi la famosa copertina dell’omonimo album dei Beatles. Mentre compie quest’azione viene investito da un’auto. Così si apre il romanzo di Levy ma la stessa situazione si ripete identica in apertura della seconda parte. Il primo incidente avviene nel 1988, il secondo ai giorni nostri; la palizzata d’anni che separa i due traumi contiene, di fatto, il cuore di L’uomo che aveva visto tutto. Cominciamo dal titolo, che ha un sapore fantascientifico, quasi dickiano. Saul ha visto tutto, come e perché non è bene rivelarlo per ovvie ragioni di godibilità della lettura, basti dire che il suo resoconto (il romanzo è narrato in prima persona) vive dei mille riflessi e delle schegge improvvise di un prisma o, meglio ancora, ha l’aspetto di uno specchio in frantumi. L’esercizio che Levy chiede al lettore è quello di ricomporre questi frammenti affinché Saul possa specchiarcisi e rivelare la sua esatta fisionomia.

Giovane storico, Saul si trasferisce a vivere nella Germania dell’Est immediatamente prima che crolli il muro di Berlino ed esploda un assetto geopolitico che, in qualche modo, è stato alla base della sua formazione. Figlio di un attivista del partito comunista, Saul si addentra nello studio della storia con la stessa ansia di decodifica che informa i suoi ricordi. Levy descrive il suo eroe a più riprese come una sorta di rockstar, forse in ritardo di un decennio, per atteggiamenti e look, rispetto ai tempi in cui agisce (gli anni ’80). Inquieto e dagli atteggiamenti gender fluid, Saul identifica nel padre e nel fratello Matt i detentori della sua scatola nera di uomo, un vero e proprio scrigno di segreti che, fatalmente, peseranno sui rapporti intrattenuti con gli altri personaggi del romanzo. Straordinaria la parte ambientata a Berlino Est, interamente percorsa dal gioco a tre di Saul e dei suoi amici Walter e Luna. Un rapporto in cui i non detti contano quanto e più delle ammissioni esplicite e che si aggancia, come d’altra parte tutta la narrazione, a occorrenze più volte ripetute, oggetti comuni, per esempio un ananas, spie di qualcosa che non torna, specie in termini strettamente temporali. La realtà filtrata dallo sguardo di Saul è sempre più asimmetrica, incongrua, e dal nulla arrivano le profezie del nostro protagonista, il suo sereno sentenziare sugli avvenimenti storici che, per tutti gli altri protagonisti, altro non sono che contemporaneità. Il capitale accumulato nella prima parte di L’uomo che aveva visto tutto, verrà fatto fruttare nella seconda parte, dove i nodi verranno al pettine e chi in precedenza è stato un figurante acquisterà nuovo spessore.

Libro sulle realtà possibili e sui percorsi alternati, L’uomo che aveva visto tutto mescola le carte della sua narrazione con precisione e naturalezza, senza mai perdere d’occhio il proprio possibile lettore che, come se assistesse a una sparatoria filmata da Michael Mann, anche laddove il montaggio si fa concitato, sa sempre orientarsi perfettamente e decifrare che cosa succede a chi. Grande dono di Debora Levy, scrittrice che possiede l’intelligenza del labirinto.

Deborah Levy (1959) è tra le maggiori scrittrici inglesi. Nata in Sudafrica, è autrice di romanzi come A nuoto verso casa (Garzanti 2014), finalista al Man Booker Prize, e Come l’acqua che spezza la polvere (Garzanti 2018). L’uomo che aveva visto tutto è stato selezionato per il Man Booker Prize 2020 ed è entrato nella short list del Goldsmiths Prize 2019. NNE pubblicherà anche il suo prossimo romanzo.

Source: libro inviato dall’editore al recensore. Ringraziamo Francesca dell’Ufficio stampa NN editore.

:: L’ora muta di Simone Cerlini (AlterEgo edizioni 2021) a cura di Fabio Orrico

26 marzo 2021

L’ora muta è il terzo romanzo di Simone Cerlini (i primi due sono Andreina delle frottole, uscito per Guaraldi nel 2004 e Il profilo dei lupi, Pubblicato da Giraldi nel 2008) e aggiorna l’idiosincrasia dell’autore reggiano per i temi della famiglia e del lutto. Ho usato il termine temi ma non è giusto nei confronti di Cerlini utilizzare in modo un po’ sbrigativo e forse banale simili occorrenze. Famiglia e lutto sono prima di tutto ossessioni oltre che campi d’indagine e sono tra loro strettamente correlate. La famiglia è il palcoscenico su cui si muovono le sue storie e il lutto è l’innesco che dà vita alla deflagrazione. Lutto inteso nel senso più ampio, dall’abbandono fisico fino all’agonia degli ideali, dallo spegnersi di un sistema valoriale fino all’avvicendarsi di generazioni ed epoche storiche. Rispetto ai suoi libri precedenti (e non vanno dimenticati i racconti di Segrete usciti per Prospettive nel 2011, perché, se non lo sapete, e se non lo sapete ve lo dico io, Cerlini è anche un maestro della forma breve) smarrimento generazionale e catastrofe esistenziale vengono proiettate su uno sfondo molto più ampio, se vogliamo quasi sociologico. Siamo a Reggio Emilia (non solo in realtà, ma diciamo che questa è la scena del delitto) e Giorgio Doveri, manager di successo, si trova drammaticamente coinvolto nei problemi finanziari dell’azienda per cui lavora, in maniera tale da dover ridefinire radicalmente la sua vita e i suoi affetti, primo fra tutti il rapporto con la figlia Camilla, vera protagonista del romanzo e in una certa misura vittima del retaggio paterno. È tramite lei che assistiamo al crollo di una prestigiosa azienda tessile, controfigura della Mariella Burani, ed è sempre lei a intercettare, come in una tragedia greca, una specie di madre vicaria, quella Moira che è un personaggio-chiave del libro (e, per inciso, nel mondo greco ricordato poco sopra c’era un’altra Moira professionista del tessile, solo che si occupava di destini e non di abiti).
Spesso il fascino di un romanzo è dato dall’abilità del suo autore di tacere particolari e dosare i segnali di crisi dei personaggi, mantenendoli in aristocratiche quanto irritanti zone d’ombra. L’ora muta procede in modo del tutto contrario. Ogni personaggio ci appare inserito nella sua luce, quasi sovraesposto, e ne vediamo pregi e difetti, ne capiamo le ragioni; con diabolica assertività Cerlini ci costringe a comprendere anche le pulsioni più sgradevoli. Riesce in questo delocalizzando la trama in forme e generi diversi. Se nei suoi primi due romanzi Fitzgerald alternava la prosa con il linguaggio teatrale, ecco che Cerlini a metà libro usa l’artificio della sceneggiatura per decodificare la scatola nera di Camilla, mentre le ragioni della sua madre biologica, Nimat, personaggio laterale e centrale, dirompente e dirimente, vengono affidate a un’intervista.
Con L’ora muta Cerlini alza il tiro della sue ambizioni e tende all’opera – mondo. Romanzo di formazione, romanzo d’amore, romanzo sul lavoro, spy story e sguardo fenomenologico, il tutto fuso in una struttura perfettamente scandita, mobile, capace, come già detto, di dare voce piena a ogni personaggio. L’accumulo di sottotrame è risolto con assoluta naturalezza, niente forzature ma un piacere di narrare contagioso che spinge chi legge a voltare pagina.
Alla fine di questa saga tragica che abbraccia due generazioni e che parte dal 1985 per arrivare ai giorni nostri, violando confini anche fisici e scavando e poi riempiendo nuovamente trincee tra gli uomini, resta forse la consapevolezza di come tutte le esistenze siano collegate e tra loro dipendenti. Una consapevolezza ben sintetizzata da Nimat nella sua parabola esistenziale e politica. Anche se non è la protagonista, Nimat è comunque la figura che riesce a dare la misura del talento entropico di Cerlini. Una donna portatrice della propria tragedia personale e nazionale (è palestinese) che impatta con le strutture della vita italiana, del suo stato e si pone come ideale cattiva coscienza, controcanto e specchio deformato del cammino compiuto da sua figlia Camilla. Ne L’ora muta c’è questa tensione continua a scoprire le contraddizioni e poi metterle l’una accanto all’altra, evidenziarle e tentare di farle convivere: l’amore paterno con la pratica del ricatto, la borghesia che crolla nel sottoproletariato si direbbe per pura incomprensione familiare. Camilla, che riassume nel suo DNA tradizione contadina e rampante yuppismo, entrambi calati nelle nuove e nevrotiche forme del nostro mondo del lavoro, ha il suo momento-chiave nella lunga tirata fatta all’amica Luisa contro il suo stile di vita alternativo. C’è, in quel dialogo acuminato, una comprensione profonda (comprensione piena dell’autore, parziale del personaggio) dell’enorme equivoco in cui, improvvisamente, ci siamo trovati a vivere. Un mondo di valori spazzato via apparentemente senza violenza. E invece la violenza c’è stata e c’è, eccome. L’ora muta mostra questa violenza che noi lettori possiamo sperimentare in ogni istante della nostra vita, semplicemente uscendo di casa. Il termometro è nei contratti di lavoro che firmiamo e nello spaesamento che proviamo se solo ci mettiamo a riflettere sulla nostra identità di lavoratori e cittadini. L’ora muta parla anche di questo perché, forse, non è solamente un romanzo ma anche un referto. Se vogliamo farci un’idea dell’Italia, è bene leggerlo.

Simone Cerlini nasce a Reggio Emilia, nel 1972. Scrive di letteratura e costume per Pangea.news. Ha collaborato con Il primo amore e Scrittinediti. Nel 2013 pubblica con Fabio Orrico la raccolta di saggi “L’indicibile nella narrativa contemporanea”. “La ragazza che ballava sui cornicioni” (Feltrinelli Zoom, 2015) è la sua ultima raccolta di racconti.

:: Hard Cash Valley di Brian Panowich (NNEditore 2021) a cura di Fabio Orrico

28 febbraio 2021

Si arricchisce di un nuovo volume la toponomastica letteraria di Brian Panowich, scrittore americano fautore di un noir capace di flirtare, in quanto a senso del paesaggio e consapevolezza della tradizione, a più riprese col western. Dopo il grande dittico su Clayton Burroughs e la sua famiglia criminale era fisiologicamente impossibile restare a simili altezze ma Hard Cash Valley decisamente non è un titolo di secondo piano. La figura di Burroughs è ancora presente a un livello quasi mitopoietico e l’ombra del suo retaggio di violenza famigliare si stende anche su questa storia. Detto ciò, è bene rimarcare che Hard Cash Valley è testo del tutto autonomo e mette in scena un protagonista, il capitano di polizia Dane Kirby, la cui parabola è meno arroventata di dolore cosmico rispetto a quella dello sceriffo Burroughs ma non certo tranquilla né pacificata. Anche Kirby sconta il suo fatal flaw: ha perso infatti l’amata moglie e la figlia in un incidente stradale e il fantasma del perduto amore finisce per giocare una parte importante anche nel suo presente, condizionandolo e in parte addirittura indirizzandolo.
Chiamato sul luogo di un delitto commesso da un vecchio amico, Kirby si trova improvvisamente a dover gestire un’indagine che ha il suo epicentro proprio nella comunità in cui vive. Accanto a lui l’agente dell’FBI c’è Roselita Velazquez, una sbirra tosta e dal brutto carattere. Arnold Blackwell, un criminale di piccolo cabotaggio ha fatto saltare il banco dello Slasher, sorta di superbowl dei galli da combattimento, vincendo in pratica tutte le scommesse. L’incasso sfiora i due milioni di dollari. Sulle sue tracce si sono buttati due spietati sicari filippini e un misterioso assassino nerovestito. Imprevedibilmente, si scopre che la mente del colpo è William, fratello undicenne di Arnold affetto dalla sindrome di Asperger, un piccolo genio la cui mostruosa capacità di calcolo fa gola a uomini avidi di soldi e dai pochissimi scrupoli. Come sempre, Panowich è straordinario nel delineare il milieu delle sue storie. Dane, di fatto, è un Virgilio incaricato di far orientare poliziotti meno esperti nel suo mondo, quell’Hard Cash Valley che domina il romanzo fin dal titolo, segnandone i confini geografici.
Costruito su una progressione tanto incalzante quanto fascinosa, il libro di Panowich non dà veramente un attimo di tregua. Come sempre, il mondo del narratore statunitense non è un posto facile in cui vivere. Tradimenti e crudeltà sono dietro l’angolo e l’unica nota di conforto viene dalla lealtà che, quasi in maniera illogica, sedimenta il percorso di alcuni personaggi. Lealtà e amore, sembrano queste le bussole usate da Panowich per resistere al caos e allo sfacelo di un paese che ha messo il Dio Denaro in cima al suo sistema di valori. Il tema del denaro è calcato con insistenza. Attorno ai soldi scomparsi dello Slasher si inscena una vera e propria danza macabra in cui si uccide senza passione e forse senza risentimento. Per i protagonisti di questa storia, la violenza è principalmente una professione. Proprio per questo risalta con maggior forza l’idealismo di Dane Kirby, come dicevamo personaggio meno tragico di Clayton Burroughs ma altrettanto affascinante. A parte Dane, in Hard Cash Valley nessuno è quello che sembra ma, e qui sta la dimensione morale di uno scrittore come Panowich, a tutti è concessa una redenzione. Come un moderno (e incanaglito) Zola, Panowich osserva al microscopio i suoi eroi per constatare se e in che modo questa occasione può essere colta ed eventualmente quanto sia alto il prezzo da pagare per afferrarla. Il romanzo ha una vertiginosa accelerazione nelle ultime cento pagine, dove il ritmo delle agnizioni e le logiche causa-effetto hanno forse troppi punti di accumulo. Ma è il peccato veniale di un libro che se sbaglia, lo fa per generosità. In effetti, la grandezza di Panowich è confermata dalla sua voglia di sperimentare. Dopo due romanzi cupi e oscuri come i precedenti, ha in parte alleggerito i toni (solo in parte però, perché la violenza è messa in scena senza scorciatoie né volontà di edulcorare) e privilegiato lo scavo psicologico di protagonisti più sfaccettati. Se mi perdonate l’icasticità dell’affermazione, direi che i precedenti Bull Mountain e Come leoni erano una sorta di antico testamento noir di cui Hard Cash Valley leviga qualche asperità, pur mantenendone intatta la malìa.

Brian Panowich è stato per anni un musicista itinerante prima di fermarsi in Georgia, dove vive tuttora e lavora come pompiere. Il suo romanzo d’esordio, Bull Mountain, pubblicato da NNE nel 2017, è stato finalista nella categoria Mystery/Thriller del Los Angeles Times Book Prize 2016 accanto ad autori del calibro di Don Winslow. La saga di Bull Mountain prosegue con il secondo episodio, Come i leoni (2018).

Source: libro inviato al recensore dall’editore. Ringraziamo Francesca dell’Ufficio stampa NNEditore.

:: Un’intervista con John Woods autore di Lady Chevy, a cura di Fabio Orrico

5 febbraio 2021

Ho trovato impressionante leggere Lady Chevy due settimane dopo gli incidenti di Capitol Hill. Cosa ne pensi di quello che è successo?

Grazie. Penso che LADY CHEVY sia un romanzo importante per il nostro momento attuale negli Stati Uniti. In molti modi, aiuta a illustrare come siamo arrivati ​​a questo punto.
Sono profondamente addolorato per l’assalto al nostro Campidoglio, ma non sono affatto sorpreso. Durante l’era Bush/Cheney, sono diventato un pessimista apolitico. Ho lasciato andare molti miti americani. Per anni ho sentito che siamo una nazione in crisi sociale, economica, ambientale e politica. Le nostre istituzioni si sono guadagnate la nostra sfiducia. La pandemia ha acuito tutte queste tensioni, ha rivelato la terribile fragilità del nostro sistema. Nonostante le differenze, credo che molti americani di ogni provenienza stiano soffrendo e condividiamo la stessa paura di un futuro incerto. Ma la rabbia che divide sembra essere l’emozione dominante e infestante. I legami civili si stanno erodendo. L’empatia sta morendo. Venendo dall’Appalachian Ohio, è mia percezione che Trump abbia attinto a un sottoinsieme di questo dolore e paura, abbia manipolato questa rabbia e poi l’abbia usata come arma contro i valori democratici. L’attacco al nostro Campidoglio incarna questo.
Cerco di essere fiducioso, ma rimango sopraffatto dalla paura per il futuro dell’America.

I found it impressive to read Lady Chevy two weeks after the Capitol Hill incidents. What do you think about what happened?

Thank you. I feel LADY CHEVY is a relevant novel for our current moment in The United States. In many ways, it helps illustrate how we reached this point.
I am deeply saddened by the assault on our Capitol, but I am not at all surprised. During the Bush / Cheney era, I became an apolitical pessimist. I let go of many American myths. For years, I have felt we are a nation in social, economic, environmental, and political crisis. Our institutions have earned our distrust. The pandemic has heightened all of these tensions, revealed the dire fragility of our system. Despite any differences, I believe many Americans of all backgrounds are hurting, and we share the same fear of an uncertain future. But divisive anger seems to be the dominant, festering emotion. Civil bonds are becoming untethered. Empathy is dying. Coming from Appalachian Ohio, it is my perception that Trump tapped into a subset of this pain and fear, manipulated this anger, and then weaponized it against democratic values. The attack on our Capitol epitomizes this.
I try to be hopeful, but I remain overcome with dread for America’s future.

Vedi Tom, lo zio di Amy, irrompere in Campidoglio, insieme agli altri rivoltosi? Avrebbe interpretato l’azione come il segnale di qualcosa che sta per iniziare o avrebbe prevalso il suo estremo individualismo?

Penso che Tom sosterrebbe i sentimenti dei rivoltosi, ma mi è difficile immaginarlo lì, mentre prende parte a un caotico tentativo di prendere il potere per conto di Trump. Mi piace sperare che la bontà in lui possa prevalere e che non si farebbe mai coinvolgere nella violenza politica. Ma temo anche che se persone come Tom si coordinassero seriamente con forze di polizia e militari che la pensano allo stesso modo, i risultati avrebbero un successo disastroso. Penso che Tom interpreterebbe quanto accaduto al Campidoglio come un atto di nazionalismo bianco, e lo vedrebbe come un’ulteriore prova che l’esperimento democratico americano sta fallendo. Indipendentemente dalla sua partecipazione, avrebbe visto l’attacco al Campidoglio come un segno di ulteriori violenze a venire. Come dice ad Amy, “Questo impero sta crollando”.

Do you see Tom, Amy’s uncle, breaking into the Capitol, along with the other rioters? Would he have interpreted the action as the signal of something that is about to begin or would his extreme individualism prevail?

I think Tom would support the sentiments of the rioters, but I have a hard time picturing him there, taking part in a chaotic attempt to seize power on Trump’s behalf. I like to hope the goodness in him would prevail, and he would never engage in political violence. But I also fear that if people like Tom were to seriously coordinate with like-minded police and military forces, the results would be disastrously successful. I think Tom would interpret what happened at the Capitol as an act of white nationalism, and he would see it as further proof that America’s democratic experiment is failing. Regardless of his participation, he would see the attack on the Capitol as a sign of more violence to come. As he tells Amy, “This empire is collapsing.”

Consideri il tuo romanzo un noir? Mi sembra che si discosti molto velocemente dal genere, utilizzando alcuni codici linguistici ma in funzione di una definizione più precisa dei personaggi.

Penso che la mia scrittura sia difficile da classificare, al di fuori del termine poco chiaro “narrativa letteraria”. Ma mi piace lavorare all’interno delle forme del genere, sovvertendo aspettative e tropi confortevoli. Per me, LADY CHEVY esiste all’incrocio tra i generi Noir e Horror.

Do you consider your novel a noir? It seems to me that it diverges very quickly from the genre, using some linguistic codes but in function of a more precise definition of the characters.

I think my writing is difficult to categorize, outside the unclear term “Literary Fiction.” But I enjoy working within the forms of genre, while subverting comfortable expectations and tropes. For me, LADY CHEVY exists at the intersection of the Noir and Horror genres.

Ho trovato straordinario il capitolo verso la fine in cui Amy fa jogging ed elenca lo spargimento di sangue della contea. Una piccola, martellante poesia in prosa all’interno del romanzo. Sei anche un lettore di poesie?

Grazie. Questo è anche uno dei miei capitoli preferiti. Amo la poesia. Come lettore, spesso non faccio distinzione tra prosa e poesia. Le forme sono, ovviamente, diverse, ma il mio apprezzamento per la lingua è lo stesso. Apprezzo il potere del linguaggio di creare immagini belle e orribili, sentimenti astratti, ritmi misteriosi e simboli subliminali. Per me, la buona prosa è poesia.

I found extraordinary the chapter near the end in which Amy jogs and lists the bloodshed of the county. A small, pounding prose poem within the novel. Are you also a poetry reader?

Thank you. That is one of my favorite chapters as well. I love poetry. As a reader, I often make no distinction between prose and poetry. The forms are, of course, different, but my appreciation for the language is the same. I value the power of language to create beautiful and horrific images, abstract feelings, mysterious rhythms, and subliminal symbols. For me, good prose is poetry.

È stato difficile gestire la voce in prima persona di una ragazza di 18 anni? Il risultato mi è sembrato molto naturale e coeso.

C’erano aspetti che erano impegnativi e ho cercato di farli bene, ma non ho trovato difficoltà. La voce di Amy mi è sembrata molto naturale. La mia narrativa coinvolge molti personaggi e narratori diversi, uomini, donne e bambini. La prima persona è una cosa speciale. Prima di scrivere in prima persona, una voce deve venire da me, e poi devo abitare lo spazio mentale e il linguaggio di quella voce distinta. Può sembrare strano, ma è vero. Ascolto le voci. Queste voci, ovviamente, sono influenzate da persone che conosco. E le donne nella mia vita sono sempre state forti. E sono sempre state forti alle loro condizioni, senza aderire a nessuna convenzione sociale di questo o quello. Sono i loro sé autentici e non si scusano. Sono sopravvissute.

Was it difficult to manage the first person voice of an 18-year-old girl? The result seemed to me highly natural and cohesive.

There were aspects that were challenging, and I strived to get them right, but I did not find it difficult. Amy’s voice felt very natural to me. My fiction involves many different characters and narrators, men and women and children. First person is a special thing. Before writing in first person, a voice must come to me, and then I must inhabit the mental space and language of that distinct voice. That may sound odd, but it’s true. I listen to the voices. These voices, of course, are influenced by people I know. And the women in my life have always been strong. And they have always been strong on their own terms, without adhering to any societal conventions of this or that. They are their own authentic selves and make no apologies. They are survivors.

Il tuo modo di costruire i personaggi è molto convincente: permetti loro di essere contraddittori e quindi più autentici. Amy è l’esempio perfetto. Vorrei sapere quanto – se non del tutto – pensi abbia sentito l’influenza di Tom e Hastings, i suoi padri surrogati, nelle sue scelte più estreme.

Mi piacciono i personaggi complessi e interessanti, tormentati da incongruenze. Penso che le ideologie e i sistemi di credenze posseggano le persone e corrompano le loro vere identità. In un ambiente tossico, le orribili visioni del mondo possono diventare attraenti e responsabilizzanti. Per molti versi LADY CHEVY parla del potere insidioso di queste influenze. Questa è la dinamica tra Tom e Amy. La loro relazione è una forma insolita di influenza, perché non sono sicuro nemmeno che la trasmissione stia avvenendo. Amy non è razzista, ma è negativamente influenzato dall’idea di Tom che “la forza è diritto”. Tom alla fine arriva a capirlo. Ma è troppo tardi.
Hastings è perso di fronte a queste forze e credo che alla fine influenzi molto Amy.

Your way of building the characters is very convincing: you allow them to be contradictory and therefore more authentic. Amy is the perfect example. I would like to know on how much – if at all – you think she felt the influence of Tom and Hastings, her surrogate fathers, in her more extreme choices.

I enjoy complex and interesting characters, tormented with incongruities. I think ideologies and belief systems possess people and corrupt their true identities. In a toxic environment, horrific worldviews can become attractive and empowering. In many ways LADY CHEVY is about the insidious power of these influences. This is the dynamic between Tom and Amy. Their relationship is an unusual form of influence, because I am not certain either knows transmission is happening. Amy is not a racist, but she is negatively affected by Tom’s greater “might makes right” ethos. Tom eventually comes to understand this. But it is too late.
Hastings has lost himself to these forces, and I feel he influences Amy greatly in the end.

Quanto è importante il paesaggio (e più in generale i luoghi) nella tua narrazione? Anche se non ti soffermi sulle descrizioni, infatti, riesci a trasmettere molto bene la fisionomia delle ambientazioni.

Catturare il tono di un paesaggio o di un’ambientazione è molto importante per me. Credo fermamente nel potere che l’ambiente esercita sull’individuo. La creazione di un’atmosfera determina una narrazione. Per quanto riguarda le descrizioni, voglio sempre fornire dettagli sensuali senza essere troppo specifici e concreti, in modo che il lettore possa immaginare le proprie scene. Anche questo è molto importante per me, quell’intimo legame tra il linguaggio e l’immaginazione e il modo in cui i lettori diventano partecipanti attivi nella creazione di mondi. È una cosa bellissima, ed è il potere distinto della lettura che le arti visive non possono replicare.

How important is the landscape (and more generally the locations) in your narrative? Even if you do not dwell on descriptions, in fact, you manage to convey the physiognomy of the settings very well.

Capturing the tone of a landscape or setting is very important to me. I strongly believe in the power environment has over the individual. The creation of an atmosphere determines a narrative. As for descriptions, I always want to provide sensuous details without being too specific and concrete, so the reader can envision their own images. This is also very important to me, that intimate link between language and the imagination, and how readers become active participants in the creation of worlds. It’s a beautiful thing, and it is the distinct power of reading that the visual arts cannot replicate.

Che rapporto hai con le serie televisive? Te lo chiedo perché molti giovani autori sembrano esserne un po ‘ossessionati, spesso esagerando, dal mio punto di vista, con colpi di scena e cliffhanger. In Lady Chevy, l’uso del twist è frugale e quindi potente, non volto a sorprendere ma piuttosto a rappresentare un’ideologia, un’irrazionalità sottostante della vita, una natura imponderabile del mondo.

Mi piacciono alcune serie televisive, ma è difficile trovare quelle che mi lasciano veramente soddisfatto. Mi piacciono i colpi di scena e gli stravaganti, ma devono essere fatti bene, guadagnati, radicati nel carattere autentico piuttosto che nella trama fabbricata.
Volevo che i colpi di scena in LADY CHEVY fossero rari, ma colpissero forte, essere più inquietante che sorprendente. È così che un’opera d’arte risuona con me; crea un’impressione inquietante e misteriosa. Questo è difficile da trovare in televisione, perché il mezzo spesso sembra richiedere una risoluzione univoca. E questo potrebbe essere ciò che la maggior parte del pubblico desidera. Ma questo va contro le mie intuizioni e interessi.
Mi piace la frase “la natura imponderabile del mondo” e sono felice che tu l’abbia intuito nel racconto.

What relationship do you have with television series? I ask you because many young authors seem to be a little obsessed with it, often exaggerating, from my point of view, with twists and cliffhangers. In Lady Chevy, the use of the twist is frugal and therefore powerful, not aimed at surprising but rather at representing an ideology, an underlying irrationality of life, an imponderable nature of the world.

I enjoy some television series, but it is hard to find ones that leave me truly satisfied. I do enjoy twists and cliffhangers, but they must be done well, earned, rooted in authentic character rather than manufactured plot.
I wanted the twists in LADY CHEVY to be sparse, but to hit hard, be more disturbing than surprising. This is how a work of art resonates with me; it creates an unsettling and mysterious impression. This is difficult to find in television, because the medium often seems to demand unambiguous resolution. And this may be what most audiences want. But this goes against my intuitions and interests.
I enjoy the phrase “imponderable nature of the world,” and I’m happy you sensed this in the narrative.

Vorrei che dicessi qualcosa su Nonno Shoemaker. Ho avuto l’impressione che, raccontandolo in modo impressionistico e studiatamente incompleto, finisse per incarnare il cuore dell’oscurità del romanzo, la sua scatola nera.

Apprezzo molto questa osservazione. La presenza violenta di Barton Shoemaker mette in ombra la famiglia di Amy, in particolare sua madre. È l’influenza più oscura nella vita di Amy. E la visione del mondo che incarna, infesta e corrompe la città stessa.

I would like you to say something about Grandpa Shoemaker. I had the impression that, by telling about him in an impressionistic and studiously incomplete way, he ended up embodying the novel’s heart of darkness, its black box.

I really appreciate this observation. Barton Shoemaker’s violent presence overshadows Amy’s family, particularly her mom. He is the darkest influence in Amy’s life. And the worldview he embodies haunts and corrupts the town itself.

Infine, vorrei che ci dicessi qualcosa sui tuoi gusti letterari, scrittori e libri che ami.

Sono un figlio letterario dell’orrore. Senza un’attrazione iniziale per le storie dell’orrore, dubito che sarei un avido lettore o scrittore. Stephen King, Anne Rice e Edgar Allan Poe furono le mie prime influenze. Il signore delle mosche di William Golding è stato un punto di svolta per me; ha fuso l’orrore con la realtà e rimane il romanzo più formativo della mia vita. E così, mentre i miei gusti si allargavano alla narrativa letteraria, sono sempre stato attratto dalle opere più oscure. Apprezzo l’arte che è disposta ad andare in luoghi molto oscuri per raccontare le storie tragiche che devono essere raccontate e gestisce quel contenuto in modo responsabile e significativo. Alcuni dei miei autori preferiti provengono dalla tradizione “The Southern Gothic”: William Faulkner, Flannery O’Connor, William Gay, Larry Brown, Charles Frazier, Ron Rash e Tom Franklin, seguiti dagli autori dell’Ohio Toni Morrison e Donald Ray Pollock. Amo anche le opere di Shirley Jackson, Ernest Hemingway, Joseph Conrad, James Carlos Blake, John Steinbeck e Raymond Carver.
Come scrittore, sento la maggiore affinità con Cormac McCarthy e Sylvia Plath. Penso che stiamo scrivendo da posti simili. Hanno sbloccato il potere del linguaggio in me, mi hanno aiutato a scoprire la mia voce.

Finally, I’d like you to tell us something about your literary tastes, writers and books you love.

I am a literary child of Horror. Without an early attraction to Horror stories, I doubt I would be an avid reader, or writer. Stephen King, Anne Rice, and Edgar Allan Poe were my earliest influences. William Golding’s Lord of the Flies was a turning point for me; it fused horror with reality, and it remains the most formative novel in my life. And so, as my tastes broadened into Literary Fiction, I was always drawn to the darker works. I appreciate art that is willing to go to very dark places to tell the tragic stories that need to be told, and handles that content in a responsible, meaningful way. Some of my favorite authors come from “The Southern Gothic” tradition: William Faulkner, Flannery O’Connor, William Gay, Larry Brown, Charles Frazier, Ron Rash, and Tom Franklin, followed by Ohio authors Toni Morrison and Donald Ray Pollock. I also love the works of Shirley Jackson, Ernest Hemingway, Joseph Conrad, James Carlos Blake, John Steinbeck, and Raymond Carver.
As a writer, I feel the strongest kinship with Cormac McCarthy and Sylvia Plath. I think we are writing from similar places. They unlocked the power of language in me, helped me discover my own voice.

Traduzione a cura di Davide Mana.

:: Lady Chevy di John Woods (NN Editore, 2021) a cura di Fabio Orrico

22 gennaio 2021

Amy Wirkner ha diciotto anni, vive a Barnesville, una piccola città dell’Ohio, militarmente occupata da un’azienda petrolifera che, per poter praticare il fracking, ha preso in affitto i terreni di quasi tutti gli abitanti, famiglia di Amy compresa. Le conseguenze, seppure non affrontate in tribunale, sono terribili, nascono bambini deformi (il fratellino della nostra protagonista, per esempio), la gente muore di cancro. Non è tutto: Amy ha pochi amici, è costantemente bullizzata dai compagni di scuola perché è obesa e infatti sulla copertina del bell’esordio di John Woods campeggia come titolo il suo soprannome: Lady Chevy. L’epiteto, non proprio lusinghiero, è dovuto al suo fondoschiena, ingombrante e massiccio come una Chevrolet.
Ennesimo spaccato dell’America profonda? Anche, ma non solo. Woods dimostra al primo romanzo una maturità di stile e una fluidità di racconto impressionanti. Da un lato accetta passivamente i cliché che un determinato contesto sociale si porta dietro, nel nostro caso i bifolchi tutti bibbia e fucili, razzisti e fortemente tentati da folli teorie del complotto (e la cronaca dei nostri giorni è lì a ricordarci che non sono clichè innocui, anzi, forse non sono nemmeno clichè in senso stretto), dall’altro se ne fa forza, riposizionandoli in una prospettiva antropologica. Alternando la prima persona di Chevy, credibilissima e piena di sfumature, con il resoconto parallelo delle vicende di Hastings, un poliziotto dalla cupa e oscura morale, Woods dipana un racconto di formazione nerissimo, inscritto in una tradizione di sangue e violenza.
Chevy, dicevamo, ha pochi amici, sostanzialmente due: Sadie, la ragazza più popolare della scuola, praticamente il suo esatto contrario, e Paul, bellissimo e idealista, amore non corrisposto ma presenza costante nella vita della ragazza e occasionalmente spalla cui appoggiarsi nei momenti duri. Il padre di Paul sta morendo di cancro a causa del fracking e il ragazzo vuole vendicarlo con un atto di ecoterrorismo ma ha bisogno di un complice: Amy, naturalmente. Andrà malissimo. E qui è bene fermarsi perché trama e sviluppi meritano di essere goduti leggendo, abbandonandosi al presente storico usato da Woods con tanta sapienza che, quasi, potremmo pensare che la storia si stia mano a mano costruendo sotto i nostri occhi.
Amy ha una sorta di mentore, suo zio Tom, reduce dall’Iraq, suprematista bianco con bunker sotterraneo di serie, in caso che gli Stati Uniti, ormai percepiti come una nazione in decadenza, razzialmente compromessa, dichiarino guerra. Ma il vero incontro che cambierà la vita della ragazza e getterà una luce nera sul suo futuro è quello con Hastings, amico dello zio, meno vistoso nell’enunciare le sue filosofie deviate ma più dolorosamente estremo nel metterle in pratica. La scena del dialogo tra i due, a un terzo dalla fine, è semplicemente magistrale, così come splendido è il lungo, ritmato capitolo, in cui Woods elenca i fatti di cronaca nera di una normale settimana a Barnesville, la follia che sembra pervadere ogni angolo della contea, tanto da renderla una succursale della kinghiana Castle Rock. Con una differenza: Barnesville esiste e la scorciatoia del soprannaturale non è prevista.
Il retaggio di violenza che informa la vita di Amy d’altra parte ha un suo patriarca, il nonno materno del quale circolano inquietanti fotografie negli album di famiglia: sfogliandoli ti imbatti in una normale riunione familiare, un picnic, una gita al luna park, cose del genere, poi volti pagina ed ecco il vecchio abbracciato alle due figlie e alle loro spalle una croce incendiata che illumina un uomo di colore impiccato. Il tutto ordinatamente messo in serie accanto alle immagini più banali. L’orrore: una dimensione che Woods riesce a rendere così tremendamente quotidiana da inabissare il suo romanzo dentro correnti di pensiero metafisiche, pure astrazioni. Probabilmente il segreto della riuscita del libro è proprio la capacità di mostrare crudeltà, deviazioni, bontà e capacità di cura tutte fuse insieme, senza frizioni, con inaspettata coerenza. Una soluzione che, si indovina, non è suggerita dalla voglia di sorprendere ma dalla conoscenza profonda della propria materia di indagine. Il male, sembra volerci dire l’autore, non riesce a scalfire quanto di tenero c’è in un amore adolescenziale o nella lealtà che si instaura tra i reietti della società. Woods è bravissimo a raccontare entrambi i lati del cuore umano, le parti presentabili della nostra personalità, così come quelle di cui ci vergogniamo, lo fa senza moralismi o gerarchie, con la consapevolezza che l’essere umano è una macchina complessa, in cui c’è posto per la grazia e per la ferocia. Come nella vita.

John Woods è uno scrittore americano. È cresciuto in Ohio e si è laureato all’Ohio University. Suoi racconti sono stati pubblicati su Meridian,Midwestern Gothic, Fiddleblack e The Rag. Lady Chevy è il suo romanzo d’esordio.

Source: inviato dall’editore al recensore. Ringraziamo Francesca dell’Ufficio Stampa NN editore.

Oregon Hill di Howard Owen, Traduttore : Chiara Baffa (NN editore 2020) a cura di Fabio Orrico

10 novembre 2020

Grazie a NN Editore, ormai punto di riferimento imprescindibile per chi ama la letteratura americana, arriva nelle librerie italiane Howard Owen, autore di una ventina di romanzi molti dei quali dedicati al giornalista Willie Black. E proprio Willie Black è il protagonista di questo Oregon Hill, noir dal forte impianto civile, attraversato da toni blueseggianti e malinconici. Ma partiamo dal titolo: Oregon Hill è il quartiere operaio della città di Richmond nello stato della Virginia in cui Black ha passato l’infanzia. È il posto in cui ancora abitano molti suoi amici, nonché una madre più bisognosa di venire accudita di quanto sia qualsiasi figlio. Non è un particolare secondario in un libro che fa della sua geografia un elemento narrativo di primo piano. L’indagine di Black attraversa infatti la città mappandone confini e anfratti, zone residenziali e bassifondi. Owen è attentissimo al genio del luogo, così come è preciso e minuzioso nel descrivere le differenze di classe dei suoi protagonisti. Anzi, in una realtà come la nostra, che ha progressivamente (e inesorabilmente) visto erodere il mondo del lavoro e i suoi diritti, lo sguardo di Owen acquista un rilievo sociologico raro nel poliziesco. In fondo la storia di Oregon Hill è anche una storia di odio di classe, declinata senza retorica e luoghi comuni. Uno degli aspetti più convincenti dell’arte di Owen è proprio quello di mettere in scena personaggi prismatici, dei quali è facile riconoscere i torti ma anche le ragioni. In questo senso Willie Black incarna un eroe noir archetipico. Abbastanza smagato da affrontare il male del mondo con sarcasmo e una buona dose di umanità, Black non si fa illusioni sugli esseri umani, ma non per questo sottovaluta il potenziale di bontà che chiunque può manifestare. Ma di cosa parla precisamente Oregon Hill? Di un delitto, naturalmente. Una studentessa viene trovata decapitata. Un poliziotto ansioso di chiudere il caso offre al pubblico e al sistema dei media il colpevole perfetto: un uomo frequentato dalla ragazza, un poco di buono manesco e con una certa inclinazione per le droghe. Ma le cose non sono così semplici e le apparenze, nel mondo a doppio fondo del thriller, facilmente ingannano. Lontanissimo da atteggiamenti stereotipati, Black conduce la sua inchiesta muovendosi tra sottotrame familiari che danno la misura della brillante capacità descrittiva di Owen. Bellissimo il modo in cui viene reso l’ambiente del giornalismo di piccolo cabotaggio del quale il nostro protagonista fa parte. La vita di redazione, con i suoi opportunismi e le sue reticenze, la precarietà che compromette anche i legami più saldi. Black è un uomo decisamente maturo, ha quasi cinquant’anni, diversi matrimoni alle spalle e una figlia con cui i rapporti non sono facili. Oltre a questo deve fatalmente fare le spese della grande crisi che ha sconvolto l’America e il mondo e soprattutto deve vedersela con la rivoluzione tecnologica (e antropologica) che ha trasformato il giornalismo per come lo conosceva. In fondo una delle grandi dialettiche del noir da Chandler in poi è quella che contrappone l’(anti)-eroe al proprio tempo. Da questo punto di vista Willie Black non fa eccezione: uomo e giornalista novecentesco che è costretto a fare i conti con l’informazione online, i blog, modalità del tutto nuove di fabbricare e guidare il consenso. Romanzo trascinante e ricco, abilissimo nel descrivere le mille complessità di una società imprendibile, Oregon Hill sembra dare ragione al maestro francese Jean Patrick Manchette quando individuava nel poliziesco il vero genere beahviourista nonché la più autentica letteratura di intervento sociale.

Howard Owen è nato in North Carolina, ma vive a Richmond, Virginia. Ha lavorato come giornalista per quarant’anni e ha scritto numerosi romanzi di genere. Con Oregon Hill, il primo libro della serie di Willie Black, ha vinto l’Hammett Prize, dopo scrittori come Elmore Leonard, Margaret Atwood, George Pelecanos e Stephen King.

Source: libro inviato dall’editore al recensore, ringraziamo Francesca Rodella dell’Ufficio stampa NN editore.

:: La babysitter e altre storie di Robert Coover (NNEDITORE 2019) a cura di Fabio Orrico

29 novembre 2019

Robert CooverDa colpevole semplificatore quale sono ho sempre pensato che la letteratura americana potesse essere facilmente (e banalmente) scissa in due macroaree. Da un lato autori passionali, viscerali, caldi, dall’altra scrittori mentali, azzimati, freddi. Da un lato una tradizione che potremmo far risalire a Hawthorne e alle sue indagini sulle origini di un paese che lui stesso vedeva assemblarsi, dall’altro una genia più complessa da definire e che può trovare padri spirituali in figure più asimmetriche come Washington Irving. In mezzo potremmo tranquillamente inserire la pietra angolare Hermann Melville, viscerale quant’altri mai ma anche capace di azzardi stilistici mai più ripetuti (salvo poi, in Mobydick, di fatto inventare il flusso di coscienza). Sono distinzioni pedestri e con le quali rivelo la mia fragilità di analisi di fronte a un gigante come Robert Coover da noi pochissimo tradotto (a memoria mia ricordo solo il bellissimo romanzo breve Sculacciando la cameriera) che, organico a un’idea di letteratura in cui possiamo incontrare John Barth e Kurt Vonnegut, William Gass e Donald Barthelme, brandisce la bandiera del post moderno ma da una prospettiva personalissima. Difficile, partendo da questa scelta antologica che abbraccia una produzione che, dal 1962 del primo racconto, arriva al 2016 de L’invasione dei marziani, immaginare uno scrittore meno propenso a farsi incasellare in un genere o anche semplicemente in un atteggiamento, in una propensione, in quel che volete. L’arte di Coover è doppia, tripla, prismatica. A dimostrarlo c’è il racconto che dà il titolo alla raccolta e cioè La babysitter dove l’alternarsi impazzito dei punti di vista detta il ritmo e determina la storia.
NN editore, che finora mi è sembrata la residenza italiana di autori ascrivibili al primo tipo da me sommariamente ipotizzato e cioè i viscerali (in modo quasi e diversamente imbarazzante se consideriamo gli apici di Haruf Drury Ward Woodrel e potremmo citare tutto il catalogo fino alla sintetica e poeticissima Sarah Manguso) adesso ci consegna questo volume polimorfo, tanti racconti di Coover disseminati nel corso della sua carriera quanti sono i traduttori che se ne occupano. Scelta decisamente in linea con le ragioni profonde dei testi, quella di differenziare la voce dei traduttori, e soluzione affascinante e felice. La babysitter e altre storie sembra proporsi come romanzo totale, cassetta degli attrezzi di uno scrittore sorprendente e intelligentissimo. Tutto è godibile, in termini di costruzione e suspense, ma tutto è assolutamente metaforizzabile. Si pensi a un racconto come L’ascensore, dove l’avventura del protagonista, un uomo che tutti i giorni prende lo stesso ascensore, assume i colori lividi di un episodio di Ai confini della realtà ma allo stesso tempo, proprio per l’ambientazione in uno spazio eccessivamente delimitato, diventa lo specchio di un altrove molto più ampio. Coover è autore metaforico per eccellenza ma anche satirico. Attinge a temi e stilemi del mainstream più spinto, esondando dal campo strettamente letterario. A dimostrarlo un racconto come You must remember this dove il nostro riscrive un caposaldo della cultura pop (seppur suo malgrado) come l’immortale Casablanca di Michael Curtiz o anche L’uomo invisibile dove si lambisce addirittura il territorio della narrazione supereroistica. A lato dell’opera cooveriana mi sembra riposi la tentazione della fantascienza. Una sorta di retrobottega mentale o addirittura sottofondo morale che, in quanto più politico tra i generi, fa da carburante all’ispirazione dello scrittore americano.
Purtroppo non conosco molto altro di Coover e sarebbe grande la mia curiosità di leggere un suo libro che per foliazione superasse Sculacciando la cameriera. Ciò che risulta perfetto nel romanzo breve e nel racconto sarebbe altrettanto efficace modulato su un passo più lungo? Insomma, se in questo momento cadesse una stella, saprei quale desiderio esprimere.

Robert Coover (1932) è autore di romanzi e raccolte di racconti, ed è considerato uno dei padri del postmoderno americano. Ha insegnato per più di trent’anni alla Brown University, dove ha fondato l’International Writers Project, un programma rivolto a scrittori internazionali perseguitati per le loro idee e i loro scritti. Con il suo primo romanzo, The Origin of the Brunists, ha ricevuto il William Faulkner Foundation First Novel Award, e con The Public Burning (1977) è stato finalista al National Book Award. NNE pubblicherà anche il suo romanzo Huck Out West.

Source: libro inviato dall’editore al recensore. Si ringrazia l’ufficio stampa NN Editore.

:: Il movimento delle foglie di Tom Drury (NN Editore 2019) a cura di Fabio Orrico

12 settembre 2019

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Dopo la bellissima trilogia di Grouse County Tom Drury continua a illuminare angoli perduti d’America con la sua prosa limpida e partecipe. Il movimento delle foglie racconta la storia di Pierre Hunter, giovane barista con qualche talento musicale (suona la batteria e il violoncello, a dimostrazione del fatto che gli abbinamenti banali non fanno per lui) e abita in una regione del Midwest chiamata Driftless Area, un luogo la cui superficie geologica è costellata di burroni, canyon e foreste. Non è un particolare secondario perché, oltre a occupare la copertina dell’edizione americana in quanto titolo originale, questa Driftless Area, con la sua geografia inospitale gioca un ruolo decisivo nella vicenda terrena di Pierre. Se dico vicenda terrena è perchè questa volta Drury tenta un affondo ulteriore. A differenza del ciclo di Grouse County, tenacemente realista, Il movimento delle foglie ci porta in territori che flirtano col sovrannaturale. Sarebbe sbagliato però, inquadrare questo romanzo, gentile ma implacabile, come una storia dai risvolti horror. A tratti, Il movimento delle foglie, mi ha richiamato alla mente il capolavoro di Frank Capra, La vita è meravigliosa, per la capacità di aprire un punto di osservazione sulla vita degli uomini partendo dalla loro morte, facendo epica di quel complesso meccanismo di più o meno meditate scelte e false piste che spesso sembra essere l’esistenza. Il movimento delle foglie inanella senza un ordine preciso pezzi della vita di Pierre Hunter, la sua storia d’amore con la bellissima ed enigmatica Stella Rosmarin e, una volta scelto il focus del racconto, si concede una deriva crime che scuote le giornate di un ragazzo qualunque come Pierre, un ragazzo nel quale identificarsi è davvero molto facile.
Prima ancora del cosa si mette in scena, in Drury diventa importantissimo il come. Scrittore tenero e anarchico, innamoratissimo dei suoi personaggi, Drury illumina il personaggio di Pierre attraverso la descrizione, di volta in volta quasi impressionistica poi più accurata, di fasi cruciali della sua vita. Si parte con l’adolescenza e il primo amore, per poi riferire di un incidente che agisce da acceleratore per il suo destino. Libro stratificato eppure di cristallina semplicità, Il movimento delle foglie è un anti-manuale di scrittura creativa, idiosincratico e poetico, nel quale Drury si prende tutto il tempo che gli serve per dire ciò che gli preme dire e dà prova di una libertà stilistica senza pari.
Abilissimo nello scolpire il carattere e la fisionomia di una personaggio con due frasi, Drury crea in quest’ultimo romanzo un’altra memorabile galleria di tipi. Non solo Pierre ma anche il suo antagonista Shane Hall, criminale scalcinato e senza sensi di colpa, una versione più dark del Tiny de La fine dei vandalismi, e poi il misterioso Tim Geer, sorta di deus ex machina su cui Drury mantiene un riserbo che è dei grandi narratori, quelli che per comunicare non hanno bisogno di spiegare nulla.
Nota a margine preziosa e prismatica del mondo descritto in Grouse County, Il movimento delle foglie è il segnale della spigliatezza e del coraggio di uno scrittore come Tom Drury, tra i più imprevedibili in circolazione.

TomDrury_sitoTom Drury (Iowa 1956) è uno scrittore americano che ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui la fellowship della Fondazione Guggenheim. Dopo aver insegnato nelle università americane, attualmente vive e insegna a Berlino. La fine dei vandalismi, il suo primo romanzo, è uscito negli Stati Uniti nel 1994 ed è stato subito acclamato come miglior libro dell’anno dalle maggiori testate americane.
Uscito a puntate sul New Yorker, ha ricevuto il premio come Notable Book dell’Ala, l’associazione delle biblioteche americane.
NN Editore ha pubblicato anche gli altri due volumi della trilogia ambientata a Grouse County: A caccia nei sogni e Pacifico; nel corso dei prossimi anni pubblicherà la sua intera opera.

Source: libro inviato dall’ editore al recensore. Ringraziamo Francesca Rodella ufficio stampa dedicato.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: L’obiettore di coscienza di Giuseppina Sciortino (Eretica Edizioni 2019) a cura di Fabio Orrico

17 giugno 2019

L'obiettore di coscienzaMio padre non si sbagliava di molto, poiché una grossa fetta di responsabilità nei confronti dell’infelicità di mia madre era davvero mia, ma dubito del fatto che si preoccupasse veramente della salute della moglie. Per lui quella era semplicemente una cosa sua e l’aveva scelta apposta perché lo servisse senza disturbare. Anche lei avrà avuto i suoi motivi per prenderselo e tenerselo, insomma non c’era alcuna ragione per dubitare che non fossero reciprocamente soddisfatti del loro rapporto. Perlomeno questo è quello che mi sento di affermare oggi in base ai miei ricordi. Ecco, adesso posso dire di aver completamente sviscerato l’argomento.

A parlare è Angelo Vinci, protagonista indiscusso di L’obiettore di coscienza di Giuseppina Sciortino. Da questa disamina spietata e vagamente allucinata capiamo quanto sia radicale questo personaggio che, bernhardianamente, occupa col suo monologo inesausto ogni riga del romanzo di Sciortino.
Chi è Angelo Vinci? Un uomo come tanti e insieme un uomo che, ancora una volta, come tanti, ha gettato via l’occasione di avere una vita mediamente soddisfacente. Afflitto da una grave forma depressiva, Angelo vive insieme a sua zia Grazia e osserva l’esistenza scorrergli a fianco. La sua vicenda esistenziale è costellata dall’incontro con personaggi non meno curiosi ed esemplari di lui. Figure umane che si muovono lungo un crinale frastagliato che comprende la comicità come la tragedia. In questo senso Sciortino riesce a rendere davvero insostenibili le descrizioni di episodi di violenza domestica che coinvolgono i vicini di casa di Angelo. Anche nel contemplare azioni ripugnanti, lo sguardo del protagonista non abbandona una blanda curiosità da entomologo che mette ancora di più in prospettiva la bestialità delle azioni.
L’atto di vedere è centrale in questo romanzo. La situazione di Angelo, cristallizzatasi in un rifiuto del lavoro, delle relazioni come le intendiamo comunemente, lo porta naturalmente ad essere testimone, seppure patologico, di ciò che gli accade intorno. Da questo punto di vista anche il personaggio di Cristina, bella ventenne sua dirimpettaia, finisce per incarnare l’unica storia d’amore possibile per un uomo come Angelo, una storia risolta nella contemplazione e nel voyeurismo. Il titolo stesso del libro ci indica la sua lettura che insegue temi di rinuncia e resa ma anche, paradossalmente, una forte volontà assertiva. Angelo obietta e traligna da una coscienza che è senso comune, modo di pensare e intendere la vita standardizzato, negando il quale c’è il mare aperto delle possibilità, una dimensione che, come tutti i movimenti verso l’ignoto e privi di ogni possibile bussola, può annichilire.
L’obiettore di coscienza è quasi un romanzo di guerra dove la routine, fatta di sguardi e visite di parenti, cure mediche e inaspettate epifanie, è la vera trincea e la lingua di Sciortino si dimostra fedele alleata di questo mood. Una narrazione piana ma percussiva, attraversata da correnti di sarcasmo e disillusione che si concede un meraviglioso affondo nella passeggiata finale di Angelo, rischiarata dai bagliori di un incendio e da una frase-sintesi che apre mondi. A chi gli chiede “Dov’eri finito?”, Angelo risponde infatti: “Non mi sono mai mosso.

Giuseppina Sciortino, siciliana, vegetariana, vive a Milano e lavora per una nota società di telecomunicazioni. Laureata in Lingue e Letterature straniere, ha scritto racconti e poesie per vari siti e riviste. L’obiettore di coscienza è il suo primo romanzo edito.

Source: libro inviato dall’editore al recensore.

:: Il buio a luci accese di David Hayden (Safarà 2019) a cura di Fabio Orrico

18 aprile 2019

Il buio a luci acceseIl buio a luci accese è il libro d’esordio dell’irlandese David Hayden. Ora, grazie all’editore Safarà al quale dobbiamo proposte e recuperi non meno eccentrici (dal classico contemporaneo Alasdair Gray all’americana Helen Phillips), il libro è disponibile anche per noi lettori dello stivale.
Il buio a luci accese è composto da venti racconti per i quali è forse banale ma comunque appropriato spendere la definizione di surreali. La surrealtà di Hayden però non passa attraverso il linguaggio che è preciso fino a sembrare meticoloso, trasparente e intensamente comunicativo. Le descrizioni di Hayden, che si tratti di un paesaggio o di una casa, si conformano a un dettato rigoroso, secondo il quale una parola di troppo spezzerebbe l’eleganza dell’insieme. Ma, naturalmente, quello che succede, il plot se così vogliamo chiamarlo, ammesso che in un libro come questo abbia senso rifarsi al concetto di plot per come viene comunemente inteso, si muove in tutt’altra direzione. A cominciare dal quasi buzzatiano racconto di apertura Sortita che narra gli ultimi istanti di vita di un suicida o meglio ancora di qualcuno che si è gettato da un palazzo perché in effetti, fedele al rigore di cui si diceva, Hayden non perde tempo a spiegare i motivi del gesto. Nel tempo contratto di una caduta si dispiega la possibilità di una vita intera con tanto di decisioni prese troppo in fretta, indecisioni, incertezze e brutte figure. Il mistero è una delle voci, forse la più cospicua, cui rimandano questi testi. Non per forza di cose sappiamo immediatamente chi parla, chi agisce, le sue motivazioni o semplicemente il suo genere sessuale, le informazioni vengono abilmente dosate dall’autore forse anche con una punta di sadismo. La fabula prende forma senza fretta (per quanto la foliazione dei singoli racconti raramente superi le quindici pagine) e ci pone quasi subito in situazioni da incubo, trattate col massimo grado di disinvoltura. Prendiamo ad esempio il bellissimo I resti del mondo che fu, dal taglio postapocalittico, storia che letteralmente si svolge dentro la testa di un uomo. Hayden ha ben chiaro quanto siano sterminate le possibilità della letteratura, il suo grado estremo e incontrollato di sperimentazione e ne approfitta da par suo. O ancora Una mela in biblioteca dove la betise della condizione umana è ritratta con tale impietosa lungimiranza da arrivare all’equivalenza tra uomini e oggetti.
Naturalmente, seppure originalissimo, il talento di Hayden non nasce solitario. In effetti l’ombra del grande conterraneo Samuel Beckett sembra stendersi su più di una pagina e in particolare l’apertura di Dick non può non richiamare alla memoria il Beckett di Giorni felici. Ma è un modello, quello beckettiano e del teatro dell’assurdo, perfettamente metabolizzato e che quindi non viene gestito secondo una logica citazionista ma restituito al lettore con naturalezza, con lo spirito di un classico senza tempo.
Dopo questa raccolta d’esordio pare che Hayden stia lavorando a un romanzo e questo incuriosisce non poco perché la natura del suo talento, fulminante e concentratissimo, sembra sposarsi perfettamente con la forma breve, dalla quale è in grado di cogliere i massimi vantaggi. Lo straniamento e la quotidianità, se fatte cozzare funzionano magnificamente in una decina di pagine, ma è anche vero che la consapevolezza dei suoi mezzi è tale che Hayden saprà sicuramente adattare le sue idiosincrasie a una narrazione più ampia. E noi non vediamo l’ora di scoprire come farà.

David Hayden è nato a Dublino e ha vissuto negli Stati Uniti e in Australia. Autore di racconti, ora vive in Norvegia e nel Regno Unito, dove sta attualmente lavorando a un romanzo.

Source: libro inviato al recensore dall’editore. Ringraziamo Serena dell’Ufficio Stampa Safarà.