Posts Tagged ‘minimum fax’

:: Jasmin Tè verde e Nel territorio del diavolo di Flannery O’Connor

2 gennaio 2019

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Nuovo anno, vecchie tradizioni. Sempre della collezione dei tè verdi di PETER’S TeaHouse oggi ho degustato il loro Jasmin Tè, un delicato tè con il caratteristico profumo dei fiori di gelsomino. Un spicchio di estate in questo inverno non freddissimo (anzi nel mio giardino ci sono già gemme e primi getti). Ottimo senza zucchero, (io lo preferisco) anche pasteggiando. Mi ricorda Parigi e il mio ristorante cinese preferito a Belville. E’ un tè chiaro, sulle sfumature del giallo, corposo, leggermente aspro, facilita la digestione e come tutti i tè verdi e drenante, antiossidante e depurativo.

La preparazione è semplice:

  • 1 cucchiaino di tè
  • 80 ° la temperatura dell’acqua (è un tè più delicato quindi fate attenzione a non bruciarlo con l’acqua in piena bollitura, aspettate un minuto, se non avete il termometro per l’acqua)
  • 2 o 3 minuti di infusione

Consiglio goloso:

Jasmin Tè lo consiglio con tartine salate, formaggio e speck.

E ora veniamo al mio consiglio di lettura:

Jasmin Tè è perfetto leggendo Nel territorio del diavolo – Sul mistero di scrivere, di Flannery O’Connor. Tanti brevi saggi sul mestiere di scrivere di una delle più incredibili autrici americane di racconti. Stile caustico, pungente, non scontato. Da rileggere spesso.

E un ultimo consiglio, non abbiate fretta, sorseggiate il tè lentamente in compagnia di felici pensieri.

Source tè: campione omaggio gentilmente inviato da PETER’S TeaHouse, ringraziamo Mattia dell’ ufficio marketing.

Source libro: Acquisto personale.

:: Ellroy Confidential – Scrivere e vivere a Los Angeles, a cura di Tommaso De Lorenzis (minimum fax, 2015) a cura di Giulietta Iannone

14 febbraio 2016
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Se amate James Ellroy è difficile che vi sia sfuggito Ellroy Confidential – Scrivere e vivere a Los Angeles, uscito lo scorso novembre per minimum fax a cura di Tommaso De Lorenzis. Beh se vi è sfuggito siete ancora in tempo per rimediare e farvi una full immersion nella vita, scritti e miracoli del demon dog della crime fiction statunitense. Ellroy Confidential contiene il meglio o per lo meno una selezione molto ragionata delle interviste che il nostro ha concesso negli anni a vari scrittori e giornalisti, partendo dalla prima che leggenda metropolitana vuole se la sia fatta da solo. James Ellroy è un buon soggetto da intervista, generoso, loquace, affatto refrattario a concedersi ed esporsi. Quanto gli piaccia essere intervistato non è dato sapere ma quello che è certo se serve a promuovere il suo culto maledetto ben venga, non si tira indietro, anzi collabora molto attivamente. Un po’ ingrandisce qualche episodio, stando a lui dovrebbe essere stato arrestato in gioventù una quantità spropositata di volte, quando la realtà ci indurrebbe alla prudenza e a ridimensionare un po’ le cifre. Ma se anche colorisce un po’ la realtà, e molte cose vanno prese col dubbio di inventario, più che un mentitore seriale è un ricordatore creativo, e soprattutto divertente. E’ piacevole leggere le sue interviste, quanto i suoi libri, solo che qui appunto ci sono due voci a confronto la sua e quella di un presunto antagonista, che quasi mai veste e calza il ruolo dell’inquisitore molesto. Ellroy porta l’intervistatore dove vuole lui, e raramente capita il contrario. Le parti più sincere e spontanee sono senz’altro quelle dedicate alla madre e alla sua morte. Ne parla senza reticenze, quasi come se avesse elaborato un lutto durato una vita, che continua tutt’ oggi ed è il carburante di cui si nutre la sua stessa creatività. Spesso si ha la sensazione che non sia così pazzo come il suo mito narra, e che si diverta piuttosto a spiazzare, disorientare e stupire i suoi interlocutori, sia che siano lettori storici dei suoi libri, che occasionali conoscenze da una notte e via. E’ molto più razionale e rigoroso di quanto gli piaccia far credere, come se un’anima d’acciaio lo sorreggesse e spingesse a un’autoanalisi feroce, strumento privilegiato che utilizza spavaldamente per migliorare sé stesso e il suo essere scrittore, a quanto pare la sola cosa che davvero lo interessi. Di aneddoti ce ne sono numerosi, alcuni gustosi, altri grotteschi, alcuni straconosciuti, altri che non avevo mai sentito, insomma ce ne è per tutti gusti e per tutti i gradi di conoscenza dell’autore. Non ci si annoia in sua compagnia, e soprattutto in controluce si vedono le ombre dei suoi libri che si muovono come fiamme. James Ellroy è un personaggio altrettanto stravagante quanto i suoi personaggi di carta e non è detto che non ci dedichi altrettanta cura nel costruirlo. Chi sia davvero Ellroy forse non lo sapremo mai, ma in fondo saranno pure affari suoi. Il ruolo del lettore voyeur dopo tutto ci sta stretto, come sta stretto a lui.

James Ellroy è nato a Los Angeles nel 1948. E’ l’acclamato autore della L.A. Quartet – Dalia nera, Il grande nulla, LA Confidential e White Jazz, così come della Underworld USA trilogy: American Tabloid, Sei pezzi da mille, Il sangue è randagio. E’ anche auore della non-fiction, Caccia alle donne. Ellroy vive a Los Angeles.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Alessandro dell’Ufficio Stampa minimun fax.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: L’invenzione della madre, Marco Peano o della malattia come metafora (minimum fax, 2015) a cura di Giulia Guida

17 gennaio 2016
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Marco Peano ha scritto il romanzo che stavo cercando dalle sei di mattina del dodici febbraio duemilatredici, quando mio padre – nella sua forma di organismo umano bipede a sangue caldo come l’avevo immaginato per i primi ventitrè anni della mia vita, con tanto di discutibili maglioni a rombi, una passione irrefrenabile per la frutta martorana, un’eccitazione quasi fisica per i numeri e gli LP di Giorgio Gaber nascosti tra un ventricolo e l’altro con disincanto e ostinazione – ecco, quando tutto quello che aveva contribuito a costituire l’entità “padre” fino a quel momento ha smesso di esistere. Quando si guarda una persona morire, – nell’istante della transizione tra uno stato e l’altro della materia – nella coscienza dell’osservatore si impone un’evidenza, arriva luminosa e inappropriata, quell’evidenza che accomuna tutte le specie dell’universo fin dall’era della formazione del primo protozoo unicellulare: ovvero, noi siamo il nostro corpo.

Si vive dentro un corpo per anni, decenni alle volte, senza avere una piena consapevolezza del suo peso, senza la necessità di combattere per la sua sopravvivenza, senza la preoccupazione di preservarlo dal suo naturale e inevitabile processo di decadimento. Da giovani si canalizzano tante di quelle energie verso l’interno, impegnati come siamo nella costruzione e nella cura della nostra introspezione, che si finisce per dimenticare la caducità del corpo, ridotto a mero involucro della personalità, concepita invece come un’entità immateriale ma destinata a un’esistenza più duratura, vincolata a una promessa di non deperibilità, scriverebbe Peano. Fin quando non ci si ammala o si guarda qualcuno ammalarsi. Solo a quel punto l’integrità del corpo appare in tutta la sua indispensabilità, quando il mondo già comincia a dividersi in sani e malati, in funzionanti e guasti, in vivi e morituri. Ecco perché Peano è riuscito laddove altri hanno fallito: ha raccontato con una lingua dolorosamente concisa non la morte e la successiva rielaborazione della perdita, ma la storia di un corpo che muore, la storia di una malattia, che si trasforma nella storia della malattia stessa.

Mi ricordo che una delle volte in cui mio padre era ricoverato presso l’ospedale di Padova, mentre bighellonavo nella sezione saggistica della Feltrinelli, mi sono imbattuta nel libro di Susan Sontag, “Malattia come Metafora”. “La malattia”, scriveva Sontag, “è il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiamo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese”. La dicotomia che consegue dall’insorgenza della malattia, tra la vita prima e la sopravvivenza dopo – come se la scoperta delle cellule cancerose segnasse un anno zero, l’inizio di una grottesca rinascita al contrario – si reifica nel romanzo di Peano a tal punto da spaccare la sua casa a metà, la sua famiglia in due ambienti separati: un “di qua”, dove lo status quo è ancora intatto e un “di là”, in cui i punti di riferimento implodono, la rete dei rapporti familiari si riduce a un cumulo di significanti senza significato, gli articoli ospedalieri sono accolti come “nuovi membri della famiglia” e i blister di medicine giacciono sul comodino come “le scatole di cioccolatini per gli ospiti nelle case delle altre famiglie”:

“Di là” è il mondo convenzionale con cui Mattia e suo padre hanno preso a chiamare il basso fabbricato che, dopo il ritorno a casa successivo all’ultimo ricovero, ospita la madre e la sua malattia […] Come se mettendo pochi metri di distanza – quanti saranno dieci? – dalla casa vera e propria, il dolore potesse essere contenuto. Di là. Sembra quasi mimare l’abitudine di pensarla “al di là”. La malattia di questa madre diviene un elemento fondante del nucleo famigliare, tanto “da far pensare a Mattia che il cancro sia in realtà il legame, ciò che permette di continuare a sommare un giorno agli altri giorni”.

Il cancro trangugia ogni parola e rimodula il linguaggio fino a diventare l’unico strumento di narrazione della realtà esterna: se il cancro non può essere sconfitto, lo si impara a conoscere in tutte le sue possibili manifestazioni, se ne studia morbosamente l’eziologia, la patogenesi, la percentuale di incidenza, le variabili del processo di accrescimento e di metastatizzazione. Se il cancro non può essere sconfitto, non resta altro che diventare il cancro. Un giorno, mentre è seduto al caffè di un centro commerciale, incontra due ex compagni di classe che si stanno per sposare di lì a poco. Seppur più per cortesia che per reale interesse, i due domandano notizie delle condizioni della madre e Mattia si confida, sente l’urgenza di una valvola di sfogo esterna rispetto alla dimensione del “di là” – ma quando comincia a illustrare nel dettaglio i segni del carcinoma meningeo che sta devastando il corpo di sua madre – l’orrore della perdita dell’autosufficienza, della vista e della coscienza – gli amici inorridiscono, non possono e non vogliono comprendere, i loro occhi non conoscono la decomposizione del corpo, i loro sguardi sono proiettati al futuro – lo stesso futuro a cui il padre di Mattia il 1° agosto del ’74 andava incontro il giorno del suo matrimonio, “nervoso ed eccitato mentre visualizza il profilo di quella che sta per diventare sua moglie stagliarsi perfetto nella luce del giorno”.
In quel momento il figlio percepisce la portata della propria inadeguatezza e della propria liminalità: è un organismo anfibio, ormai incapace di esistere nel mondo dei vivi, ma non ancora destinato a occupare uno spazio in quello dei morti. Ed ecco dunque la misura del danno, tragicamente racchiusa nella condizione dell’orfano: “una parola che stringe nelle spire delle o in apertura e in chiusura chi le indossa: due catene circolari che ammanettano a un infinito presente”.

Marco Peano è nato a Torino nel 1979. Si occupa di narrativa italiana per la casa editrice Einaudi. L’invenzione della madre è il suo primo romanzo.

Source: acquisto personale.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: Sotto una buona stella, Richard Yates, (minimum fax, 2014) a cura di Giulietta Iannone

17 dicembre 2015
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Sotto una buona stella  (A Special Providence, 1965, 1969) è il mio primo Yates, il mio approccio con questo scrittore, che già di per sè dovrebbe far tremare le vene ai polsi a qualsiasi lettore abbia intenzione di approfondire la cosiddetta letteratura alta, poco commerciale, quasi per adepti. Forse è una scelta azzardata. Revolutionary Road, il suo libro più noto, sarebbe stata una scelta più canonica, e io mi sono rifiutata pure di vedere il film, almeno non prima di aver letto il libro. E questa occasione non si è mai presentata. Non l’ho mai cercata, è più corretto dire.
Sotto una buona stella è dunque una divinità minore nel pantheon yatesiano. Ma sempre di divinità si tratta. Critiche tiepide al suo apparire, poco calore dal pubblico (ricordiamo Yates è per adepti), un certo ripetersi di temi che sembrano totemici per questo autore, ripetuti senza vincoli di continuità, e espressi quasi in tono minore. Che dire Yates o lo si ama o lo si odia. E’ difficile dire ni, mi piaciucchia. E anche chi lo odia deve riconoscere che è uno scrittore notevole, forse solo i temi appunto che tratta possono scoraggiare o apparire indigesti.
La mia totale ignoranza sulle sue opere (è difficile non aver sentito parlare di Yates) mi impedisce di fare seri raffronti (anche solo nella mia testa) e mi spinge a usare la prefazione di Francesco Longo e i cenni biografici di Andreina Lombardi Bom (che è anche la sensibile traduttrice del testo) come due mappe astrali (restando in tema di stelle). L’ignoranza però non viene sempre per nuocere, anzi, in questo caso, mi permette uno sgurado scevro da scorie, preconcetti, o idiosincrasie.
Yates è un autore difficile, non perche sia particolarmente oscuro o contorto, (la sua scrittura è piuttosto limpida e lineare, classica se vogliamo), ma per i temi che affronta, altamente autobiografici (se non psicoanalitici). Il suo realismo, perchè di realismo si è parlato, non tende all’ autoassoluzione o alla catarsi. E’ spietato, essenziale, (alcuni ritengono abbia portato al minimalismo) e senza dubbio americano. Non disdegna le parti sgradevoli, spoglia i suoi personaggi e ce li presenta nella luce peggiore.
Non è un realismo moralista. Si tiene ben alla larga da giudizi di merito o condanne preventive. Forse è condannato e contaminato da una certa freddezza che rende difficile parteggiare per i suoi personaggi. Anche nel finale, che non anticipo, ma che dovrebebre essere il culmine della nostra empatia verso Alice Prentice (la madre) e quasi invece lo accogliamo come una sorta di liberazione.
Piacevoli però i corsi e ricorsi, e la struttura circolare. Inizia nel prologo con madre e figlio che vanno a cena (crocchette di pollo, faccio finta di ascoltarti, etc.) e si ripete quasi identica nell’epilogo con Alice e l'”amica” Natalie Crawford a parti invertite.
Sotto una buona stella è un romanzo senza eroe, dunque, e Robert Prentice (il figlio) se ne accorge suo malgrado (in guerra) di non averne la vocazione. Ma Alice Prentice al contrario è titanica nel suo fallimento, nelle sue aspirazioni tradite, nel suo coraggio sprecato, nel suo amore per il figlio. E’ un personaggio da tragedia greca a cui si perdona egoismo, grettezza, e superficialità, tanto il suo sogno e le sue illusioni sono alte e incontaminate.
La pochezza (di ambienti, destini, talento) che la circonda non la sfiora e non l’annienta. Ha una fiducia incondizionata nel futuro e nelle sue possibilità e quasi rimpiangiamo di non potere vedere la sua faccia e conoscere i suoi pensieri dopo l’ultima lettera, con vaglia accluso, del figlio. Ma se tanto ci da tanto, non accetterà come una sconfitta neanche quella ennesima beffa del destino. Se Yates è realista, Alice Prentice è l’irrealtà fatta donna, con buona pace del sogno americano.
Un gigante e soprattutto un maestro per generazioni di scrittori.

Richard Yates (1926-1992) dopo una vita avara di successi e diversi anni di ingiustificato oblio, è stato recentemente scoperto come una delle voci più significative della letteratura americana del Novecento: la sua scrittura cristallina e spietata ha anticipato il realismo di Raymond Carver e Richard Ford, e oggi viene ammirata da narratori come Nick Hornby, Michael Chabon e Zadie Smith. Yates è autore di nove libri, fra cui la raccolta di racconti “Undici solitudini” e i romanzi “Easter Parade” e “Disturbo alla quiete pubblica”, tutti editi in Italia da Minimum Fax, che sta ripubblicando la sua opera Omnia.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Alessandro dell’Ufficio Stampa minimun fax.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: Bengodi e altri racconti, George Saunders (minimum fax, 2015) a cura di Giulietta Iannone

14 ottobre 2015

saunders_bengodiChe l’America sia un gigantesco e bizzarro parco divertimenti (a tema) ne avevamo il sospetto anche noi che dell’America (forse) ne conosciamo poco o niente, per lo più forti di una visione letteraria, se non cinematografica.
Non tutti noi ne abbiamo una conoscenza diretta. E anche tra coloro che questa conoscenza l’avessero, non tutti hanno la sensibilità e la lucidità di gente come George Saunders. Scrittore texano, classe 58, autore di opere come Pastoralia, Dieci dicembre (difficile che non l’abbiate almeno sentito nominare) e tra altre anche di Bengodi e altri racconti, sua prima raccolta di racconti del 1996 (un secolo fa verrebbe da dire). Già uscita in Italia nel 2005 grazie a Einaudi con il titolo Il declino delle guerre civili americane, e sempre tradotta da Cristiana Mannella, come questa nuova edizione minimum fax, riveduta e ampliata (c’è in più un nuovo racconto e soprattutto una preziosa nota dell’autore, che sconsiglio vivamente di leggere prima dei racconti).
George Saunders è un autore stimato e premiato, prediletto dalla critica più sofisticata e con Dieci dicembre capace di raggiungere anche il grande pubblico con vendite più che ragguardevoli. Dunque ormai non più uno scrittore di nicchia, per palati difficili (come avrebbe facilmente rischiato di essere sbrigativamente etichettato, anche solo da coloro che per primi selezionavano i racconti per il New Yorker), sebbene la sua scrittura sia decisamente complessa, non tanto a livello di struttura sintattica, naturalmente ricercata, (la stesura di Bengodi e altri racconti, per esempio, gli ha portato via sette anni) ma più che altro per i significati occulti (a vari livelli di comprensione) che i suoi testi nascondono.
George Saunders non è un autore poco impegnativo quindi, ma chiarito questo è singolare come sappia catturare il lettore, divertirlo, in una fitta rete di strettissime maglie che vanno dalla critica sociale più radicale alla compassione (reale, non pietistica) che sanno ispirare i sentimenti più delicati e profondi, ancor più se sgorgano da persone che non vi aspettereste mai, pensate solo al padre ormai solo che cura la figlia handicappata del racconto Isabelle, il secondo racconto in ordine di apparizione, capace di regalarci anche un improbabile lieto fine. Poi venne la primavera e nel parco sbocciarono i fiori.
George Saunders sorvola il reale, e in questi suoi primi racconti è ancora più evidente, con una scrittura fantasmagorica e immaginifica, ma se stiamo attenti prorio del reale parla, del reale più profondo e se vogliamo doloroso. Che il suo scritto sia una grande allegoria è anche vero, e più si allontana dai canoni classici del realismo per perdersi nell’astrattezza più naïf, più forse si sente limpida la sua voce originale e non imitativa, col tempo destinata a lasciare le spiagge sicure dell’assurdo per una maggiore concretezza e un dissolversi del dualismo, immaginazione realtà.
Ma in questi racconti è ancora tutto in nuce, la libertà creativa spazia limpida senza vincoli come aspetattive o attese, solo animata dal desiderio di realizzare finalmente qualcosa nella vita. E in questo sta sicuramente la bellezza e la peculiarità di questo testo, di cui potremo anche vedere il rovescio creativo in controluce, appassionatamente descritto nella nota iniziale, che sinceramente avrei voluto durasse più a lungo. Ma forse l’essenziale c’era, e oltre sempre tutto è superfluo.
Molti critici hanno trovato parole bellissime per questa raccolta la cui forza penso sia proprio la malinconia per un tempo ormai definitivamente concluso, che sia la giovinezza, che sia l’America pre crisi, di cui Saunders vedeva tutti i sintomi di una malattia incurabile che presto si sarebbe abbattuta: razzismo, violenza, egoismo, disoccupazione, perdita, disperazione, e le invincibili regole del mercato capitalistico, spietate e fredde come una lama in mano a un serial killer.

George Saunders (Amarillo, Texas, 1958) è autore di una raccolta di saggi, Il megafono spento (minimum fax 2009) e delle raccolte di racconti Nel paese della persuasione (minimum fax 2010), Pastoralia (minimum fax 2014) e Il declino delle guerre civili americane (già uscita per Einaudi). Ha pubblicato racconti, articoli e reportage sul New Yorker, GQ e il Guardian, e ha vinto più volte il National Magazine Award. È stato incluso dal New Yorker nella lista dei «venti scrittori per il 21° secolo» e nel 2013 è stato insignito del PEN/Malamud Award, il più prestigioso premio statunitense per gli autori di short stories. La rivista Time l’ha inserito fra le 100 persone più influenti del mondo.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Alessandro dell’Ufficio Stampa minimun fax.