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:: L’invenzione della madre, Marco Peano o della malattia come metafora (minimum fax, 2015) a cura di Giulia Guida

17 gennaio 2016
madre

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Marco Peano ha scritto il romanzo che stavo cercando dalle sei di mattina del dodici febbraio duemilatredici, quando mio padre – nella sua forma di organismo umano bipede a sangue caldo come l’avevo immaginato per i primi ventitrè anni della mia vita, con tanto di discutibili maglioni a rombi, una passione irrefrenabile per la frutta martorana, un’eccitazione quasi fisica per i numeri e gli LP di Giorgio Gaber nascosti tra un ventricolo e l’altro con disincanto e ostinazione – ecco, quando tutto quello che aveva contribuito a costituire l’entità “padre” fino a quel momento ha smesso di esistere. Quando si guarda una persona morire, – nell’istante della transizione tra uno stato e l’altro della materia – nella coscienza dell’osservatore si impone un’evidenza, arriva luminosa e inappropriata, quell’evidenza che accomuna tutte le specie dell’universo fin dall’era della formazione del primo protozoo unicellulare: ovvero, noi siamo il nostro corpo.

Si vive dentro un corpo per anni, decenni alle volte, senza avere una piena consapevolezza del suo peso, senza la necessità di combattere per la sua sopravvivenza, senza la preoccupazione di preservarlo dal suo naturale e inevitabile processo di decadimento. Da giovani si canalizzano tante di quelle energie verso l’interno, impegnati come siamo nella costruzione e nella cura della nostra introspezione, che si finisce per dimenticare la caducità del corpo, ridotto a mero involucro della personalità, concepita invece come un’entità immateriale ma destinata a un’esistenza più duratura, vincolata a una promessa di non deperibilità, scriverebbe Peano. Fin quando non ci si ammala o si guarda qualcuno ammalarsi. Solo a quel punto l’integrità del corpo appare in tutta la sua indispensabilità, quando il mondo già comincia a dividersi in sani e malati, in funzionanti e guasti, in vivi e morituri. Ecco perché Peano è riuscito laddove altri hanno fallito: ha raccontato con una lingua dolorosamente concisa non la morte e la successiva rielaborazione della perdita, ma la storia di un corpo che muore, la storia di una malattia, che si trasforma nella storia della malattia stessa.

Mi ricordo che una delle volte in cui mio padre era ricoverato presso l’ospedale di Padova, mentre bighellonavo nella sezione saggistica della Feltrinelli, mi sono imbattuta nel libro di Susan Sontag, “Malattia come Metafora”. “La malattia”, scriveva Sontag, “è il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiamo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese”. La dicotomia che consegue dall’insorgenza della malattia, tra la vita prima e la sopravvivenza dopo – come se la scoperta delle cellule cancerose segnasse un anno zero, l’inizio di una grottesca rinascita al contrario – si reifica nel romanzo di Peano a tal punto da spaccare la sua casa a metà, la sua famiglia in due ambienti separati: un “di qua”, dove lo status quo è ancora intatto e un “di là”, in cui i punti di riferimento implodono, la rete dei rapporti familiari si riduce a un cumulo di significanti senza significato, gli articoli ospedalieri sono accolti come “nuovi membri della famiglia” e i blister di medicine giacciono sul comodino come “le scatole di cioccolatini per gli ospiti nelle case delle altre famiglie”:

“Di là” è il mondo convenzionale con cui Mattia e suo padre hanno preso a chiamare il basso fabbricato che, dopo il ritorno a casa successivo all’ultimo ricovero, ospita la madre e la sua malattia […] Come se mettendo pochi metri di distanza – quanti saranno dieci? – dalla casa vera e propria, il dolore potesse essere contenuto. Di là. Sembra quasi mimare l’abitudine di pensarla “al di là”. La malattia di questa madre diviene un elemento fondante del nucleo famigliare, tanto “da far pensare a Mattia che il cancro sia in realtà il legame, ciò che permette di continuare a sommare un giorno agli altri giorni”.

Il cancro trangugia ogni parola e rimodula il linguaggio fino a diventare l’unico strumento di narrazione della realtà esterna: se il cancro non può essere sconfitto, lo si impara a conoscere in tutte le sue possibili manifestazioni, se ne studia morbosamente l’eziologia, la patogenesi, la percentuale di incidenza, le variabili del processo di accrescimento e di metastatizzazione. Se il cancro non può essere sconfitto, non resta altro che diventare il cancro. Un giorno, mentre è seduto al caffè di un centro commerciale, incontra due ex compagni di classe che si stanno per sposare di lì a poco. Seppur più per cortesia che per reale interesse, i due domandano notizie delle condizioni della madre e Mattia si confida, sente l’urgenza di una valvola di sfogo esterna rispetto alla dimensione del “di là” – ma quando comincia a illustrare nel dettaglio i segni del carcinoma meningeo che sta devastando il corpo di sua madre – l’orrore della perdita dell’autosufficienza, della vista e della coscienza – gli amici inorridiscono, non possono e non vogliono comprendere, i loro occhi non conoscono la decomposizione del corpo, i loro sguardi sono proiettati al futuro – lo stesso futuro a cui il padre di Mattia il 1° agosto del ’74 andava incontro il giorno del suo matrimonio, “nervoso ed eccitato mentre visualizza il profilo di quella che sta per diventare sua moglie stagliarsi perfetto nella luce del giorno”.
In quel momento il figlio percepisce la portata della propria inadeguatezza e della propria liminalità: è un organismo anfibio, ormai incapace di esistere nel mondo dei vivi, ma non ancora destinato a occupare uno spazio in quello dei morti. Ed ecco dunque la misura del danno, tragicamente racchiusa nella condizione dell’orfano: “una parola che stringe nelle spire delle o in apertura e in chiusura chi le indossa: due catene circolari che ammanettano a un infinito presente”.

Marco Peano è nato a Torino nel 1979. Si occupa di narrativa italiana per la casa editrice Einaudi. L’invenzione della madre è il suo primo romanzo.

Source: acquisto personale.

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