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:: L’invenzione della madre, Marco Peano o della malattia come metafora (minimum fax, 2015) a cura di Giulia Guida

17 gennaio 2016
madre

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Marco Peano ha scritto il romanzo che stavo cercando dalle sei di mattina del dodici febbraio duemilatredici, quando mio padre – nella sua forma di organismo umano bipede a sangue caldo come l’avevo immaginato per i primi ventitrè anni della mia vita, con tanto di discutibili maglioni a rombi, una passione irrefrenabile per la frutta martorana, un’eccitazione quasi fisica per i numeri e gli LP di Giorgio Gaber nascosti tra un ventricolo e l’altro con disincanto e ostinazione – ecco, quando tutto quello che aveva contribuito a costituire l’entità “padre” fino a quel momento ha smesso di esistere. Quando si guarda una persona morire, – nell’istante della transizione tra uno stato e l’altro della materia – nella coscienza dell’osservatore si impone un’evidenza, arriva luminosa e inappropriata, quell’evidenza che accomuna tutte le specie dell’universo fin dall’era della formazione del primo protozoo unicellulare: ovvero, noi siamo il nostro corpo.

Si vive dentro un corpo per anni, decenni alle volte, senza avere una piena consapevolezza del suo peso, senza la necessità di combattere per la sua sopravvivenza, senza la preoccupazione di preservarlo dal suo naturale e inevitabile processo di decadimento. Da giovani si canalizzano tante di quelle energie verso l’interno, impegnati come siamo nella costruzione e nella cura della nostra introspezione, che si finisce per dimenticare la caducità del corpo, ridotto a mero involucro della personalità, concepita invece come un’entità immateriale ma destinata a un’esistenza più duratura, vincolata a una promessa di non deperibilità, scriverebbe Peano. Fin quando non ci si ammala o si guarda qualcuno ammalarsi. Solo a quel punto l’integrità del corpo appare in tutta la sua indispensabilità, quando il mondo già comincia a dividersi in sani e malati, in funzionanti e guasti, in vivi e morituri. Ecco perché Peano è riuscito laddove altri hanno fallito: ha raccontato con una lingua dolorosamente concisa non la morte e la successiva rielaborazione della perdita, ma la storia di un corpo che muore, la storia di una malattia, che si trasforma nella storia della malattia stessa.

Mi ricordo che una delle volte in cui mio padre era ricoverato presso l’ospedale di Padova, mentre bighellonavo nella sezione saggistica della Feltrinelli, mi sono imbattuta nel libro di Susan Sontag, “Malattia come Metafora”. “La malattia”, scriveva Sontag, “è il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiamo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese”. La dicotomia che consegue dall’insorgenza della malattia, tra la vita prima e la sopravvivenza dopo – come se la scoperta delle cellule cancerose segnasse un anno zero, l’inizio di una grottesca rinascita al contrario – si reifica nel romanzo di Peano a tal punto da spaccare la sua casa a metà, la sua famiglia in due ambienti separati: un “di qua”, dove lo status quo è ancora intatto e un “di là”, in cui i punti di riferimento implodono, la rete dei rapporti familiari si riduce a un cumulo di significanti senza significato, gli articoli ospedalieri sono accolti come “nuovi membri della famiglia” e i blister di medicine giacciono sul comodino come “le scatole di cioccolatini per gli ospiti nelle case delle altre famiglie”:

“Di là” è il mondo convenzionale con cui Mattia e suo padre hanno preso a chiamare il basso fabbricato che, dopo il ritorno a casa successivo all’ultimo ricovero, ospita la madre e la sua malattia […] Come se mettendo pochi metri di distanza – quanti saranno dieci? – dalla casa vera e propria, il dolore potesse essere contenuto. Di là. Sembra quasi mimare l’abitudine di pensarla “al di là”. La malattia di questa madre diviene un elemento fondante del nucleo famigliare, tanto “da far pensare a Mattia che il cancro sia in realtà il legame, ciò che permette di continuare a sommare un giorno agli altri giorni”.

Il cancro trangugia ogni parola e rimodula il linguaggio fino a diventare l’unico strumento di narrazione della realtà esterna: se il cancro non può essere sconfitto, lo si impara a conoscere in tutte le sue possibili manifestazioni, se ne studia morbosamente l’eziologia, la patogenesi, la percentuale di incidenza, le variabili del processo di accrescimento e di metastatizzazione. Se il cancro non può essere sconfitto, non resta altro che diventare il cancro. Un giorno, mentre è seduto al caffè di un centro commerciale, incontra due ex compagni di classe che si stanno per sposare di lì a poco. Seppur più per cortesia che per reale interesse, i due domandano notizie delle condizioni della madre e Mattia si confida, sente l’urgenza di una valvola di sfogo esterna rispetto alla dimensione del “di là” – ma quando comincia a illustrare nel dettaglio i segni del carcinoma meningeo che sta devastando il corpo di sua madre – l’orrore della perdita dell’autosufficienza, della vista e della coscienza – gli amici inorridiscono, non possono e non vogliono comprendere, i loro occhi non conoscono la decomposizione del corpo, i loro sguardi sono proiettati al futuro – lo stesso futuro a cui il padre di Mattia il 1° agosto del ’74 andava incontro il giorno del suo matrimonio, “nervoso ed eccitato mentre visualizza il profilo di quella che sta per diventare sua moglie stagliarsi perfetto nella luce del giorno”.
In quel momento il figlio percepisce la portata della propria inadeguatezza e della propria liminalità: è un organismo anfibio, ormai incapace di esistere nel mondo dei vivi, ma non ancora destinato a occupare uno spazio in quello dei morti. Ed ecco dunque la misura del danno, tragicamente racchiusa nella condizione dell’orfano: “una parola che stringe nelle spire delle o in apertura e in chiusura chi le indossa: due catene circolari che ammanettano a un infinito presente”.

Marco Peano è nato a Torino nel 1979. Si occupa di narrativa italiana per la casa editrice Einaudi. L’invenzione della madre è il suo primo romanzo.

Source: acquisto personale.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: Recensione di ¡Tu la pagaràs! di Marilù Oliva a cura di Giulia Guida

5 luglio 2010

“E’ nelle notti senza pietà che devi continuare a ballare.” [Rileggendo “¡Tu la pagaràs!”, M. Oliva]

Gabriele Basilica segue da lontano il contorno accidentato del suo viso. Nascosto in un angolo buio della sala da ballo, lascia scivolare il suo sguardo sul sorriso fiero della Guerrera, sui suoi capelli arrabbiati, sulle cicatrici inchiostrate a dovere che le rigano la pelle come trincee di una terra deturpata, abbandonata da tutti, su cui le piante crescono forti per sopravvivere all’orrore del ricordo. E non ha ancora incontrato i suoi occhi, due diamanti neri, spezzati nel mezzo, lucidati da una passione irrequieta, che non trova tregua. Se non quando pratica la capoeira, arte marziale brasiliana spesso scambiata per una forma di danza. Se non quando balla nelle notti di salsa, lasciando che le sue mani e le sue gambe disegnino traiettorie sempre nuove, sconosciute anche a lei stessa. Mentre il suo corpo si trasfigura, riesce a sentirsi al centro e alla deriva di ogni cosa, perde il contatto con la realtà che la circonda, sente il battito del suo cuore sempre più veloce, che le ricorda che non sarà mai viva come in quei momenti. Perciò si fa dea tribale, fenice immortale, amazzone rapace, grido di guerra. E balla. Sotto il sole artificiale di una discoteca di Bologna, mentre il tempo si scheggia, gli spazi si mescolano, i corpi si sfiorano, i ballerini in pista cambiano maschera, almeno per una sera avranno un altro nome, un’identità diversa, una storia da raccontare che non sia quella della propria vita. E la Guerrera cambia forma: i muscoli si distendono, i tendini si sfilacciano, il sangue diventa elettrico. Elisa è pura energia, Basilica ne è come aggredito. E’ più di una donna, è una forza primitiva, un terremoto delle viscere, è una femmina di lupo. Inavvicinabile.
E intorno a lei si dimena quel bollente e stravagante universo latinoamericano che brucia di gelosie, vendette passionali, amori alcolici usati e poi chiusi a chiave chissà dove. E’ l’unica parte di mondo in cui Elisa sente di potersi liberare dal peso della sua infanzia di orfana, dalle intermittenze grigie del presente, dalle giornate stinte passate dentro la redazione-garage del temibile Torinelli ad accatastare notizie su notizie per la sua sottospecie di giornale locale. La salsa è il regno della “regla de ocha”, la santerìa, la religione africana esportata a Cuba dagli schiavi del continente, con il suo complesso santuario “yoruba” e i suoi numerosissimi “orishas”, divinità immateriali, impercettibili per l’uomo. E’ l’unico luogo in cui Elisa non deve giustificarsi, perché niente del mondo fuori ha importanza lì dentro. Quella è la sua gente, quelle sono le sue divinità. Tra il bancone di Azùk e i divanetti dove sta seduta per ore a chiacchierare con la sua coinquilina Catilina, cartomante e visionaria, vede gravitare sotto i suoi occhi tutta quella vita che non può morire né temere niente fin quando ci sarà musica su cui ballare. C’è El Cubano, il ballerino pugliese che si spaccia per nativo cubano e nasconde la sua ossessione per le donne super- size, Princesa nella sua pelliccia bianca di ermellino, vanitosa salsera dalla pelle bruna divorata dal sole, Manuela, l’insegnante di danza che dirige il locale insieme al dj El Pony, e nonostante abbia già una figlia e troppi anni per non sentirsi sola, non vuole essere messa da parte, deve avere la certezza di riuscire a piacere ancora.

E poi c’è  Thomàs Delgado sulla pista, spietato don Giovanni dei bassifondi, con cui la Guerrera porta avanti da un pò di tempo una relazione di sesso. E poi c’è Thomàs nel bagno, gli occhi forati, due buchi vuoti senza più sangue, infilzati da un oggetto contundente a due lame.
Ed ecco apparire sul luogo del delitto il fedele Mussito al fianco dell’ispettore Gabriele Basilica, personaggio maschile di primo piano in questo secondo lavoro di Marilù Oliva, già presente, seppur come figura di sfondo nel romanzo d’esordio dell’autrice bolognese, “Repetita” (Perdisa Pop, 2009, finalista premio Camaiore), nominato solo attraverso articoli di giornale. Tra le pagine di “¡Tu la pagaràs!” “Basilica assume uno spessore psicologico diverso, a tutto tondo, quello di un uomo che attraversa una profonda crisi matrimoniale e assiste stordito al crollo di tutti i suoi punti fermi. Marilù Oliva riesce a tratteggiare abilmente le debolezze, le insicurezze e il senso d’inadeguatezza di quest’uomo incamiciato, tutto d’un pezzo, che si ritrova catapultato in una dimensione da cui non potrebbe essere più lontano. Imparerà a conoscerne i meccanismi, le dinamiche umane, i rapporti di sangue grazie all’aiuto della Guerrera, valida collaboratrice nel corso delle indagini, ma anche probabile indiziata dell’omicidio di Delgado.
Per il suo secondo romanzo Marilù Oliva sceglie un approccio più diretto, che ben si adatta al ritmo movimentato del  noir d’azione, con uno svolgimento dinamico, denso di avvenimenti, in un susseguirsi di storie sapientemente intrecciate e di incontri-scontri tra i personaggi. Un romanzo, dunque, che si discosta dalla tendenza all’approfondimento psicopatologico, dettata dalla natura stessa del personaggio di  Lorenzo Cerè, ma che permette all’autrice di dar prova di un aspetto diverso della sua scrittura, meno riflessivo e più narrativo, che non lascia spazio all’approssimazione e si accompagna ancora una volta ad un’accurata conoscenza delle ambientazioni e della materia narrativa di cui si sta parlando. Un noir con i crismi, come lei stessa l’ha definito, in cui tutti i personaggi vengono spinti a forza sotto i riflettori in un barbaro faccia a faccia contro la loro imperfezione.

Autore: Marilù Oliva
Editore: Elliot
Collana: Scatti
Pp: 275
Euro: 16, 50

:: Recensione di Salto d'ottava di Antonio Paolacci a cura di Giulia Guida

23 giugno 2010

Giochiamo a riciclare la rivoluzione?” [Rileggendo “Salto d’ottava”, A. Paolacci.]

Secondo quanto attesta Cartesio nel suo Compendium musicae, l’ottava sarebbe il punto di partenza, dal quale per sottrazione si ricaverebbero tutte le dissonanze e consonanze. Infatti essa rappresenta l’intervallo sonoro in cui i gradi vengono ad essere ordinati. Gli estremi dell’intervallo d’ottava sono due gradi diversi tra loro, ma caratterizzati dallo stesso aspetto strutturale che si ripete sempre uguale a se stesso. Il salto d’ottava pertanto, che si presenta in genere nel senso contrario alla linea melodica da cui proviene, consiste nel passaggio da una vibrazione sonora alla stessa identica vibrazione, soltanto più acuta. Met è  un adolescente. Deve avere quattordici, forse quindici anni. Sta tutto dentro la sua felpa nera con la zip, una tavola da skate sopra quattro rotelle malconce per sfidare i propri limiti, abbattere le barriere delle convenzioni sociali. Un paio di All Star piene di buchi, scolorite, mezze scollate, perchè è così che le portano tutti. Altrimenti meglio non portarle affatto. I segni del tempo che passa raschiano contro le suole, fanno a pezzi la tela, ma lasciano intatta la pelle. Anche se Met sente che c’è qualcosa di storto in tutto questo. Che forse le cicatrici non ce le dovrebbero avere i vestiti, ma le persone. Che la rivoluzione non può stare in un paio di scarpe tutte uguali. Che la convenzione da combattere è annodata proprio tra quei lacci, in cui ci si sente così al sicuro, così invisibili, così arrabbiati, tutti assoldati nella fila di un’anarchia giovanilista antistituzionale, a pestare i piedi, abbattere ogni punto fermo, senza pensare a cosa costruire dopo. Destrutturare, fracassare, spezzare, creare distorsioni, tutti allo stesso modo, tutti senza un’idea di come rimontare i pezzi, né la voglia di domandarsi cosa farsene di un ipotetico futuro. E’ un’eventualità che non si mette in conto. Met si fa domande, ma non parla. Continua a camminare alla stessa velocità in questa spirale senza curve, aspettando di cavalcare la rampa giusta, segnando il punto decisivo, per fare quel salto nel vuoto e cambiare il corso degli eventi. Essere lui a scegliere le sue probabilità, le sue ipotesi di futuro, la sua definizione di rivolta. Essere lui lo spartiacque della sua vita, inseguendo sbagli che siano solo suoi,  cambiando livello, dimensione, intervallo sonoro. Riscrivere sopra queste rovine, che si ritrova tra i piedi, una musica del tutto nuova, lontana da etichette pseudo-alternative, senza ripetizioni, ritornelli, strofe fisse. Uscire dal loop di questo revival beat e costruire un mito tutto suo, che non sia riciclato da nient’altro.  Matteo è  un uomo adulto. Deve avere trentaquattro, forse trentasei anni, non riesce proprio a ricordare bene questa mattina. E’ il suo compleanno, così gli dicono i suoi dipendenti. Ma lui non riesce a decidersi. Faccia contro faccia. Lo specchio gli rimanda indietro un riflesso maldestro, un ipotetico presente di cui ha deciso poco o niente. Un divorzio alle spalle, due figli con cui non riesce mai a parlare, una casa di produzione cinematografica regalatagli dal padre- lui che di far cinema non ne aveva proprio voglia, ma chi mai potrebbe dire di no- una casa da soap opera americana in cui sembra un intruso. Lui che si sentiva così storto in tutto quel marcio, quando era ragazzo. In quegli ambienti da salotto pseudo-intellettuale, tra quei discorsi fatti di fumo, tutti a ricercare la parola più difficile, l’inquadratura più sofisticata, il montaggio più cerebrale. Tutti a fare acqua da ogni parte. Ci si era ritrovato dentro fino al collo, così come era piombato nella sua casa a cristalli liquidi. Vestiti, soprammobili, bottiglie di vino sui tavoli. Non si muove niente, tutto è disposto secondo un ordine artificiale, innaturale, finto. Non sembra ci sia abbastanza ossigeno per poterci abitare. Non c’è niente di usato, logorato, poi buttato via. I pavimenti non conoscono il rumore dei suoi passi, sono bianco freddo, senza una mattonella spaccata, senza una palla di polvere negli angoli. Matteo fruga le pareti con gli occhi questa mattina. Cerca disperatamente una macchia, un graffio, una crepa che gli raccontino qualcosa su di lui, che gli indichino finalmente il punto di rottura dove ogni movimento s’è fermato, mentre il tempo ha continuato a scorrere. Quel momento in cui tutta la sua vita è finita per diventare una linea retta, una spirale che si rincorre in tondo, un rivivere situazioni già vissute a diversi gradi di intensità e di consapevolezza, un salto d’ottava, un ciclico rincorrersi di svolte immaginarie, curve apparenti, un gioco di pieni e vuoti, l’inversione di direzione nello stesso intervallo sonoro, da una vibrazione all’altra. Sempre lo stesso suono ripetuto fino all’ossessione, alla paranoia, alla vertigine della monotonia. Met trova un cadavere di un ragazzo in una fabbrica abbandonata, il Rottame.Guarda la morte in faccia, ma non ne parla a nessuno.Matteo deve girare un documentario su quella fabbrica, riprendere il ferro ossigenato delle lamiere di giorno, le storie torbide che si racconta accadano lì la notte.Ora, non avrò  la giusta obiettività o competenza per scriverlo, ma non credo che di teste come quella di Antonio Paolacci se ne trovino molte in giro. Non è solo una prova di talento o di stile, questa sua seconda fatica. E’ una grande prova di intelligenza. Paolacci sa scrivere e soprattutto pensa prima di farlo, cosa che vi sembrerà banale, ma visti i tempi che corrono non lo è affatto. In più pensa con coraggio, tira fuori una salda coscienza critica antigenerazionale, una vitale e brutale  onestà intellettuale, tenendosi lontano dall’etichetta di genere come già aveva dimostrato di saper fare nel suo romanzo d’esordio, “Flemma” (Perdisa Pop, 2007).E soprattutto riesce a dire quello che deve e che vuole dire nei suoi romanzi, senza il bisogno di dirlo al di fuori.
Se non è  roba rara, questa. Fate voi.

Intervista ad Antonio Paolacci a cura di Giulia Guida

27 Maggio 2010

Benvenuto, Antonio. Innanzitutto grazie per aver accettato questa chiacchierata con Liberi Di Scrivere. È uscito per Perdisa Pop il tuo primo romanzo, Flemma, ambientato tra il Cilento e Bologna. Che significato hanno per te questi due posti? 

Due precise realtà: la provincia estrema, il basso Cilento, un insieme di paesini da poche migliaia di abitanti, lontano da ogni capoluogo, e poi quella città carica di sensi che è Bologna. Ho voluto accostare questi posti guardandoli dalla prospettiva di chi li conosce ma non appartiene né all’uno né all’altro: sono cresciuto nel Cilento e vivo a Bologna da una quindicina d’anni, con il risultato di sentirmi oggi estraneo ovunque. Lo sradicamento è disorientante, ma utile: per un narratore, essere in grado di raccontare da una certa distanza gli ambienti che conosce meglio, è un privilegio.

Per vari anni sei stato lettore in diverse case editrici. Che tipo di esperienza è stata sul piano formativo?

Lavorare in editoria e scrivere sono due cose che ho dovuto imparare a tenere separate. Utili l’una all’altra di sicuro, ma solo con il tempo. A leggere manoscritti si diventa scettici e cinici. Si impara a conoscere gli aspiranti scrittori dal punto di vista più cattivo: si assiste a un grande spreco, di tempo, di energie, di speranze, di idee. Ho cominciato in una casa editrice piccola per la quale non facevo altro che leggere i testi che arrivavano. Erano tanti, troppi. Chi non è mai entrato in una redazione non ne ha idea. I testi buoni sono pochi, nella gran parte arrivano lavori improponibili, capaci di farti perdere il senso della letteratura, il senso del libro stesso. Solo con tempo e cocciutaggine si diventa più forti e si impara moltissimo.

Com’è iniziata la tua attività in Perdisa? Ci vuoi parlare dell’incontro con Bernardi?

Ho conosciuto Bernardi otto anni fa, se non sbaglio i conti. Ho frequentato un suo corso di scrittura, esperienza intensa e impagabile. Quando ho finito il romanzo, anni dopo, ho voluto mandarlo solo a lui per sentire anzitutto un suo parere. Nel rispondermi, mi ha parlato di questo nuovo marchio editoriale che stava per nascere. Così è stato pubblicato Flemma, dopodiché Bernardi ha iniziato a coinvolgermi anche nel lavoro per Perdisa Pop. 

Com’è nata l’idea di Flemma?

Temi e personaggi li avevo in testa dall’inizio, però non saprei più ricostruire le varie tappe del lavoro, né ricordare un preciso punto di partenza. Oltre a un romanzo, stavo cercando la mia scrittura, la mia voce. Era eccitante e faticoso. Ero sempre distratto. Mi lamentavo in continuazione. Gli amici mi odiavano e io odiavo loro. Inciampavo nelle sedie, rovesciavo bicchieri di continuo. Ero fantastico.

Credo che Flemma non sia ascrivibile a nessun genere preciso e che questo sia uno dei suoi punti di forza. Tu come lo definiresti?

Non lo definirei. In Italia si parla tanto e male – troppo spesso a sproposito – di quello che succede ai generi narrativi. Nel frattempo ci arrivano lezioni potentissime dal resto del mondo, sotto forma di libri, film, serie televisive. Nello scrivere Flemma ho pensato molto al genere noir, alla letteratura postmoderna, al romanzo di formazione: li ho studiati e considerati, ma ne ho preso solo degli elementi, quelli che mi interessavano o servivano di più. Se lo si legge nell’ottica dei generi letterari il discorso potrebbe essere interessante, ma non tocca a me farlo, fuori dalle pagine del testo: lo lascio fare al critico, se esiste, o al lettore, se vuole. Nel mio nuovo romanzo, Salto d’ottava, ho spinto ancora di più su questo punto.

flemma2Lungo tutto il romanzo ricorrono citazioni tratte dal libro di Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza”. Una sorta di leitmotiv che collega le varie storie, quindi.

Il saggio viene letto dai protagonisti di Flemma. Non so quanto se ne rendano conto, ma quel libro parla anche di loro e li muove più di quanto credano. Detto ciò, le teorie di Jaynes sulla coscienza sono folgoranti.

C’è un personaggio in particolare in cui ti identifichi di più, a cui hai voluto affidare la tua voce, le tue idee?

Mi identifico in tutti e non ho affidato le mie idee a nessuno. Sembra un controsenso, ma non lo è. Non serve scomodare Freud per dire che è inevitabile essere in qualche modo rappresentati da ogni personaggio che si crea. Però  se penso a loro provo pena, rabbia, disprezzo. Salvo giusto Luca, che è troppo giovane per avere delle idee compiute, ma è l’unico, in tutto il romanzo, che smette di frignare e spacca la faccia al suo avversario con primordiale dignità.

Quando ho letto il libro, ho pensato: “Paolacci ce l’ha fatta. L’ha scritto, finalmente, questo romanzo sulla e contro la nostra generazione”.  Qual è il messaggio che in definitiva Flemma vuole lanciare?

Il tuo pezzo di un paio di mesi fa che diceva “Paolacci ce l’ha fatta” è un elogio almeno duplice: sentire che sei stato letto non solo da una testa pensante, ma anche con i nervi esposti. Nessun messaggio: volessi lanciare messaggi scriverei sui muri, invece che pagine e pagine di narrativa.

Quella citazione in apertura dei Pavement, “Fight this generation”. Ci sono stati artisti e musicisti in particolare che ti hanno accompagnato nella stesura di “Flemma”?

Parliamo solo dei musicisti, altrimenti non finisco più. Oltre ai Pavement, i Pixies, gli Interpol e gli Arcade Fire. Poi c’era Bowie, mentre scrivevo. E i Csi, mentre riflettevo. E Miles Davis, mentre pioveva.

Quali sono stati gli autori che ti hanno influenzato di più  nella tua formazione?

In rigoroso ordine sparso: Dostoevskij, DeLillo, Hemingway, Pasolini, Houellebecq, Moody, Sciascia, Foster Wallace, Kristof, McCarthy, Carver, Cechov.

Ti occupi di editing da vari anni, ormai. Hai qualche consiglio utile per gli esordienti che si affacciano sul mondo editoriale?

Occupatevi soprattutto dalla vostra scrittura.

Libri sul comodino adesso?

Al momento solo una biografia di Rasputin.

Stai lavorando a qualche nuova idea, qualche progetto in canti
ere?

E’ in uscita Salto d’ottava, una novella per la collana Babele Suite di Perdisa Pop. Poi ho in cantiere un racconto per un’antologia da cui saranno tratti altrettanti mediometraggi ideati per la tivù, storie che quindi nasceranno affiancando scrittori e registi. E un altro piccolo libro per una collana molto interessante dell’editore Senzapatria. Nel frattempo lavoro a un nuovo romanzo, ma di questo non dico ancora niente… 

:: Recensione di Giulia Guida de "Il senso del dolore" di Maurizio de Giovanni

25 aprile 2010

Il senso del dolore. L’inverno del commissario Ricciardi

“Perchè  cadono le lacrime. Sulla fame e sull’amore”. [Rileggendo “Il senso del dolore”, M. de Giovanni]

Non parla quasi mai, il commissario Ricciardi. Si nasconde dietro sbarre di ghiaccio, che da anni in silenzio gli si stringono nervose contro la gola, imprigionando la sua voce. Passano giorni interi in cui gli capita di chiedersi se una voce l’abbia mai avuta e prova a rincorrere le vibrazioni delle sue corde vocali attraverso il passato, a raccogliere quei  pochi cocci di suono scivolati a terra dalle sue tasche e ricucirli insieme, fino a ridisegnare un’onda elettrica senza strappi o spazi bianchi.Non riesce più a sentirlo, l’attrito delle sue parole contro l’aria.Essenziali, le parole di Ricciardi. Essenziali e spezzate al centro, come i suoi occhi, centri di gravitazione permanente di un dolore antico, che non si può capire, perchè nasce da una condanna a toccare l’allucinazione, a vedere l’invisibile, a sentire la morte. Tutto quello che gli è  rimasto da dire, Ricciardi l’ha lasciato a quel vuoto verde smeraldo che gli mangia la faccia. Gli occhi di Ricciardi. Due gocce di ghiaccio, tirate all’ingiù, incastrate come crepe nere nella pelle. Sono due rughe immense, di chi è invecchiato bambino e s’è bevuto tutto il buio troppo presto. Come tane per difendersi dai venti freddi dell’inverno, Ricciardi ci caccia dentro tutte le sensazioni che non vuole più sentire agitarsi nel sangue. Le chiude a chiave lì, le seppellisce come segreti inconfessabili, perchè sa che nessuno potrà mai raggiungere il nucleo duro della sua disperazione, nessuno avrà mai abbastanza forza né coraggio per aprire il tubetto nero dei suoi ricordi, di tutte le immagini e le voci che gli hanno rubato il presente, di tutti quei morti che giorno dopo giorno gli hanno raschiato via la vita e pretendono che lui ascolti le loro storie, faccia giustizia e rivendichi i loro anni interrotti. Vede i morti, Ricciardi. Quelli morti di una morte violenta, li vede dovunque, riascolta le loro ultime parole e soprattutto sente. Sente la tempesta elettrica di sensazioni che sanguina dalle loro ferite aperte, gli ricade addosso in un brivido viola lungo la schiena. E’ così da sempre, dal giorno del Fatto. Quando da bambino quella prima allucinazione gli spezzò  l’ultimo grido tra le labbra. E’ il 1931 adesso e Ricciardi vive in una Napoli che s’attacca alle pagine e le colora del profumo delle vecchie botteghe, dei piedi scalzi degli scugnizzi, dei rombi tonanti delle poche macchine che percorrono le strade, del sapore delle castagne nei carretti degli ambulanti, della luce fredda dei lampioni a gas che illuminano la notte di quei chiaroscuri ad olio e sciolgono il sangue nell’ombra. E’ una sera d’inverno quando il brigadiere Maione, l’unico che abbia provato a romperlo il muro d’acqua di quegli occhi, entra nell’ufficio di Ricciardi e lo mette al corrente di un omicidio avvenuto al teatro San Carlo, quella sera stessa. E’ stato trovato morto nel suo camerino Arnaldo Vezzi, il più grande tenore di quegli anni, protetto e amatissimo dagli alti ranghi del regime. Il suo corpo, ancora con l’abito da pagliaccio addosso, giace riverso sulla sedia, il collo trafitto da una scheggia di vetro dello specchio, due lacrime a solcare le sue guance e a sciogliere il trucco. In un angolo della stanza ecco l’allucinazione di Ricciardi. Il corpo di Vezzi, leggermente piegato sulle ginocchia, una mano protesa in avanti, la voce di un talento fuori tempo che intona un verso della Cavalleria Rusticana “Io sangue voglio, all’ira mi abbandono, in odio tutto l’amor mio finì…” Le indagini di Ricciardi lo portano a ridisegnare, testimone dopo testimone, la figura della vittima: una personalità nera, burbera, intrattabile, nutrita da un profondo egoismo e disumana irascibilità. Detestato da molti, Vezzi era, nonostante il suo carattere inavvicinabile, inesauribile fonte di guadagno per impresari della lirica, orchestrali e teatranti. Molti nemici nell’ambiente, quindi, ma tutti paradossalmente interessati a voler Vezzi vivo, una pedina troppo importante del loro gioco. Nei pochi giorni in cui si consumano le ricerche, le mani nervose di Ricciardi, tutte scatti e ricordi accavallati, si muovono tra le sgargianti luci dell’opera-  lui che aveva sempre vissuto su uno sfondo bianco e nero, che dei colori non aveva mai saputo che farsene, attraversa la vita di Vezzi, riscrivendo la sua storia mentre cerca di scrollarsi un pò di fuliggine di dosso, andando a decifrare il sentimento dietro ogni dinamica di quella macchina di finzione, così lontana dalla vita reale. Perchè, per uno che sa cosa sia la dannazione, per uno che lo senta davvero quel senso del dolore, l’arte non può avere niente a che fare con la vita, non può neanche esserne la copia più sbiadita. “Il senso del dolore”, primo dei tre romanzi di de Giovanni che ruotano attorno alle stagioni del commissario Ricciardi, racconta un’infanzia perduta, che non si lava via dagli incubi. Racconta il punto di rottura tra ciò che è reale e ciò che non sembra esserlo. Racconta del profondo amore che ci può essere dietro uno sguardo che non parla altro che di buio. Racconta gli occhi di un uomo che preferirebbe non sentire affatto, essere privato di ogni emozione, avere la sensibilità del cemento armato e svuotarsi la testa di tutte quelle parole- quelle ultime parole- che si rincorrono tra storie non sue, di chi ammazza per fame, di chi si sacrifica per amore. La fame e l’amore. Ricciardi aveva sempre pensato che non esistessero altri motivi per uccidere. Tutto era riconducibile a questo. Due sentimenti complementari capaci di sovvertire l’ equilibrio, rovesciare ogni ruolo prestabilito, provocare l’inaspettato. Accendere i colori e ridare vita a quella morte sempre in agguato per serrare gli occhi di un’amarezza di chi sa che non è ancora arrivato il suo tempo. Il tempo giusto per riascoltare le sue ultime parole e finalmente gridare via quel senso del dolore.

“Libera la tua mente, però fallo come noi.” [Rileggendo “Flemma”, A. Paolacci], a cura di Giulia Guida

26 marzo 2010

flemLa prima premessa è che il disadattamento è demodè. La seconda è che hai cercato in tutti i modi di riconquistare la tua unicità in questo mondo a cubicoli con l’aria condizionata spenta e lo scarico del cesso rotto, ma non ci sei riuscito. La terza – più che è  una premessa, una drammatica evidenza – è che sei profondamente convinto di esserci riuscito. Hai elaborato strategie mirabolanti per tornare ad essere di nuovo un individuo. Per poter riprendere in mano il tuo nome, i tuoi vestiti, la tua voce e metterti al margine. Perchè di base, da quanto hai dedotto dalla tua più o meno breve esperienza di vita, l’individuo è sempre solo. Un eroico furore gli anima lo spirito, puro e incorruttibile. Appena fuori dal cerchio del tuo fuoco sacro, al mercato nero più vicino venditori di idee e compratori di opinioni ti fanno segno di avvicinarti, che potresti trovarlo lì, quello che fa al caso tuo. Roba originale assicurata, col marchio di fabbrica stampato di fresco, solo qualche piccolo difetto qua e là a rifinire il tutto di quell’aria vissuta, da appestati borderline che quella gioventù bruciata anni ’70 strafatta d’acido, urlata a vuoto in un megafono, se la sarebbe sognata. Abbiamo trucchi nuovi, noi. Siamo dei vincenti. E i vincenti non perdono mai il controllo, non sbagliano mai obiettivo, non fanno mai niente per niente. Si dichiarano figli dell’anarchia, neomissionari dediti alla cultura del libero pensiero, della libera informazione, della libertà d’espressione. Si dichiarano liberi, per farla breve. Liberi di e liberi da. Una libertà non convenzionale, certo sempre di sinistra, ma alla fine non poi così sicura su da che parte stare, disinteressata alle posizioni da prendere, ai ruoli da gestire, agli impegni da rispettare prima di superare la data di scadenza e tritare giù nel secchio pacchetti 3×2 di slogan preconfezionati. Una libertà disinformata, perchè spesso ad esser così libero di informarti, finisci per non informarti affatto e trovi che annuire a tempo con le zazzere degli altri e applaudire col suggeritore in tasca non sia poi così riprovevole. Ti fa guadagnare tempo, ti permette di correre di più. Perchè i ragazzi di nuova generazione hanno l’arma giusta, signori: la velocità. Ogni notte si divorano chilometri di superstrada in un’aritmia di luci artificiali e risate sintetiche, ingoiano spensieratezza liquida e digrignano i denti tra sorrisi smaglianti e residui di insoddisfazione riciclata dai loro genitori. Ogni giorno affollano metro ed autobus, avari della loro noia da pièce teatrale, sputano cubetti mezzi sciolti di una rabbia che sbadiglia. Correndo. Sempre correndo a perdifiato. Disperdendo nell’aria ad ogni passo un pò più  del loro niente. Un niente cattivo, svuotato, che non si può scrivere perchè non ha spina dorsale. Ma va veloce, è un meccanismo perfetto ed essenziale, basato sull’aculturazione e sull’omologazione dei connotati identitari. La velocità è una prerogativa. Fermarsi è segno di debolezza, ti rende meno competitivo, ti affossa nella morsa dei perdenti, ti fa parte del sistema, ti preclude ogni possibilità di comunicazione autentica, ti isola a te stesso, ti rende un numero di matricola, ti  sbatte faccia al muro contro un traguardo che non taglierai mai, perchè sei troppo lento, non produci abbastanza e non consumi quanto dovresti. Non vendi né compri. Sei autosufficiente, un’entità a se stante, fuori da ogni definizione di coppia, gruppo, comunità. Sei un animale rapace, un lupo selvatico, una bestia che non si fa addomesticare. Tu sì che hai l’eroico furore solitario dell’individuo al limite. Quando riscopri la flemma, inizi ad essere percepito per quello che sei. Un campo minato a distanza ravvicinata, senza più un artificiere che sappia fare il suo mestiere nei dintorni. Non sei il terrorista, la mano umana che pianifica l’esplosione. Sei l’ordigno a orologeria e il conto alla rovescia inizia quando nasci. Per anni scegli di stare in silenzio. Accetti di costringerti ad un esilio forzato, di ridere a intervalli regolari risate preregistrate, di sbronzarti pur di non ascoltare le puttanate che ti bruciano l’ossigeno intorno, di condividere i tuoi letti sfatti con chi vorresti azzannare nella barbarie di una danza primitiva. Ti fai spirito della foresta e reclami sangue per rigenerare vita da una terra in via di estinzione. Essere pulsazione dei tuoi organi vitali, sentirti respirare nei tessuti e ridisegnarti tra nuove geometrie molecolari. Tirare fuori i denti, non più  per sorridere. Questa volta, forse l’ultima, per uccidere. Per questo sei carne e artigli. Per questo e per nient’altro sei gambe in movimento, per essere predatore oppure preda. Per questo sei circuito sinaptico, per attaccare o per fuggire. Rispondi a basilari istinti naturali, curandoti con quella lentezza necessaria a risvegliare i tuoi riflessi di sopravvivenza, in coma per eccesso di velocità. Scegli l’unica forma di vita incontaminata che ti rimanga, la flemma. La scegli nel sacrificio e nel rituale. Torni uomo. Ora, arrivati a questo punto del dicorso potrei anche sbagliarmi, ma io credo che Paolacci ce l’abbia fatta. Che l’abbia scritto, questo libro tanto atteso sulla e contro la nostra generazione. E che l’abbia fatto nel modo più spietato che poteva. In un crescendo dionisiaco di rock’n’roll e di vecchi cantastorie, “Flemma” descrive gli universi paralleli di una serie di storie che si inseguono tra Bologna e il Cilento. Davide, un attore di teatro che recita monologhi di satira, una maschera d’odio a coprire ogni sbavatura d’incertezza. Clara, una fumettista innamorata della morte, senza talento per la vita o forse con un talento troppo grande per pensare anche solo di affrontarla, per decidere da dove cominciare. Macaco, un ragazzo di provincia, soffocato da vent’anni di silenzi familiari e da quegli sguardi che ti dicono, con un ghigno che si divora gli occhi, che non andrai lontano. L’agente Lenzi, vissuta da sempre nell’ombra del proprio corpo, fagotto informe, corrosa dall’invidia per una generazione di belli ritoccati, di pelle elastiche e di pance piatte. Luca, un tredicenne orfano, messo al bando dai suoi coetanei, mandato in guerra contro una cattiveria che non si può scrivere, perchè è cattiveria del niente, il niente vuoto, nero di notte e di letargo della fantasia. Se arrivate all’ultima pagina di questo gran pezzo di critica sociale e vi chiedete che cosa ci sia di noir in un romanzo del genere. Beh. Vuol dire che in quel niente ci siete dentro fino al collo. Perchè nera è questa generazione d’automi e automatismi, nera è questa libertà fatta d’abitudine. E non ve ne tirerete fuori tanto facilmente.

Antonio Paolacci è nato nel 1974. Ha vissuto a Torre Orsaia (SA) fino alla fine del liceo, poi si è trasferito a Bologna, dove vive tutt’ora. Si è laureato in Discipline dello Spettacolo. Ha tenuto lezioni all’università e scritto articoli sul cinema. È stato lettore in casa editrice e ha collaborato con alcune agenzie letterarie. Dal 2008 coordina le giurie del premio “Lama e trama” e ha avviato un proprio studio editoriale. Un suo racconto è apparso nell’antologia Amore e altre passioni (Zona, 2005). Flemma è il suo primo romanzo.  Qui il suo blog.