:: Davide Mana, un anno dopo

22 novembre 2025 by

Il 22 novembre di esattamente un anno fa ci lasciava Davide Mana e siamo qui oggi a ricordarlo con quella vena di umorismo e leggerezza che lo caratterizzava, lui che spaziava tra dinosauri, investigatrici dell’occulto e cartografi persi nelle lande cinesi. È passato ormai un intero anno ma manca ancora molto ad amici e lettori e sappi Davide che qui noi non ti dimentichiamo. Poi c’è il suo bellissimo blog Strategie evolutive per chi non lo conoscesse, un tesoro di curiosità, aneddoti, film, musica, buone ricette, scrittura ancora online e un invito a leggerlo, mi ringrazierete, anche per tenere viva la sua memoria. Sapevo di alcune iniziative di antologie per raccogliere i suoi tanti racconti, e le sue novelle, molto scriveva in inglese, per cui penso c’è ancora molto materiale da tradurre in italiano. Spero qualcosa si faccia per conservare la sua memoria, sono certa che chi seguiva il suo lavoro ne sarà solo contento. Non era un un uomo triste, nè si scoraggiava facilmente, anzi mi ha sempre incoraggiata, spronata e valorizzata, per cui queste mie poche righe per ricordarlo cercheranno di conservare il suo spirito arguto e divertente. Era un uomo buono, profondamente buono, generoso e intelligente, forse tra le persone più intelligenti e sensibili che abbia conosciuto. Suo fratello Alessandro, a cui era molto legato, cura il suo lavoro e spero si accordi per pubblicare, anche se in modo postumo, i suoi inediti se ce ne sono. All’estero era molto stimato e conosciuto, tra gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Australia, magari in futuro qualche editor, con cui ha lavorato negli anni, raccoglierà i suoi lavori, anche valorizzando la sua narrativa breve persa tra riviste e antologie. Per chi volesse su Amazon c’è la sua Pagina autore. Se avete già i suoi ebook lasciate anche solo un commento in suo ricordo. Bene sono felice di averlo conosciuto, ed è ancora un piacere leggere i suoi scritti, era uno scrittore davvero pieno di talento, avrebbe meritato di più dalla vita, questo sì, più riconoscimenti, più tranquillità economica, meno grattacapi, ma si sa la vita è spesso ingiusta, ma sappi Davide hai lasciato qualcosa in questo mondo, il tuo passaggio ha avuto un senso e un significato rendendo questo nostro terribile e meraviglioso mondo un posto migliore.

:: Iron Mask – La leggenda del dragone di Oleg Stepchenko (2019)

21 novembre 2025 by

Dunque vediamo il film di cui vi parlerò oggi si intitola Iron Mask – La leggenda del dragone un action-fantasy sino-russo del 2019 diretto da Oleg Stepchenko, sequel del film Viy – La maschera del demonio, distribuito nel 2015 con il titolo, per il mercato Europeo, di Forbidden Empire che scoprii sul blog di Davide e mi piacque parecchio per cui aspettai con una certa curiosità il seguito che si anticipava sarebbe stato ambientato in Cina. Voi sapete io non amo tanto il fantasy occidentale, ma amo molto quello orientale, e i film di arti marziali, per cui presi con un certo entusiasmo il DVD che mi assicurava il doppiaggio in italiano. Il film riunisce un cast internazionale sorprendentemente variegato, in cui spiccano Jason Flemyng, Arnold Schwarzenegger, Jackie Chan, Charles Dance (fece un pregevole Il fantasma dell’Opera) e Rutger Hauer in una delle forse sue ultime apparizioni cinematografiche. La storia narra le avventure un po’ bislacche dell’esploratore e cartografo inglese Jonathan Green in un viaggio dall’Europa alla Cina, dove si troverà coinvolto in una vicenda che mescola magia, arti marziali, draghi e complotti imperiali.

E’ un film un po’ caotico, i piani narrativi si intrecciano in modo un po’ confusionario ma quando Jackie Chan prende il controllo delle scene di combattimento diventa godibile per eleganza e rapidità, rispecchiando lo stile dei migliori film d’avventura asiatici. A Davide sarebbe piaciuto, si sarebbe divertito come un matto, avrebbe preso una vaschetta di pop corn e avrebbe apprezzato questo film sicuramente ricco di immaginazione e una certa folle anarchia. E’ un tripudio di colori, costumi elaborati, paesaggi da fiaba orientale e ci si diverte. E’ anche a misura di bambino, non ci sono parolacce nè scene di violenza efferata, è meno horror del precedente. Infatti è consigliato per tutti.

Jackie Chan e Arnold Schwarzenegger poi si divertono come pazzi, e sebbene abbiano un tempo sullo schermo piuttosto limitato, le loro scene – soprattutto lo scontro nella prigione – valgono da sole il prezzo del biglietto. L’aspetto visivo è sicuramente il lato migliore di questo film se vogliamo bizzarro, eccessivo e volutamente sopra le righe. Forse chi cerca coerenza narrativa a tutti i costi o un prodotto raffinato potrebbe invece rimanere deluso e storcere il naso, ma per chi ama i film d’avventura “alla vecchia maniera”, è una chicca. E poi è un curioso esperimento, un esempio di coproduzione internazionale che tenta di fondere l’estetica del fantasy orientale con la solida struttura dell’evventura classica europea.

Dal punto di vista tecnico, Iron Mask alterna effetti digitali di buona fattura ad altri decisamente meno convincenti, generando un risultato abbastanza straniante. L’impatto visivo rimane comunque il vero punto di forza, con un uso dei colori e un design scenico tipicamente orientale che catturano l’occhio dello spettatore, e incantano i più piccoli.

Nel complesso, Iron Mask – La leggenda del dragone è un film che punta più allo spettacolo e al divertimento che alla coerenza narrativa: un film imperfetto, certo, a tratti anche caotico, come dicevo prima, ma non privo di fascino per gli amanti dell’avventura fantastica.

E poi diciamocelo, a volte i film caciaroni e senza troppe pretese sono i migliori per passare qualche ora di sano svago, senza troppi pensieri.

Da recuperare anche il precedente, che mi vedrò oggi appena torno dal lavoro, per rinverdire i vecchi tempi, che sembrano sempre migliori del presente. Buona visione!

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:: Faccia rumore di Daniela Barone

21 novembre 2025 by

Non dovete aver paura. L’isola è piena di questi sussurri, di dolci suoni, rumori, armonie, che non fanno alcun male, anzi dilettano.  ‘La Tempesta’  William Shakespeare

Il primo rumore che ho sentito deve essere stato il quieto fluire del liquido amniotico, la voce della mamma e ad un certo punto i sobbalzi dei suoi singhiozzi per la perdita improvvisa della madre.  Venni al mondo con la sofferenza materna fisica e morale per quell’evento infausto ma sono certa che i miei primi gorgoglii le portarono ben presto consolazione e gioia.

Sono sempre stata una bambina vivace che si dilettava a cantare a squarciagola le canzoni di Mina e Modugno, che faceva un gran rumore giocando con le pentole della mamma e ammirava le note melodiose del pianoforte della maestra Rita alla scuola materna. E che dire del suono dell’organo che ascoltavo nella chiesa dei frati di San Barnaba? Oltre a quella musica, mi incuriosiva il suono cantilenante delle litanie che i fedeli ripetevano per un tempo che a me pareva interminabile. Guardavo la mamma che con aria assorta recitava le invocazioni alla Madonna, e ogni volta mi domandavo come facesse a non stancarsi di quelle monotone e soporifere filastrocche. Di gran lunga preferivo il cigolio del macinacaffè di legno che mi dilettavo ad usare a  casa, il borbottio della vecchia moka sui fornelli della stufa economica e il cinguettio dei canarini che tenevamo in grandi gabbie appese alle pareti della cucina. Era anche piacevole il cincischio delle forbici di papà che tagliava i capelli a me e alla mamma. Zic, zac…. Lui era stato un parrucchiere da giovane e a lungo volle occuparsi delle nostre chiome e più tardi, di quelle dei miei tre bambini. Crescendo, ci rifiutammo tutti, ad eccezione della mamma, di usufruire dei suoi servizi e preferimmo rivolgerci a professionisti più aggiornati per non rischiare, con il peggiorare della sua vista, scale irrimediabili  o frangette improbabili.

Più grandicella, iniziai a detestare il rumore della lucidatrice che la mamma passava instancabile   sui pavimenti di graniglia alla genovese in tutta la casa, addirittura in camera da letto, dove papà stava riposando. Curiosamente lui continuava indisturbato il suo sonno, ronfando addirittura più fragorosamente del rumoroso elettrodomestico. All’epoca anche le lavatrici producevano suoni sordi, ronzii e vibrazioni insopportabili durante la centrifuga. Che ridere vedere la mamma che, nel tentativo di fermare la macchina che tendeva a spostarsi, vi appoggiava il suo sederone finché il ciclo non era terminato… Rumori antichi di un tempo passato ma mai dimenticati.

Molti anni dopo, ormai separata da mio marito, andai in vacanza in Grecia con un’amica d’infanzia. Nel visitare le rovine del Partenone e le Cariatidi dell’Acropoli assolata, fummo colpite dal frinire incessante delle cicale. Mai avevo udito un tale concerto ma mi auguravo di non vedere quegli insetti che m’incutevano timore e ribrezzo. Quanto preferivo le lucciole silenziose della mia infanzia, piccole e fugaci…

Proprio come me da piccola, i miei bambini facevano un gran schiamazzo nel parco giochi sotto casa. I pomeriggi primaverili a Pavia, quando il tempo cominciava a diventare più clemente, erano piacevolmente riempiti dalle loro grida, dalle risa e spesso dalle liti con gli amichetti.

Francesco, il maggiore dei miei figli, aveva iniziato a suonare il piano. Mai nessun vicino si era lamentato del suono imponente dello strumento, anzi, molti godevano delle sue prime strimpellate e più tardi dei brani eseguiti con maggior perizia. Che bello per me cantare le melodie di Battisti e De Andrè sulle note, a volte stonate, di quel pianoforte! Si creava fra noi un’armonia ed un’intimità che tanto avrei rimpianto negli anni a venire. Quel ragazzone che era venuto al mondo con un vagito debole, simile al belato di un agnellino, si era poi allontanato da casa per i dissidi nati con il mio secondo marito.  Come spesso accade, il tempo sanò questa ferita e il mio figliolo ritornò  da me, ormai libera da legami malati. Dopo anni, fu lui a diventare papà e a rallegrarmi con i discorsetti dei miei nipotini.  Oggi non c’è rumore più bello delle vocine di Luca, Leo e Cesare, figlio dell’ultimogenito, che comincia ora a dire le prime buffe frasette.

Dopo la morte della mamma, di cui ancora ricordo con pena i richiami lamentosi ai genitori scomparsi da decenni, dovetti prendermi cura di mio padre. Una notte fui svegliata dal rumore di martellate che provenivano dalla cucina. Sbigottita, vidi papà che alle tre del mattino era intento a riparare un paio di scarpe. Lo ricondussi irritata a letto, non capendo che il pover’uomo aveva ormai perso il senso del tempo.

L’anno dopo, triste e sola dopo la sua dipartita, arrivò il Covid.  Ad eccezione di alcune ore mattutine, segnate dalle voci squillanti dei miei alunni nella didattica a distanza, sprofondai come tutti in un silenzio angosciante. Le strade non riecheggiavano più dei rumori dei bus e di altri veicoli, deserte com’erano diventate. Anche le voci si erano ammutolite sotto le invadenti mascherine. Del resto, di cosa si poteva discorrere con qualcuno quando il terrore del contagio ci attanagliava e ci spingeva a rientrare presto nelle rassicuranti mura domestiche?

La primavera, incurante della pandemia, ci sorprese con i primi raggi tiepidi del sole. A poco a poco il silenzio inquietante dei cortili e delle vie venne interrotto, dapprima timidamente, dai canti allegri di chi, a finestre aperte, richiamava con un tacito appuntamento, amici e vicini di casa sempre alla stessa ora. Devo ammettere che non presi mai parte a quelle canzoni collettive, dubbiosa com’ero di un rapido ritorno alla normalità. ‘Andrà tutto bene!’ si leggeva su cartelloni appesi in qualche modo ai balconi. Ma come? Ogni giorno il gracchiare della tv ci informava di numeri sempre crescenti di nuovi casi, decessi, saturimetri e farmaci sperimentali dai nomi spaventosi. No, davvero non credevo che sarebbe andato tutto bene. Passavo le miei giornate in rapidi acquisti guardinghi al supermercato sotto casa e in passeggiate ‘illegali’ oltre il perimetro prescritto dai vari decreti. La campagna era diventata un’ amica per me che da sempre la detestavo. Portavo alle orecchie le cuffie che mi consentivano d’ascoltare gli audiolibri Ad Alta Voce di Ray Play Sound e mi addentravo nei sentierini desolati. Come una fuorilegge, m’inoltravo sempre più lontano da casa nella campagna dove nemmeno gli uccelli e gli animali selvatici osavano fare rumore. Mi fecero compagnia le voci amabili degli attori che recitavano in perfetta dizione dei brani de ‘Il Conte di Montecristo’ di Dumas, ‘La Peste’ di Camus e altri libri mai letti, rincuorandomi più di tanti inviti surreali all’ottimismo e alla ripresa.

Oggi, pensionata settantenne, sono tornata a vivere a Genova. Per ascoltare il rumore delle onde del mare devo arrivare a Voltri, dato che il porto con pile di container e gru mostruose ha preso il posto della spiaggia e degli stabilimenti balneari di quando ero bambina. Vale sempre la pena  di raggiungere le ultime spiagge rimaste dove ascoltare lo sciabordio del mare e i garriti dei gabbiani, sia in estate sia nella stagioni più fredde. Quando sono a casa, non ci sono i rumori dei figli o dei nipotini lontani ma solo il suono della musica o della televisione sempre accesa, come accadeva a casa dei miei vecchi genitori.  Sfortunatamente nessuno condivide il mio pianerottolo: c’è solo un appartamento sotto il mio che è abitato da una coppia della mia età.  Pochi giorni fa la moglie, da tempo ammalata di tumore, è scomparsa. Avrei dovuto capirlo dal silenzio, dalla posta accumulata nella cassetta da giorni. Stamattina, al ritorno da una vacanza, ho letto il necrologio e mi sono affrettata a lasciare alla loro porta un bigliettino di cordoglio. Poche ore dopo ho incontrato il marito e l’ho abbracciato con calore. Adesso, anche per lui, gli unici rumori di casa saranno quelli della tv e delle voci dei nipotini in visita. Mi ha raccontato del triste epilogo, di questa donna al suo fianco per cinquant’anni e ho provato pena per lui. Congedandosi frettolosamente da me sull’ascensore, mi ha detto a voce bassa: «Faccia rumore.»

Faccia rumore, ripeto fra me e me…  Poverino. In ‘Castelli di Sabbia’ Baricco scrive: ‘Anche se la vita fa un rumore d’inferno affilatevi le orecchie fino a quando arriverete a sentirla e allora tenetevela stretta, non lasciatela scappare più’.   Il rumore fa parte di noi, della vita. Guai a temerlo. Così è per il silenzio, implacabile ma necessario.

Daniela Barone è nata a Genova nel 1956 dove risiede tuttora. Ha insegnato inglese al Liceo Scientifico ‘N. Copernico’ di Pavia dove ha vissuto per trentacinque anni con la famiglia. Pensionata da cinque anni, si dedica alla scrittura, sua passione da quando era bambina, quando componeva semplici poesie per il giornalino scolastico. Ha sempre amato raccontare storie inventate alle coetanee o anche a se stessa, nei momenti di solitudine. Legge libri di saggistica ma soprattutto di narrativa. Ama scrivere storie sulla sua infanzia e sulle numerose esperienze di viaggio che la riportano comunque ai momenti salienti, spesso dolorosi, della sua vita. Oggi la sua vita è allietata anche dai figli, dai nipotini e dai viaggi.

:: Visioni di cinema: The Moderns, di Alan Rudolph (1988)

17 novembre 2025 by

Allievo prediletto di Robert Altman, Alan Rudolph è l’artefice di un piccolo gioiellino sperduto nella cinematografia dei tardi anni ’80 dal titolo quantomai emblematico The Moderns, con riferimento esplicito alla corrente artistica del Modernismo.

Ambientato nella Parigi bohemienne del 1926, il film segue le accidentate vicende di Nick Hart (da notare l’assonanza co Art), interpretato da un ottimo Keith Carradine, pittore squattrinato americano che si guadagna da vivere disegnando schizzi per l’edizione parigina del New York Herald Tribune. Artista di talento, ma dalle alterne fortune, figlio di un affermato falsario d’arte, sembra avere il destino segnato nel seguire le orme paterne e infatti rimasto in bolletta accetta di copiare alcune opere d’arte per conto di Libby Valentin (Genevieve Bujold) amica e mercante d’arte anche per aiutarla ad uscire da un divorzio difficile.

Nel frattempo, reincontra sua moglie Rachel (Linda Fiorentino) da cui non ha mai legalmente divorziato, ora “sposata” in odore di bigamia con Bertram Stone (John Lone), un pericoloso e ambiguo collezionista d’arte americano, con una passione per l’escapologia, espatriato anche lui, che nonostante la sua enorme ricchezza fatica non poco ad essere accettato dal bel mondo parigino. Tra Rachel e Nick riesplode la passione e da qui in poi le cose assumono il tono della farsa più che della tragedia.

The Moderns si svolge in uno scenario evocativo e decadente tra caffè, ristoranti, salotti culturali, palestre di boxe, soffitte e gallerie d’arte, e ci narra una storia che se vogliamo è una severa critica a tutto quello che ruota intorno al mondo dell’arte, dai critici cinici e spietati, agli avidi mercanti d’arte, agli investitori, un mondo chiuso e molto elitario in cui più che giudizi estetici predominano dibattiti economici sull’autenticità delle opere. La mercificazione dell’arte infatti diventa il perno di una critica feroce, sul senso ultimo di un mondo che vive di apparenza, dove la verità e l’illusione si alternano in un susseguirsi di gag semiserie dal retrogusto al curaro.

E se vogliamo questa critica è più riferita alla Hollywood degli anni ’80, che al mondo dell’arte parigina degli anni ’20.

Tra i tanti espatriati incontriamo Hemingway, e Gertrude Stein, animatrice di uno dei più effervescenti salotti letterari parigini, ma non è tanto la ricostruzione storica che interessa al regista più l’atmosfera e lo spirito di un’epoca che ha segnato in modo non marginale l’immaginario del Novecento.       

:: Nei luoghi più oscuri di Carlo Lucarelli (Einaudi 2025) a cura di Valerio Calzolaio

17 novembre 2025 by

Bologna e non solo. 1980, 1939 e non solo. Una giovanissima giudice “la Bambina”, un killer apparentemente insospettabile, Grazia Negro incinta e incerta, una poliziotta che non si fida della collega, un maggiore impazzito in piena guerra coloniale, un commissario di bordo, sospetti e ritorsioni, omicidi. Spiega direttamente il grande Carlo Lucarelli (Parma, 1960) come ci si gira “Nei luoghi più oscuri”: “i racconti vanno via veloci, e non soltanto perché sono più rapidi dei romanzi, ma perché si disperdono più facilmente, antologie, riviste, collaborazioni, prendono direzioni diverse e a volte si perdono. Per questo ogni tanto è bello raccoglierli, inseguirli e ritrovarli, quelli nati da una intuizione improvvisa o da un’occasione, che è come un dito che indica una direzione in cui non avevi ancora pensato di andare. È una mandria di cavalli diversi che una volta riuniti raccontano dove sono stati e tutte le volte è di nuovo una scoperta”. Ovvero un’avvincente affilata tesa sorpresa!

:: Le voci di via del silenzio, Elvira Serra (Solferino, 2025) A cura di Viviana Filippini

17 novembre 2025 by

“Le voci di via del silenzio”, di Elvira Serra edito da Solferino, è una storia dove due voci lontane e separate si incontrano e confrontano per arrivare alla scoperta di verità, a volte davvero inaspettate. Da una parte il protagonista Luca,  ossia un giovane prodigio del giornalismo alle prese con un convento di clausura. Il ragazzo, che sta attraversando un periodo un po’ cupo della sua vita,  ha scelto volontariamente  di provare questa esperienza per intervistare la madre superiora. Luca è lì,  in convento. Ci è andato non solo per lavoro, ma per cercare un po’ di serenità e, soprattutto per dare un senso alla sua esistenza, perché ha bisogno di capire meglio il suo passato e di allontanare quegli attacchi di panico che da troppo tempo lo tormentano. Il giovane sa di essere stato adottato e in lui nasce la necessità di scoprire chi è la madre vera e perché ha deciso di lasciarlo, separandosi da lui per sempre. Accanto alla sua storia c’è quella di Giulia,  una navigata giornalista molto attiva  e sempre presente nel posto giusto e al momento giusto per raccontare quello che accade. Dai fatti di cronaca nazionale a quelli internazionali, lei c’è ed è pronta a mettere i fatti nero su bianco. Tutto sembra procedere per il meglio, con grandi soddisfazioni e missioni giornalistiche in giro per il mondo, anche se, ad un certo punto della narrazione, la donna abbondonerà ogni cosa per dare una svolta alla sua esistenza facendo un cambiamento radicale che la porterà ad un vivere altro, in un modo del tutto differente. Elvira Serra, con una narrazione dal ritmo incalzante, racconta due vite parallele diverse (all’apparenza), ma con tratti simili che si avvicineranno e confronteranno in modo diretto. “Le voci di via del silenzio” di Elvira Serra è una narrazione dove i protagonisti sono alla ricerca del proprio posto nel mondo, della pace esistenziale nel presente facendo i conti con il passato. Fatti che faranno conoscere Giulia e Luca come a volte certi eventi possano cambiare per sempre la vita della persone, compresa la loro.

Elvira Serra, nata a Nuoro nel 1972, è una firma del «Corriere della Sera», dove si occupa di cronaca e costume, intervista grandi personaggi e cura la rubrica Polaroid.  Scrive anche sul blog «La ventisettesima ora» e collabora con i settimanali «Diva e Donna» e «Oggi».  Con Solferino ha pubblicato Le stelle di Capo Gelsomino (2019), Tutto da vivere (2021) e la riedizione del bestseller L’Altra (2024). (Fonte Solferino).

Source: del recensore

:: Un’intervista con il Gen. Livio Ciancarella a cura di Giulietta Iannone

16 novembre 2025 by

Buonasera Gen. Livio Ciancarella, grazie di avere accettato la nostra intervista. Inizierei con una domanda di rito: si presenti ai nostri lettori, studi, pubblicazioni, attività anche non legate alla scrittura.

Buonasera dott.sa Iannone, sono un militare in pensione, ho partecipato a sei missioni all’estero in varie aree delle quali ho approfondito la cultura e le usanze, mi piace la storia e ho pubblicato un primo libro (Sotto un cielo senza confini – storia di un bisnonno fedele all’Austria) nel 2016 che ha vinto il premio Sandomenichino, poi Intrigo in Afghanistan nel 2024 (un giallo poco giallo e molto autobiografico) e infine questo ultimo saggio nel 2025. Insegno gratuitamente Geopolitica e Storia dell’Islam e sono apicoltore, dove imparo molto da questi piccoli esserini.

È l’autore del saggio I primi caduti della Comunità europea – Parlano i sopravvissuti di Podrute – Novi Marof. Un testo molto ben documentato che raccoglie interviste, lettere, atti processuali, foto, mappe. Perché ha sentito la necessità di scrivere questo libro?

Grazie. Ho constatato che nessuno aveva mai sentito i diretti testimoni di un fatto cruento del 1992, i parenti delle vittime, i sopravvissuti e persino la parte che ha aggredito. Inoltre c’era molta incertezza sui dettagli dell’evento.

E come ha raccolto le fonti? Quanti anni ci ha messo?

Un paio di anni. Le interviste sono state un lavoro faticoso perché doveva essere personalizzato e mi interessava coinvolgere più persone possibile. Le fonti principali sono stati gli atti processuali dei tre gradi di giudizio di un evento che ha fatto giurisprudenza nel diritto internazionale, poi le testimonianze dirette, poi i documenti disponibili online comprese le dichiarazioni fatte ai media serbi, infine alcuni dettagli tecnici e cronologici ricostruiti con il confronto delle fonti.

Nell’introduzione scrive che per un soldato peggio della morte è la perdita della memoria, che i fatti siano distorti, occultati o dimenticati. Pensa che sia un sentimento diffuso tra i militari?

Non lo penso, ne sono certo. Questo deriva da anni della mia vita dedicati a svolgere missioni militari all’estero e dal confronto con le memorie di altri veterani in altri contesti. Vede, perdere la vita non è nulla in confronto all’abisso di essere considerati inutili dopo mille sforzi profusi.

Il libro riapre una pagina dolorosa, l’abbattimento dell’elicottero della Comunità economia Europea (diventerà UE solo il 7 novembre 1993 a Maastricht) del 1992. Cosa successe davvero il 7 gennaio del 1992?

Nel 1991 venne avviata la ECMM (European Commission Monitor Mission), una missione disarmata accettata dalle parti che doveva monitorare i tentativi di comporre il conflitto appena scoppiato in Jugoslavia. In quella data un nostro elicottero completamente bianco venne intercettato e abbattuto da un MiG 21 federale (jugoslavo) causando la morte di cinque osservatori, quattro italiani e un francese.

Una storia poco conosciuta se vogliamo, cosa hanno cercato di nascondere? Un incidente o un atto deliberato di Belgrado?

I mandanti sono stati sottoposti a giudizio in contumacia e giudicati colpevoli di strage e crimini di guerra in Italia e in Croazia, non c’è dubbio sulla intenzione deliberata. Più controverso è capire i motivi per cui questo sia stato fatto: inizialmente si era cercato di far ricadere la colpa sui Croati, poi che si fosse trattato di un tragico errore. Esistono molte teorie sui motivi, ma nessuna ha messo la parola fine a questa storia. Forse succederà in futuro, forse no, io ho fatto le mie considerazioni raffrontando il clima e gli eventi contestuali.

È in fondo anche una storia di memoria negata, verso le vittime e l’opinione pubblica. Che conseguenze avrebbe potuto avere?

Viviamo in un mondo di ipocrisie, esaltiamo l’integrazione, ma non sappiamo rendere merito a chi si è speso per questo. Beninteso le medaglie nazionali ci sono state, ma manca ancora un riconoscimento dalla UE per i suoi primi caduti, quasi che una malcelata e incomprensibile real politik impedisca di farlo. Mi ha poi amareggiato constatare la differenza di trattamento per i figli dei caduti in Francia e in Italia, due pesi e due misure indegni di un continente che si dice unito. I conti con la storia possono venire tardi, ma vengono sempre.

E per quale ragione fino a oggi i testimoni, o chi partecipò all’abbattimento dell’elicottero con gli osservatori della Comunità Europea fanno ancora così fatica a parlare e raccontare la verità? Come se lo spiega?

Per i Serbi questo evento costituisce un grande imbarazzo: da un lato si vorrebbero lasciare alle spalle gli orrori ed errori della guerra, dall’altro il partito dei veterani costituisce ancora una forza elettorale influente. Nonostante due tentativi con amici storici non ho da loro avuto risposta alle mie domande che ho comunque pubblicato, con riscontri dai media, in attesa di una futura edizione partecipata. Per i colleghi italiani la ritrosia è meno nettamente spiegabile: vi sono casi rispettabili di rifiuto a riaccendere il dolore e vi sono stati casi di pubblicazione negata a intervista conclusa, come se non si dovesse parlare di certe cose. In parte è una ritrosia tipica di chi ha visto la morte, in parte è timore di conseguenze, quali poi non sono riuscito a capirlo.

Grazie della disponibilità, e se le posso chiedere ha nuovi progetti di scrittura in corso?

Credo che prossimamente lavorerò a un romanzo semiautobiografico ambientato in Libano, una storia d’amore e guerra intrecciata coi luoghi dove il tempo è ciclico (aion), “Il cielo del Libano”. Che gliene pare? Grazie a voi e buon lavoro.

:: Tra l’ombra e la rabbia di Vittorio Renuzzi (Todaro, 2025) a cura di Patrizia Debicke

15 novembre 2025 by

Nelle strade di una Milano attraversata dal vento della rivolta, Tra l’ombra e la rabbia di Vittorio Renuzzi affonda le radici in un periodo in cui ogni vicolo vibra di tensione, paura e speranza. Siamo nel marzo 1848, un attimo prima e durante le Cinque Giornate.  La città si trasforma minacciosamente in un sistema inquieto, rivoluzionario, attraversato da mortali scontri improvvisi e da un raffazzonato ma efficace tumulto collettivo che trasforma piazze e cortili in luoghi di resistenza all’esercito austriaco usurpatore. Renuzzi ricrea quell’atmosfera con rara attenzione ai dettagli, restituendo al lettore lo sventolare  degli stendardi, l’eco dei passi armati, l’acre sentore della polvere da sparo e lo sferragliare delle spade che serpeggia nei cortili, s’insinua nei bordelli  e raggiunge perfino gli appartamenti signorili. Milano appare viva e palpabile, sospesa tra entusiasmo rivoluzionario e  cupe ombre minacciose. In questo scenario, la strana apparentemente misteriosa e incomprensibile scomparsa di una contessa scatenerà un’indagine che fin da subito assumerà il ritmo di un’ossessione.
Protagonisti della storia saranno due insolite e stranamente complementari figure. Il conte marito della donna, da Monza manderò  a cercarla il suo medico personale: il dottore e noto poeta anche dialettale   Giovanni Rajberti, aperto, duttile e intelligente  uomo colto e sensibile, abituato a scrivere, intuire l’altrui  dolore e scandagliare la natura umana, e il suo intendente, uomo di fiducia Georgay ,un dragone dallo sfuggente e tenebroso passato, un soldato avvezzo alla disciplina, ai rischi, e  uso alle verità taciute. Ungherese/italiano, uomo tutto di un pezzo, apparentemente  inesorabile, nel suo lavoro è sempre affiancato da un pericoloso cane dal nome luciferino di Ördög, il diavolo.
L’alleanza tra due persone tanto diverse, nata dalla urgente necessità,  si incrementerà attraverso difficili scelte, improvvise intuizioni e tragici scontri con una realtà fatta di segreti che feriscono quanto una lama affilata. I due dovranno muoversi insieme in una città in bilico, scoprendo legami sepolti e scomode verità, mentre il clima insurrezionale amplifica ogni passo, ogni esitazione, ogni sospetto.
L’intreccio si sviluppa come un labirinto governato da antichi rancori, ricatti e passioni. Ogni indizio raccolto spinge verso un nuovo enigma, e la lunga e penosa  ricerca della contessa diventerà  un viaggio nei recessi più oscuri dell’animo umano, dove desideri repressi e feroci ambizioni si intrecciano con la fragilità dei sentimenti, mentre ogni indizio spinge  più a fondo in un labirinto di intrighi, anche in  odore di massoneria.
L’autore tratteggia, nella sua storia, personaggi mossi da intime pulsioni, da una rabbia troppo spesso nascosta e da un improrogabile bisogno di riscatto. Le loro passioni non scorrono come un semplice sottofondo, ma condizionano pesantemente tutta la trama influenzando ogni loro scelta. Nel medico poeta si avverte un tormentato e irriducibile idealismo mentre nel dragone ungherese emerge una silenziosa forza, plasmata da passati traumi interiori e da una pervicace lealtà che sorprende.
Il ritmo narrativo cresce pagina dopo pagina, pressato da veloci dialoghi e da colpi di scena che arrivano quando la tensione sembra sul punto di spezzarsi. L’impianto storico non rimane cornice decorativa, ma diventa un essenziale elemento narrativo, in grado di influenzare le azioni e le reazioni dei protagonisti. Il romanzo riassume in sé la vitalità del thriller d’azione mischiata a intrighi dal sapore gotico e politico, dove tra barricate, stanze segrete e carte truccate, la verità non si mostra mai in piena luce. Apparentemente l’intreccio della trama pare animato da buone intenzioni mascherate da giustizia, l’emotiva profondità di un giallo psicologico prende piede, e l’inquietante onnipresenza del dragone offre alla vicenda più ampio respiro con molti aspetti da districare.
Tra l’ombra e la rabbia si impone dunque come un romanzo in cui storia, passione e mistero si intrecciano con naturalezza. Milano diventa lo specchio delle tensioni interiori dei personaggi e la ricerca dell’interiore verità par voler assumere valore più grande della stessa indagine. Mentre gli altri interpreti della storia, dipinta come un’umana tragedia, avanzano, si presentano, pronunciano poche avare battute e si girano per poi, abbandonata la scena, allontanarsi e sparire quasi. Apprezzabile  la scorrevolezza, la ricchezza di dettagli e le caratterizzazioni: cito in particolare quella di  un gruppo di ex ragazze di bordello trasformate in efficienti infermiere durante gli scontri, agli ordini del “nostro” poeta dottore.
Vittorio Renuzzi costruisce un romanzo complesso in cui la città in rivolta pulsa all’unisono con i protagonisti, e ogni passo avanti nella trama ne illumina la passione, il dolore e il desiderio di affrancarsi. Un mondo in divenire, una ancora lunga strada verso l’agognata libertà.
Un giallo storico intenso e vibrante, capace di trascinare il lettore nel cuore di giorni tumultuosi e in un’indagine che avanza tra  fitte ombre e misteriose, tragiche e crudeli  pulsioni.

Vittorio Renuzzi nato nel 1967 si è  laureato nel 1992 in Economia politica all’Università Pavia. Ha trasformato la passione per il teatro nel suo lavoro, contribuendo con le sue competenze alla comunicazione di idee e progetti.
Nel 2000 ha contribuito a fondare la “Compagnia della Corte”, con la quale organizza progetti che hanno lo scopo di rendere la cultura uno strumento vincente per la realizzazione della persona e per fare impresa.

:: A Tokyo, con The Passenger

14 novembre 2025 by

Nemmeno gli scrittori di fantascienza avevano mai immaginato che un giorno le strade di Tokyo sarebbero state affollate di turisti stranieri ansiosi di scoprire un mondo scintillante e pieno di riferimenti così lontani dalla loro cultura. Fino a pochi anni fa sembrava uno scenario irrealistico e la capitale una meta soprattutto per iniziati e yamatologi, ma nel frattempo l’influenza della cultura popolare giapponese è cresciuta a dismisura. Sebbene gli anni ruggenti dell’economia nipponica siano finiti da quasi tre decenni e Tokyo stia vivendo un ridimensionamento dovuto anche alla svalutazione dello yen, la città ha ancora molto da offrire: è estremamente sicura, vivibile – quasi a misura d’uomo nonostante le dimensioni e la densità abitativa – godibile e goduriosa.

La massiccia e relativamente nuova presenza di stranieri, tuttavia, genera anche preoccupazioni per l’overtourism e il proliferare di uno sviluppo urbano allarmante. Perfino qui, dove la transitorietà è nel dna e demolizioni e ricostruzioni dovute a guerre e calamità naturali sono cicliche, si teme una crisi più profonda e la società mostra alcune crepe. Come il fenomeno dei Tōyoko kids, adolescenti traumatizzati che vivono per strada e che incrinano l’immagine pulita e ordinata che abbiamo del Giappone.

A livello politico si affacciano bizzarre forme di populismo, incarnate da youtuber e influencer strampalati che sembrano voler confermare tutti i paradossi di una società ultradisciplinata, che ha valvole di sfogo per noi incomprensibili: caffè a tema di ogni genere, host club le cui clienti si indebitano e finiscono in brutti giri solo per catturare per un po’ l’attenzione di un ragazzino alla moda, manifesti elettorali con cani, pornostar e supereroi. Quest’arte e abilità nel cercare una via di fuga, intrinseca alla città, è sempre più richiesta in un pianeta così turbolento e trova negli anime e nei manga la sua punta di diamante, lo strumento di soft power più efficace. L’eccellenza dell’industria giapponese sembra essersi spostata nel mondo dell’immaginazione e del desiderio, una fantasia che si può consumare dal proprio divano ma che molti vogliono toccare con mano e respirare viaggiando fino a Tokyo. Sembra poco, ma non lo è.

Le fotografie di questo numero sono state realizzate da Lukasz Palka, fotografo polacco che vive in Giappone dal 2008. Nel suo lavoro mescola street photography ed esplorazione urbana, e tratta Tokyo, metropoli che lo affascina per i suoi abitanti e le sue infrastrutture, alla stregua di un organismo vivente, con gli esseri umani e il traffico che pompano nelle sue arterie come spinti da un cuore che batte. Si dedica anche alla fotografia commerciale, lavorando per marchi come Nikon, Toshiba, Lexus, Peugeot e Microsoft. Le sue foto sono apparse su riviste di viaggio e lifestyle come Ronda, Excelente, Tokyo weekender e nel libro Tokyo unseen (Teneues, 2023). È tra i fondatori di Eyexplore, un’associazione con sede a Tokyo e attiva in tutto il Giappone che organizza workshop di fotografia.

:: Vita di Milarepa di Tsang nyön Heruka a cura di Carla Gianotti (Carocci editore 2025) a cura di Valentina Demelas

14 novembre 2025 by

L’edizione di Vita di Milarepa di Tsang nyön Heruka curata da Carla Gianotti per Carocci editore, è un’opera che segna una svolta nel panorama editoriale italiano. Per la prima volta viene proposta una traduzione integrale, condotta direttamente dal tibetano, di uno dei testi più importanti della spiritualità buddhista: la straordinaria biografia del grande yogi tibetano, figura leggendaria vissuta tra il XI e il XII secolo, celebrato per aver raggiunto l’illuminazione in un’unica vita.

Siamo davanti a un namthar, genere letterario tipico della tradizione tibetana che fonde narrazione biografica e insegnamento spirituale. La storia di Milarepa è un viaggio di caduta e riscatto: da giovane pastore colpito da ingiustizie familiari, si abbandona alla vendetta e impara le arti magiche oscure, provocando morte e dolore. Ma il rimorso lo spinge a cercare la redenzione sotto la guida severa del maestro Marpa, attraverso prove durissime che lo conducono a una radicale trasformazione interiore. Ritiratosi tra i ghiacci dell’Himalaya, Milarepa vive in meditazione e solitudine, componendo canti spirituali di folgorante potenza poetica. È la storia di un uomo che, nel trasformare il proprio veleno in medicina, ci ricorda che la salvezza non è mai fuori portata.

La potenza di questa narrazione non è solo storica o religiosa, ma anche letteraria. Tsang nyön Heruka, autore del XV secolo, costruisce un racconto avvincente, ricco di dialoghi e visioni, ma soprattutto pieno di umanità. Milarepa non è un santo inaccessibile: è fragile, determinato, poetico. Parla un linguaggio schietto, libero dai formalismi monastici, che ancora oggi sa toccare corde profonde. Il suo esempio, più che teorico, è esistenziale: una spiritualità vissuta, incarnata, che passa attraverso il dolore e la solitudine per approdare alla compassione.

La traduzione integrale in lingua italiana direttamente dal tibetano curata da Carla Gianotti, rappresenta il vero valore aggiunto di questa edizione. Esperta di lingua e cultura tibetana, la prolifica autrice ha già firmato in passato una prima traduzione del testo, ma qui ci restituisce un lavoro interamente rinnovato: più ampio, filologicamente accurato e arricchito da un apparato critico di rara chiarezza. L’introduzione, le note e il glossario rendono accessibile anche ai non specialisti un testo altrimenti difficile, fornendo al lettore strumenti preziosi per orientarsi nel pensiero buddhista. E se alcuni passaggi – soprattutto quelli più densi di dottrina o simbolismo – possono inizialmente spaesare, le spiegazioni puntuali e l’architettura limpida dell’edizione permettono di superare agilmente ogni ostacolo.

Particolarmente stimolante è l’accostamento tra Milarepa e figure della spiritualità occidentale come San Francesco d’Assisi, proposto dalla stessa Gianotti: entrambi vissuti ai margini delle istituzioni religiose, accomunati da un linguaggio poetico, da una radicale libertà spirituale e da un amore assoluto per ogni essere vivente. In un’epoca come la nostra, così affamata di autenticità, questa voce antica arriva a ricordarci che la vera trasformazione nasce dal coraggio di guardarsi dentro, di spezzare le catene dell’ego e ascoltare il battito profondo del reale.

Raro è trovare in Italia un editore disposto a investire in un testo tibetano classico con tanta attenzione. L’operazione di Carocci è coraggiosa e meritoria: il libro, già accolto con entusiasmo dalla stampa specializzata, rappresenta un ponte fra culture, tempi e visioni del mondo.

Vita di Milarepa non è solo la storia di un uomo straordinario, ma un invito a riflettere sulla possibilità – per ciascuno di noi – di cambiare rotta, trasformare il dolore in consapevolezza e trovare, nella pratica spirituale, una via di libertà. Una lettura che arricchisce e accompagna, per chi vuole andare oltre gli stereotipi sulla spiritualità orientale e confrontarsi con una saggezza millenaria, ancora pienamente viva.

Carla Gianotti insegna Buddhismo indo-tibetano e conduce da anni incontri di meditazione buddhista di consapevolezza e seminari sulle dimensioni simboliche femminile e materna. Oltre alla Vita di Milarepa, ha tradotto numerosi testi dall’originale tibetano. Tra le sue pubblicazioni: Cenerentola nel Paese delle Nevi. Fiaba tibetana (UTET, 2002), Milarepa, Il Grande Sigillo (Mimesis, 2004), In forma materna (Ibiskos, 2009), Donne di Illuminazione. Dakin e demonesse, Madri Divine e maestre di Dharma (Ubaldini, 2012), Il respiro della fiducia. Pratica di consapevolezza e visione materna (Mimesis, 2015), JO MO. Donne e realizzazione spirituale in Tibet (Ubaldini, 2020) e Custodire, concepire. Il tempo e l’eccedenza (delle cose) (Mimesis, 2021).

Source: libro gentilmente donato dall’editore, ringraziamo Giancarlo dell’Ufficio stampa di Carocci.

:: Quello che cerchi sta cercando te di Kader Abdolah dal 12 novembre in libreria

12 novembre 2025 by

Kader Abdolah, in bilico tra la fiaba e la biografia, racconta la vita di Rumi, poeta in esilio, ponte tra le culture d’Oriente e Occidente.

Poeta, mistico sufi, libero pensatore, propagatore e innovatore di una tradizione millenaria, Rumi nacque nel 1207 a Balkh, oggi in Afghanistan, circondato dalla grande letteratura persiana e dalla magia dell’arabo coranico. Ma era il tramonto di un’epoca, quella del califfato di Baghdad, l’età d’oro della cultura islamica, stroncata dall’invasione di Gengis Khan: è la sua violenza che per tutta la vita Rumi rifugge, da quando, ragazzino, scappò da Balkh con il padre. Amato ancora oggi in tutto il mondo, per Kader Abdolah, cresciuto con le sue poesie, non è solo un mito, ma uno spirito affine: come lui esule, come lui emissario di una cultura così antica da sopravvivere ai capricci del potere sanguinario. Come lui, ha trovato una nuova vita nell’esilio. Lungo la Via della Seta, il giovane Rumi conosce il mondo: tra madrase e bazar, visita Baghdad, La Mecca, Aleppo, impara il greco di Platone e il latino. Finché, nella nuova casa in Turchia, a Konya, con moglie e figli, conosce l’amore: quello di Shams di Tabriz – il Sole di Tabriz, come dice il suo nome, rifugio da un’esistenza di rigide regole e ispirazione per indimenticabili poesie. Amore, dolore, fuga, il senso della vita, la gioia della libertà e dell’istinto: tra Persia e Olanda, l’umanità è sempre in cerca di una verità che potrà trovare solo in se stessa, ed esprimere solo con la letteratura. Abdolah, cantastorie esule afflitto dalla nostalgia, racconta il viaggio di Rumi come una fiaba delle Mille e una notte, aggiungendo le sue personali versioni di oltre novanta poesie e molti racconti del grande mistico. E in questo modo diventa un ponte tra il Medioevo persiano e l’Europa contemporanea.

Elisabetta Svaluto Moreolo Dopo la laurea in traduzione alla Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori – Università degli Studi di Trieste, dal 1988 svolge l’attività di lettrice e traduttrice letteraria dal nederlandese e dall’inglese, collaborando con diverse case editrici italiane. Fa parte dei traduttori accreditati della Dutch Foundation for Literature e del Rijksmuseum di Amsterdam, e dal 2000 insegna traduzione dal nederlandese alla Civica Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori di Milano. Tra i numerosi autori da lei tradotti si annoverano Kader Abdolah, Gerbrand Bakker, Hugo Claus, Leon De Winter, Willem Jan Otten, Allard Schröder e Tommy Wieringa.

Kader Abdolah Nato in Iran, perseguitato dal regime dello scià e poi da quello di Khomeini, dal 1988 è rifugiato politico nei Paesi Bassi. Da quando ha cominciato a scrivere nella «lingua della libertà», coniugando le tradizioni letterarie di Oriente e Occidente, è diventato uno dei più importanti e amati scrittori di questo paese. Con Scrittura cuneiforme ha conquistato il pubblico internazionale e con La casa della moschea ha ottenuto in Italia il Premio Grinzane Cavour nel 2009. Tra gli altri suoi romanzi, pubblicati in Italia da Iperborea, si ricordano Il viaggio delle bottiglie vuoteUn pappagallo volò sull’IJssel, Uno scià alla corte d’Europa, Il sentiero delle babbucce gialle, Le mille e una notte e Il messaggero.

:: Con parole precise. Manuale di autodidesa civile di Gianrico Carofiglio (Feltrinelli, 2025) a cura di Valerio Calzolaio

9 novembre 2025 by

Italia e mondo. Ultimi decenni soprattutto. Una comunità ha un primario contratto sociale, la fiducia in un linguaggio condiviso, un impegno reciproco di verità e di correttezza nei luoghi di comune cittadinanza, nel pronunciare o redigere parole, discorsi, metafore. Si pensi e poi si scriva una sentenza, il testo di una legge o un romanzo avremo dei destinatari, un “pubblico” che dovrebbe imporci di “acquisire” parole usate responsabilmente per dire, in forme e contesti diversi, una chiara verità, per quanto soggettiva e parziale. Scrivere e parlare bene, in ogni campo, ha un’attinenza diretta con la qualità del pensiero e del ragionamento. Implica chiarezza di idee da parte di chi elabora un messaggio e può provocare una percezione di onestà (o meno) in chi lo riceve. In particolare, nell’ultimo decennio abbiamo assistito, invece, all’avvento micidiale dei populismi, alla crisi dei linguaggi istituzionali, all’abuso consapevole della menzogna come tecnica politica. L’avventura politica di Donald Trump ha segnato un drammatico punto di svolta, imponendo al mondo intero una nuova grammatica della manipolazione. Una grammatica fatta di slogan ripetuti fino all’ipnosi, di frasi costruite non per dire qualcosa ma per scatenare reazioni emotive (pro o contro non importa) e disattivare intelligenza, senso critico, capacità di reagire con efficacia. Tutto ciò ha reso ancora più urgente il compito di difendere uno spazio pubblico fondato sull’onestà comunicativa e sulla responsabilità semantica. Ovvero su un insieme meditato di efficaci e democratiche parole precise (da cui il titolo) in grado anche di proporre (a noi lettori e ai partecipanti di qualsiasi dimensione collettiva) un manuale etico di lingua, scrittura e autodifesa civile (da cui il sottotitolo). Dare il nome giusto alle cose può essere un gesto rivoluzionario. Il grande intellettuale e karateka Gianrico Carofiglio (Bari, 1961), prima magistrato poi senatore infine esclusivo scrittore e divulgatore, da ormai venti anni è forse divenuto l’autore italiano più seguito e apprezzato (romanzi, racconti e saggi di vari generi). Qui fa tesoro di tutte le proprie autorevoli esperienze d’uso delle parole per insegnarci molto, con semplicità e acume, anche rispetto all’attualità. Il testo riprende un breviario pubblicato dieci anni fa: alcuni capitoli sono rimasti molto simili, altri sono stati riformulati in gran parte, altri ancora sono del tutto nuovi. I capitoli sono diventati tredici (erano undici); le parti sono rimaste due, ma la prima s’intitola adesso “politica e verità”; inizia ancora col potere delle metafore (il contemporaneo discorso politico “ricco di immagini e piuttosto povero di idee”) ma le esemplificazioni sono soprattutto riferite a dirigenti di governo e di partito degli ultimi anni, italiani e internazionali. Gli interi capitoli terzo e quarto sono dedicati agli “stati alterati di democrazia” e alla necessità di “smontare trappole”, ovvero a come valutare il presidente statunitense in carica. L’unico vero antidoto alla semplificazione violenta dei populismi è la complessità accessibile e strategica. La vera sfida è non imitare la comunicazione manipolatoria, non accettare i suoi ritmi e le sue movenze, non inseguire. Cambiare gioco. L’autore offre alcune regole teoriche e proprio diffusi consigli pratici, deliberatamente non sistematici: per un ascoltatore e un lettore, o comunque per un interlocutore consapevole, capire è un diritto e come tale va rivendicato. Lo verifichiamo esaminando testi, citazioni specifiche, esempi concreti e suggerimenti sapienti (una frase significativa in esergo a ogni capitolo), in modo di riuscire più spesso a dirci e a “dire la verità”, lasciando ovviamente all’epilogo gli spunti su cosa sia la verità, per concludere con aggiornate note e selettivi approfondimenti bibliografici (nel testo 2025 non vi è più l’indice dei nomi, presente nel 2015). L’obiettivo è diventare un buon comunicatore, non un’efficace manipolatore. L’interessantissimo testo si collega così ai precedenti recenti due volumi sulla gentilezza e il coraggio e sulla manomissione delle parole, come terzo momento di una riflessione dedicata alla politica e (più in generale) ai doveri civili intesi come metodo critico, come esercizio di rigore e immaginazione, come pratica. In copertina, una bella illustrazione di Francesco Carofiglio.