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:: Torna da me di Christian Ginepro (Bertoni Editore 2023) a cura di Federica Belleri

28 giugno 2023

Avete presente quando un attore è alla sua prima opera letteraria?

Parliamo di Christian Ginepro. Attore nella serie di Rocco Schiavone, non serve che io aggiunga altro. Ma Ginepro è molto di più. Date un’occhiata alla sua biografia. 

Ha dimostrato di saper scrivere anche molto bene. Un  libro suddiviso in atti, in scenari, in emozioni da condividere. 

Un libro denso di fatti. Una trama che tocca il cuore, l’essere coppia e l’essere una famiglia.

Come vi comportereste se improvvisamente vostro figlio non ci fosse più? Che atteggiamento avreste come padre o come madre? E le persone accanto a voi? Sareste capaci di accettare la sua morte? Di farvene in qualche modo una ragione?

Potreste riuscirci, oppure no. Magari soccombereste al dolore. Vi trovereste al buio in una stanza piccola e soffocante. O, all’opposto, in uno spazio aperto a respirare ossigeno puro.

Torna da me racconta l’amore fra genitori, la comprensione, la forza. Ma anche il giocarsi tutto, l’incomunicabilità, il terrore di precipitare.

Torna da me è un filo sottile legato alla speranza. È un gioco delle parti. È mettersi a nudo di fronte all’evidenza. È la vita e la morte. 

È tutto ciò che non si può tollerare, è un mistero dalla semplice soluzione.

Lettura davvero intensa, che vi consiglio.

Christian Ginepro nasce nel 1973 a Pesaro, Italia (ha 49 anni). Tra i suoi film come interprete, ricordiamo: Arrivano i Prof (2018).

:: Tira molla e messèda di Paola Varalli (Todaro 2023) a cura di Patrizia Debicke

27 giugno 2023

Una nuova squadra di personaggi per la Varalli, dopo la serie sulle “Squinzie” all’opera sullo sfondo di una Milano ancora anni ‘80. Favolosi anni in cui si credeva che il meglio dovesse ancora venire, soprattutto nella Milano da bere dove si chiacchierava ancora consumando un paio di “biciclette” al bar. Traduco : aperitivi di quel tempo che fu, a base di bianchino o spruzzato che ritroviamo in “Tira, mòlla e messèda” (le indagini del bar William), giallo ambientato sulla fine degli anni ottanta.
Una Milano che bisogna saper interpretare, per chi non è cresciuto milanese. Già il titolo: Tira mòlla e messèda, va spiegato bene agli analfabeti di dialetto. Dunque, tanto per cominciare, ecco la versione italiana ovverosia: girarci attorno, perder tempo.
Modo di dire dal quale faranno ampio usato i vari personaggi per far capire che a volte serve tanta pazienza prima di trovare una soluzione.
Ma ora passiamo ai protagonisti , e membri della squadra, spassosi attori che dovranno sbrogliare un caso nel “borgh di ortolan”, la zona di via Sarpi, ormai colonizzata dai cinesi che allarga fino a via Canonica, e a via Piero della Francesca . Protagonisti saranno infatti i quarantenni e poco più membri di un terzetto formato dall’alto e prestante gommista Mario, il bravo e onesto idraulico Pino dell’acume e la loro erculea amica Eddy, diminuitivo di leggasi: Edmonda de Amicis, di professione buttafuori in un locale notturno .
La storia comincia a ottobre del 1988 con Mario e Pino in coda dietro a una schiera di famelici e affannosi pensionati, all’ufficio postale di via Bertini. Pino ha trovato nella cassetta delle lettere l’avviso di un pacco da ritirare.
Il bottino, ovverosia la busta di cartone – a lui indirizzata da una sconosciuta ditta milanese, verrà finalmente guadagnato da Pino, spostatosi su suggerimento di Mario, dall’ingresso di via Bertini a quello di via Lomazzo riservato a posta e raccomandate -, rivelerà di contenere una misteriosa musicassetta.
E già e poi il mistero pare destinato a infittirsi già dal primo tentativo d’ascolto. Una volta inserita in un registratore infatti si sentono solo fischi e ronzii tipo colonna sonora di un film di fantascienza. Solo suoni e rumori incomprensibili.
Ma il Mario, o Marietto, capisce subito che si tratta di roba moderna, da computer. Insomma sarebbe la trascrizione per salvare un file, se però vogliono provare a capirci qualcosa serve la consulenza di Eddy , unica tra loro proprietaria di un portatile e di una stampante . Ma prima dovranno aspettare che sia disponibile, dopo aver lavorato tutta la notte. Poi , arrivati a casa della robusta buttafuori, il suo portatile partorirà una sfilza tabelle contenenti nomi e cifre incomprensibili… Bisogna indagare e dargli un significato. Anche perché, cercando bene dentro la busta di cartone, che conteneva la cassetta del file troveranno anche scritto a macchina un foglio con quella che appare come una precisa richiesta d’aiuto.
Con il repentino arruolamento arruolato anche dell’Edmonda nell’improvvisato gruppo di detective, ormai tre baldi eroi, dovranno darsi da fare, soprattutto per scoprire l’identità del mittente di quel pacco spedito a Pino. Intanto il nome e il logo stampati sulla busta ricordano quello di un negozietto di gadget nel quartiere. Che vendeva gadget soprattutto a scopo promozionale. Ma ormai quel negozietto si è trasferito …
Ciò nondimeno bisogna cominciare e partendo proprio da quella traccia. Ai tre amici pertanto non resta che mettersi in caccia, sfruttando anche l’appoggio logistico di Viliam, proprietario del Bar William, un locale particolare, con due vetrine senza pretese, un jukebox, un flipper, dei tavolini spaiati e il bancone in formica verdina. Per noi, per meglio inquadrare Viliam, par doveroso aggiungere che è un personaggio speciale, famoso per essere uno sfegatato fan di Ursula Andress. Tanto che in giro si diceva addirittura che avesse avuto una mezza storia con lei quando non era famosa. Lui ci giurava, ma la Andress no!
E comunque, avvalendosi anche degli occhi, delle orecchie di Viliam, perfetto esemplare di barista: ficcanaso e pettegolo quanto basta, intercalando la loro ’indagine con qualche stuzzichino, con bianchini spuzzati, i tre amici riusciranno in qualche modo a a sbrogliare l’enigma del pacco e tirare fuori una persona da brutti forse bruttissimi guai.
Un universo variegato pieno di clienti del bar, vicini chiacchieroni, pensionati, strani vetrai, ecc. ecc. intessuto con abilità, quasi a ricostruire un film commedia di quegli anni che si esalta in una piccola comunità. Una trama gialla appena accennata, fatta di buffi aneddoti e false piste con investigatori di quartiere che se la sanno sbrigare da soli senza ricorrere ai carabinieri.
Continue argute citazioni in dialetto che si rincorrono, arricchite dalla premessa dell’autrice con ampie delucidazioni sulla pronuncia.
Storia molto godibile e che si fa leggere tutta di fila.

La scrittura di Paola Varalli è ironica, frizzante. Ama i giochi di parole e l’enigmistica, i suoi personaggi potrebbero essere gli amici della porta accanto, a loro è facile affezionarsi ma poi si scopre che potrebbero celare qualche mistero. Architetto per la pagnotta e scrittrice per passione, Paola Varalli nasce sul lago Maggiore e vive tra Milano e il lago di Como.
Ha pubblicato tre gialli con Fratelli Frilli editori, con le “squinzie” come protagoniste, due amiche con la propensione ad indagare e a ficcarsi nei guai.
Con Todaro editore è già uscita con due racconti lunghi sulle antologie Quattro volte Natale e Odio l’estate.

:: Notte, giorno notte di Beatrice Monroy, Perrone editore, a cura di Patrizia Debicke

14 giugno 2023

Maggio, 1946. Nell’immediato dopoguerra con la creazione della roccaforte quasi privata chiamata Regione Siciliana a Statuto Autonomo, mentre per ottenere un impiego regionale, legato a “politiche o amicizie locali” e squisitamente a chiamata diretta, decine di prescelti si trasferivano a Palermo, contemporaneamente, senza perdere tempo, si innalzavano alla periferia moderne torri di cemento armato. Un quartiere tutto nuovo per pochi privilegiati, una zona residenziale tra via Giuseppe Giusti a Viale Lazio, pronta ad accoglierne le famiglie dei fortunati.
Una città per dictat politico/mafioso progettata e costruita fuori dal centro storico raso al suolo dai bombardamenti, aggirando il vincolo di verde storico, in una parte degli splendidi giardini di Villa Sperlinga, appartenuta alle famiglie Whitaker e Florio. Un quartiere e una casa dove vivranno due bambine, Matilde e Carla, con le loro famiglie, abitando fianco a fianco, addirittura sugli stessi pianerottoli. Una quotidianità marcata dalla tentacolare e neppure troppo sotterranea influenza mafiosa che da allora regolerà più o meno apertamente la vita di tutti, soprattutto quella di Carla, dopo lo spettacolare omicidio di suo padre davanti al portone di casa.
Il fatto tragico di cui sarà un’ impotente e sbigottita testimone segnerà la sua vita per sempre.
Cosa rappresentò per lei la vista di suo padre crivellato di pallottole?. Come poteva riuscire a superare lo choc di un’esecuzione compiuta sotto i suoi occhi?
Da quel giorno infatti non sarà più la stessa. Chiusa in un suo mondo particolare con la mente sempre in bilico tra euforia e disperazione, passando dall’eccitazione a giorni fatti di mutismo totale. A nulla varranno cure e ripetuti consulti di medici.
Matilde le resterà affettuosamente vicina fino a quando potrà poi, sia per condurre la sua vita che per non finire anche lei nel vortice di disperazione che ha stravolto l’esistenza di Carla, si costringerà ad allontanarsi.
Per Carla invece l’affannosa e continua ricerca degli assassini di suo padre, diventata peggio di un’ossessione, la porterà alla fine a lasciare la sua casa, abbandonare sua madre e sparire .
Le loro esistenze ormai divise seguiranno strade completamente diverse, Matilde si sposerà con Federico, un ingegnere con un avvenire sicuro: un matrimonio felice, benedetto dalla nascita di un figlio, un bambino adorato. E anche Carla si sposerà serenamente con Roberto e tornerà ad abitare nell’appartamento di fianco a quello di Matilde e Federico, apparentemente per riuscire a costruirsi una vita diversa e cancellare i suoi giorni bui. Per Matilde, con il distacco tra loro annullato tutto sembra ricominciare come prima, comprese l’incostanza di Carla e la confidenza della loro vecchia amicizia.
Carla e Roberto non avranno figli e pian piano la falsa serenità di Carla verrà meno, per lei riappariranno i giorni bui, ricchi solo di dubbi, inquietudine, rimorsi.
Fino al Luglio, 1993 quando, durante una bollente notte palermitana, Matilde, che non riesce a trovare sonno, uscirà in terrazza sedendo sulla sua sedia a dondolo in cerca di fresco e ristoro.
Là per caso, si ritroverà ad ascoltare le voci dei vicini che provengono dalle finestre aperte. Lei conosce bene Carla e le sue continue ossessioni. Quante volte ha dovuto ascoltarla, confortarla , assecondare i suoi fantasmi. Dall’altra parte della terrazza, dietro la veranda, Carla e suo marito Roberto, sera dopo sera, discutono, si accalorano e si rinfacciano una complicata storia fatta di intrighi e spaventosi segreti. Carla sa come altri la verità su qualcosa che invoca giustizia e denuncia illegalità. Una storia ascoltata da Matilde quasi spiando dalla sua terrazza e che emergerà a sprazzi, notte dopo notte. Una storia che avrà persino i contorni di qualcosa a lei vicino e spiacevolmente familiare.
Con le loro parole Roberto e Carla costringono Matilde a riandare al passato. Non solo. particolare dopo particolare, la loro conversazione assumendo sempre di più precise sfumature di giallo, darà persino a Matilde la quasi certezza di farne parte.
Di giorno riprenderà la sua vita con la routine che non le concede tempo per riflettere sulle inquietanti accuse di Carla. C’è il bambino e Federico, suo marito. Deve solo proteggere la sua famiglia, il loro status.
Leggere Notte, giorno, notte, un romanzo con sullo sfondo una Palermo in lotta tra criminalità e giustizia, suggerisce scelte che non prevedono l’indifferenza e l’oblio.
Notte, giorno, notte è la storia di due donne ma anche la storia di quanto un proprio egoistico universo particolare consenta si tenersi al di fuori dalla realtà. Soprattutto se si decide di chiudere occhi, orecchie e cuore e di ignorare che quanto ci circonda, potrebbe anche ammantarsi di menzogna.
In Notte, giorno, notte Beatrice Monroy utilizza con crudo realismo lo spasmodico succedersi di giorni e ore di drammatiche confessioni per portare alla luce precisi riferimenti a memorabili fatti di cronaca, che per quanto lontani, si trasformeranno tragicamente in queste pagine in storia privata, vissuta.
Sono gli anni delle Grandi Stragi che rimarranno indelebili nella mente e nei ricordi di generazioni. Gli anni di una Palermo che lotta tra criminalità e legalità.
Un romanzo che chiede ad alta voce, forte e chiaro di “non voltare la faccia dall’altra parte”. Mai! Si dovrebbe tutti avere più coraggio, non chiudere mai gli occhi e cercare di fare sempre le scelte giuste.

Beatrice Monroy e nata a Palermo, dove ora abita, ma ha vissuto a Napoli, Pisa, Roma, in Francia, negli Stati Uniti. È narratrice, drammaturga, autrice di testi radiofonici per RadioRai. Conduce laboratori di scrittura e narrazione. Ha pubblicato diversi libri, i più recenti: Ragazzo di razza incerta (2013), Niente ci fu (2012), Elegia delle donne morte (2011), Oltre il vasto oceano. Memoria parziale di Bambina (2013) con il quale ha vinto nel 2014 la prima edizione del premio letterario “Kaos: Festival dell’editoria, della legalità e dell’identità siciliana” e che è stato tra i titoli in lizza per l’edizione 2014 del Premio Strega.

:: MARIA TERESA LIUZZO: “LA LUCE DEL RITORNO” a cura di Antonio Catalfamo

2 giugno 2023

Maria Teresa Liuzzo rinnova il suo impegno letterario con un altro romanzo: “La luce del ritorno” (A.G.A.R. Editrice, Reggio Calabria, 2022, s.i.p.). Non siamo in presenza di una scrittrice che si possa liquidare, come spesso avviene con tante altre che transitano nel campo delle lettere, con il classico «medaglione», vale a dire con alcuni dati biografici, un elenco di opere e di premi, un riassunto del contenuto e qualche estrapolazione di brani. Fare ciò significherebbe sminuire la Liuzzo, il suo spessore artistico e la portata della svolta che ha introdotto in questo nostro secondo Novecento così affollato di «minori», che sgomitano per trovare spazio, con l’ausilio di critici compiacenti, i quali cercano di dimostrare come tutti costoro abbiano portato un contributo, seppur minimo, al «canone» della letteratura contemporanea. Un’operazione di tal genere, fra l’altro, sarebbe sbagliata, perché la Liuzzo non rientra in nessun presunto «canone», costruito artificialmente ed artificiosamente dalla critica, né, per converso, cerca di affermarsi, come fanno altri ancora, ostentando un «anticanone», fintamente contestativo del «canone». C’è chi, infatti, per farsi largo, urla il proprio «impegno», contrapposto al «disimpegno» per così dire «canonico», piagnucola per essere stato «oscurato», tenuto ai margini. Ma il sogno proibito degli «anticanonici» per autoproclamazione è quello di essere “cooptati”, inseriti nell’esercito dei “questuanti”, dei “clientes”, per essere “tacitati” e gratificati con qualche piccolo riconoscimento.

Maria Teresa Liuzzo non fa parte dell’Italietta attuale, votata all’accattonaggio politico e letterario. Non chiede di essere “intruppata”, anzi trasforma la sua originalità, per noi indiscutibile, in una bandiera da far garrire al vento da sola, senza “spinte” e “puntelli”, senza sostegni che non siano quelli derivanti dalle doti artistiche che la natura le ha conferito e che lei ha saputo affinare lavorando non tanto di cesello, come gli orafi, ma con l’energia del fabbro che forgia e modella il ferro con il martello, mentre è ancora incandescente, sopra l’incudine, con una maestria che rimonta nei secoli, anzi nei millenni. Forza vitale e maestria artistica convivono nella sua opera, che solo i veri critici, come il suo conterraneo Antonio Piromalli, hanno saputo valorizzare, inserendola in quella letteratura meridionale, alla quale Gramsci, riferendosi a Pirandello, riconosceva, nell’ambito del panorama nazionale, una sua specificità e, addirittura, per certi aspetti, un primato.

Mi preme, allora, fissare su carta alcune novità che la scrittrice, a mio avviso, ha introdotto nel panorama letterario contemporaneo, che si presenta esangue, ripetitivo, privo di succhi vitali e di rapporto fecondativo con la realtà vera. Novità che, però, hanno lontane scaturigini, radici profonde nella migliore tradizione letteraria del passato. Da tempo medito su di esse ed ora trovo in quest’ultima opera importanti conferme.

Innanzitutto, questo nuovo romanzo di Maria Teresa Liuzzo, così come i precedenti, che con esso costituiscono una serie, non è imprigionato dentro una trama, dentro gli orizzonti della “fabula”, dell’ “intreccio”, fissati dalle teorie narratologiche “consolidate”. Non siamo, dall’altro lato, di fronte ad uno sperimentalismo fine a se stesso, come se ne trovano tanti nella letteratura “togata”.

Si ripone, invece, una grande questione teorica e pratica: quella dell’unità di un’opera letteraria. Cesare Pavese se l’è posta a proposito dei poemi omerici e della propria opera, in versi e in prosa, ed ha trovato, sia nelle note che accompagnano l’edizione einaudiana del 1943 di “Lavorare stanca” sia nelle pagine così dense del suo diario, “Il mestiere di vivere”, soluzioni ch’egli stesso ha considerato provvisorie, destinate ad essere messe continuamente in discussione, ad essere superate e, nel contempo, ricomprese dialetticamente, ad un livello superiore, in altre. Pavese attribuisce centralità e funzione unificante ai «rapporti fantastici» sottesi alla realtà, che il poeta (e lo scrittore) deve cogliere e recepire nella sua opera. Siamo in presenza, per certi aspetti, della riproposizione di teorie estetiche simboliste, che lo scrittore langarolo negli anni successivi supererà di slancio, pervenendo, nelle opere narrative e negli scritti teorici della piena maturità (si pensi al saggio “Poesia è libertà”), a un «realismo simbolico» di matrice dantesca, fondato su un giusto equilibrio tra realtà e simbolo.

Ma io credo che il caso della Liuzzo sia più simile a quello dell’ “Orlando Furioso” di Ludovico Ariosto. Lanfranco Caretti ha sottolineato la «struttura aperta» del poema ariostesco, tutta «percorsa da una energia dinamica», conferita dal convergere in esso della realtà in tutte le sue sfaccettature e in tutte le sue passioni, tanto da poter affermare che il “Furioso” racchiude in sé «il senso libero, estroso, incalcolabile e inesauribile della vita». Nel romanzo della Liuzzo che stiamo qui esaminando si intrecciano vari eventi, che al lettore superficiale potrebbero sembrare slegati: si passa dalla realtà drammatica e, in certi momenti, brutale alla componente fiabesca, dall’amore vissuto con grande intensità all’odio viscerale che caratterizza determinati personaggi. Ma a conferire unità è la figura di Mary, che è con tutta evidenza proiezione autobiografica dell’autrice, la cui vita viene ripercorsa attraverso l’angolo visuale di una bambola, ch’ella ebbe da bambina e conservò per tutta l’esistenza come una confidente, ma pure un “alter ego”. Si noti qui l’originalità dell’ “espediente” narrativo, la sua suggestività, la tenerezza e il “pathos” ch’esso conferisce al racconto. Ma la scrittrice va oltre con la sua creatività narrativa. La vita di Mary viene ricostruita dopo la morte, anzi, diremmo, dall’angolo visuale della morte. E qui Maria Teresa Liuzzo si pone in linea di continuità con la migliore letteratura novecentesca, anch’essa estranea al «canone». Era, ad esempio, Cesare Pavese a voler raccontare e raccontarsi «come dopo morto», da una prospettiva che garantisce il necessario distacco per un’analisi razionale, talvolta impietosa. Ed è, per l’appunto, “impietosa” l’analisi che viene offerta, in questo romanzo, della travagliata esistenza di Mary, degli odi che permangono anche dopo la sua morte in capo alla madre e alle zie, degli amori che conservano, da un lato, la loro dolcezza e la loro passionalità, e, dall’altro, la loro contraddittorietà e, addirittura, la loro violenza.

Dicevamo della componente fiabesca che permette di accostare il romanzo della Liuzzo al “Furioso”. La critica più avveduta ha individuato il «nucleo genetico», il «centro ideologico», del poema ariostesco nel castello di Atlante e nel viaggio di Astolfo sulla luna. Nel “Furioso” chi si avvicina al castello di Atlante crede di vedere tutto ciò che ama ed agogna, ma l’illusione dura poco e la realtà si ripresenta in tutta la sua tragicità. Nel romanzo della Liuzzo lo stesso ruolo del castello di Atlante è rappresentato dal castello del Principe, popolato di elfi e di fate, «tra arcate di muschio, aiuole di corniola, smeraldo d’erba, e serpeggiare di ruscelli» (p. 120). Mia, da bambola di pezza, viene trasformata in una «bellissima bambina in carne ed ossa» (ibidem). Ma il romanzo si conclude con alcuni interrogativi inquietanti, che non trovano risposta: «Quale sarà il potere dell’energia della vita che muove i nostri gesti? Quale la giusta frequenza da intercettare? Rinascerà l’amore tra Raf e Mary nell’universo? Quale magica trama, seppur sotto sotto nascosta, attraversa le metamorfosi dell’infinito? Nell’eterno gioco della vita, sarà Raf più umano e più onesto? O rimarrà prigioniero degli orrori e delle afflizioni mentali?» (p. 121).

Dopo l’incantesimo, il mondo si ripresenta «grande e terribile», secondo l’ineguagliabile definizione di Gramsci. A dispetto dell’immagine «pessimistica» che è stata data da tanta parte della critica, pur autorevole, del Leopardi, nello “Zibaldone” egli rappresenta la natura nella sua «varietà», comprensiva delle sue contraddizioni, che coesistono: la gioia e il dolore, l’amore e l’odio, il razionale e l’irrazionale, il caldo e il freddo, il grande e il piccolo, il finito e l’infinito, il ponderabile e l’imponderabile. Così è la vita quale emerge da questo romanzo di Maria Teresa Liuzzo, lungo il solco segnato dai grandi della letteratura, come il Leopardi stesso e l’Ariosto. Un ponte teso, dunque, tra passato e presente.

Il viaggio di Astolfo sulla luna, in sella all’Ippogrifo, per recuperare il senno di Orlando, rappresenta il tentativo di rimediare alla follia che domina la società cinquecentesca in cui vive l’Ariosto. Anche questo profilo riveste grande attualità nel mondo nostro contemporaneo e trova concretizzazione nel romanzo di Maria Teresa Liuzzo in molte pagine dedicate all’odio viscerale che, senza motivazione razionale, anzi in maniera irrazionale, si scatena contro Mary, figura di donna violata e pura.

Antonio Catalfamo

  • Maria Teresa Liuzzo, “La luce del ritorno”, A.G.A.R. Editrice, Reggio Calabria, 2022, s.i.p.

:: Festival Citta dei Narratori 2/4 giugno

1 giugno 2023

APPUNTAMENTO A MONTEFIASCONE DAL 2 al 4 GIUGNO…
Venite a Rocca dei Papi di Montefiascone per il Festival Città dei Narratori ideato da Daniel Biacchessi, dove sarete circondati dalle straordinarie bellezze della Tuscia Viterbese e dai suoi sconfinati panorami che parlano di storia. Dove il passato pare voler cercare spazio e nuovo impulso nel futuro.
Venite a trascorrere un week end di giugno, promotore di un mondo fatto di autori di romanzi come Maurizio de Giovanni, Alessandro Robecchi, Bruno Morchio, Luca Crovi, Piera Carlomagno, Patrizia Debicke, Isabella Christina Felline e dei libri d’inchiesta di Adele Marini, Daniele Biacchessi, Gino Marchitelli, senza dimenticare scrittori ed editori della Tuscia. Ma non solo, perché al Festival troverete anche il teatro con letture di Pasolini e concerti rock e Acustic Live, a specchio di come più arti siano fondate sull’impegno civile, sociale e sulla memoria.
Il tutto in un luogo di grande cultura, tradizioni e ottima cucina. Vi aspettiamo.

:: Negli occhi di Marianne di Frédéric Dard (Rizzoli, 2023) a cura di Giulietta Iannone

1 giugno 2023

Daniel Mermet, pittore parigino in vacanza in Spagna, una notte investe con l’auto una donna. Spaventato, non sapendo cosa fare, la porta nell’albergo dove risiede e scopre nell’ordine che è bellissima, bionda, parla francese e non ricorda più nulla del suo passato. Il giorno seguente affascinato dalla sua bellezza e dal suo mistero decide di portarla sulla spiaggia e farle un ritratto. Ma una luce sinistra nel suo sguardo lo turba. Cosa nasconde Marianne, questo si scoprirà dopo è il nome della donna, cosa nasconde il suo sguardo? Negli occhi di Marianne, tradotto da Elena Cappellini, si va ad aggiungere ai piccoli capolavori noir di Frederic Dard che Nero Rizzoli ospita nella collana dove già sono presenti Gli scellerati, Il montacarichi, I bastardi vanno all’inferno e Prato all’inglese. Letto in treno, nel breve viaggio tra Torino e Milano, Negli occhi di Marianne racchiude un mistero, un mistero terribile, che il protagonista svelerà a poco a poco lasciandosi coinvolgere in un amore pericoloso e oscuro come tutti gli amori. Conosciamo davvero chi crediamo di amare? Questa domanda ci accompagnerà per tutto lo svolgersi degli eventi fino al tragico finale. Fulminante, ipnotico, essenziale, come tutti i noir di Dard ci porta in terre sconosciute che forse non vorremo esplorare. Il mistero dell’animo umano è ciò che affascina e respinge e in un susseguirsi di eventi e colpi di scena il lettore attraversa una vasta gamma di sensazioni dalla curiosità, alla sopresa, all’orrore, perchè è in realtà una piccola storia di orrore come se ne vivono in provincia, a voi la scelta se leggerlo o meno, ma se amate Dard direi che è il caso che non ve lo lasciate sfuggire. Alla prossima.

Frederic Dard (1921-2000) ha iniziato a pubblicare romanzi negli anni Quaranta. Il grande successo sarebbe arrivato però più tardi, con lo pseudonimo San-Antonio. È in atto una riscoperta internazionale della sua opera, vastissima, inaugurata in Italia da Rizzoli con Gli scellerati (2018), Il montacarichi (20219), I bastardi vanno all’inferno (2021) e Prato all’inglese (2022).

Elena Cappellini, dopo la laurea in Lettere moderne presso l’Università di Bologna, ha studiato a Siena, dove ha conseguito il dottorato in Letteratura comparata e Traduzione del testo letterario. Ha partecipato a convegni e pubblicato saggi su Michel Tournier, sul fantastico, sull’immaginario radiofonico, fotografico e radiologico. Dal 2002, a Cremona, è stata curatrice del festival Pensare la differenza, percorsi, incontri e spettacoli sulla cultura di genere.

Source: libro inviato al recensore dall’ editore. Ringraziamo Giulia e Chiara dell’ Ufficio stampa Rizzoli.

:: Trappola per topi di Roberto Mistretta , Delos Digital 2023 di Patrizia Debicke

1 giugno 2023

“Quattro topini sono tanti per giocare a fare i fanti”.
A caratteri rossi su fondo blu la scritta compeggiava trionfalmente inserita nella marchetta, lo spazio pubblicitario della prima pagina, quel martedì grasso, l’ultimo giorno di Carnevale che precedeva il Mercoledì delle Ceneri .
Ma chi mai e perché poteva essere venuta in mente una filastrocca tanto sciocca per poi farla inserire in gran pompa su una testata giornalistica di provincia? Intendeva promuovere un nuovo marchio ma quale? Per farsi conoscere e vendere un prodotto ? Ma cosa? si domandò Franco Campo, giovane giornalista afflitto dalla sindrome del cavaliere, qualità ingombrante in una certa Sicilia, e a conti fatti un po’ dappertutto, soprattutto se deve confrontarsi con dei criminali.
Campo poi, da convinto idealista, ha due handicap: il primo doversi fare le ossa e guadagnarsi i galloni per acquisire abbastanza peso da imporsi sulla testata per la quale ha cominciato a lavorare e secondo, forse più grave, detta testata appartiene a suo padre, tutto d’un pezzo , con potenti conoscenze in ogni dove, uomo retto ma inflessibile con l’unico figlio . E che pertanto non usa mai alcun trattamento di favore nei suoi confronti.
Ma Franco Campo, pieno di giovanile entusiasmo, si dà da fare e non sogna altro che riuscire a fare un vero scoop, che gli garantisca la prima pagina.
Quella frase lo incuriosisce, ma non più di tanto. Si limita a giudicarla strana e se la scorda.
Ma due settimane dopo, una busta a suo nome fatta pervenire in redazione con dentro la foto di un certo Gaspare Trabia, appassionato di parapendio, vittima di un gravissimo incidente – si è schiantato dalle parti di Milocca lanciandosi da Passo Funnuto ed è ricoverato in coma a Palermo – , lo costringerà a ricordare.
Dietro il retro colorato di blu della foto, spicca infatti una scritta a caratteri rossi con una filastrocca che recita:
“Tre topini son rimasti a mulinar le loro aste”.
Topini, su fondo blu con i caratteri rossi!
Interdetto con la foto in mano, continua a rileggere… É evidente il richiamo alla precedente: “Quattro topini sono tanti per giocare a fare i fanti”.
La mano era la stessa. I versi, come i primi, elementari e quasi infantili. Non poteva essere un caso. Doveva esserci un collegamento. Il qualcuno che li aveva scritti doveva per forza avere saputo dello schianto di Gaspare Trobia.
Ma se quello schianto con il parapendio non fosse stato un incidente?
Lancia in resta, come un prode cavaliere, il giovane giornalista comincerà a indagare sulla faccenda, scoprendo alcuni misteriosi indizi ma non sufficienti prove per attribuire “il fatto “ a un potenziale colpevole. Ma quando però la filastrocca tornerà ancora, accompagnata da nuovi versi e attraverso nuovi messaggi inquietanti e significativi, corredati da foto a marcare altri incidenti, Franco Campo e la redazione tutta sapranno che qualcuno sta agitando minacciosamente la falce della morte.
Qualcuno che da troppi anni porta dentro di sé un terribile segreto e vorrebbe a suo modo reagire
alle violenze subite. Ma poiché la vita è fatta anche di scelte sofferte e dolorose, spetterà a Franco Campo la decisione tra la vita e la morte.
Un titolo intrigante che nasce come manifesto omaggio di Roberto Mistretta alla mitica Agatha Christie e al suo strordinario Dieci piccoli indiani.
Anche stavolta infatti troviamo quattro possibili vittime di una vendetta provocata da un’unica colpa. Con un ingegnoso e potenziale assassino a confronto con un giovane giornalista voglioso di scoop, ma che soprattutto desidera fare giustizia.

Roberto Mistretta vive e lavora a Mussomeli. Laureato in Scienze della comunicazione, scrive sul quotidiano La Sicilia. Autore della serie del maresciallo Bonanno (Frilli Editori), tradotto con successo in in Austria, Germania e Svizzera anche in versione audible, col romanzo La profeziadegli incappucciati si è aggiudicato la 40a edizione del Premio Alberto Tedeschi-Giallo Mondadori. Autore del radiodramma Onke Binnu che continua a essere replicato dalla WDR di Colonia, ha scritto anche volumi di impegno sociale. Gli ultimi in ordine di tempo sono Don Fortunato di Noto./La mia battaglia in difesa dei bambini e Rosario Livatino./L’uomo, il giudice, il credente. (Paoline). Ha pubblicato racconti sul Giallo Mondadori e ha curato l’antologia Giallo Siciliano (Delos Digital). Per Delos Crime ha pubblicato in precedenza Caritas, con lo stesso protagonista, il giornalista Franco Campo.

:: Recensione: L’uomo che voleva essere colpevole di Henrik Stangerup (Iperborea 2023) a cura di Emilio Patavini

1 giugno 2023

Dopo la recensione di Kallocaina di Karin Boye (Iperborea 2023), facciamo un ulteriore passo nella letteratura distopica scandinava. L’occasione ci viene offerta dall’uscita de L’uomo che voleva essere colpevole (Manden der ville være skyldig, 1973) di Henrik Stangerup per i tipi di Iperborea, ritornato in libreria dal 19 aprile 2023. Il romanzo era stato precedentemente pubblicato nel 1990 da Iperborea e nel 2001 da Guanda, con traduzione dal danese di Anna Cambieri e una postfazione di Anthony Burgess, in cui l’autore di Arancia meccanica lo definisce «un romanzo che merita l’attenzione di tutti» (p. 167). Da questo romanzo è stato tratto anche un film del 1990, The Man Who Wanted to Be Guilty del regista danese Ole Roos.

Protagonista indiscusso del romanzo è Torben, scrittore ex sessantottino che vive in uno dei tanti supercondimini di una futuribile Copenaghen assieme alla moglie Edith e al figlio Jesper. Lavora all’INRL (Istituto Nazionale per la Razionalizzazione della Lingua), un ente statale che si occupa di impoverire la lingua danese all’insegna dell’eufemismo trasformando parole con «connotazioni negative» in parole con «connotazioni positive». Si noti, per inciso, come l’impoverimento della lingua si rifletta sempre nell’inaridimento culturale, nella perdita di identità, nello straniamento del singolo: il riferimento al Newspeak orwelliano sorge spontaneo, ma come nota Anthony Burgess nella sua Prefazione, «mentre lo scopo della Nuovalingua di Orwell è l’eliminazione di taluni elementi altamente sovversivi, quello perseguito un questa Danimarca è di togliere dalla lingue tutte le sue componenti negative ovvero, in altre parole, di promuovere una generalizzazione dell’eufemismo» (p. 170).

Una sera, in preda all’alcol e in un accesso d’ira, Torben uccide la moglie. Ma non è solo l’alcolismo a giustificare un atto così violento, perché a esasperare Torben è anche l’apatia della moglie – un tratto, questo, riscontrabile anche nell’atteggiamento di Mildred, moglie del pompiere Montag, protagonista di Fahrenheit 451, capolavoro distopico di Ray Bradbury. Ma lo stato danese qui immaginato – un’evoluzione delle socialdemocrazie scandinave – anziché riconoscerlo colpevole lo manda in un ospedale psichiatrico dove gli viene fatto credere che si è trattato di un incidente e che non è assolutamente responsabile dell’omicidio. Torben può così tornare alla normalità, ma in una società in cui il concetto di colpa è stato abolito l’unico desiderio del protagonista è quello di essere riconosciuto colpevole dell’uccisione di sua moglie e di espiare la propria colpa. Vedendo il suo desiderio negato, non gli resta altra via che sprofondare nella follia.

«Lui era colpevole. Non erano state le circostanze a spingerlo a uccidere Edith. Ma non desiderava essere punito, desiderava solo questo: che si riconoscesse che quella sera era perfettamente consapevole di ciò che faceva, anche se era pieno di whisky. Se invece insistevano che era stato spinto dalle circostanze, allora cos’altro erano quelle circostanze se non il prodotto di una società che non permetteva di parlare d’altro che di circostanze, e che negava all’individuo il diritto a una vita propria, ai propri sogni e alla propria inviolabile identità?» (p. 136)

Il romanzo proietta in un futuro non troppo remoto problemi come nevrosi, paranoie, depressione e crisi di coscienza, tutti profondamente indagati sotto il profilo psicologico dall’autore danese, che racconta il senso di noia e impotenza di fronte al crescente conformismo di un welfare state che dice di prendersi cura dei suoi cittadini «dalla culla alla tomba». In questo «processo kafkiano alla rovescia», come lo ha definito l’editore, seguiamo le vicende di Torben, l’uomo che voleva essere colpevole: lo stato in cui vive non punisce gli assassini, ma li sottopone a trattamenti psichiatrici per poi reinserirli nella società. Si tratta, come si è detto, di un futuro distopico in cui le ideologie sono ormai un ricordo del passato, in cui il denaro contante non esiste più, l’inquinamento è imperante, il governo incoraggia le case editrici a pubblicare esclusivamente “romanzi sociali”, e in cui l’autore si spinge persino a immaginare test obbligatori per gli aspiranti genitori… Nelle prime pagine si assiste inoltre a un dibattito sulla revisione delle fiabe di Hans Christian Andersen – ebbene sì, proprio lui, «l’intoccabile, il sacro gioiello della nazione» (p. 16). Lette oggi, queste pagine risuonano familiari e non possono che far pensare alla recentissima polemica sorta intorno alla proposta di revisionismo linguistico ai danni di autori come Roald Dahl o Agatha Christie.

Molti sono infine gli elementi tipici della distopia: si è già notata la manipolazione della lingua, ma si possono riscontrare anche la somministrazione di pillole tranquillanti ai soggetti considerati “squilibrati” – similmente al soma, la droga funzionale al controllo della popolazione ne Il mondo nuovo di Aldous Huxley – o la sterilizzazione dell’aggressività attraverso le cosiddette attività AA (Anti-Aggressività) – che presenta punti di contatto con Ritorno dall’universo di Stanisław Lem. Questi esercizi AA, che vedono impegnati gli inquilini dei supercondomini, consistono nel picchiare con violenza manichini di pezza e insultare figure mostrate in diapositive, incitati da funzionari che svolgono appositamente questa mansione, detti Assistenti: «“A morte! A morte! Spara! Uccidi!” All’inizio magari qualcuno esitava, ma a poco a poco si lasciava travolgere da quell’onda di odio collettivo» (p. 111). Questo rituale collettivo sembra echeggiare i quotidiani due minuti d’odio presenti in 1984 di George Orwell, in cui il nemico dello Stato, Emmanuel Goldstein, appare sugli schermi causando la reazione incontrollata del pubblico.

«Torben […] non riuscì a liberarsi dall’idea che era stato predestinato a fare del male e che vi era un legame preciso tra il giorno in cui aveva colpito il figlio del calzolaio e la sera in cui aveva sbattuto la testa di Edith contro il muro e il pavimento. Esistevano dunque uomini che nascevano cattivi? E lui era di quelli?» (p. 151)

Tutto il romanzo è incentrato attorno al concetto di colpa ed espiazione: Anthony Burgess parla di «pelagianesimo scandinavo» (p. 167), rifacendosi al movimento ereticale del V secolo che negava il peccato originale, in contrapposizione all’agostinismo: «Sant’Agostino sosteneva che l’uomo è peccatore e succhia il peccato insieme al latte materno. Al contrario, Pelagio, originario delle isole britanniche, afferma che l’uomo viene al mondo in una condizione, per così dire, neutra, ovvero che non ha bisogno della grazia divina e che è in grado di accedere al regno dei cieli grazie ai suoi soli sforzi e senza l’aiuto di nessuno» (p. 168). Nel romanzo il «pelagianesimo» di cui parla Burgess viene definito da Stangerup «mediocre pietismo nordico» (p. 29). Per concludere, particolarmente efficace è il giudizio di Anthony Burgess su questo romanzo che merita davvero di essere letto: «[a]l contrario di quelle visioni di orrori futuri, che amo leggere nei libri perché so che è impossibile che il futuro le realizzi, l’invenzione di Stangerup riesce a raggelare come da anni nessun altro libro, proprio perché è già quasi una realtà» (p. 172).

L’autore, Henrik Stangerup, nato a Copenaghen nel 1937 e morto a Langebæk nel 1998, di professione giornalista, si afferma in campo letterario con una trilogia ispirata a Søren Kierkegaard (non è un caso se L’uomo che voleva essere colpevole si apre con una citazione del filosofo danese): Lagoa Santa, definito alla sua uscita dal Chicago Tribune «il miglior libro straniero dell’anno»; Il seduttore (Iperborea 1989); e Fratello Jacob (Iperborea 1993). È stato inoltre autore di una vasta produzione saggistica e regista di cinque film.

Source: inviato dall’editore. Si ringrazia l’Ufficio Stampa Iperborea per aver gentilmente inviato una copia del libro al recensore.

:: Una questione di equilibrio di Gaspare Grammatico (Mondadori 2023) a cura di Patrizia Debicke

29 Maggio 2023

Brillante, frizzante, graffiante e godibilissimo, un romanzo affollato da colpi di scena e personaggi che si fanno notare . E con per palcoscenico una città, Trapani, che assume meritatamente il ruolo di coprotagonista nella prima indagine di Antonio Indelicato, detto Nenè, Lui , il commissario, un po’ svagato che, come tanti, è costretto a dividersi funambolicamente tra lavoro e vita privata, e tuttavia da poliziotto sagace sempre disposto a portare avanti il suo lavoro con orgoglio e dignità. Un uomo colto, amante dei libri, spesso un po’ malinconico, che si sforza un po’ nel rapportarsi con le donne , mentre invece, da eccellente cuoco qual è , si trova benone in cucina. Insomma un persona normale, senza eccezionali capacità , salvo forse quella di aver cresciuto bene e da solo la figlia Sara, visto che la moglie e madre l’ha mollato senza remore pochi mesi dopo la nascita della bambina. Fatto che, per fortuna, non ha creato dei danni: infatti Sara un’ adolescente di quattordici anni per tutto, salvo la cucina, è in grado di sbrigarsela come una trentenne.
La mattina di un tranquillo venerdì di aprile, in una moderna e ricca abitazione di Trapani, sarà scoperto il cadavere straziato di un uomo. Si tratta di un barbaro e crudele omicidio. Il morto infatti , ritrovato nella cantina della sua villa, appeso al soffitto e massacrato a bottigliate della sua preziosa collezione, è l’enologo Platimiro Greco. Il Greco, cinquantenne separato e con fama di tombeur de femmes, famoso volto del piccolo schermo, volubile ospite fisso della trasmissione “Sorsi e Morsi” di Wine Channel, un programma per addetti ai lavori in cui si esibiva in frequenti e burrascose contestazioni in grado di decretare il successo o la disgrazia di un vino di qualità.
Il caso verrà affidato al commissario Antonio Indelicato che non tarderà a rendersi conto quanto la sua indagine sia decisamente difficile e complicata. Complicata dal fatto che la vittima, un presuntuoso ed egoista rompiscatole, anche e soprattutto a causa del suo lavoro, aveva moltissimi nemici e tutti con validi motivi per eliminarlo. Un ampio ventaglio poi di svariati e attendibili moventi attribuibili a tante e diverse persone che per una ragione o per l’altra avrebbero potuto desiderare di volere la sua morte.
Insomma Indelicato dovrà con pazienza da certosino, grazie all’ impegno e all’aiuto della sua brillante squadra – composta dalla poco più che trentenne e fattiva sua vice Salvina Russo, dall’ispettore Pino Sansica e dal quasi robotico dottor Martino Massari , meticolosissimo e intuitivo capo della Scientifica -, incominciare ad approfondire tutti gli indizi e pian piano sentire uno a uno tutti i potenziali colpevoli controllando accuratamente possibili alibi ed eventuali testimonianze a discarico.
Ma la strada da fare è lunga e tortuosa, e i tanti possibili indiziati metteranno in seria difficoltà il nostro commissario e i suoi compagni di indagine, rischiando di lasciar loro imboccare molteplici false piste senza costrutto, solo in grado di far perdere tempo.
Per sbrogliare l’ardua matassa investigativa, il commissario Indelicato, continuamente tediato da commenti e sorrisini sul suo nome che rimanda a Petra Delicado, celebre protagonista dei romanzi gialli di Alicia Giménez-Bartlett, dovrà scoprire come e perché una persona ferita può arrivare a trasformarsi in assassino. Riuscirà a scoprire chi veramente voleva la morte dell’enologo e le reali motivazioni che dovrebbero aver portato ad architettare un omicidio tanto efferato?
Una trama ingarbugliata per un eccellente intreccio narrativo, pieno di tutta una serie di colpevoli sempre credibili ma che ohimé risulteranno sbagliati.
L’eccellente fiuto del commissario lo spingerà però ogni volta a ricominciare da capo con testardaggine per poi andare avanti inseguendo con rinnovata tenacia nuove potenziali piste.
Un giallo scorrevole con un protagonista per cui è impossibile non parteggiare: un uomo, diviso tra il suo dovere, la passione per i libri, la cucina, e una deliziosa figlia adolescente.
Ottima la corale e vivace caratterizzazione di tutti i personaggi, la gestione delle splendide ambientazioni trapanesi, arricchite da sensazioni e indimenticabili profumi in un equilibrio, fatto di scelte, con un pensiero sereno al passato e uno fiducioso volto al futuro..
Personaggi vivi, palpabili, splendide descrizioni dei luoghi che fanno venire la voglia di partire subito per Trapani arricchite da scenari talmente realistici , vedi alla fine con Nené Indelicato grande protagonista in cucina , da far percepire l’aroma della frittura e far venire l’acquolina in bocca a chi legge..

Gaspare Grammatico è nato a Trapani, dove torna appena può. Vive tra Torino e Milano. Autore tv, da anni lavora nella squadra del programma televisivo “Fratelli di Crozza”. I diritti cinematografici di questo romanzo sono stati opzionati da BiBi Film, società che ha coprodotto la serie “Le indagini di Lolita Lobosco”.

Source: libro del recensore.

:: JOHANNE LYKKE HOLM: STREGA (NN editore) a cura di Fabio Orrico

24 Maggio 2023

Mi chiedo se Johanne Lykke Holm (svedese, classe ’87), autrice esordiente di Strega conosca Suspiria, il cult horror diretto dal nostro Dario Argento nel 1977. Fatta salva la decisione di usare un vocabolo italiano per dare il titolo al suo libro, ci sono almeno un paio di sequenze in cui la pellicola argentiana sembra venire citata esplicitamente. Durante una delle scene più cupe e allucinate, la protagonista Rafaela vede “una ragazza sanguinante pendere dal soffitto” (il riferimento sarebbe in questo caso al primo omicidio messo in scena nel film) mentre qualche pagina prima si fa riferimento a un segreto e a un iris (e chi conosce Suspiria sa che questo fiore rappresenta una svolta nella decodifica dell’intreccio). Naturalmente la risposta alla domanda posta in apertura non toglie nulla alla malìa esercitata da questo romanzo così originale e inquietante. Johanne Lykke Holm, va detto, guarda a una tradizione ben precisa seppur sotterranea. Una tradizione così ben codificata da poter costituire un sottogenere e che potremmo definire sintetizzando al massimo Ragazze-chiuse-in-un’istituzione-concentrazionaria sia essa una scuola, un collegio, un educandato o, come nel nostro caso, un albergo. Nel libro di Holm sentiamo riverberare il grande modello di Mine-Haha di Franz Wedekind, da cui eredita suggestioni e senso dell’assurdo ma anche il Picnic ad Hanging Rock di Joan Lindsay poi filmato da Peter Weir e, spostandoci nei territori della celluloide aldilà del classico argentiano, arriviamo a lambire opere spurie come Innocence di Lucile Hadzihalilovic o Zombi child di Bertrand Bonello senza dimenticare il bellissimo remake di Suspiria firmato da Guadagnino.

Rafaela, diciannovenne, viene spedita dai genitori all’hotel Olimpyc per lavorare come cameriera durante la stagione invernale. Siamo sulle alpi, accanto all’albergo c’è un monastero gestito da suore e un paese, Strega appunto, che è necessario attraversare per raggiungere il posto di lavoro e che diventa teatro di sporadiche quanto enigmatiche uscite sociali di Rafaela e delle sue nove colleghe e coetanee. La trama è tutta qui, l’unico significativo punto di svolta si può rintracciare nella scomparsa di Cassie, una delle ragazze, e che darà origine a una sorta di depotenziata deriva gialla. Per il resto l’hotel Olimpyc si dimostra ben presto una variante della Fortezza Bastiani in cui le ragazze devono aspettare non meglio precisati ospiti e tenersi pronte per dimostrarsi servizievoli e professionali, pena il ricorso da parte delle figure dirigenziali (Rex, Costas e Toni, donne dal confine sessuale incerto fin dal nome) a pene corporali inflitte nella più assoluta indifferenza.

Il fascino e la solidità di Strega non stanno quindi in cosa si racconta ma in come lo si racconta. La prosa inventiva, densa, stratificata di Holm si muove a trecentosessanta gradi richiamando ogni possibile appiglio sensoriale, sceglie metafore incongrue e sincopate, crea sintesi impossibili. Nel mondo di Rafaela tutto è virtualmente possibile anche se, allo stesso tempo, tutto è mortalmente immobile. Una visita al bar del paese dà origine a un grappolo di incubi, una sorta di nastro trasportatore di immagini surreali che sembra riverberare il ricordo del cinema delle origini. Anche l’occorrenza più banale, l’esplorazione di un interno casalingo, può spalancare un immaginario goticheggiante: “C’era odore di tarmicida, di mattatoio. Non riuscivo a vedere dove conducesse la scala, ma osservando quel rosso sentivo il terrore crescere dentro di me, come quando si entra in una stanza e si ha la percezione che sia infestata da spiriti maligni. Seduti sulle sedie, i fantasmi bevono acqua dai bicchieri e aprono la frutta con le mani. Mi sporsi per guardare in alto, ma c’era soltanto un’opaca penombra”.

Difficile dire in che epoca sia ambientato Strega. Su questo Holm è volutamente reticente e punta a creare un luogo senza tempo, collocabile nell’arco degli ultimi due secoli mantenendo una grande coerenza interna, a tratti messa in discussione dall’uso di termini decisamente contemporanei (uno per tutti: femminicidio). L’autrice crea una sorta di fiaba gotica definitiva proprio perché svincolata dalle più urgenti esigenze di trama e percorsa da una costante sensazione di minaccia. Senza anticipare nulla (ma il concetto di spoiler applicato al romanzo di Holm è semplicemente ridicolo) vorrei dire che anche l’ultima parola dell’ultima riga dell’ultima pagina di Strega vibra di tensione e rilancia una suspense che non riposa su nulla di concreto e definibile e, forse proprio per questo, risulta quasi tattile. Un esordio straordinario.

:: Un sasso nel lago di Matteo Severgnini (Todaro 2023) a cura di Patrizia Debicke

19 Maggio 2023

La nuova indagine di Marco Tobia, tra il Lago d’Orta e Milano. Un nuovo caso per l’investigatore che, se potesse, non vorrebbe mai stare lontano da Clara, la sua fidanzata e dalla silenziosa casetta sull’isola di San Giulio, dove risiedono solo lui e lo sparuto gruppo di monache benedettine.
L’investigatore privato Tobia, affetto dalla sindrome di Tourette, che talvolta lo costringe a movimenti involontari e a versi incontrollabili, non sembra uomo facile da gestire e da amare. Ma la sua fidanzata Clara Fournier , un’intelligente escort che lavora a Milano, è innamorata di lui e oltre ad aiutarlo a vivere i suoi sintomi quando esplodono in presenza di altre persone, gli perdona generosamente la musoneria e la difficoltà di confrontarsi con gli altri, dovuta all’essere stato cresciuto da dei genitori freddi e incapaci di gestire, fin da bambino le sue problematiche.
Prima di farsi conoscere come investigatore privato, Marco Tobia era stato un ispettore di polizia, ma durante un’azione , per colpa degli incoercibili movimenti provocati dal suo stato, ha accidentalmente sparato al collega e amico Antonio Scuderi, facendo di lui un invalido a vita seduto su una sedia a rotelle. Quell’incidente, oltre a costringerlo a un prepensionamento dalle forze dell’ordine, gli ha provocato un sofferto e indelebile senso di colpa.
Stavolta Tobia è inquieto e di cattivo umore perché il caso che ha accettato, un banale pedinamento di un marito accusato di tradire la moglie, tale Luisa Mariani, che intende trovare le prove per incastrarlo e divorziare, lo sta obbligando a restare troppo a lungo Milano e troppo lontano dalla sua minuscola e adorata isola di San Giulio.
Ciò nondimeno si tratta solo di noiosa e consueta routine investigativa ma che lo vede forzosamente costretto a continui sfibranti appostamenti in una città surriscaldata dall’afa estiva supportato per sua fortuna dall’amico, il barcaiolo Anselmo, con il compito di fargli da accompagnatore e aiutante.
L’inutile pedinamento di troppi giorni del marito della Mariani senza riuscire a scoprire nulla che lasciasse pensare a una possibile relazione, aveva deciso Tobia a rinunciare all’incarico. Ma nel successivo incontro con la cliente, in vacanza a Orta, la donna ostinata gli aveva chiesto di continuare, poi, pur respinta, aveva tentato di portarselo a letto. E qualcuno, dopo aver scattato col teleobbiettivo foto della tentata seduzione, le aveva fatte avere a Clara, la sua fidanzata, con l’evidente scopo di provocare una rottura tra loro. Senza successo perché, dopo una franca e convincente spiegazione, partiranno insieme in volo per Parigi. Un bel viaggio, una vacanza che pensavano di passare girovagando per mercatini e musei, interrotto però dall’inopinato e repentino ritorno di Tobia, forse un po’ sopraffatto dalle sue problematiche e dal dichiarato intento di Clara di presentarlo ai suoi genitori. Ma e soprattutto un ritorno provocato dalla telefonata da Verbania dell’amico ispettore Scuderi che è stato informato dall’ispettore Lodigiani dell’uccisione a Milano di una escort. L’omicidio è da collegare a quello di Fabiola Presciani, sempre una escort, amica di Clara, avvenuto tempo prima e per il quale lei era stata sentita più volte dalla procuratore. Sul telefono della Presciani infatti compariva il suo numero con diversi tentativi a vuoto di raggiungerla… E anche stavolta purtroppo gravi elementi, in evidenza sulla scena del delitto, rimandano a Clara: e come se non bastasse la donna morta p proprio la sua focosa cliente Lisa Mariani… Cosa c’è sotto? Perché è stato coinvolto?
Insomma la sua indagine per la Mariani, probabilmente solo un contorta montatura, si dimostrerà foriera di una cascata di brutte sorprese e gravi pericoli non solo per Tobia ma anche per la sua fidanzata che potrebbe a essere nel mirino di un serial killer di escort.
Intanto per cominciare Marco Tobia dovrà riuscire a ricucire il suo rapporto con Clara. La sua fuga da Parigi e il suo atteggiamento iper protettivo non stanno certo contribuendo a migliorarlo. Lei poi ora deve tornare a Milano, testimoniare. Lo farà con il fedele Anselmo, eletto a guardiano.
A Tobia invece non resta che parlare direttamente con l’ispettore Lodigiani, prima di mettersi a investigare sotto traccia, ripartendo dai suoi pedinamenti per conto della Mariani. Dovrà scoprire chi e cosa era il marito della Mariani che aveva seguito per giorni. Indagare sulla posizione delle persone che frequentava, come i due fratelli Casellani, Fabrizio e Rosita, eredi di una azienda produttrice di giocattoli un tempo di successo ma ora vicina al fallimento?
Però ha la brutta sensazione di girare a vuoto, le tessere del suo puzzle non s’incastrano.
Cosa c’è dietro quegli omicidi? E perché Clara Fournier è stata chiamata in causa.
L’assassino potrebbe essere lo stalker che in un procedente romanzo tormentava Clara prima di essere messo a tacere da Tobia? O forse potrebbe sapere e dire qualcosa sulla Mariani il vecchio nobiluomo Alighiero Everardi che vive lussuosamente sul Mottarone? Magari qualcosa di molto personale…
Un drammatico avvenimento imprevisto però farà precipitare gli eventi…Ma per risolvere il caso Tobia dovrà armarsi di molta pazienza e ricostruire una storia, alimentata solo dal rancore e dalla volontà di vendetta di una mente tormentata che trae le sue radici dal passato.
Dialoghi veloci, vivaci, spesso piacevolmente umoristici per un intrigante protagonista che nonostante le critiche dell’amico Scuderi attenua i sintomi della sindrome di Tourette facendosi tranquillamente le canne come Rocco Schiavone. Marco Tobia infatti è un tipico antieroe riservato, diffidente, sempre recalcitrante nei rapporti sociali salvo con poche e selezionate persone che ama: la fidanzata, il barcaiolo Anselmo, l’ex collega ispettore in carrozzina e quei bambini che conosce, l’accettano com’è e gli parlano.

Matteo Severgnini vive e lavora a Omegna, sulle sponde del Lago d’Orta. Collabora con la Radio Svizzera Italiana, realizzando reportage e documentari radiofonici. Il primo romanzo con l’investigatore privato Marco Tobia è La donna della luna. Nel 2021 ha pubblicato per Todaro Editore La regola del rischio, sempre protagonista Marco Tobia, e nel 2022 il racconto lungo Affari pericolosi (disponibile solo su ebook).

La sindrome di Tourette è una malattia neuropsichiatrica che colpisce cervello e comportamento, caratterizzata dall’emissione di rumori e suoni involontari e da svariati tic. Grugniti, vocalizzi, colpi di tosse, parole emesse ad alta voce, saltelli, scatti e smorfie. Detta sindrome è più comune di quel che pensiamo e colpisce un individuo su cento. Più i maschi che le femmine.

:: Gru di Apolae

15 Maggio 2023

Il Frollo schizzò dalla sala alla cameretta neanche se la stesse facendo addosso, che ero da lui per fare i compiti ma tanto ogni volta Baldur’s Gate o Magic the Gathering prendevano il sopravvento sulla batteria di esercizi. Aveva cominciato a farsi la coda da poco e un ciuffo di zazzera gli ondeggiava addosso mentre sparì dietro lo stipite della cameretta -Aspettami!-. La madre si affacciò senza voglia all’uscio della cucina, col gran seno pigiato nella camicia. -Stellone… già finito?-, domandò alzando le sopracciglia a prendermi in giro. Io feci spallucce, approfittando della simpatia di Ada nei miei confronti, perché tra l’altro non volevo né potevo sputtanare il mio amico. E cercai di non farmi sgamare mentre immaginavo quel torace scoperto. Lei mi guardava e rideva, pulì le mani nello strofinaccio, tornò ai fornelli.

Allora partì un arpeggio di chitarra robusto. Frollo si esercitava un po’ sulle scale e intanto chiaccheravamo, il più e il meno, comunque di lì a breve saremmo finiti davanti a un videogioco. -Fro’, che suoni?- chiesi incantato. -Korn- rispose bello preso. Scrollai la testa dispiaciuto -Mai sentiti-. A volte mi faceva sentire un intruso, pur non volendo, lui che a casa sua potevo davvero fare qualsiasi cosa, tipo prendere una roba in dispensa, buttarmi sul letto sfatto, farmi gli affari miei mentre badava ai suoi. Era sempre pieno di nuovi interessi e invece io facevo poco o niente, a parte trascorrere del tempo lì quasi tutti i giorni. Avevo anche smesso col basket, perché i compagni mi avevano superato in altezza e ormai non ero buono né per stare sotto al tabellone, né per portare palla. Rientrò il padre e passò a salutarci un attimo prima di docciarsi al volo. Tipo sveglio, almeno quanto la madre, forse anche troppo per uno come Frollo, che lo chiamava sempre col nome, Gianni, mai come papà. L’assolo di Freak on a Leash si consumò rabbioso, soprattutto perché le dita gli scivolavano su un fraseggio e dovette ripartire molte volte daccapo.

Io guardavo la stanza, come se volessi registrare nella mente particolari da tirare fuori in futuro, finché mi colpirono tre origami rosa su una mensola -Ma che è sta cosa?-, chiesi. -Origami. Gru di carta- una la lasciò volare sul palmo aperto, accarezzandola con la voce. -Oh, figo. Come mai le fai?- la presi in mano, pizzicata piano, tra indice e pollice. -Sai, devo arrivare a mille- ne aprì una per mostrarmi le pieghe, numerose e complesse, un lavoro di fino. -Ah. E perché?- riposi la gru sulla mensola in mezzo a un mucchietto di simili. -Beh, se ci arrivo posso esprimere un desiderio- rispose fissandomi come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Lui non era uno che ti guardava spesso negli occhi, anzi, quindi quello sguardo mi entrò dentro dritto e fece un po’ male. A fine pomeriggio partitine scacciapensieri alla Play. Poi tornai a casa sull’Ovetto.

Fermo al semaforo rosso, immaginai una gru in attesa su una zampa. Io un desiderio ancora non l’avevo.

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Breve Bio

Si fa chiamare Apolae perché solo così riesce a scrivere liberamente. Piccoli premi locali per narrativa breve. Pubblicazione nel 2022 nell’antologia di LibroMania (DeA) “The Source. Scrivere sull’Acqua”. Suoi racconti compaiono sulle riviste: Fiat Lux, In fuga dalla bocciofila, L’appeso, Nabu Storie, Racconticon, Smezziamo, Spaghetti Writers, Tango Y Gotan e Tremila Battute. Altri testi popolano la pagina Instagram apolae_fotoracconti. Ama la sua famiglia e la letteratura. Si impegna per coniugarle.