Archivio dell'autore

:: Karolus. Il romanzo di Carlo Magno di Franco Forte (Mondadori 2023) a cura di Valerio Calzolaio

6 marzo 2023

25 dicembre 800. Roma. Quel Natale il Papa sta per proclamare un nuovo sovrano, a ricevere la corona è Carlo Magno (742 – 814), primogenito della stirpe dei Carolingi, immerso in una storia di coraggio e amori, sangue e dubbi, battaglie e trionfi, complotti e intrighi, rimpianti e perdite. E segreti! In “Karolus”, attingendo a sterminate storiografia e bibliografia, l’ottimo scrittore, sceneggiatore e giornalista Franco Forte (Milano, 1962), direttore editoriale delle collane da edicola Mondadori (compreso Il Giallo), narra lungamente e intensamente le gesta del celebre reggente unico del Sacro Romano Impero, dalla primissima infanzia agli ultimi istanti di vita. Dopo la dedica (alla famiglia), l’albero genealogico della “stirpe”: prima da Pipino il Breve a Carlo e ai suoi tanti fratelli e sorelle minori; poi dalle cinque mogli agli innumerevoli figli, soprattutto di Ildegarda (la terza, sposata nel 771 e morta nel 783). Seguono ascesa e dominio, attraverso sei godibili capitoli.

Franco Forte è nato a Milano nel 1962. Scrittore, sceneggiatore e giornalista, per Mondadori ha pubblicato, tra gli altri, Carthago, Roma in fiamme, Caligola, Cesare l’Immortale e Romolo, il primo di una serie di libri dedicati ai sette re di Roma.

Source: libro del recensore.

:: Kallocaina. Il siero della verità di Karin Boye (Iperborea 2023) a cura di Emilio Patavini

5 marzo 2023

Pubblicato nel 1940, un anno prima della morte dell’autrice, Kallocaina è il romanzo più famoso di Karin Boye, scrittrice e poetessa svedese. Nata a Göteborg nel 1900, studia greco antico e norreno a Uppsala, dove entra in contatto con il movimento di ispirazione socialista Clarté. La influenzano il nichilismo di Nietzsche, la psicoanalisi freudiana, le religioni orientali e gli antichi miti scandinavi. Nel 1922 pubblica Nuvole, sua prima raccolta poetica. Nel 1929 sposa Leif Björk, un attivista del movimento clarteista (anche se il matrimonio terminerà qualche anno dopo), e collabora alla rivista d’avanguardia Spektrum, dove pubblica con Erik Mesterton la sua traduzione de La terra desolata di T.S. Eliot. Nel 1932 si trasferisce a Berlino, dove si sottopone a psicoanalisi per comprendere meglio se stessa e la propria omosessualità. Nel 1934 si innamora di una ragazza tedesca, Margot Hanel. Nel 1940 si trasferisce ad Alingsås, dove scrive Kallocaina, il suo capolavoro. Il 23 aprile 1941 esce di casa senza farvi più ritorno: il suo corpo viene ritrovato qualche giorno dopo nel bosco. Con il suo suicidio – seguito un mese dopo da quello di Margot Hanel – si spegne una delle voci più importanti della poesia svedese.

Kallocaina, il suo ultimo romanzo, è uno dei grandi romanzi distopici del Novecento, assieme a Noi (1924) di Evgenij Zamjatin, Il mondo nuovo (1932) di Aldous Huxley e 1984 (1949) di George Orwell. La prima edizione italiana, da tempo fuori catalogo, uscì nel 1993 per Iperborea. L’11 gennaio, a distanza di trent’anni, è uscita una nuova edizione del romanzo, tradotto da Barbara Alinei e con la postfazione di Vincenzo Latronico. Kallocaina descrive una società totalitaria e militarista, dominata da uno Stato Mondiale, in cui l’individuo è completamente annullato in nome della collettività e in cui le persone non si considerano “individui”, ma “compagni soldati”. Il romanzo è scritto in forma di diario da un chimico, Leo Kall, inventore del siero della verità (che prende il nome di kallocaina in suo onore). In questo stato poliziesco, le autorità sfruttano le potenzialità offerte dalla kallocaina, prontamente impiegata come strumento di controllo. In un primo momento, l’applicazione pratica della kallocaina si limita al campo della giustizia, dove può essere utilizzata negli interrogatori per far confessare la verità agli imputati. «D’ora in poi nessun criminale potrà negare la verità. Neanche i nostri pensieri più intimi ci appartengono più, come a torto abbiamo creduto per molto tempo» (p. 20), afferma soddisfatto Leo Kall, continuando: «i colpevoli confesseranno spontaneamente e senza riserve con una semplice iniezione» (p. 59). Nella società descritta da Karin Boye, tutto appartiene allo Stato: non solo i propri figli, ma anche i pensieri. Tutto è sacrificato in nome di quella «unica cosa sacra per tutti: la collettività» (p. 28). Ma in seguito ci si rende conto che essa «permetterebbe di prevedere e prevenire molte delle atrocità che ora ci piovono addosso all’improvviso» (p. 63). Questa lucidissima intuizione di Karin Boye sembra quasi anticipare il racconto Rapporto di minoranza (The Minority Report) di Philip K. Dick, in cui la polizia si serve di precognitivi per sventare i crimini prima ancora che essi siano commessi.

Quello che si crea è un clima di reciproca diffidenza, dove chiunque ritenuto «pericoloso per lo Stato» (p. 100) può essere denunciato dal proprio collega o dal proprio coniuge. Lo stesso Kall denuncia l’odiato collega Rissen e arriva a sospettare di sua moglie Linda.

In tutto questo si affaccia la visione di una Città Deserta vagheggiata dai nemici dello Stato e avvolta nella leggenda, una «città abbandonata e in rovina in un luogo inaccessibile» (p. 160), «sconosciuta e irraggiungibile» (p. 160), più antica dello Stato stesso, distrutta da bombe, gas e batteri, eppure bramata e abitata dai “diversi”, coloro che vengono definiti con disprezzo «asociali». Per usare, ancora una volta, le parole di Leo Kall, si tratta di «una favola su cose che non esistono. Cimeli di una cultura morta! In quel villaggio deserto bombardato dai gas sopravviverebbero i resti di una civiltà che risale all’epoca precedente le grandi guerre. Ma non c’era nessuna civiltà! […] Qualcosa che meriti il nome di civiltà è inconcepibile durante l’epoca civil-individualistica. I singoli lottavano contro i singoli, i gruppi sociali contro i gruppi sociali. […] Questa io la chiamo giungla, non civiltà. […] La civiltà non può esistere che nello Stato» (pp. 161-62). La descrizione della Città Deserta rimanda naturalmente alla Waste Land eliotiana, tradotta dalla stessa Boye. Alcuni versi in inglese vengono riportati anche in esergo.

Da una parte l’opera riprende alcuni elementi già presenti nelle precedenti distopie (le droghe come strumento di controllo erano già comparse nel romanzo di Huxley), ma dall’altro innova il genere e anticipa alcune delle tematiche trattate da Orwell nel suo più famoso 1984. Disseminati in ogni luogo sono i «milioni di occhi e orecchi che vedevano e sentivano giorno e notte le azioni e i dialoghi più intimi di tutti i compagni» (p. 122), oscura prefigurazione della pervasività tecnologica che caratterizza 1984 con i suoi onnipresenti teleschermi. Il protagonista, Leo Kall, non nutre una segreta avversione nei confronti dello Stato come Winston Smith, ma come nota nella sua postfazione Vincenzo Latronico «è a tutti gli effetti un antieroe, più rigido e conformista di chi ha intorno» (p. 240), è un esaltato che non solo si rende conto delle potenzialità della sua scoperta, ma si adopera affinché siano messe in atto, dando il via «a un’opera di pulizia che avrebbe liberato il corpo dello Stato da tutto il veleno inoculato dai criminali del pensiero» (p. 135). È lo stesso Kall, infatti, a proporre una legge «contro i pensieri e i sentimenti ostili allo Stato» (p. 138), una «nuova legge contro la mentalità anti-Stato» (p. 178). Le autorità accolgono con favore la sua proposta, in seguito alla quale anche «i pensieri possono essere condannati» (p. 177). Ecco dunque il concetto di psicoreato (thoughtcrime) teorizzato nove anni prima della pubblicazione del capolavoro orwelliano. Eppure Kall non ha dimenticato le parole del collega Rissen: «Nessuno che abbia passato i quarant’anni ha la coscienza pulita» (p. 240), e infatti vive nel terrore di essere sottoposto al siero che porta il suo nome. Non si fida nemmeno di se stesso. Sa benissimo che nessuno è innocente, che tutti hanno qualcosa da nascondere. Questo dato di fatto è il pilastro su cui poggiano le sicurezze dello Stato, perché come afferma lui stesso: «La ragione sacra e necessaria dell’esistenza dello Stato è la nostra mutua, legittima sfiducia l’uno nell’altro. Chi mette in dubbio questo fondamento mette in dubbio lo Stato» (p. 126).

Leggendo questo romanzo non si può fare a meno di intuire che esso è stato scritto da una sensibilità diversa, da una voce originale, quale è quella di Karin Boye, benché scelga di narrare la sua storia da un punto di vista maschile. Si tratta di una voce anzitutto poetica, che diversamente da Orwell o da Huxley antepone la soggettività dell’io narrante, l’introspezione psicologica (quasi psicoanalitica) e la riflessività del personaggio alla parte più propriamente narrativa o di azione. L’accento è posto sui pensieri di Leo Kall, estensore del diario nonché protagonista, e il lettore segue il suo flusso di coscienza.

Karin Boye nata nel 1900 a Göteborg, è una delle grandi voci della poesia svedese. Dopo la Prima Guerra Mondiale aderisce al movimento pacifista Clarté e viaggia in Europa vivendo le inquietudini del suo tempo: visita, turbata, l’URSS di Stalin (1928), la Germania che si prepara a Hitler (1932) e l’agognata Grecia (1938), culla della civiltà e dei valori a lei più cari. Il dissidio mai risolto tra impegno sociale e politico, tra una ferrea esigenza di coerenza e di ricerca di verità e un desiderio di appagamento e di abbandono agli istinti naturali la porterà a cercare la morte, solitaria, nella natura, il 23 aprile del 1941, giorno in cui i nazifascisti invadono la Grecia. Oltre alle numerose raccolte di poesie, scrive cinque romanzi di cui Kallocaina (1940) è il più noto.

Source: inviato dall’editore. Si ringrazia l’Ufficio Stampa Iperborea.

:: Ucraina e Russia, una pace possibile?

4 marzo 2023

Partendo dall’assunto che tutti vogliono la pace, sia coloro che per pragmatismo e realismo politico giustificano attualmente l’uso delle armi, che coloro che ritengono che la guerra non sia in nessun caso mai una strada percorribile, possiamo ritenere che i punti di convergenza siano sempre maggiori di ogni possibile divergenza. Innanzitutto ritenere che la pace sia possibile è il punto di partenza, senza farsi scoraggiare dai fallimenti pregressi che hanno portato a questo drammatico punto. I popoli dell’Ucraina e della Russia sono popoli slavi, popoli fratelli, con radici storiche, economiche, linguistiche, spirituali comuni. Questo pone un principio inderogabile se si vuole ottenere la pace: l’Ucraina non va smembrata, russi e ucraini hanno legami familiari, religiosi, etici così strettamente connessi tra loro che è impensabile volere tagliare l’Ucraina in due (dal Dnepr in giù come alcuni ipotizzano) come il celebre bambino conteso dalle due madri di salomonica memoria. Chi persegue le ragioni della pace e crede in una pace duratura ha ben presente che i popoli che vivono nei territori che formano gli stati hanno il sacrosanto diritto di autodeterminarsi. Di scegliere la struttura sociale e politica che li amministri e garantire che questo avvenga, rispettando le leggi del diritto internazione che regola la convivenza tra gli stati, spetta all’ONU il cui ruolo mai come in questo momento è cruciale. Dopo la caduta del Muro di Berlino, e l’ipotizzata fine della storia, per alcuni anni si è ipotizzato che una forma di governace mondiale democratica e condivisa era auspicabile e avrebbe garantito pace e progresso per il mondo intero. Nello sforzo di tendere verso una grande casa comune. Non eravamo ancora pronti, ma questa crisi nel cuore slavo dell’Europa se vogliamo ha riportato i riflettori sull’importanza di intraprendere questa strada. Di riprendere il percorso che si era interrotto. Siamo giunti a un bivio o riprendiamo la strada dell’integrazione e della cooperazione o ci avviamo verso quella dell’autodistruzione. Non si tratta più di chi vince o chi perde. Se perseguiamo le ragioni della pace vinciamo tutti non solo Ucraina e Russia, ma l’Europa tutta e il mondo intero. Se ci ostiniamo a volere sopraffare uno dei due contendenti non otterremmo che macerie per tutti. L’Ucraina non è una potenza nucleare, per quanto sia nell’ombra della NATO e degli Stati Uniti, ma vogliamo davvero vederla rasa al suolo da un inverno nucleare? Se una delle sue centrali nucleari esplodesse anche solo accidentalmente avremo ottenuto un obiettivo strategico? Mi rifiuto di credere che Stati Uniti e NATO vogliano questo. E mi rifiuto di credere che la Russia manderà mai un’atomica su un suo popolo fratello. Quindi protrarre il conflitto con tutti i rischi connessi (di incidenti non programmati) non conviene a nessuno. E’ di tutti interesse la sospensione del conflitto e la ripresa di un discorso diplomatico e politico drammaticamente interrotto dagli accadimenti di questo ultimo anno. L’incompetenza, l’irragionevolezza, la leggerezza di alcuni comportamenti va pesantemente sanzionata, in favore della ragionevolezza e del buon senso. Che solo Papa Franceso un anziano e malato ottantenne capo religioso creda, parli e veda la pace come possibile è una cosa che dovrebbe fare arrossire di vergogna qualsiasi politico di professione che persegue gli interessi e il benessere del popolo che l’ha eletto. Ecco queste sono le mie riflessioni in merito, se avete qualche commento da fare potete esprimerlo nei commenti sarò felice di intraprendere un dialogo costruttivo e realistico con voi. Noi naturalmente non decidiamo niente, non siamo al tavolo delle trattative, ma magari potremmo sensibilizzare le coscienze di coloro che in tutta sincerità vorrebbero fare qualcosa o perlomeno capire cosa sta succedendo. Grazie.

:: La fine è ignota di Bruno Morchio (Rizzoli 2023) a cura di Valeria Gatti

3 marzo 2023

Eccola che torna alla carica col ricatto degli affetti. Nonostante il conforto della bianchetta, il freddo che sale lungo la schiena sta diventando un tormento, avverto i primi brividi ed è tempo di chiudere questa conversazione senza capo né coda. Magari il modo di aiutare quella sciaccæla della Rubia, una vera stupida, la trovo…”

Come si misura l’umanità di una persona? È una caratteristica innata o la si acquisisce per esperienza? E, ancora, è legata a gesti quotidiani, parole pronunciate, stili di vita o, forse, si tratta più di una faccenda di legalità, coerenza, equilibrio?

Domande simili nascono spontanee, durante la lettura dell’ultimo romanzo di Bruno Morchio, “La fine è ignota”, edito da Rizzoli. La figura di Mariolino Migliaccio – il protagonista – e la sua complessa personalità costituiscono una fonte interessante per riflettere sul tema.

Andiamo con ordine, però.

Iniziando dal titolo, si avverte un altro concetto che ritorna spesso, nell’opera: una specie di contrapposizione, simile a un effetto bilancia. La fine, un atto che è legato a un fatto certo e definitivo, viene qui associata all’incognita, a qualcosa di incerto e sconosciuto. Il Bene e il Male, dunque, vengono miscelati, legati, potrebbero sembrare indissolubili.

Un altro segnale interessante, che anticipa molto della trama, è la copertina. È una grafica che rappresenta i caruggi tipici della Liguria, un’insegna sbiadita di un hotel e un uomo che cammina. Il viso dell’uomo è voltato: sembra scrutare e controllare, come se temesse un pericolo. L’atmosfera shady è percepibile e, anche in questo, le luci e le ombre si accostano, convivono l’una accanto all’altra.

Il racconto ruota attorno alla scena iniziale: Luigi il Vecchio, un boss senza scrupoli, assume Mariolino per ritrovare una delle sue “ragazze” che è sparita dalla casa di tolleranza che gestisce sotto forma di centro benessere. Da questo fatto, l’autore muove i suoi personaggi tra le vie di Genova, i locali promiscui, l’illegalità di una società “parallela”, storie di violenza e disperazione che coinvolgono ragazze arrivate nel nostro paese con la speranza di poter vivere una vita dignitosa.

Gli occhi del lettore vengono catturati da Mariolino che si presenta nudo e crudo. È un uomo solo – la mamma, una lucciola, è stata uccisa da un cliente -; è disoccupato, per la società, ma un lavoratore – investigatore privato senza licenza – dei bassifondi; vive in una stanza fredda e quando ha qualche soldo in tasca si concede un pasto caldo in trattoria. Ha una buona cultura – ha frequentato il liceo classico –, ama la buona musica, ed è dotato di un’intelligenza fine e spontanea, nonché di un grado di umanità e attenzione verso i problemi degli altri che colpisce, in positivo.

L’intera opera è narrata dal punto di vista di Mariolino: il lettore entra in contatto con il personaggio, le sue azioni, il suo pensiero, la sua solitudine, il suo disagio (che esprime spesso), quel suo modo di restare ancorato alla vita, le amicizie di strada e la solidarietà che si costruisce in questi legami, le strategie che improvvisa, il suo straordinario talento nell’ascoltare e nel comprendere gli Uomini. In sostanza, è tutto il suo mondo a essere messo in esposizione, in maniera semplice ma diretta. È con i suoi occhi che conosciamo la disperazione che regna nella realtà a luci rosse che gli sta intorno ed è grazie a lui che scopriamo gli angoli più bui della Genova nel periodo natalizio. E poi, ci sono i soprannomi e quel suo modo originale di analizzare le persone. Un modo unico e inconfondibile.

È un tipo tozzo e robusto, fisico da palestrato, sui cinquant’anni portati con orgoglio e prëzumìn: capelli brizzolati tagliati cortissimi, da ex ufficiale dei marines, e mascella squadrata da picchiatore fascio. Indossa abiti eleganti e in molte fotografie, anziché la cravatta, sfoggia uno sgargiante papillon rosso. Dà l’impressione del personaggio che conta, conscio e fiero della propria condizione di uomo di potere. Il Vecchio e Coscialunga devono tenerlo in grande considerazione …”

Altra caratteristica che emerge è l’uso del dialetto. Lo si trova soprattutto nei dialoghi, ma chi non ha dimestichezza con le espressioni dialettali non deve preoccuparsi perché affianco c’è la traduzione. Un ulteriore conferma, questa, di quanto lo stile narrativo di Bruno Morchio sia aperto, diretto ed efficace, quasi confidenziale. Uno stile fresco e originale che si contrappone efficacemente alla tematica trattata e che conferma l’equilibrio dell’intera opera.

Bruno Morchio è nato nel 1954 a Genova, dove vive e ha lavorato come psicologo e psicoterapeuta. È autore, tra l’altro, di una fortunata serie gialla che ha per protagonista l’investigatore privato Bacci Pagano. Per Rizzoli ha pubblicato anche Il testamento del Greco e Un piede in due scarpe, disponibili in BUR, e La fine è ignota (2023).

Source: libro inviato al recensore dall’editore. Ringraziamo Ambretta Senes Ufficio Stampa Rizzoli.

:: Il cadavere del Canal Grande di Enrico Vanzina, (HarperCollins 2022) di Patrizia Debicke

27 febbraio 2023

Dopo avere raccontato Roma e Milano, Enrico Vanzina chiude con una zampata da leone par suo la sua trilogia noir dedicata alle città italiane, tornando indietro nel tempo nel 1700, a Venezia in laguna e arrivando a coinvolgere addirittura il mitico Giacomo Casanova.
Vanzina scrive ma si diverte e si vede. Gioca con i modelli del Settecento, si lascia contagiare dal primo Dumas e dalla crudele malizia di Laclos , senza tuttavia dimenticare Goldoni e le Memorie di Casanova , poi arricchisce persino la sua trama con una carambolesca fuga dal sapore di spaghetti western alla Kill Bill 2 di Tarantino.
Insomma Il cadavere del Canal Grande è un singolare e provocante romanzo storico, intrigante, sanguinario quanto gli piace (un bel po’ direi), denso di colpi di scena, dotato uno stuzzicante congegno narrativo giallo e popolato da memorabili personaggi, dominati dalla locandiera Ginevra Trevisan, fascinosa protagonista femminile…
Jean de Briac, giovane venticinquenne alto biondo e bello, di nobili origini bretoni, aveva un sogno, diventare un pittore. Ma suo padre, squattrinato aristocratico di campagna, molto più interessato a fare rendere i suoi terreni e alla salute delle mucche che alla vocazione artistica della progenie, non ci sentiva da quell’orecchio.
Ragion per cui il giovanotto saltato in sella a un robusto cavallone della paterna scuderia, dopo un lungo e periglioso a viaggio era riuscito ad arrivare a Venezia. Là con la benevola lettera di intercessione del cugino, Mathieu de Briac, monsignore a Würzburg, dove il maestro Giambattista Tiepolo aveva affrescato la residenza del principe vescovo Karl Philipp von Greiffenclau, era stato preso a bottega, entrando a far parte del gruppetto di volenterosi allievi del grande pittore veneziano. Tiepolo, uomo di buon cuore, mosso forse da ammirazione o pietà per quel ragazzo che per un sogno era scappato dalle comodità di casa, l’aveva messo due mesi prima a mischiar colori, mentre lui stava lavorando all’affresco dell’Incoronazione di Maria Immacolata nella chiesa della Pietà. Nonostante i pochi spiccioli in tasca garantiti dalla paterna grettezza, che gli consentivano appena di alloggiare in una stanzuccia in una locanda vicino al Ponte di Rialto e di riempirsi la pancia in bettole malfamate, Jean de Briac finora si era sentito appagato dalla sua vita veneziana. Ma una sera, dopo cena ormai diretto a piedi al suo giaciglio, con la luna che si rifletteva nelle acque del Canal Grande, mentre camminava scansando l’eterogenea folla notturna che animava le calli, verrà travolto da una dama che correva all’impazzata tra la gente. Pur scaraventato a terra riuscirà ad afferrare la gonna della bellissima ed esotica sconosciuta sollecitando scuse. Ma l’immediato rapido, vivace e successivo scambio verbale, si chiuderà con il passaggio di un sacchetto di velluto, da parte della bellezza alla sbalordito giovanotto, unito alla preghiera di consegnarlo prima possibile alla signora Ginevra, padrona della locanda Alle due spade.
La curiosità, par logico, che spingerà il giovanotto ad aprirlo gli consentirà di scoprire che contiene uno splendido smeraldo di straordinarie dimensioni. L’ora tarda tuttavia gli suggerirà di rimandare all’indomani la consegna richiesta. Però, ripresa la sua strada, passati pochi minuti dopo aver imboccato il Ponte di Rialto, verrà raggiunto da un vociare e affacciandosi alla balustra, vedrà in acqua una gondola dalla quale un robusto barcaiolo stava tirando su il corpo di una donna annegata, riconoscerà dagli abiti indossati dalla ragazza che gli ha appena consegnato lo smeraldo e riuscirà a sentire il gondoliere gridare sconvolto: «Maria Vergine, le hanno tagliato la gola».
Ma la storia veneziana di Vanzina non si limiterà a far da teatro a un unico delitto.
Dopo una lunga notte insonne o quasi, passata rigirandosi tra le coltri del suo letto, Jean de Briac si recherà alla locanda Alle due spade. Là incontrerà e conoscerà, anche carnalmente, Ginevra Trevisan, la fascinosa, sensuale femme fatale e, cavallerescamente finirà da lei compromesso in un diabolico e misterioso intrigo, destinato a coinvolgere sbirri, signori e non, alti prelati, e persino artisti come Tiepolo, addirittura alcuni tra i potenti d’ Europa e con loro l’intrigante e famosissimo, forse il più celebre veneziano tra tutti: il cavalier Giacomo Casanova.
A ben vedere tutta la trama gravita intorno al misterioso smeraldo del sacchetto, e non spoileremo certo dicendovi cosa sarà della misteriosa e fulgente pietra dal valore incalcolabile .
Ciò nondimeno il fulcro portante della storia è lei e resterà solo lei, la seducente locandiera Ginevra Trevisan. Lei che, avvalendosi del suo irresistibile fascino saprà condurre doppi, triplici e quadruplici giochi, manovrando abilmente con il sesso e confrontandosi senza scrupoli con uomini influenti, unanimemente riveriti ma sempre da lei ridotti a succubi delle sue grazie. Con il sesso, usato come utile strumento per raggiungere il potere, e quel sesso a cui nessuno dimostra di saper resistere. Succede anche al giorno d’oggi? Che dire? Certo è che niente cambia su questa terra e certamente non certe fragilità della natura umana.
Con per scenario la Venezia di Carlo Goldoni, quella per intendersi con le sue magiche calli, con le acque torbide dei canali solcate dalle nere gondole, con la folla chiassosa che popola le sue giornate e con le brutte soprese di certi movimentati scorci notturni. Un’irrinunciabile Venezia che anche stavolta riesce a ritagliarsi un ruolo da protagonista. Una città da sempre senza tempo e fuori dal tempo, a fare da cornice a una storia ambientata nel secondo Settecento. Una storia che si dilata e scivola via lontano, veloce come cavalli e carrozze che percorrono avanti e indietro la campagna veneta (portandosi a Mestre e poi nel vicentino fino a raggiungere il trevigiano per un funambolico succedersi di avventurosi colpi di scena).
Un libro che ancora una volta ci dimostra le capacità e l’eclettico e straordinario talento del narrare di Enrico Vanzina.

Enrico Vanzina è figlio del grande regista Steno, uno dei fondatori della commedia italiana. Nel 1976 ha iniziato a scrivere sceneggiature e da allora ha collaborato con i maggiori esponenti del nostro cinema. Nel corso degli ultimi quarant’anni ha firmato, insieme al fratello Carlo, alcuni dei più grandi successi al botteghino italiano. Ha realizzato anche moltissime fiction televisive. Ma il cinema e la tv non sono la sua unica occupazione. Ha collaborato con il Corriere della Sera e scrive come editorialista su Il Messaggero. Ha pubblicato diversi libri, tra cui i recenti La sera a Roma (Mondadori, 2018) e, con HarperCollins, Mio fratello Carlo (2019), Una giornata di nebbia a Milano (2021), Diario diurno (2022). Ha vinto, in tutti questi ambiti, numerosi premi tra cui il Nastro d’argento, la Grolla d’oro, il Premio De Sica, il Premio Biagio Agnes, il Premio Flaiano e il Premio Casinò di Sanremo – Antonio Semeria.

Source: libro del recensore.

:: Il vangelo della forza di Robert D’Harcourt (Edizioni San Paolo 2022) a cura di Giulietta Iannone

27 febbraio 2023

L’hitlerismo si nutre di disperazione, sembra questo l’humus in cui è sorto, in cui hanno germogliato i suoi gangli mefitici. A questa conclusione è giunto, come premessa, Robert D’Harcourt, intellettuale cattolico e germanista, autore di un libro profetico uscito nel 1936 in Francia dal titolo Il vangelo della forza (L’Evangile de la force, 1936) ora ripubblicato da San Paolo edizioni con la prefazione di Valerio De Cesaris e tradotto da Luigi Albani.

Disperazione in cui sono da ricercare le origini di questa psicosi sorta nel primo dopo guerra, sulle ceneri appunto della Prima Guerra Mondiale. Se gli adulti hanno aderito al nazismo per opportunismo, i giovani, catturati nella gioventù hitleriana, hanno aderito per fede. Una fede distorta, manipolata, ben lontana dalla fede autentica, una fede che ha sostuito con la svastica la croce di Cristo. Tuttavia hanno aderito con entusiasmo e purezza di intenti. E in questa generosità di animo sta il dramma che ha amplificato l’orrore.

Quando un regime indottrina i suoi giovani nel culto della terra e del sangue, per farne dei soldati perfetti che combattano per la rigenerazione del paese non si può che assistere a questa disgregazione etica e morale conseguenza diretta di questo dramma.

Facile arrivare di conseguenza alla soppressione degli improduttivi che ostacolano la crescita economica di un paese votato al progresso e all’autoaffermazione. E così si può capire l’eugenetica così lontana da ogni riflessione umana, quello che ci è di intralcio lo si elimina, i vecchi, i malati, gli ebrei, gli stranieri tutti coloro che non incarnano lo spirito della razza. In questo caso la ariana, la pura razza tedesca .

O la violenza contro gli oppositori come evidenzia il capitolo ottavo intitolato La guerra di logoramento contro la gioventù cattolica. Ma chiunque si opponeva diventava automaticamente un nemico da abbattere e distruggere.

Robert D’Harcourt, come sentinella avvisò del pericolo, e della gravità delle conseguenze ideologiche di quel regime che si stava consolidando ai confini del suo paese. Pagò a caro prezzo la sua se vogliamo definirla preveggenza, due dei suoi figli furono deportati a Buchenwald e la sua opera fu censurata costringendolo a continuare ad operare nella clandestinità.

Due sono le rilfessioni profonde a cui l’autore arriva: una nel non identificare la Germania, ovvero il popolo tedesco, con il nazismo, l’altra nel non demonizzare i giovani che vi hanno aderito, ma i loro maestri che li hanno indottrinati sfruttando il loro entusiasmo e la loro ricerca di un leader che gli prospettasse un futuro luminoso ben lontano dall’oscuro presente in cui vivevano.

ROBERT D’HARCOURT (1881-1965) gravemente ferito durante la Prima guerra mondiale, dove perse l’uso del braccio destro, iniziò a insegnare lingua e letteratura tedesca nel 1920 presso l’Istituto Cattolico di Parigi. Nel 1936, a seguito di più di una visita nella Germania di Hitler, lanciò l’allarme a proposito della vera natura di quel regime nel libro Il vangelo della forza. Il 28 settembre 1940 l’opera fu censurata dall’occupante, come altri due suoi libri. Si unì alla Resistenza attraverso numerosi articoli clandestini, dando l’esempio ai suoi figli: due di loro furono deportati a Buchenwald. Al loro rilascio, presentò la sua candidatura all’Accademia di Francia, dove fu eletto nel febbraio 1946. Fino alla sua morte si adoperò per ricostruire i legami tra la sua patria e la Germania, Paese tanto caro al suo cuore, che non aveva mai confuso con il nazismo.

VALERIO DE CESARIS è Rettore dell’Università per Stranieri di Perugia, dove insegna Storia contemporanea nel Dipartimento di Scienze umane e sociali. Si occupa prevalentemente di storia politica e religiosa, con particolare attenzione alla storia d’Italia, i rapporti tra cattolici ed ebrei, l’antisemitismo e il razzismo, i fenomeni migratori, la storia della Chiesa cattolica. Per Edizioni San Paolo ha pubblicato Seduzione fascista (2020) e La battaglia per le coscienze (2022), due libri dedicati alla ricostruzione del rapporto tra la Chiesa cattolica italiana e il regime fascista.

Source: libro inviato dall’editore. Ringraziamo Gabriele Ufficio stampa San Paolo edizioni.

:: Isole carcere. Geografia e storia di Valerio Calzolaio (Edizioni Gruppo Abele 2022) a cura di Giulietta Iannone

23 febbraio 2023

“Un’isola non è, per natura, una prigione.”

L’isolamento insulare e la detenzione sono un binomio che fin dall’antichità, pensiamo all’Antica Grecia, ha trovato stretti legami e ripercussioni sul vivere civile e sociale. Allontanare dal consorzio umano determinati soggetti rei di gravi crimini, o perlomeno, anche se innocenti, accusati di averli commessi, è diventata un’aggravante dell’eventuale punizione, un inacidirsi coercitivo di una pena non volta al recupero del condannato, ma al suo allontanamento, anche dalla vista, dal contesto civile, quando non si vuole giungere a una vera e propria condanna a morte. Una crudeltà in più, insomma, che rende più difficile la fuga certo, ma anche solo, tramite l’isolamento più assoluto, rende più doloroso e crudele il castigo a volte inferto a oppositori politici, persone sgradite, o semplicemente scomode. Nel saggio Isole carcere. Geografia e storia Valerio Calzolaio analizza, con un approccio multidisciplinare, questa materia di per sé complessa e sottostimata. Forse non tutti sanno che esistono isole carcere ancora attive anche attualmente, insomma non è una vestigia delle barbarie del passato, anche in Italia. Le riflessioni sulle ripercussioni psicologiche e sociali dell’isolamento detentivo diventano occasione di riflessioni sul sistema detentivo stesso, e sulla sua utilità, oltre alla scarsa volontà politica di trovare pene sostitutive più costruttive per la società e l’individuo. Il saggio si compone di tre parti: la prima dal titolo Un doppio isolamento con riflessioni sugli aspetti storici, biologici e socioculturali del fenomeno. La seconda parte è composta da una serie di schede che descrivono alcune isole carcere, forse le più famose, da Alcatraz, all’Asinara, dall’Isola d’If, all’Isola del Diavolo, a Lampedusa. Infine nella terza parte c’è un tentativo, per quanto sperimentale, di classificazione globale di tutte le isole carcere esistenti nel mondo. Tra l’altro il lavoro non è solo il frutto di consultazioni di dati, tabelle, archivi, saggi scientifici, ma anche analizza le ripercussioni sull’immaginario: quanti libri, film, poesie hanno per tema la detenzione su un’isola, pensiamo al film Papillon, o al romanzo Il Conte di Montecristo, in cui il personaggio letterario di Edmond Dantes, dopo una prigionia di 15 anni, fu l’unico a poter scappare dall’Isola d’If, grazie alla fantasia di Dumas. Ricco l’apparato bibliografico e di approfondimento che rende il lavoro utile anche a coloro che vogliono intraprendere uno studio serio e articolato sulla materia.

Valerio Calzolaio, giornalista e saggista, è stato deputato dal 1992 al 2006 e sottosegretario al Ministero dell’ambiente tra il 1996 e il 2001. Tra le varie pubblicazioni è autore di Ecoprofughi (Nda 2010), Da Moro a Berlinguer (con Carlo Latini, Ediesse, 2016), La specie meticcia (People, 2019), Libertà di migrare (con Telmo Pievani, Einaudi, 2016).

Source: libro inviato dall’editore. Ringraziamo Christian Ufficio Stampa Edizioni Gruppo Abele.

:: Donne di carta di Natascia Tonelli, dal 1 marzo in libreria

23 febbraio 2023

In occasione della Giornata Internazionale della Donna, le San Paolo Edizioni vanno in libreria con un volume nuovo, diverso… al femminile. Donne di carta racconta di nove protagoniste dei grandi capolavori della letteratura italiana, dalla santa alla strega, alla Beatrice di Dante, e da loro un nuovo spazio per offrire nuova dignità e nuova voce alle eroine silenziose dei grandi classici.

Le donne di carta della letteratura italiana: grandi personaggi femminili che rivendicano una considerazione diversa, meno stereotipata e meno rassegnata alle formule definitorie a uso scolastico. Beatrice, tradizionalmente vista quale rappresentazione allegorica della grazia divina, o della teologia, in questo nuovo ritratto rivela consistenza caratteriale e intellettuale e una straordinaria personalità: «grazie a una donna, Dante ottiene il permesso di soggiorno in una società anti-patriarcale». Francesca da Rimini, che la critica ci dipinge quale ingenua cultrice di romanzi d’amore, si impone invece come una donna straordinariamente colta, che dialoga alla pari col più grande dei poeti latini, Virgilio, a cui rende ripetuti omaggi letterari, e con Dante, citandone e adottandone i maestri. E poi Laura, carnalmente desiderata da un Petrarca ben più amante di quel che si creda; Fiammetta, che prende in mano la penna per raccontare lei stessa il suo triste romanzo d’amore; Lucrezia, che nella Mandragola conferisce una ben diversa sostanza a quel suo nome tanto impegnativo, sinonimo della più alta virtù muliebre; la sapida Nencia, versione rustica, scaltra e rotondetta delle innamorate eteree; Angelica, costretta alla fuga perenne dalla violenza maschile, bruta – e legittimata – anche nei più gloriosi paladini; Clorinda, fin dalla nascita vittima di successivi, ripetuti mancati riconoscimenti – identitario, di genere, di razza, di religione… –, destino tragico di inappartenenza che la condurrà alla morte; per concludere con la complessa, e in verità irredimibile, straordinariamente moderna figura della strega Armida.

Natascia Tonelli, insegna letteratura italiana all’Università degli Studi di Siena. Ha scritto di Cavalcanti, Dante, Petrarca, Boccaccio e di poesia contemporanea. Fa parte del Comitato Nazionale per le celebrazioni del settecentenario dantesco e del Comitato scientifico dell’Ente Nazionale Giovanni Boccaccio. Condirige le riviste Per leggere e Studi Petrarcheschi. Fra i suoi libri: Fisiologia della passione. Poesia d’amore e medicina da Cavalcanti a Boccaccio (Firenze 2015); Per queste orme. Saggi sul Canzoniere (Pisa 2016); Leggere il Canzoniere (Bologna 2017). È autrice, con Simone Giusti, del corso per il triennio delle scuole superiori L’onesta brigata (Loescher 2021). È ora in corso di stampa Scrittrici del Medioevo. Un’antologia. Con scritti di: Romana Brovia, Marika Incandela, Giulia La Rosa, Francesca Latini, Tommaso Lombardi, Federico Sanguineti.

:: La missione della tigre azzurra di Shanmei disponibile su Amazon

21 febbraio 2023

Dopo un combattimento Xi Xun, valente esperta di arti marziali, si rifugia in una grotta per riprendersi. Non deve arrendersi sebbene le ferite siano gravi, ha una missione da compiere da cui dipende la salvezza di un impero… C’è un’eroina, un nemico che diventa poi il suo principale alleato, viaggi, avventura, in un wuxia classico senza magia.

Disponibile a questo link qui

:: Emergenza umanitaria in Ucraina: grazie del tuo aiuto

21 febbraio 2023

A un anno dall’operazione militare russa in Ucraina il bilancio umano delle vittime è devastante: morti, feriti, orfani, gente senza casa, senza acqua, senza cibo. I grandi della terra fanno saggi discorsi attribuendosi tutte le ragioni e ai nemici tutti i torti, e intanto la popolazione soffre. So cari lettori di chiedervi tanto, l’emergenza sisma in Turchia e Siria già ci ha spinto a grandi sacrifici, ma facciamo ancora un piccolo sforzo. Tutto quello che raccoglierò da oggi fino a Pasqua con le donazioni per Liberi di scrivere sarà donato a sua volta ad associazioni che si occupano di soccorrere i più fragili, i bambini, i malati, gli anziani in quel bellissmo e amato paese.

Grazie a tutti della vostra generosità.

💜 Sostieni Liberi di scrivere

Abbiamo raccolto: 3,47 Euro.

:: Domande e risposte su San Francesco, un’intervista a P. Gianluigi Pasquale

21 febbraio 2023

Perché Francesco d’Assisi continua  ad affascinare l’uomo del nostro tempo?

L’uomo e la donna contemporanei, quelli del XXI secolo, sono attratti da quei messaggi che godono di credibilità e da quelle persone che riescano a vivere la propria esistenza in modo essenziale, frugale e trasparente, cominciando dal rapporto con il creato. Non vi è dubbio che Francesco d’Assisi sia riuscito a espletare proprio questa modalità nel suo relazionarsi a Dio, al fratello e alle creature. Per questo, pur essendo vissuto nel XIII secolo, gode di un’inaudita attualità.

Francesco pensava che nel cuore dell’uomo esiste un «desiderio di fraternità»: visione all’opposto dell’ homo homini lupus.
Quel desiderio è presente nel cuore dell’uomo di oggi? Non prevalgono, invece, chiusura, polarizzazione e ostilità?

Nell’Etica a Nicomaco, già Aristotele (384-322 a.C.) scriveva che se nel mondo ci fossero soltanto relazioni di amicizia, non sarebbero più necessari i rapporti di giustizia. L’avvento del cristianesimo – occorso dopo Aristotele – ha inserito nell’intelligenza e nel cuore dell’uomo il valore della fraternità, perché rivelato dalla Bibbia, che supera quello di amicizia, saturandone il desiderio. In breve: un fratello o una sorella, anche «spirituali» valgono più di un amico. Da profondo conoscitore e lettore della Sacra Scrittura, Francesco aveva scorto questa fondamentale differenza, scoprendo che la fraternità è più che un desiderio: può essere una realtà. Il «desiderio», quindi, è connaturale all’uomo creato a immagine di Dio Amore. E necessita di essere superato. Ciò non toglie il triste fatto che oggi, dal XIX secolo in poi, l’uomo viva inabissato nell’età della tecnica. Si tratta di quel «fantasma» che, sorto per aiutare l’uomo – per esempio a muoversi tecnicamente con i veicoli – si serve adesso dell’uomo, e non lo serve più. Come tale, la tecnica imprigiona l’uomo dentro una solitudine, la quale è un perfetto generatore di ansia e di paura del futuro, perché trancia ogni relazione di fraternità, anche di natura sociale, portando addirittura l’uomo a rendersi ostile al proprio simile. I «social network» appaiono oggi la parabola, mandata a iperbole, di questa situazione che rasenta l’ossimoro. Francesco d’Assisi, se oggi potesse ancora parlare e scrivere – non va mai dimenticato che ha scritto molto, soprattutto Lettere – ci direbbe, invece, di uscire, così: avvicinando corporalmente l’altro e, nel mentre, fare di tutto per percepirlo come «l’altro-per-me»: appunto un fratello o una sorella. In realtà, oggi la Chiesa e le fraternità francescane attraggono se riescono a far trasparire proprio questo «ambiente»: star bene con l’altro, a cominciare da Dio, essendo una pura illusione la scelta forzata della solitudine.

Cosa ci insegna Francesco nell’incontro con il Sultano a Damietta, di cui ricorre nel 2019 l’Ottavo centenario?

Senza dubbio ci insegna il «metodo del dialogo», quello che ho cercato di evidenziare durante i tre anni di ricerche impiegati per scrivere questo libro su San Francesco. La risposta alla domanda che nessuno pone. Risulterà interessante venire a sapere dalle Fonti Francescane come il Poverello si addestrò all’arte del dialogo apprendendola dall’incontro con i ladroni a Montecasale (AR) e dall’ammansire il lupo di Gubbio, eventi, infatti, che occorrono prima dell’incontro con il Sultano Al-Malik al-Kāmil a Damietta, otto secoli fa nel 1219. Sintetizzandolo, in questo nuovo libro – per me il quarto dedicato a San Francesco – ho tentato di dimostrare che il metodo del dialogo da lui indicato consta di sei momenti: a) ritirarsi dapprima in preghiera con quella che ho chiamato la «svolta contemplativa»; b) essere presenti tra i credenti delle altre religioni, motivo per il quale il Poverello tentò per ben tre volte di recarsi tra i Saraceni; c) il terzo modo è l’esercizio della mansuetudine, quale capacità di essere «sottomessi» a Dio riconoscendosi creature alla pari di tutti gli altri uomini e donne; d) il quarto momento consiste, quando la circostanza lo permetta, nel prendere l’iniziativa per parlare all’interlocutore di «Gesù Cristo»; e) il successivo, nel saper vivere «in mezzo a» chi non crede nello stesso Dio; f) l’ultimo sta nel riporre fiducia negli altri, che si incontrano, l’esatto opposto del percepirli come «ostili». È ovvio a tutti che questa appaia un’impresa improba: non lo sarà, se si comincia, almeno, con la prima tappa: la preghiera rivolta a Dio con cuore puro (Sal 51,12).

Un Papa di nome Francesco, e che si ispira al Santo, contribuisce oggi a far amare ancor di più la figura dell’ Assisiate? E se è così:  perché sembra esserci, nella Chiesa (non fuori da essa), una fronda piuttosto rumorosa verso il pontefice?

Mario Jorge Bergoglio si ispira certamente a San Francesco. E non soltanto perché è stato il primo Papa della storia ad averne assunto il nome. Soprattutto per l’attuazione di un programma di riforma che trova le proprie radici e motivazioni dai Documenti del Concilio Vaticano II, finora non ancora sufficientemente approfonditi nel rinnovamento pastorale inteso da essi per la Chiesa. Non mi pare, poi, che vi sia quel tipo di fronda di cui si parla. La Chiesa – è bene ricordalo – rimane, innanzitutto, la Sposa immacolata dell’Agello (Ap 19,8), e qualsiasi vescovo di Roma, in questo caso il Papa, è il principio visibile di unità della Chiesa (Lumen gentium 25): chi vede questo Papa vede la Chiesa nella sua unità. Anche a motivo del mio attuale servizio presso la Santa Sede, nella Pontificia Università Lateranense, vorrei, invece, testimoniare circa la «moltitudine silenziosa» (Ap 7,9) che lavora «sub Petro» e «cum Petro»: intendo qui, con Francesco Papa. Se, per ipotesi, questa fronda esiste, allora essa è solo una indotta suggestione giornalista e, per questo, lumeggia di transitorietà e non ha nulla a che fare con San Francesco. Se vi è stato un punto sul quale il Poverello ha insistito senza sosta, questo è stato in merito all’obbedienza dovuta al vescovo della Chiesa di Roma. Chi obbedisce è in pace: sa di ver ascoltato Dio, nella voce del Papa di oggi.

Qual è il “nuovo modello di vita cristiana, all’interno della Chiesa di Dio” che Francesco d’Assisi indica all’uomo del terzo millennio?

Questa domanda è piuttosto legata alla precedente. Qui vorrei rivelare il gheriglio teoretico che dovrebbe sostenere ogni francescano/a. Esso fu intuito dal Cardinale Giovanni di San Paolo che, assieme al vescovo Guido di Assisi, con-vinse entrambi nel permettere a Francesco di incontrare Papa Innocenzo III. Perché? Perché si accorsero che San Francesco chiedeva di vivere il Vangelo proprio come lo aveva impersonato Gesù. Pensiamoci: se il Cardinale e il vescovo avessero interdetto la visita del Poverello al Papa o, peggio, questi avesse negato a San Francesco il suo «proposito di vita», ciò avrebbe significato dichiarare che è impossibile vivere da cristiani nel mondo, entrando in una plateale autocontraddizione. Appunto, questo è il «nuovo modello di vita cristiana»: la possibilità realizzabile di vivere il Vangelo oggi per essere felici in terra e beati in Cielo.

:: Piemontesi ai confini del mondo – 22 storie di esploratori atipici e navigatori irrequieti di Davide Mana (Edizioni Savej 2022) a cura di Giulietta Iannone

20 febbraio 2023

Per chi ama l’avventura, quella vera, quando il mondo era ancora una terra inesplorata che poteva riservare sorprese, e il concetto di ignoto aveva intatto il suo fascino arcano, c’è un libro uscito l’anno scorso che potrebbe riservare molte sorprese. Si intitola Piemontesi ai confini del mondo – 22 storie di esploratori atipici e navigatori irrequieti di Davide Mana ed oltre a essere ricco di aneddoti, dettagli di viaggio, tradizioni, paesi e culture è arricchito da mappe, timeline, fotografie e illustrazioni che lo rendono un piccolo tesoro da collezione. Protagonisti di questo libro sono piemontesi avventurosi di Ottocento e Novecento che dall’Antartide all’Oceania, dall’Africa all’Asia, passando per l’Africa, hanno vissuto storie straordinarie ai confini con l’incredibile. Esploratori, mercanti, archeologi, missionari, militari di carriera, nobili, avventurieri tanti sono i piemontesi che hanno lasciato il loro paese e sono andati all’estero in cerca di fortuna, fama, avventura. Il lavoro d’archivio dell’autore e curatore dell’opera è poderoso: archivi, fondazioni, collezioni private, biblioteche sono stati setacciati in cerca di notizie, storie, reperti, fotografie. Un libro davvero ben fatto, che si legge in un soffio, interessante e ricco di rare foto d’epoca, i piemontesi descritti, quasi a contraddire la vulgata popolare di piemontesi bugia nen, sono invece perlopiù intraprendenti, coraggiosi, e soprattutto ingegnosi. Sì arrangiano, anche in situazioni estreme e pericolose, come in Artide e Antartide o durante guerre e insurrezioni. Una curiosità: un paragrafo è dedicato al mio bisnonno Luigi Paolo Piovano, militare di carriera nella Cina dei Boxer.

Davide Mana, classe 1967, è un paleontologo, blogger, traduttore e autore freelance.  Ha pubblicato racconti, articoli e scenari per giochi di ruolo in Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone. Dal 2013, affianca alle sue pubblicazioni tradizionali, racconti e saggi autoprodotti in formato elettronico. Fra i suoi lavori, la serie di racconti autoconclusivi Gli Orrori della Valle Belbo, e il ciclo di avventure sword & sourcery Aculeo & Amunet. Il suo primo romanzo The Mynistry of Thunder è stato pubblicato nel 2014 da Acheron Books.

Source: libro inviato dall’editore che ringraziamo.