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:: La figlia del drago di ferro di Michael Swanwick: un fantasy anarchico e iconoclasta, a cura di Emilio Patavini

6 ottobre 2025

The Iron Dragon’s Daughter è uscito in America nel 1993, per poi essere pubblicato come Cuore d’acciaio da Fanucci nel 1995 e con il suo seguito The Dragons of Babel (I draghi di Babele, 2007) per Urania all’interno della raccolta I draghi del ferro e del fuoco (2011). Nel novembre 2024 è stato finalmente ristampato da Mercurio Books, una nuova casa editrice indipendente. L’autore, Michael Swanwick, americano, classe 1950, ha vinto i premi Nebula, Hugo e il World Fantasy Award e ha scritto racconti a quattro mani con William Gibson e Gardner Dozois.

Prima di passare alla recensione mi si permetta una nota su questa nuova edizione. Nel colophon troviamo un trigger warning, ovvero un’avvertenza volta a indicare la presenza di un contenuto che potrebbe urtare la sensibilità dei lettori. Spero che questa pratica politically correct importata dagli Stati Uniti non diventi un’abitudine nell’editoria, e ammetto che trovarla riportata all’interno di un libro mi ha allarmato ben più del presunto elemento perturbante da cui voleva mettermi in guardia. Mi trovo quasi in imbarazzo a dover ribadire che un libro, in quanto veicolo di cultura, non ha alcun bisogno di bollini colorati come i film o di altre insensate misure affini. La traduzione di Susanna Bini qui riproposta a volte inciampa in calchi dall’inglese fin troppo evidenti, ma tutto sommato si lascia leggere con scorrevolezza.

Ciò premesso, veniamo alla trama. Jane Alderberry è una changeling, una bambina umana che nelle leggende viene scambiata nella culla con un figlio delle fate. Jane si ritrova così a vivere nella dura realtà del Mondo delle Fate e a lavorare a ritmi estenuanti in una fabbrica in cui vengono prodotti draghi meccanici. Se l’atmosfera steampunk echeggia la dickensiana Coketown di Tempi difficili (1854), qui troviamo già un aspetto innovativo del romanzo di Swanwick, in cui la figura del drago viene modernizzata traendo ispirazione dal cyberpunk: i draghi sono infatti creature meccaniche e cibernetiche, rivestite di ferro e dotate di circuiti elettrici, che vengono pilotate come caccia militari. Se Ann McCaffrey, con il suo ciclo dei Dragonieri di Pern, aveva inserito i draghi in un’ambientazione fantascientifica, Swanwick è andato ben oltre rendendoli cyberpunk.

Jane entra in contatto con uno dei questi draghi, il più potente e maligno, destinato alla demolizione. Il suo nome, Melanchton, è un chiaro rimando a Filippo Melantone, nome ellenizzato di Philipp Schwarzerdt (1497-1560), teologo amico di Martin Lutero e animatore della Riforma protestante. Il drago Melanchton è una creatura manipolatrice, astuta e subdola, blasfema e nichilista, animata dall’odio e dalla vendetta. Jane e Melanchton stringono un patto e progettano la fuga. Scappata dalla fabbrica, Jane frequenta prima il liceo e poi l’università di alchimia, stringendo nuove amicizie, sperimentando droghe, praticando sesso occasionale e dedicandosi al taccheggio e alle arti magiche. Il suo percorso non è un arco lineare di crescita bensì una continua spirale distruttiva, scandita dagli stessi errori, dalle stesse perdite e dagli stessi sensi di colpa, in cui incarnazioni diverse degli stessi personaggi tornano a rivivere in un eterno ritorno. Non è un caso che all’interno del romanzo si menzioni il nastro di Möbius, la superficie non orientabile descritta dalla topologia matematica che ha ispirato la struttura di alcuni film di David Lynch.

Un’altra innovazione che salta subito all’occhio del lettore è indubbiamente l’ambientazione. Swanwick descrive con capacità immaginativa e abilità creativa apparentemente inesauribili un universo che sovverte sia i canoni dell’high fantasy classico, di matrice tolkieniana, in cui il Mondo Secondario è sub-creazione del Mondo Primario, sia dell’urban fantasy, in cui elementi fantastici vengono trapiantati nel nostro mondo. Si potrebbe parlare di portal fantasy, quel sottogenere in cui un personaggio del nostro mondo si ritrova per qualche ragione catapultato in un mondo altro, ma La figlia del drago di ferro è un romanzo che proprio in virtù della sua natura camaleontica e ibrida sfugge a ogni tentativo di classificazione. Le etichette di science fantasy e di dark fantasy, pur se applicate con una certa ragionevolezza, appaiono riduttive se non eufemistiche. In effetti, la critica specializzata non ha lesinato tentativi di categorizzare di quest’opera con le definizioni più fantasiose e disparate: c’è chi ha parlato di elfpunk, chi di technofantasy, chi di industrial fantasy o ancora chi, come John Clute[1], ha parlato di anti-fantasy per via dell’amoralità dei suoi personaggi e in particolare della sua anti-eroina. Una definizione che potrebbe apparire calzante, ma che è stata rispedita al mittente dallo stesso Swanwick, che nel suo blog  ha affermato che «[q]uesto non è mai stato il mio intento»[2]. In un’intervista si è detto «scioccato» dalla definizione di anti-fantasy, perché «amo il fantasy e non stavo certo cercando di demistificarlo»[3].  

È anzi proprio l’ibridazione dei generi, unitamente alla complessità del testo, al gusto citazionista e alla tendenza alla decostruzione, che a mio avviso dovrebbe far pensare al carattere postmoderno di questo romanzo sui generis. Il tono oscilla tra il tecnico-scientifico alla Gibson, il colloquiale, il grottesco e il volgare, in una continua commistione di magia e cibernetica, che può essere sintetizzata in sintagmi molto espressivi ideati dall’autore come «cloruro d’ammonio e fegato di rospo» o «cornamuse elfiche e sintetizzatori». Il ricorso a visioni psichedeliche e allucinazioni lisergiche può ricordare Hunther S. Thompson, mentre tra gli scrittori che più hanno influenzato Swanwick troviamo Hope Mirrlees, autrice di Lud nella Nebbia (1926), cui l’autore ha dedicato anche una monografia[4], e naturalmente J.R.R. Tolkien. Il Wall Street Journal ha definito quello creato da Swanwick «l’universo fantastico più accuratamente immaginato dopo quello di J.R.R. Tolkien». Certo, si potrebbe pensare che si tratti di esagerazioni pubblicitarie che lasciano il tempo che trovano e da prendere con le dovute cautele; eppure va detto che Swanwick non appartiene a quel novero di autori che rinnegano Tolkien, non è affetto (come Michael Moorcock e altri) da quel complesso edipico che vorrebbe uccidere il padre putativo del fantasy moderno, ma ha ammesso il debito nei suoi confronti:

«A livello profondo e inconscio, [La figlia del drago di ferro] è una dura critica di ciò che il fantasy è diventato. Mi sono innamorato del fantasy al liceo, e ho letto La compagnia dell’anello nel corso di una lunga nottata. Finii i miei compiti alle 11 di sera, e lo aprii, pensando di leggere un capitolo o due prima di addormentarmi, e finii l’ultima pagina proprio quando suonò la campanella dell’appello nel mio liceo la mattina dopo. Dopodiché cercai e lessi tutti i grandi autori fantasy – E.R. Eddison, Mervyn Peake, Fritz Leiber, Hope Mirrlees, Amos Tutuola, e così via. Perciò la recente ondata di trilogie fantasy intercambiabili mi ha scosso quasi allo stesso modo della scoperta che i boschi in cui ero solito giocare da bambino sono stati rasi al suolo per fare spazio a mediocri complessi residenziali»[5]

Benché a mio avviso si sia lontani dalle vette letterarie e artistiche di quell’immortale capolavoro che è Il Signore degli Anelli, è possibile tracciare alcuni punti di contatto tra le due opere. Per esempio, si può notare come Swanwick mutui dall’opus magnum tolkieniano il tema della quest, volta non già alla distruzione di un artefatto magico, bensì alla distruzione dell’universo stesso e alla morte di Dio (anzi, della Dea). Parimenti tolkieniani sono l’importanza che i nomi rivestono all’interno dei due romanzi, e come la conoscenza dei veri nomi delle cose consenta di avere potere su di esse, o ancora si potrebbe vedere nella fuga di Jane dalla sua realtà un parallelo alle accuse di escapismo rivolte alla letteratura fantastica in generale e alle opere di Tolkien in particolare. Infine, The Iron Dragon’s Daughter (1993), The Dragons of Babel (2008) e The Iron Dragon’s Mother (2019) costituiscono una trilogia di romanzi autoconclusivi che condividono la stessa ambientazione, mentre – come è noto – la divisione de Il Signore degli Anelli in tre libri è stata una scelta dettata dall’editore.

Peraltro non bisogna dimenticare che Swanwick attinge a una delle fonti da cui trasse ispirazione Tolkien, la mitologia celtica. Non solo troviamo citati luoghi leggendari come Avalon, Lyonesse, Ys, Tír na nÓg, Mag Mell, Broceliande, a volte spogliati del loro significato mitico, ma anche nomi gallesi (o grafie simil-gallesi) e riferimenti alla mitologia gallese, come per esempio Caer Gwydion (letteralmente la “fortezza di Gwydion”), ovvero il nome gallese della Via Lattea; i Tylwyth Teg, nome gallese per indicare il Popolo delle Fate; Gwenhidwy, nome della moglie di Gwydion e di una sirena del folklore gallese; o l’awen, l’ispirazione poetica dei bardi gallesi. Inoltre, secondo Tom Shippey, il massimo critico tolkieniano, Swanwick potrebbe essersi ispirato ai The Denham Tracts – una raccolta di folklore britannico risalente alla seconda metà dell’Ottocento –per la lista di creature magiche che compaiono nella sua opera[6]. Nel secondo volume di questa raccolta compare un lunghissimo elenco di termini associati al folklore dell’Inghilterra settentrionale, tra cui la prima occorrenza del termine hobbits[7].

Il mondo in cui vive Jane è Faërie, il Mondo delle Fate, ma è una realtà parallela e superiore alla nostra. Un mondo popolato di ogni sorta di abitante del Piccolo Popolo e del folklore europeo: elfi, demoni, folletti, coboldi, orchi, troll, gargoyle, nani, streghe, fate, ninfe, gnomi, goblin, ma anche varie figure di spiritelli meno noti, come lutin (dalle leggende francesi), hogboon (dal folklore delle Orcadi), powrie (dal folklore scozzese), lešij (dalla mitologia slava), gwarchell (dal folklore gallese, citato anche da Grimm nel suo Deutsche Mythologie), nisse (dal folklore scandinavo), pillywiggin (dal folklore britannico). Queste creature fatate, tuttavia, non hanno nulla a che spartire con le fays vittoriane e gli alti elfi descritti da Swanwick – uomini d’affari senza scrupoli che vestono completi firmati – sono ben altra cosa rispetto agli aristocratici elfi tolkieniani. Un mondo spietato, violento, corrotto, industrializzato e consumista, in cui troviamo centri commerciali, locali notturni, catene di fast food, nani comunisti che combattono in nome della lotta di classe ed elfi dell’alta società che aspirano strisce di “polvere di fata”, ma anche reginette della scuola coinvolte in sacrifici umani alla The Wicker Man, mani di gloria e magia sessuale. L’uso di termini o elementi familiari al lettore calati in un contesto fantastico crea una sensazione di spaesamento, di dissonanza cognitiva, e questa sovrapposizione tra i due mondi contribuisce ad aumentare lo straniamento. Talvolta ci si trova di fronte ad apparenti incongruenze, come il riferimento a un «completo italiano», una «scarpa italiana» o ancora alle «sciarpe italiane» finite non si sa come nel Mondo delle Fate o al vino cecubo decantato da Orazio. In altri casi, l’autore si vale di un procedimento inverso, quello di camuffare oggetti della nostra realtà sotto nomi che ci risultano disorientanti, alieni: per esempio,  così come i draghi vengono usati come caccia militari, le auto sono dunque «cavalli di cromo» e i camion in «behemoth d’acciaio».

Come se non bastasse, ad arricchire questo chimerico calderone ribollente di spunti filosofici e contaminazioni letterarie non mancano citazioni neanche troppo velate al nostro mondo: Swanwick mette in bocca ai suoi personaggi le parole pronunciate da Neil Armstrong durante l’allunaggio, una  celebre frase di Robert Oppenheimer tratta dalla Bhagavadgītā, riferimenti all’incipit di Neuromante (1984) di William Gibson, alla poesia Goblin Market (1862) di Christina Rossettie allo pseudobiblion Culti indicibili inventato da Robert E. Howard.


[1]J. Clute – J. Grant (ed. by), The Encyclopedia of Fantasy, St. Martin’s Press, New York 1997, p. 914

[2]<https://floggingbabel.blogspot.com/2019/06/my-accidental-trilogy_25.html&gt;

[3]<https://paulsemel.com/exclusive-interview-the-iron-dragons-mother-author-michael-swanwick/>. Sul rapporto con Tolkien, cfr. anche M. Swanwick, “A Changeling Returns” in K. Haber (ed. by), Meditations on Middle-earth, St. Martin’s Press, New York 2001, pp. 33-46

[4]M. Swanwick, Hope-in-the-Mist: The Extraordinary Career and Mysterious Life of Hope Mirrlees, Temporary Culture, 2009

[5]<http://www.infinityplus.co.uk/nonfiction/intms.htm&gt;

[6]Cfr. T. Shippey, “Fighting the Long Defeat: Philology in Tolkien’s Life and Fiction” in id. Roots and Branches, Walking Tree Publishers, Zurich and Berne 2007,p. 154 e “The Faërie World of Michael Swanswick” in D. Fimi – T. Honegger (ed. by), Sub-creating Arda: World-building in J.R.R. Tolkien’s Works, its Precursors, and Legacies, Walking Tree Publishers, Zurich and Berne 2019.

[7]J. Hardy (ed.), The Denham TractsA Collection of Folklore by Michael Aislabie Denham, and Reprinted from the Original Tracts and Pamphlets printed by Mr. Denham between 1846 and 1859, Vol. II, The Folklore Society, London 1895, p. 79

:: L’onesta bugiarda di Tove Jansson (Iperborea 2025) a cura di Giulietta Iannone

4 ottobre 2025

Profondo Nord: un villaggio innevato da fiaba, e l’amicizia ambigua e inquietante tra due donne profondamente diverse, ma forse complementari, (forse addirittura entrambe specchio e riflesso dell’autrice) sono al centro di L’onesta bugiarda (titolo originale Den ärliga bedragaren, 1982), di Tove Jansson, autrice finlandese, della minoranza che scrive in lingua svedese. Edito in Italia questo ottobre in una nuova edizione da Iperborea e tradotto da Carmen Giorgetti Cima, L’onesta bugiarda è un romanzo psicologico e introspettivo, dalle insolite cadenze del thriller, che scava nelle dinamiche misteriose che legano i due personaggi principali, due donne, una anziana, e una giovane: Anna Aemelin, una sensibile illustratrice di libri per bambini che passa il suo tempo a dipingere con gli acquarelli boschi e conigli, ricevendo tante lettere dai suoi piccoli fan, e Katri Kling, una giovane donna enigmatica e scontrosa, caratterizzata da inquietanti occhi gialli da strega, nota per la sua intransigenza morale e la sua eccessiva e provocatoria sincerità, (non mente mai nemmeno per convenzioni sociali), che vive con un fratello disabile e un pastore tedesco senza nome. Anna Aemelin abita da sola in una grande casa, simile a un coniglio, che attira subito l’interesse di Katri che vorrebbe viverci con il fratello e inizia così a coltivare questa strana amicizia che Anna ricambia incapace di dire no alle persone. Anna vive ancora legata all’infanzia, ai suoi genitori, al suo mondo interiore fantastico e immerso nelle atmosfere fiabesche dei suoi disegni. Katri è invece razionale, pratica, forse anche calcolatrice, legata ai soldi e alla materialità del vivere. Due mondi psicologicamente in antitesi che si incontrano per vincere la grande solitudine che le accomuna. Abbandonata la letteratura per l’infanzia, celebre il suo mondo incantato dei Mumin, Tove Jansson ci presenta un romanzo per lettori adulti, caratterizzato da una lingua evocativa, elegante, e intrisa di sentimenti contrastanti, ma capace di suscitare interrogativi profondi sull’esistenza, sull’ambivalenza dei gesti quotidiani, sulla capacità di ferire la sensibilità altrui anche quando non lo si vorrebbe. Ma chi è l’onesta bugiarda del titolo? Forse lo sono entrambe le protagoniste in una profonda riflessione su cosa sia la verità, sempre mutevole e mai definitiva, e quanto la sincerità a tutti i costi non sia sempre un valore positivo, ma possa ferire appunto o diventare uno strumento di controllo, di manipolazione e di dominio. È una lettura lenta, sinuosa, cadenzata, priva di reali scossoni o colpi di scena, ma ricca di dettagli minimi, di impalpabile ricchezza espositiva che riflette un mondo interiore in perenne mutamento. Anche la descrizione della natura arricchisce di bellezza la narrazione con i suoi boschi oscuri e misteriosi e la sua neve perenne che congela un mondo di sentimenti inespressi, in cui le parole non sempre servono a comunicare, e di vulnerabilità. Anche fuori dalla letteratura per l’infanzia, Tove Jansson sa far sentire la sua voce, netta, precisa, autentica, forse più parlandoci di sé stessa che dei suoi personaggi. Molto amato da Ursula K. Le Guin. Da riscoprire. Postfazione di: Arianna Giorgia Bonazzi, immagine di copertina di Dee Nickerson.

Padre scultore e madre illustratrice, Tove Jansson (1914-2001) cresce tra una vivace casa-atelier di Helsinki e un solitario e avventuroso isolotto dell’arcipelago finlandese. Il mondo d’arte e fantasia dell’infanzia nutre la sua vocazione di pittrice, vignettista e scrittrice e le ispira la serie di libri sui Mumin, oggi un classico di culto noto e amato in tutto il mondo. Con lo stesso spirito, ironico e poetico, acuto e dissacrante, si è rivolta anche agli adulti. Iperborea ha pubblicato La barca e io, Viaggio con bagaglio leggero, Fair Play, Campo di pietra e il best-seller Il libro dell’estate. È inoltre in corso di pubblicazione per Iperborea l’intera serie delle strisce dei Mumin e una collana speciale di albi illustrati tratti dalle loro storie più celebri.

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Leggi l’incipit

:: Anima risorta di Christopher Moore (Elliot Edizioni 2025) a cura di Valentina Demelas

24 settembre 2025

Anima risorta, pubblicato in Italia da Elliot Edizioni, è l’ennesima conferma della verve creativa di Christopher Moore, autore americano che ha costruito la sua fama sulla capacità di intrecciare generi e abbattere barriere narrative. Qui Moore osa ancora di più, mescolando realtà storica e invenzione fantastica in un romanzo che diverte, sorprende e stimola.

Siamo nel 1911 a Vienna, capitale culturale, crocevia di artisti, psicoanalisti e intellettuali. È qui che Gustav Klimt, il pittore simbolista più celebre dell’Impero Austro-Ungarico – protagonista della Belle Époque – scorge nel Danubio un corpo femminile nudo. Lo osserva galleggiare, tuttavia, invece di avvisare la polizia, cede alla tentazione artistica: prima vuole ritrarlo. E proprio mentre abbozza il disegno, un colpo di tosse lo sorprende: la donna è viva. L’artista la porta nel suo studio, dove, insieme alla sua modella e musa Wally, si prende cura di lei.

La ragazza appare selvaggia, priva di ricordi e incapace di spiegare come sia finita in acqua. Il pittore decide di chiamarla Judith, come una delle protagoniste dei suoi dipinti più celebri, e si impegna ad aiutarla a recuperare la memoria.

Per farlo si affida a Sigmund Freud e Carl Jung. Grazie alle loro sedute, Judith ricorda un passato incredibile: cento anni prima era stata rinchiusa in una cassa e abbandonata tra i ghiacci artici da un uomo di nome Victor Frankenstein. Non solo: racconta anche di un viaggio all’Inferno. Resta da capire come sia finita nelle acque del Danubio e perché in tanti le diano la caccia. Tra questi spicca Geoff, un enorme cane-diavolo del Nord con un’insolita passione per i croissant.

Con Anima risorta – già bestseller del New York Times, caldamente consigliato e definito in Italia da numerose voci autorevoli ed entusiaste ironico, dissacrante, spassoso, irresistibile – Christopher Moore firma uno dei suoi romanzi più folli ed esilaranti, dove arte, psicoanalisi e fantastico si mescolano in una trama imprevedibile.

Il romanzo scivola tra noir, fantasy e commedia, mantenendo però una logica interna coerente nella sua follia.

Il fascino di Anima risorta sta nella sua capacità di unire cultura e intrattenimento, e nei dialoghi superlativi. Moore alterna gag surreali a riflessioni sull’arte simbolista e sulla nascita della psicoterapia. Tra cameo di Egon Schiele, Oskar Kokoschka e Alma Mahler, la Vienna fin de siècle prende vita, in una tessitura sapiente di aspetti affascinanti e sorprendenti. Non mancano riflessioni più profonde: identità, memoria, conflitto tra Eros e Thanatos. È una comicità intelligente, acuta, che diverte, ma che non rinuncia alla sostanza.

Moore non elude nemmeno i lati oscuri dell’epoca: il sessismo dell’ambiente artistico, le ossessioni di Freud, la discutibile disinvoltura di Klimt e Schiele. Ma tutto viene filtrato dall’ironia, senza moralismi. Tra tutti i personaggi, senza dubbio spicca Wally Neuzil, ritratta come figura vivace e indipendente, che aggiunge al romanzo una nota quasi femminista.

Certo, la generosità narrativa può sembrare eccessiva: circa quattrocento pagine piene di colpi di scena, digressioni e trovate. Non è un libro per chi ama trame lineari e sobrie, ma una giostra impazzita dove l’incredulità va sospesa. Chi accetta il gioco si ritrova immerso in un luna park letterario adorabile e assolutamente originale.

Anima risorta è una scommessa vinta. Un romanzo raffinato e folle, colto e godibile, che conferma Moore come uno degli artisti più brillanti della narrativa contemporanea. La traduzione brillante ed esperta di Gianluca Testani restituisce ritmo e ironia, rendendo accessibile al lettore italiano la voce originale dell’autore. Un libro consigliato a chi cerca una lettura fuori dall’ordinario: un’avventura letteraria che ricorda quanto l’arte e l’umorismo siano antidoti indispensabili al peso del reale.

Christopher Moore,nato nel 1957 in Ohio, vive a San Francisco. È autore di sedici romanzi di grande successo internazionale, tutti editi da Elliot, e ha vinto per due volte di seguito il Quill Award.

Source: libro gentilmente donato dall’editore, ringraziamo l’ufficio stampaElliot Edizioni.

:: Il gigante, Edna Ferber, (Astoria 2025) A cura di Viviana Filippini

28 luglio 2025

“Il gigante”, romanzo di Edna Ferber, uscito per la prima volta nel 1949 arriva in libreria grazie alla collana narrativa vintage, proposta dalla casa editrice Astoria.  In realtà lo si conosce forse più per l’omonimo film uscito nel 1956 diretto da George Stevens, con Rock Hudson, Elizabeth Taylor e James Dean, alla sua ultima apparizione cinematografica, visto che morì pochi mesi dopo, nel settembre del 1955, in un tremendo incidente stradale. Il libro è un ritratto della provincia americana, in particolare del Texas. Il protagonista è Jordan Bick Benedict che perde la testa per Leslie Linnon. Tra Bick, appartenente ad una ricca famiglia di allevatori texani, e la moglie ci sarà sempre amore, ci saranno anche dei figli, ma non mancheranno degli intoppi, soprattutto all’inizio della loro convivenza. Grazie al suo fascino del Maryland, Leslie riuscirà a conquistare tutti e ad appianare gli screzi. Alcuni ostacoli deriveranno dalla diversità della visione della vita, più provinciale per Bick e per tutta la sua grande famiglia fortemente attaccata al Texas, e più cittadina da parte di Leslie, che imparerà pian piano a conoscere e accettare il mondo del marito, molto diverso da quello dove lei è nata e cresciuta. Oltre alla coppia c’è la numerosa famiglia di Bick, la sorella Luz, Jett Ritt che è un dipendente della famiglia Benedict, un po’ sbruffone, sopra le righe, con una passione segreta per Leslie e la voglia di diventare come i suoi datori di lavoro. Il giovanotto vedrà cambiare in modo radicale la propria esistenza nel momento in cui riceverà in eredità un pezzo di terreno e troverà là sotto l’oro nero (petrolio), quell’oro nero che Bick non ha mai considerato fino in fondo.  Il romanzo della Ferber, che va dagli anni Venti del 1900 fino alla Seconda Guerra Mondiale, non è solo un ritratto della vita, usi e costumi del Texas, ma è un’indagine anche in quelli che sono i caratteri umani dei personaggi protagonisti con Benedict fortemente radicato nel suo  mondo, nel suo passato e in quello che gli hanno trasmesso i suoi avi e che lui stesso vorrebbe trasmettere ai figli. Dall’altra parte Leslie, che vuole conoscere in modo profondo il Texas, tanto amato dal marito, anche se non sarà lui ad aiutarla in queto, ma l’incasinato Jett Ritt. Questo approfondire il nuovo contesto non reciderà il rapporto della donna con il suo passato, anzi esso resterà sempre vivo, ed è quello che la sosterrà fino al grande e radicale cambiamento nella famiglia Benedict, con le scelte dei figli, che non prenderanno le redini dell’azienda di famiglia. Jordan, il maggiore deciderà di fare il medico e sposerà Juana, un’infermiera messicana. Judy, la sorella minore, sposerà invece il fidanzato di sempre Bob, un vero texano, con il quale avvierà una fattoria tutta loro, invece di riprendere la gestione della proprietà familiare. Vere e proprie rotture di schemi tradizionali che rappresentano un colpo tremendo per il loro padre Bick, mentre sono una svolta decisiva al cambiamento per la madre Leslie. Poi c’è lui, Jett Ritt, sì sbruffone, sì in crisi con ogni moglie sposata, ma è la rappresentazione di colui che punta alla scalata sociale, a diventare come – e più potente- dei suoi datori di lavoro. Con una ricchezza conquistata e ostentata, in realtà in lui si nascondono un dolore e una infelicità di fondo data dall’impossibilità di ricevere amore dalla persona che ama, perché sposata ad un altro (Leslie). “Il gigante”, romanzo di Edna Ferber, è uno sguardo sull’America degli inizi del Novecento dove la tradizione si dovrà, anno dopo anno, confrontare con una nuova visione del mondo data dalle generazioni più giovani non sempre disposte a restare legate al mondo dal quale arrivano, ma pronte a fare il salto e ad affrontare difficoltà, nel caso si presentassero, per un domani nuovo tutto da costruire.

Edna Ferber nasce a Kalamazoo, Michigan, nel 1885, ma ancora molto giovane si trasferisce nel Wisconsin. Diventata giornalista a soli diciassette anni, pubblica il suo primo romanzo nel 1911 e raggiunge subito una grande popolarità. Negli anni ’20 scrive alcune commedie di enorme successo, che vengono messe in scena a Broadway, e nel 1925 ottiene il premio Pulitzer con il romanzo So big. Una storia americana, che viene poi adattato per il cinema, proprio come accadrà con Il gigante, su cui è basato il leggendario film di George Stevens con Rock Hudson nella parte di Bick, Elizabeth Taylor in quella di Leslie e James Dean in quella di Jett, la sua ultima, grande interpretazione prima dell’incidente stradale in cui perderà la vita, a soli ventiquattro anni. Ferber muore a New York nel 1968, ma le sue opere sono ristampate e ammirate ancora oggi. Donna schietta e dalle opinioni forti, è stata definita dal New York Times “la più grande scrittrice americana della sua epoca”. (Fonte Astoria edizioni)

Source: richiesto all’editore.

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:: La mia più oscura preghiera di S.A. Cosby (Rizzoli 2025) di Patrizia Debicke

24 Maggio 2025

“La mia più oscura preghiera” tradotto da Giuseppe Manuel Brescia, è  il thriller d’esordio che ha fatto giudicare dalla critica  S.A. Cosby un potenziale  maestro del genere, lanciandolo subito sul mercato americano e  internazionale.
La storia è ambientata a Queen County,  Virginia, paese di origine di Cosby. Con questo romanzo , S.A. Cosby inserisce subito il lettore nel cuore oscuro del Sud degli Stati Uniti, in una storia feroce e serrata, piena di personaggi che si muovono  tra crimine, redenzione e violenza.
“Mi occupo dei cadaveri” è il biglietto di presentazione di Nathan Waymake. Risponde così infatti  quando gli chiedono quale sia la sua occupazione. Ma chi lo conosce meglio sa che è molto più che un becchino. Sì certo, sa come trattare con i cadaveri visto che, quando non fa a botte con la teppa locale, lavora a tempo pieno nell’impresa di pompe funebri di suo cugino.
Ex marine, ex vice sceriffo, figlio di una coppia mista, padre bianco e madre di colore, ha dato le dimissioni per comprensibili e tragici motivi personali, ciò nondimeno si è costruito nella cittadina  del Sud dove è cresciuto, la reputazione in essere una persona retta in grado di aiutare la gente quando le altre strade non sono percorribili. Non è certo una persona che va in cerca di guai, ma purtroppo sembra che invece quelli stiano sempre là acquattati dietro l’angolo pronti ad acciuffarlo.
E infatti quando un amatissimo pastore locale, il criticato Reverendo Esau Watkins, meglio noto come E-Money per la capacità di spillare denaro ai fedeli con la sua Chiesa Battista della Nuova Speranza, due degnissime parrocchiane le signore Parrish e Sheer, si rivolgono a lui per chiedergli  di svolgere un’indagine privata sulle vere cause di quella morte, visto che la polizia pare stia facendo ben poco, le starà a sentire. Loro non credono che il pastore si sia suicidato, e tutte le prove suggeriscono che probabilmente hanno ragione.  Anzi addirittura pare che gli inquirenti locali stiano  tentando di far passare un omicidio per suicidio. Insomma, secondo le due signore, Nat dovrebbe impedire che la morte del religioso venga insabbiata dalla polizia. Ma a Queen County, Virginia, la locale giustizia ha molte facce e quasi nessuna pulita.  
Restio e dubbioso all’inizio, Nat accetterà tuttavia di fare qualche domanda allo sceriffo.
Quella che sembrava poco più che una chiacchierata informativa, un lavoretto facile, facile si trasformerà invece in poco tempo  in un’intricata e caotica  spirale di orrori nei più sporchi meandri della provincia americana, tra gangster dilettanti, spietati signori del crimine, affascinanti porno star, poliziotti corrotti, orge sfrenate,  dark ladies  e uno straricco,  prestigioso ma temibile  predicatore.
Mentre gli intrighi  da sbrogliare si diramano sfociando  in mille rivoli  Nathan, convivendo con  i fantasmi del proprio passato, dovrà muoversi con destrezza  gestendo le invasive ombre della corruzione , per portare alla luce tutta il marciume che molti dei potenti di  Queen Country vorrebbero venisse  definitivamente sepolto al cimitero con il pastore Watkins.
Perché a Queen County tutto si paga, e il prezzo della verità sembra essere il più alto di tutti. Qualcuno di molto più pericoloso ha addirittura messo Nathan nel mirino e il costo da pagare per le  sue indagini potrebbe salire talmente tanto da rivelarsi fatale.
Narrato in prima persona dal suo punto di vista, ci consente di cogliere la vera essenza del personaggio, dell’uomo, sia nei suoi difetti che nei suoi pregi. Ha in sé qualcosa di speciale, qualcosa che risalta con prepotenza facendo sì che la gente nei suoi confronti provi contemporaneamente attrazione e timore.
Un romanzo “La mia più oscura preghiera” condotto in costante tensione o con la minacciosa  sensazione, continuamente interrotta sia da episodi di violenza che da essere  sotto tiro.
Una trama con un retroscena cupo, pieno di sesso e volgarità, ma adeguato sia all’ambientazione che alle circostanze.
S.A. Cosby usa la scrittura in modo brillante atto anche a ricreare la realtà dell’ambientazione, le larghe  divisioni in città tra chi ha e chi non ha. Quello stacco o meglio largo divario che esiste tra le linee di discriminazione razziale e la subdola corruzione esercitata dalle persone in  possesso sia del denaro che del potere.
Ma non tutto della storia è buio e negativo, ogni tanto nelle pagine traspare  persino un velo di humour e alcune scene mi hanno fatto addirittura sorridere. Mi piace la dinamica dei rapporti  tra Nathan e Skunk, un vero amico e fidato killer a pagamento. Mi piace come interagiscono, l’assoluta comprensione e la fiducia reciproca  tra loro e ho apprezzato l’approccio concreto e sobrio di Skunk a ogni situazione.
All’inizio pur non calando mai di ritmo, quando le motivazioni di Nathan erano solo fondate sul guadagno, si notava come  un certo distacco  tra  lui e l’indagine ma verso la fine, quando ci avviciniamo rapidamente alla drammatica conclusione, la tensione e il suo diretto  coinvolgimento emotivo decollano,  arrivando quasi alle stelle.   

S.A. Cosby è uno scrittore statunitense, originario della Virginia. È autore di quattro romanzi e diversi racconti pubblicati su importanti riviste e raccolti in antologie. Per il racconto The Grass Beneath My Feet ha vinto nel 2019 l’Anthony Award for Best Short Story. Prima di ottenere successo come scrittore ha fatto diversi lavori tra cui il buttafuori, l’operaio, il giardiniere, il montatore di palchi e l’addetto alle pompe funebri. È un appassionato escursionista e giocatore di scacchi. Per Deserto d’asfalto (Nutrimenti 2021) ha vinto il Los Angeles Times Book Prize 2020 nella categoria Mystery/thriller. Sia di Deserto d’asfalto che del suo successivo romanzo Razorblade Tears.

:: Città in rovine di Don Winslow (HarperCollins 2024) a cura di Valerio Calzolaio

22 aprile 2024

Las Vegas, Nevada. Giugno 1997 – fine 1998. Danny Ryan, cuore tenero e spalle larghe, un metro e ottantatre, capelli castani ribelli verso il rossiccio, ormai è quasi quarantenne. Abbiamo già seguito le sue vicende tumultuose, prima fra l’agosto 1986 e il Natale 1988, poi dalla fine del 1988 all’aprile 1991, sopravvissuto a stento. Lo ritroviamo socio multimilionario e responsabile di fatto di due hotel sulla Strip di Las Vegas, una villa in città e uno chalet nello Utah, però scontento, vuole di più, gli piace progettare e intende mantenere lontani da sé e da tutti i ricordi del proprio passato, continuando a non rimescolarsi con le mafie attive. Duramente ferito dalla perdita dei due grandi amori della vita, morti giovani la moglie Terri (per malattia) e l’attrice Diane (suicida), ora frequenta con reciproco piacere in una stabile relazione, segreta per reciproca scelta, la bella introversa psicologa ebrea Eden Landau, capelli neri, labbra piene, occhi luminosi, divertente spiritosa affascinante, appagata dai tanti studenti e pazienti, gran lettrice a sua differenza. Il figlio Ian ha dieci anni, sta spesso con la potente regale nonna Madeleine McKay, riceve per la gran festa di compleanno una mountain bike e la promessa di una settimana intera fuori casa, solo con il padre, in macchina, in bicicletta e a piedi, in campeggio mangiando cibi spazzatura in ristoranti e fast food. Danny si destreggia fra i due partiti statunitensi con regalie e mediazioni, pur di non essere indagato e di poter comprare nuovi alberghi da ristrutturare per costruire sogni. La concorrenza e la lotta si fanno più aspre, molti reclamano colpi duri e bassi oltre che di fioretto; ricompaiono antichi complici criminali, sodali mafiosi e potenti Dea-Fbi; vengono richiamate squadre e assoldati killer; molto si frantuma, la vita si fa rischiosa per tutti, gli omicidi risorgono a grappoli; i processi e le storie del New England e della California non sono mai finite, dai sogni restano rovine. Forse. Lo scopriremo in una coda del 2023.

Terzo magnifico atto della trilogia in due anni (tutta scritta col medesimo elegante incedere, ora quieto ora adrenalinico) dell’eccelso scrittore americano Don Winslow (New York, 1953) che all’uscita del primo repentinamente annunciò (e sempre confermato) il successivo ritiro dalle scene letterarie. Il libro è disponibile in contemporanea in decine di paesi, subito avanti nelle classifiche, a primavera 2024 Winslow sta gioendo per il notevole successo di critica e di pubblico in un ultimo giro di presentazioni per Usa ed Europa (anche Italia), mentre si sfinisce dedicandosi giustamente a tempo pieno a impedire la possibile rielezione di Trump nel 2024. Gli e ci appare sempre più urgente e difficile. Come spesso in precedenza, la narrazione è in terza varia al presente, anche qui vi sono tre parti (“La festa di compleanno di Ian” fino all’acquisto del cruciale albergo Lavinia; “I poteri dell’inferno”, dalla vendetta escogitata dalla vicedirettrice FBI all’accidentale morte del figlio del rivale; “Le regole della giustizia” sui tanti mesi delle guerre giudiziarie, finanziarie e materiali); le prime due con esergo tratto dall’Eneide di Virgilio, mentre nella terza parte ci sono Le Eumenidi di Eschilo (anche queste terze della finale trilogia), decisamente noir; l’epilogo è ancora con Virgilio (contemporaneo e a Casa); ognuna con vari capitoli (in tutto centodue, molti brevissimi) e ficcanti dialoghi, che ricostruiscono quanto trascorso dai vari punti di vista e seguono in diretta i tanti personaggi su molteplici scene e fronti. Volutamente, niente di esatto storicamente, tutto plausibile venticinque anni fa, minuziosamente basato sulla classica antichissima epopea di Enea. Di continuo l’autore dispensa efficaci misurati coinvolgenti inserti biografici, funzionali alla storia (Stavros è diabetico), in particolare anche qui su personalità cruciali nel dipanarsi degli eventi, spesso donne. Eden sa che Danny è innamorato del proprio dolore, attaccato al romanticismo delle sue tragedie; sono la sua definizione di sé, che se ne renda conto o meno; non si libererà mai della sua tristezza, non saprebbe cosa fare. Non è il solo. Vino rosso, birra o whisky, dipende. Per riflettere il notturno di Chopin; non per Danny affascinato dal più grande poeta americano contemporaneo, il boss Bruce Springsteen. Su Winslow ho scritto saggi (fra l’altro sul magazine scientifico patavino: https://ilbolive.unipd.it/it/news/don-winslow-alta-letteratura-politica-quotidiana-1, https://ilbolive.unipd.it/it/news/don-winslow-alta-letteratura-crime-politica), intanto il terzo non è meno capolavoro del primo e del secondo, pur ormai con qualche ripetizione di stile. Imprescindibile, da leggere. Finirà presto sugli schermi.

Don Winslow. Ex investigatore privato, esperto di antiterrorismo e consulente giuridico, è l’autore di ventidue romanzi che sono diventati bestseller mondiali vincendo innumerevoli premi. Tra le sue opere spiccano Corruzione, Il cartello, Il potere del cane, L’inverno di Frankie Machine e Le belve, da cui il premio Oscar Oliver Stone ha tratto l’omonimo film. Dalla trilogia con protagonista Art Keller (Il potere del cane, Il cartello e Il confine) sarà tratta un’importante serie tv, mentre il bestseller Corruzione sarà adattato per il grande schermo da 20th Century Studios. Vive tra la California e il Rhode Island. Con HarperCollins ha pubblicato Broken, La lingua del fuoco e Morte e vita di Bobby Z.

:: Le spietate di Claudia Cravens (NN editore 2024) a cura di Fabio Orrico

18 marzo 2024

Il western, come sappiamo, vive di mitologemi inesauribili, situazioni e codici capaci di rigenerarsi pur restando riconoscibili. Certo, quanto detto vale per tutti i generi ma forse le grandi narrazioni sulla conquista dell’ovest poggiano su un apparato iconico che non ha precedenti, capace di porsi trasversalmente a molte forme dell’immaginario collettivo (quanto western c’è, per dire, nella saga di Star wars?). D’altra parte, proprio coloro i quali hanno dettato le regole hanno anche saputo trasgredirle. Penso, sul piano cinematografico, al ribaltamento visivo operato da John Ford nel miliare L’uomo che uccise Liberty Valance, in cui agli esterni della wilderness si sostituivano le pareti di un ristorante, il tracciato urbano e infine le sale rumorose della politica.

Un’operazione non dissimile viene tentata da Claudia Cravens nel suo romanzo d’esordio Le spietate (in originale Lucky red ma l’edizione italiana cerca, non senza ragioni, l’aggancio col classico contemporaneo di Eastwood Gli spietati): questa volta osserviamo l’epopea dell’ovest dalle finestre di una casa di tolleranza, topos non solo del western: a questo proposito, se volessimo continuare con le analogie cinema- letteratura, non potremmo non citare Maupassant. Se Boule de suif era il sottotesto di La diligenza per Lordsburg di Ernest Haycox poi tradotto in cinema da Ford nel suo celeberrimo Ombre rosse, qui potremmo fare riferimento a La maison Tellier, racconto maupassantiano che aveva al centro proprio un gruppo di prostitute raccontate nella quotidianità della loro casa d’appuntamenti. Cravens sceglie un bordello di alto profilo, ben frequentato perché sponsorizzato dalle autorità della città di Dodge city (altro luogo canonico, teatro tra le altre cose delle gesta di Wyatt Earp) come scena primaria per l’apprendistato di Bridget Shaughnessy, sedicenne dai capelli rossi, orfana forte solo della propria bellezza e intraprendenza. Dopo un incipit nel quale Cravens ci racconta la vita randagia di Bridget, vittima di un padre avventuriero destinato a fare una brutta fine, ecco che l’autrice fa reagire chimicamente il suo personaggio al contesto cittadino che la accoglie con inesorabile indifferenza dopo il suo vagare per lande desolate. Cosa può fare una ragazza sola per sbarcare il lunario se non usare i pochi mezzi sopra elencati? Lila e Kate, l’una più materna l’altra più brusca, entrambe maitresse del Buffalo Queen, riconoscono il potenziale di Bridget e la avviano sulla strada della prostituzione. Cravens non indulge nemmeno per un momento a cliché melodrammatici; caratteristica principale della sua protagonista è, pur nell’inesperienza e nella paura, la ferrea volontà di autodeterminazione. Su queste basi è leggibile anche il suo rapporto con i maschi. Bridget ha successo, piace ai frequentatori della casa, siano essi semplici cowboy o uomini d’affari ma soprattutto stringe un legame con il vicesceriffo Jim Bonney, personaggio che riserverà qualche sorpresa.

In linea con certe linee guida della narrativa contemporanea, il coté action viene garantito da un altro personaggio femminile, forse il più dirompente del romanzo: la cacciatrice di taglie Spartan Lee, carismatica e letale, capace di far breccia nel cuore di Bridget. Anche da questi brevi cenni di trama è facile capire come Cravens ribalti i valori formali in campo, declinando al femminile un genere che il luogo comune vuole eminentemente maschile (anche se ci sarebbero ragioni per obiettare e in quantità).

Le spietate è prima di tutto un romanzo di formazione e lo è nei suoi assunti ed esiti più tipici poi anche un romanzo d’azione svolto principalmente su un set unico ma non per questo sprovvisto di varietà e movimento. Le istituzioni concentrazionarie si prestano felicemente alla metafora e sono perfette per raccontare l’intero mettendone in scena solo una parte. In più abbiamo a che fare con il sesso e il desiderio. Bridget dimostra un talento innato nella gestione di queste inclinazioni ed è brava a capitalizzare dipendenze e vizi. Sono tematiche particolarmente fertili che Cravens riesce a trattare senza morbosità, con uno sguardo lucido e capace di far fruttare gli spunti narrativi che incontra. Ancora una volta torna alla ribalta il randagismo della cultura statunitense, la difficoltà ma anche la necessità di mettere radici (o il rifiuto, come dimostra la parabola di Spartan Lee), torna il Grande Carnevale Americano ben sintetizzato dalla scena dell’esecuzione pubblica così come da quella della festa di paese, luogo di sintesi e analogie terribili perché date praticamente per scontate nel loro rituale di aggregazione sociale. Le spietate dimostra una volta di più come un genere fondativo e ultraclassico possa resistere a scossoni e deragliamenti, tanto da capovolgerne le strutture consolidate, come una foto stampata al negativo. Traduzione di Serena Daniele.

Claudia Cravens è una scrittrice americana laureata in Letteratura al Bard College, e vive a New York. Le spietate è il suo romanzo d’esordio.

:: Come un fiore di ciliegio nel vento di Etsu Inagaki Sugimoto (Giunti 2024) a cura di Giulietta Iannone

21 febbraio 2024

Come un fiore di ciliegio nel vento, titolo originale A daughter of the Samurai, è l’opera letteraria più conosciuta di Etsu Inagaki Sugimoto (1874-1950), un memoir ricco di fascino e poesia che raccoglie i ricordi di una donna straordinaria che ha vissuto tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento l’epoca di passaggio tra la fine del Giappone feudale e la modernità dell’Occidente con le sue libertà e la sua intraprendenza. Etsu nacque a Nagaoka nel profondo nord del Giappone, caratterizzato da inverni molto rigidi e nevosi in una famiglia di samurai di alto rango e visse la crisi di quel mondo e l’affacciarsi alla modernità. La rigida educazione impartita dal padre, temprata dalla dolcezza e dalla forza di carattere trasmessa dalla madre, le permetteranno di attraversare l’oceano e andare in sposa giovanissima a un amico del fratello trasferitosi negli Stati Uniti. Dal matrimonio con Matzuo Etsu avrà due figlie, Hanano e Chiyo, di cui dovrà occuparsi da sola alla morte del marito e al suo ritorno in Giappone come umile vedova. Ricco di aneddoti, ricordi, leggende buddiste e shintoiste e tocchi di vera poesia caratterizzata dal grande amore per la natura del popolo giapponese, questa autobiografia ci svela una cultura per molti versi ancora misteriosa fatta di riti, consuetudini e tradizioni, dove i sentimenti non sono meno autentici solo più velati e accennati e sorretti da un rigore morale che fa sempre prevalere il dovere e l’accettazione a regole e dettami alla propria individualità. Il culto degli antenati, gli insegnamenti di Confucio impartiti da un bonzo non impediscono a Etsu di diventare cristiana e abbracciare la nuova religione venuta dall’Occidente. Sintesi perfetta dell’incontro di due mondi la sua vita ci testimonia quanto Oriente e Occidente siano fatti per comprendersi e completarsi a vicenda. Oltre che per il valore storico anche il pregio letterario e artistico fa di questo romanzo autobiografico straordinario un’opera forse unica. Uscito nel 1925 a New York, arriva per la prima volta oggi in Italia tradotto da Roberta Zuppet.

Etsu Inagaki Sugimoto nasce in una famiglia di samurai all’indomani dell’era Meji, che vede il Giappone aprirsi al resto del mondo dopo secoli di isolamento. Ha ventiquattro anni quando un matrimonio combinato la porta negli Stati Uniti: è l’inizio di una nuova vita, lontana da tutto ciò che poteva immaginare, che la giovane donna affronta con grande determinazione. Nel corso degli anni Etsu comincia a scrivere articoli sul Giappone, prima per i giornali locali di Cincinnati, poi per il magazine Asia. Dopo aver trascorso un altro periodo nella sua terra natale, decide di stabilirsi definitivamente a New York, dove diventa docente di lingua e cultura giapponese presso la Columbia University. La sua opera più famosa resta A Daughter of the Samurai (1925), un classico della letteratura femminista qui proposto per la prima volta in Italia.

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:: ROBERT STONE: DOG SOLDIERS a cura di Fabio Orrico

30 ottobre 2023

Autore stimato e affermato nel suo paese, gli Stati Uniti, Robert Stone ha avuto scarsissima diffusione in Italia. Dopo la raccolta di racconti Orso e sua figlia, databile alla fine degli anni ’90, tradotta da Einaudi ma ormai fuori catalogo, l’unico altro suo libro attualmente disponibile è Dog soldiers, appena uscito per Minimum Fax, casa editrice come sappiamo attentissima alla letteratura statunitense. Stone viene giustamente collocato nella collana Classics a fianco di altri nomi illustri quali Yates, Robison, Beatty, Hawkes, O’Hara (e si potrebbe andare avanti a lungo perché l’editore romano nell’ultimo ventennio ha riportato in libreria firme a stelle e strisce imprescindibili). Peraltro, Dog soldiers è forse il più famoso tra i libri di Stone anche presso di noi grazie soprattutto alla (notevole) traduzione cinematografica I guerrieri dell’inferno ad opera di Karel Reisz.

Il romanzo è del 1975 e letto oggi, ben cinquant’anni dopo la sua pubblicazione, è impossibile non restare ammirati per la sintesi sapiente quanto del tutto naturale compiuta dall’autore su temi e interessi squisitamente americani. Dal reducismo che proprio in quel giro d’anni diventava una tematica assai presente al cinema (si pensi a opere centrali come Taxi driver e Il cacciatore) e che peraltro aveva già una sua tradizione forte nel noir del secondo dopoguerra alla celebrazione della vita on the road, l’impossibilità per l’homo americanus di riconoscersi stanziale, la continua ricerca di una fortuna che costringe a restare in perenne, nevrotico movimento e che non di rado passa attraverso il crimine. Stone, tra l’altro, fu amico di Ken Kesey, l’autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo, che lo introdusse al consumo di droghe, pratica che il Nostro imparò molto bene e che trasformò parte della sua vita, per dirla con le sue stesse parole, “in una festa cominciata nel 1963 e poi estesasi al mondo intero”. Tutto questo per dire che le reminiscenze della cultura beat, le istanze della controcultura poi raggrumatesi nei movimenti studenteschi, i neonati culti new age e il credito aperto verso le filosofie orientali intridono letteralmente le pagine di Dog soldiers e ne rappresentano vettori di grande importanza, tanto quanto la violenza, il disturbo da stress post traumatico che attanaglia i protagonisti e i codici hard boiled che Stone padroneggia con rara maestria, tenendosi intelligentemente lontano dai cliché.

Che cosa racconta Dog soldiers? John Converse, giornalista di area radicale, in Vietnam come inviato mette le mani su un grosso quantitativo di droga e decide di tentare il colpaccio: lo affida all’amico Ray Hicks, conradiana figura di avventuriero folle, chiedendogli di contrabbandarla in America e venderla con l’aiuto di sua moglie Marge, a sua volta tossicodipendente. Lui li raggiungerà poco dopo. Cosa può andare storto? Più o meno tutto, a cominciare da un terzetto di agenti della CIA sulle loro tracce e abituati a usare metodi assai brutali per ottenere ciò che vogliono. Questo l’intreccio limitato al suo scheletro, sfrondato di tutte le divagazioni che lo costellano. Sì, perché l’arte di Stone, almeno a giudicare da quest’opera, si fonda orgogliosamente sulla digressione. La prima parte ambientata in Vietnam sembra un Graham Greene sotto acido. Stone mette in scena la routine di uomini e donne febbricitanti nella mente e nel corpo, giornalisti, lestofanti, talmente imbottiti di droghe da reagire col minimo di sgomento pensabile di fronte all’esplosione di un edificio a pochi passi da loro. Quando poi l’azione si sposta in America, ecco che Stone non perde occasione per illuminare in profondità i suoi protagonisti perdendosi in lunghe e meticolose scene di dialogo, talmente dettagliate da restituirci l’aria del tempo, universalizzandola. La prosa di Stone è tanto essenziale quanto sardonica e i suoi personaggi, sballati e cupamente inclini a perdersi, sono anche persone colte, dalle buone letture (Hicks compulsa Nietzsche come fosse un oracolo) e ragionano in termini filosofici di fronte alle armi da fuoco spianate (per esempio, ecco una riflessione di Converse sotto un bombardamento vietcong: “Intuì che il mondo fisico, ordinario, che attraversiamo vagando distratti e pigri andando incontro all’inesistenza, poteva assumere la forma di un potentissimo strumento di morte e di tortura, in qualunque momento e senza preavviso. L’esistenza era una trappola; la pazienza già traballante dello stato delle cose poteva esaurirsi in qualsiasi istante”). Anche la parentesi romantica fra Hicks e Marge viene risolta sbrigativamente, in modo quasi accessorio ma non per questo si rivelerà meno intensa per la risoluzione del plot. Hicks, in particolare, si rivela un personaggio strepitoso, coerentemente bigger than life, uno psicopatico con cui è molto difficile empatizzare (e in questo si gioca forse la differenza più sensibile con la sua incarnazione di celluloide Nick Nolte, peraltro maiuscolo) ma ancorato a un suo codice d’onore e con una visione quasi spirituale dell’esistenza.

Dog soldiers è un romanzo che riesce a essere incalzante pur nei suoi, studiatissimi, rallentamenti di trama, capace di darci il quadro di un’epoca senza pedanterie e insieme è una storia di avidità e ferocia, in pratica ciò che muove il mondo. C’è solo da augurarsi di trovare presto altri titoli di Robert Stone sugli scaffali delle nostre librerie. Traduzione Dante Impieri.

Robert Stone (1937- 2015) è una delle voci più rappresentative del dopoguerra americano. Influenzato da Conrad e Hemingway, spesso associato anche al gruppo dei Merry Pranksters, Stone ha scritto otto romanzi, due raccolte di racconti e un memoir. Le sue opere gli sono valse una candidatura al pen/Faulkner Award, due al Premio Pulitzer e cinque al National Book Award, ottenuto nel 1975 con Dog Soldiers. Minimum fax pubblicherà anche A Hallof Mirrors, Damascus Gate e la raccolta di saggi The Eye You See With.

:: Schwarzenegger, Renditi utile, da oggi in libreria

10 ottobre 2023

Il successo non è questione di fortuna, salvo rare eccezioni. Lo sa bene Arnold Schwarzenegger, che nella vita ha raggiunto sempre il massimo livello in ogni campo in cui si sia messo alla prova. La sua storia inizia il giorno in cui lascia l’Austria per volare in America, con soli duecento dollari in borsa ma un piano ben chiaro in testa. Il suo successo straordinario è il risultato di una visione chiara del proprio futuro, duro lavoro, insaziabile curiosità e la capacità strategica di valorizzare i propri talenti.
Per arrivare esattamente dove si era proposto Schwarzenegger ha fatto suo l’insegnamento del padre, un invito semplice e al tempo stesso miracoloso: renditi utile, a quante più persone possibile e a te stesso prima di tutto. Spaziando da René Girard a Marco Aurelio, passando per lo stoicismo di Epitteto fino ai sorprendenti aneddoti sulla sua vita, Arnold Schwarzenegger compone un vero e proprio Tao dell’autorealizzazione personale che, con poche chiacchiere e molti fatti, si propone di aiutare i lettori a cambiare vita cambiando mentalità.

Arnold Schwarzenegger (1947, Thal) austriaco d’origine, è emigrato in America poco più che ventenne con pochissimi mezzi e ha costruito con determinazione un impero milionario: dai successi nel bodybuilding fino ai ruoli da protagonista in film cult come Terminator e Conan il barbaro e poi il successo in politica come governatore della California, Schwarzenegger è uno dei volti più iconici della storia recente. Sempre disposto ad esporsi su temi sociali anche in aperto scontro con la sua stessa parte politica, oggi continua a lavorare a diversi progetti per piccolo e grande schermo anche come producer: del 2023 la docuserie Arnold e la serie action FUBAR, entrambe su Netflix.

:: Costruisci la tua casa intorno al mio corpo di Violet Kupersmith (NN editore 2023) a cura di Fabio Orrico

15 marzo 2023

Spesso la nozione di genere è un fardello, un qualcosa di troppo se forzatamente applicato a determinate narrazioni. Allo stesso modo, esistono romanzi che, pur esondando da etichette e mode, rispondono con intelligenza alla logica di genere ma rifiutando di accoglierla in toto e piuttosto facendone uso soltanto laddove lo si ritiene utile. Mi sembra che l’esordio della giovane (classe ’89) quanto talentuosa Violet Kupersmith si muova proprio in questa direzione. Innanzitutto, il titolo, bellissimo e labirintico: Costruisci la tua casa intorno al mio corpo, un titolo interlocutorio e assertivo e insieme una sorta di invocazione al gesto pensante del lettore. Il romanzo di Kupersmith (d’ora in poi per comodità taglio il titolo riducendolo alla prima parola, Costruisci) lavora ostinatamente sul concetto di confine. Non sono confini geografici, che sarebbe il minimo, visto che Winnie, la ragazza al centro della storia, lascia l’America per raggiungere il Vietnam e spostarsi occasionalmente in Cambogia. Il confine che più significativamente tratta Kupersmith è un confine fisico e riguarda il proprio corpo, l’ultimo strato di pelle che ci protegge dalle insidie del mondo; il confine della propria scatola cranica che segna il passo prima che pensieri impossibili si impadroniscano della nostra volontà raziocinante. Ho cominciato parlando di genere perché qui abbiamo topoi fieramente branditi ma anche questi a rischio di continuo sconfinamento. Il romanzo di formazione si fonde con l’horror o con una più generica atmosfera da urban fantasy e allo stesso tempo non credo sarebbe sbagliato definire Costruisci come una lunga e stratificata ghost story in cui i fantasmi, tale è la potenza della prosa di Kupersmith, sembrano principalmente trovarsi fra le persone vive.

La scrittura dell’autrice, americana di origine vietnamita esattamente come la sua protagonista, è rarefatta e vischiosa; leggere le vicende di Winnie in terra straniera restituisce a noi lettori lo stesso spaesamento della ragazza e in questo senso l’autrice raggiunge vette di autentico virtuosismo descrittivo: l’evocazione della routine vietnamita, gli scorci di uno Saigon a tratti immobile a tratti sincopata, sono punti di forza del romanzo e forse rappresentano anche il mezzo più efficace per tenere insieme una trama che tende naturalmente alla digressione se non addirittura alla dissipazione. Se infatti possiamo rintracciare in Winnie e la sua improvvisa scomparsa il cuore della narrazione, dobbiamo tenere a mente che Costruisci è un romanzo corale, una storia di storie, che attraversa almeno settant’anni di cronaca vietnamita, colonialismo, guerra, assetti politici mutati e soprattutto un profondissimo senso del folklore che apre la porta a visioni orrorifiche. Bisogna fare attenzione a parlare di Costruisci e non perché, banalmente, si rischia di spoilerare parti della trama, quanto perché i colpi di scena non sono messi lì per sorprendere il lettore ma semmai per misurare la tenuta della sua sospensione dell’incredulità, la sua propensione a lasciarsi trascinare da un continuum di avvenimenti radicati in una cultura di cui tutto sommato, almeno nelle nostre contrade, si sa poco. Violet Kupersmith, infatti, attraverso l’odissea di Winnie, sembra voler fare i conti con le proprie radici a tutti i livelli, culturali ma anche naturali e in questo senso non può essere un caso l’insistenza con cui ci viene descritta la natura vietnamita. Organizzato per imponenti blocchi narrativi, sostenuti da una suspense discreta quanto ammorbante, Costruisci definisce il ritratto di una giovane donna a partire dal suo scomparire. Da lì in poi sarà solo indagine, ricordo, rievocazione, il tutto incastrato in almeno altre tre linee narrative di pari importanza e teletrasportate lungo il novecento asiatico per oltre quattrocento pagine. È un romanzo, Costruisci la tua casa intorno al mio corpo, che pretende attenzione dal suo lettore ma che sa rifonderlo con gli interessi in termini di suggestione e malìa.

Violet Kupersmith (1989) è una scrittrice americana di origine vietnamita. Tra il 2011 e il 2015 ha vissuto in diverse città del Vietnam, e nel 2014 ha esordito con la raccolta di racconti The Frangipani Hotel. Tra il 2015 e il 2016 è stata “creative writing fellow” alla University of East Anglia, mentre nel 2022 ha ricevuto la fellowship del National Endownment for the Arts. Selezionato per il First Novel Prize del Center for Fiction, per il Women’s Prize for Fiction, e vincitore del Bard Fiction Prize, Costruisci la tua casa intorno al mio corpo è il suo primo romanzo.

Source: libro inviato dall’editore al recensore. Ringraziamo Francesca Ufficio stampa NN.

:: MAGGIE. RAGAZZA DI STRADA E ALTRE STORIE NEWYORKESI di Stephen Crane (Rogas Edizioni 2022) a cura di Giulietta Iannone

20 novembre 2022

Maggie. Ragazza di strada è uno dei grandi romanzi che chiudono l’Ottocento americano, ma che, per temi trattati e tecniche stilistiche, si proietta ormai ben dentro il Novecento. La storia è quella di di una ragazza dei bassifondi newyorkesi, operaia in una fabbrica di colletti e polsini, con un retroterra familiare disastrato, fra povertà, violenza e alcolismo. La conoscenza di Pete l’illude di potersi staccare da quell’ambiente: ma Pete non è il bianco cavaliere che lei crede…Accompagnano questa nuova edizione italiana del romanzo alcune «storie newyorkesi» che Crane scrisse negli anni intorno a Maggie e che confermano la sua qualità di scrittore e interprete della nuova realtà metropolitana.

E’ sorprendente che un autore ottocentesco possa essere così moderno. Leggendo Maggie. Ragazza di strada, romanzo breve di Stephen Crane si ha l’impressione di leggere un romanzo contemporaneo, in cui coesistono critica sociale, spunti sociologici, riflessioni post industriali. Stephen Crane, autore tanto amato da Hemingway, non era un autore ottocentesco, e non ne aveva la caratura, sebbene un po’ di Zolà è riscontrabile nel suo piglio narrativo e nella sua verve polemica. Prendiamo Maggie. Ragazza di strada, il volume edito da Rogas edizioni e curato e tradotto da Mario Maffi contiene anche altri racconti newyorkesi di ambiente urbano, pressapoco scritti nello stesso periodo, inizia con una scena molto disturbante di guerriglia urbana, dei ragazzini pocopiù che dei bambini si prendono a calci e pugni, fronteggiandosi tra bande. Poi la scena si sposta in interno, nell’inferno domestico di una famiglia media degli slums newyorkesi, insulti, bestemmie, botte, piccoli e grandi crudelta di una coabitazione violenta nel degrado (materiale e morale) e nella povertà se non nella miseria. Come un fiore in una pozzanghera troviamo Maggie, una bella ragazza che non sembra corrotta da questo squallore. Lavora come operaia in una fabbrica di colletti e polsini, e vede sfiorire la sua giovinezza. Presto lo splendore della giovinezza che illlumina il suo volto passerà anche per lei e diventerà come sua madre, una gorgone incanutita, vecchia, grinzosa, alcolizzata. Prima di questa inevitabile parabola compie l’insensatezza di innamorarsi di Pete, il principe azzurro che la toglierà da questo ambiente malsano e degradato. Per ingenuità, inesperienza lo segue e sarà per lei l’inizio della fine. Pete non è il principe azzurro che lei sogna, e scacciata di casa non potrà che finire sul marciapiede. Nessuna critica morale sulla “vittima” nessun ottocentesco biasimo, anzi ironia a piene mani su ciò che si intende per rispettibilità e decoro in cuori aridi ed egoisti, tipici sepolcri imbiancati di una società decadente e ipocrita. Maggie morirà, probabilmente uccisa da un cliente, e la madre arriverà a piangere e strapparsi le veste ed addirittura a perdonarla, figlia ingrata e disubbidiente educata così bene da una famiglia così onesta. L’ironia e il sarcasmo di Crane è pungente e dissacrante, la morale del racconto e sottesa a un canto del cigno di una giovinezza bruciata da un ambiente degradato, da rapporti familiari e umani inesistenti, e da una società imprigionata in regole spietate e disumane, senza redenzione o perdono. Merita una lettura questo autore poco convenzionale, anzi una riscoperta se non lo conoscete, per la sua lezione di scrittura e indipendenza intellettuale così svicolata dal suo tempo.

Stephen Crane (1871-1900) pubblicò nel 1893, sotto pseudonimo e a proprie spese, questo breve romanzo, che tuttavia non ebbe successo. Dovette attendere tre anni prima di riproporlo, con alcune revisioni e con il proprio nome, a un editore importante. Nel frattempo, aveva pubblicato Il segno rosso del coraggio e il suo nome circolava nel mondo letterario come quello di un autore di grandi promesse. Dopo questi due romanzi dirompenti, Crane, sofferente di tubercolosi, scriverà altre opere significative (fra queste, Il mostro, La scialuppa, due raccolte di poesie), coprirà in quanto reporter la guerra ispano-americana e quella greco-turca, e – apprezzato da scrittori come Howells, Conrad, James, Wells – morirà non ancora trentenne in un sanatorio tedesco.

Mario Maffi ha insegnato Cultura anglo-americana per oltre quarant’anni. Si è occupato di culture giovanili e immigrate, di letteratura realista e naturalista, di geografie culturali. Fra i suoi libri più noti: Mississippi. Il Grande Fiume (2004, 2009); Tamigi. Storie di fiume (2008); Americana. Storie e culture degli Stati Uniti dall’A alla Z (con C. Scarpino, C. Schiavini. S. M. Zangari; 2013); Città di memoria. Viaggi nel passato e nel presente di sei metropoli (2014). È anche autore del romanzo Quel che resta del fiume (2022). http://www.mariomaffi.it