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:: Quello che cerchi sta cercando te di Kader Abdolah dal 12 novembre in libreria

12 novembre 2025

Kader Abdolah, in bilico tra la fiaba e la biografia, racconta la vita di Rumi, poeta in esilio, ponte tra le culture d’Oriente e Occidente.

Poeta, mistico sufi, libero pensatore, propagatore e innovatore di una tradizione millenaria, Rumi nacque nel 1207 a Balkh, oggi in Afghanistan, circondato dalla grande letteratura persiana e dalla magia dell’arabo coranico. Ma era il tramonto di un’epoca, quella del califfato di Baghdad, l’età d’oro della cultura islamica, stroncata dall’invasione di Gengis Khan: è la sua violenza che per tutta la vita Rumi rifugge, da quando, ragazzino, scappò da Balkh con il padre. Amato ancora oggi in tutto il mondo, per Kader Abdolah, cresciuto con le sue poesie, non è solo un mito, ma uno spirito affine: come lui esule, come lui emissario di una cultura così antica da sopravvivere ai capricci del potere sanguinario. Come lui, ha trovato una nuova vita nell’esilio. Lungo la Via della Seta, il giovane Rumi conosce il mondo: tra madrase e bazar, visita Baghdad, La Mecca, Aleppo, impara il greco di Platone e il latino. Finché, nella nuova casa in Turchia, a Konya, con moglie e figli, conosce l’amore: quello di Shams di Tabriz – il Sole di Tabriz, come dice il suo nome, rifugio da un’esistenza di rigide regole e ispirazione per indimenticabili poesie. Amore, dolore, fuga, il senso della vita, la gioia della libertà e dell’istinto: tra Persia e Olanda, l’umanità è sempre in cerca di una verità che potrà trovare solo in se stessa, ed esprimere solo con la letteratura. Abdolah, cantastorie esule afflitto dalla nostalgia, racconta il viaggio di Rumi come una fiaba delle Mille e una notte, aggiungendo le sue personali versioni di oltre novanta poesie e molti racconti del grande mistico. E in questo modo diventa un ponte tra il Medioevo persiano e l’Europa contemporanea.

Elisabetta Svaluto Moreolo Dopo la laurea in traduzione alla Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori – Università degli Studi di Trieste, dal 1988 svolge l’attività di lettrice e traduttrice letteraria dal nederlandese e dall’inglese, collaborando con diverse case editrici italiane. Fa parte dei traduttori accreditati della Dutch Foundation for Literature e del Rijksmuseum di Amsterdam, e dal 2000 insegna traduzione dal nederlandese alla Civica Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori di Milano. Tra i numerosi autori da lei tradotti si annoverano Kader Abdolah, Gerbrand Bakker, Hugo Claus, Leon De Winter, Willem Jan Otten, Allard Schröder e Tommy Wieringa.

Kader Abdolah Nato in Iran, perseguitato dal regime dello scià e poi da quello di Khomeini, dal 1988 è rifugiato politico nei Paesi Bassi. Da quando ha cominciato a scrivere nella «lingua della libertà», coniugando le tradizioni letterarie di Oriente e Occidente, è diventato uno dei più importanti e amati scrittori di questo paese. Con Scrittura cuneiforme ha conquistato il pubblico internazionale e con La casa della moschea ha ottenuto in Italia il Premio Grinzane Cavour nel 2009. Tra gli altri suoi romanzi, pubblicati in Italia da Iperborea, si ricordano Il viaggio delle bottiglie vuoteUn pappagallo volò sull’IJssel, Uno scià alla corte d’Europa, Il sentiero delle babbucce gialle, Le mille e una notte e Il messaggero.

:: L’onesta bugiarda di Tove Jansson (Iperborea 2025) a cura di Giulietta Iannone

4 ottobre 2025

Profondo Nord: un villaggio innevato da fiaba, e l’amicizia ambigua e inquietante tra due donne profondamente diverse, ma forse complementari, (forse addirittura entrambe specchio e riflesso dell’autrice) sono al centro di L’onesta bugiarda (titolo originale Den ärliga bedragaren, 1982), di Tove Jansson, autrice finlandese, della minoranza che scrive in lingua svedese. Edito in Italia questo ottobre in una nuova edizione da Iperborea e tradotto da Carmen Giorgetti Cima, L’onesta bugiarda è un romanzo psicologico e introspettivo, dalle insolite cadenze del thriller, che scava nelle dinamiche misteriose che legano i due personaggi principali, due donne, una anziana, e una giovane: Anna Aemelin, una sensibile illustratrice di libri per bambini che passa il suo tempo a dipingere con gli acquarelli boschi e conigli, ricevendo tante lettere dai suoi piccoli fan, e Katri Kling, una giovane donna enigmatica e scontrosa, caratterizzata da inquietanti occhi gialli da strega, nota per la sua intransigenza morale e la sua eccessiva e provocatoria sincerità, (non mente mai nemmeno per convenzioni sociali), che vive con un fratello disabile e un pastore tedesco senza nome. Anna Aemelin abita da sola in una grande casa, simile a un coniglio, che attira subito l’interesse di Katri che vorrebbe viverci con il fratello e inizia così a coltivare questa strana amicizia che Anna ricambia incapace di dire no alle persone. Anna vive ancora legata all’infanzia, ai suoi genitori, al suo mondo interiore fantastico e immerso nelle atmosfere fiabesche dei suoi disegni. Katri è invece razionale, pratica, forse anche calcolatrice, legata ai soldi e alla materialità del vivere. Due mondi psicologicamente in antitesi che si incontrano per vincere la grande solitudine che le accomuna. Abbandonata la letteratura per l’infanzia, celebre il suo mondo incantato dei Mumin, Tove Jansson ci presenta un romanzo per lettori adulti, caratterizzato da una lingua evocativa, elegante, e intrisa di sentimenti contrastanti, ma capace di suscitare interrogativi profondi sull’esistenza, sull’ambivalenza dei gesti quotidiani, sulla capacità di ferire la sensibilità altrui anche quando non lo si vorrebbe. Ma chi è l’onesta bugiarda del titolo? Forse lo sono entrambe le protagoniste in una profonda riflessione su cosa sia la verità, sempre mutevole e mai definitiva, e quanto la sincerità a tutti i costi non sia sempre un valore positivo, ma possa ferire appunto o diventare uno strumento di controllo, di manipolazione e di dominio. È una lettura lenta, sinuosa, cadenzata, priva di reali scossoni o colpi di scena, ma ricca di dettagli minimi, di impalpabile ricchezza espositiva che riflette un mondo interiore in perenne mutamento. Anche la descrizione della natura arricchisce di bellezza la narrazione con i suoi boschi oscuri e misteriosi e la sua neve perenne che congela un mondo di sentimenti inespressi, in cui le parole non sempre servono a comunicare, e di vulnerabilità. Anche fuori dalla letteratura per l’infanzia, Tove Jansson sa far sentire la sua voce, netta, precisa, autentica, forse più parlandoci di sé stessa che dei suoi personaggi. Molto amato da Ursula K. Le Guin. Da riscoprire. Postfazione di: Arianna Giorgia Bonazzi, immagine di copertina di Dee Nickerson.

Padre scultore e madre illustratrice, Tove Jansson (1914-2001) cresce tra una vivace casa-atelier di Helsinki e un solitario e avventuroso isolotto dell’arcipelago finlandese. Il mondo d’arte e fantasia dell’infanzia nutre la sua vocazione di pittrice, vignettista e scrittrice e le ispira la serie di libri sui Mumin, oggi un classico di culto noto e amato in tutto il mondo. Con lo stesso spirito, ironico e poetico, acuto e dissacrante, si è rivolta anche agli adulti. Iperborea ha pubblicato La barca e io, Viaggio con bagaglio leggero, Fair Play, Campo di pietra e il best-seller Il libro dell’estate. È inoltre in corso di pubblicazione per Iperborea l’intera serie delle strisce dei Mumin e una collana speciale di albi illustrati tratti dalle loro storie più celebri.

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:: Il fiume infinito di Mathijs Deen (Iperborea 2025) a cura di Valentina Demelas

26 settembre 2025

Il Reno, in queste pagine, si trasforma da corso d’acqua in presenza primordiale: non un semplice fiume, ma un organismo vivente che scorre al di là del tempo, delle nazioni e delle mutazioni terrestri. L’autore, Mathijs Deen, ci accompagna lungo le sue sponde con una voce brillante, curiosa e profondamente consapevole. Il fiume infinito. Storie dal regno del Reno, pubblicato da Iperborea con la brillante, esperta e sensibile traduzione di Chiara Nardo, è un’opera che si pone a metà strada tra saggio, racconto e reportage.

Deen apre l’opera scandagliando il tempo geologico: le montagne che emergono, i meccanismi tettonici, le alluvioni e gli spostamenti del suolo. In questa lunga “animazione” storica, il Reno non ha una sorgente definitiva, perché è composto dalle piogge, dai piccoli affluenti, dai rigagnoli: una visione che dissolve ogni punto d’origine e suggerisce che il fiume esista prima e dopo qualsiasi confine.

Ma non restiamo ai macro-fenomeni: l’autore intreccia storie, creature e uomini che popolano il fiume. Una femmina di salmone di tre milioni di anni tenta di riscoprire il percorso dei suoi avi, ma riconosce un corso d’acqua totalmente trasformato; la “ragazza di Steinheim” – tra i resti umani più antichi ritrovati lungo il Reno – ci parla di malattia, vita e migrazione umana lontana nel tempo; battaglie romane contro Frisi e Cauci, l’assalto al ponte di Remagen nel 1945 e l’emozione di due ex cittadini della DDR che finalmente approdano alla roccia della Lorelei diventano pietre miliari di un percorso che coniuga la Storia con le storie.

La cifra stilistica di Deen è quella di uno sguardo lieve e insieme profondamente informato, capace di oscillare tra scienza e immaginazione, senza che l’una oscuri l’altra. La prosa sa essere raffinata e sorprendente, ironica e solenne, visionaria e perturbante. In più, l’autore si colloca come testimone discreto: una piccola presenza accidentale di fronte all’immensità del fiume e del paesaggio.

Il pregio maggiore del libro è la capacità di fare del Reno un simbolo europeo: un filo d’acqua che connette valli, nazioni e culture. Nel raccontare le vicende delle sponde – naturali, storiche e, via via, politiche – Deen ci ricorda che il fiume è insieme confine e percorso, limite e incontro. Tuttavia, nel desiderio di includere molto – ere geologiche, migliaia di anni, migliaia di storie, spunti autobiografici – il testo può risultare a tratti irregolare nello slancio narrativo, senza comunque fare scemare l’interesse e la curiosità, che rimangono sempre vivi nel lettore.

Il fiume infinito funziona come un canto epico e meditativo: Deen non pretende di spiegare tutto, ma stimola una visione fluida, anamorfica, in cui ogni epoca risuona nel presente di tutti. È un libro da leggere a ritmo lento, da assaporare concedendosi soste e pause, per lasciarsi suggestionare dall’eterna corrente di un fiume che pare respirare.

Un’opera che non si limita a parlare del Reno, ma ne restituisce l’eco, la potenza e la presenza forte. Si tratta di un contributo originale e di valore, che ci restituisce i luoghi naturali come custodi di memoria ed evoluzione.

Mathijs Deen è uno scrittore e giornalista olandese, autore di reportage, documentari, programmi radiofonici, saggi narrativi, racconti e romanzi che gli sono valsi importanti riconoscimenti di pubblico e critica. Iperborea ha pubblicato inoltre Per antiche strade, che combina ricerca storica, diario di viaggio e racconto, e il romanzo La nave faro.

Source: libro gentilmente donato dall’editore dopo una presentazione tenuta al Salone del Libro di Torino. Ringraziamo Francesca ufficio stampa Iperborea per l’invito e l’autore per la graditissima dedica.

:: Memoria rossa. La Cina dopo la Rivoluzione culturale di Tania Branigan (Iperborea 2025) a cura di Giulietta Iannone

18 settembre 2025

Per capire la Cina contemporanea di Xi Jinping non si può prescindere dal conoscere cosa successe in Cina dal 1966 al 1976, anno della morte di Mao Tse-tung. Un solo decennio in cui si attuò la cosidetta Rivoluzione Culturale, uno spartiacque traumatico e repentino che segnò per sempre un prima e un dopo nella tumultuosa storia cinese. La Cina sopravvisse e pose le basi dell’odierno miracolo economico che tanto impensierisce le nostre sempre più fragili democrazie occidentali da sempre tese a propugnare valori come la libertà, l’indipendenza, la giustizia, il democratico progresso condiviso. Se anche in Occidente abbiamo assistito a diverse rivoluzioni (altrettanto sanguinarie) come la Rivoluzione Francese, la Rivoluzione Inglese o quella Americana, per non parlare di quella Russa se vogliamo per esteso considerare anche la Russia Occidente, la Grande Rivoluzione culturale proletaria cinese ebbe caratteristiche sue proprie che segnarono per sempre nel profondo lo spirito e l’anima cinese. Fu un movimento che spazzò via le vecchie strutture tradizionali culturali, etiche, sociali e pose le basi di una nuova Cina che non ha mai smesso di evolversi e che ora conosciamo come potenza emergente nello scacchiere internazionale e desta grandi timori e un bricciolo di curiosità e forse anche ammirazione da parte nostra. Per fare luce su questo periodo controverso, e per molti versi ancora sconosciuto, della storia cinese, è sicuramente interessante leggere Memoria rossa. La Cina dopo la Rivoluzione culturale della giornalista britannica Tania Branigan per sette anni in Cina come corrispondente di The Guardian. Edito in Italia da Iperborea e tradotto da Silvia Rota Sperti, Memoria Rossa più che un semplice saggio è un vero e proprio reportage che raccoglie le testimonianze dolorose e autentiche di chi partecipò alla Rivoluzione Culturale e ancora oggi ne conserva le cicatrici. Nessuno ne uscì innocente, vittime e carnefici si scambiarono i ruoli, in una lotta per la sopravvivenza in cui non era ben chiaro come si dovesse agire. Unico faro era il pensiero di Mao, che i giovani arruolati nel considetto grande esercito delle Guardie Rosse, seguivano con entusiasmo e autentica partecipazione. Non era facile rompere definitavemente con il passato, con la cultura tradizionale di stampo confuciano che perdurava da millenni. Fu uno spartiacque traumatico, come dicevamo prima, la delazione, la violenza, il sospetto erano diffuse, figli denunciavano i genitori, studenti uccidevano i propri professori, mogli e mariti si denunciavano a vicenda, e i campi di rieducazione erano veri e propri lager dove vigeva la tortura. I vecchi proprietari terrieri venivano assassinati passando a una collettivazione forzata delle terre che almeno nei primi tempi segno fame carestia, miseria diffuse, ma Mao ordinò di andare avanti e così i cinesi fecero verso un luminoso futuro che si intravedeva dalle ceneri e dalle rovine del passato. Si poteva cadere in disgrazia o essere riabilitati, tutto per un capriccio o una fortuita circostanza, gli eroi di ieri potevano diventare le vittime di domani, ma nonostante tutto questo la Cina conservò la sua anima. La Cina di oggi sembra destinata a fare i conti con questo ingombrante passato, sebbene il controllo sociale, oggi potenziato da tecnologia e software, sembra volerlo rimuovere. Ma la Cina di oggi è figlia della Cina di ieri, e il benessere economico ottenuto a caro prezzo da solo non basta a depurare dai fantasmi del passato e dalla necessità di conservare una coscienza, un’identità e valori condivisi in cui riconoscersi. Anche noi in Occidente abbiamo molto da imparare da queste esperienze, ora che per timore di guerre future si vuole fare abbattere il welfare per potenziare le spese belliche. Lo sgretolarsi dei capisaldi democratici è sempre più evidente ed è bene ricordare che fanno parte della nostra identità e della nostra anima, e che perdendoli, andrebbero persi per sempre.

Tania Branigan è una giornalista britannica. Tra le voci più importanti del Guardian per gli esteri, si è occupata a lungo di Cina, paese in cui ha vissuto sette anni come corrispondente. Suoi scritti sono apparsi anche sul Washington Post. Memoria rossa, finalista al Baillie Gifford Prize, è il suo primo libro.

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:: La porta delle stelle di Ingvild Rishøi (Iperborea 2024) a cura di Valentina Demelas

30 gennaio 2025

La porta delle stelle, pubblicato in Italia da Iperborea con la traduzione accurata di Maria Valeria D’Avino, è una favola moderna che illumina le ombre della realtà – rievocando le atmosfere di Lindgren, Dickens e Andersen – ma è anche, e soprattutto, un ritratto nitido della contemporaneità, capace di intrecciare sogno e crudezza, poesia e realismo, attraverso una narrazione che pulsa di umanità.

La storia è ambientata a Tøyen, un quartiere periferico di Oslo, durante un inverno rigido e ostile. Qui incontriamo Ronja, una bambina di dieci anni dalla vivace intelligenza e dal cuore grande, e sua sorella Melissa, appena diciassettenne, ma già costretta a indossare le vesti dell’adulta in una famiglia difficile. Il padre, nonostante il suo affetto sincero, è troppo fragile per essere un vero sostegno, mentre la precarietà economica e sociale si insinua in ogni aspetto della loro esistenza.

La voce di Ronja, infantile, diretta e priva di artifici, guida il lettore tra le difficoltà della vita con uno sguardo che, pur ingenuo, non manca mai di profondità. Melissa, invece, incarna il peso delle responsabilità troppo grandi per una ragazza della sua età. Il loro rapporto, fatto di tensioni, ma anche di affetto e di una solidarietà indistruttibile, è il vero perno emotivo del testo.

Il periodo natalizio fa da sfondo alla narrazione, donandole un’aura senza tempo. Le lucine, la neve e i piccoli rituali del Natale richiamano le fiabe più classiche – ad esempio La piccola fiammiferaia – senza mai scivolare nel didascalico. Questa atmosfera, densa di simbolismo, si fonde con una contemporaneità spietata, creando un contrasto potente che amplifica il coinvolgimento del lettore.

La forza del racconto risiede nello stile di Ingvild Rishøi: minimalista e delicato, ma capace di scavare a fondo nel cuore di chi si immerge in questa esperienza di lettura. Ogni frase è calibrata con precisione, ogni immagine evoca un’emozione o una riflessione. Attraverso una prosa essenziale e poetica, l’autrice trasforma le piccole vicende quotidiane in un racconto universale, esplorando con sensibilità temi complessi. Eppure, accanto a ogni ombra, pulsa una luce potente: quella dell’innocenza dei bambini, della capacità di resistere e della speranza che a Natale un miracolo possa davvero capitare.

L’autrice evita con maestria le insidie del sentimentalismo, si muove con equilibrio tra durezza e tenerezza, lasciando spazio a momenti di solidarietà, piccoli gesti commoventi di umanità che illuminano anche le situazioni più cupe. Pur trattando temi intensamente emotivi, la narrazione non scivola mai nella retorica o nel patetico. Ogni lacrima che il libro può suscitare è autentica, mai forzata.

La porta delle stelle è un libro da assaporare e custodire, una lettura che invita a guardare oltre le apparenze e a scoprire la bellezza nascosta nelle piccole cose, anche nei momenti più difficili. È una favola classica che parla al cuore senza essere stucchevole, capace di emozionare, far riflettere, ma è anche «un lucido racconto della contemporaneità, crudo e onirico, che con sottile eleganza si muove tra la cura dell’altro e lo sconforto, tra la bellezza della speranza infantile e la fame che rende le prede predatori».

Consigliato a chi cerca storie capaci di toccare l’anima con grazia e profondità, questo libro è una piccola gemma che non lascia indifferenti.

Ingvild Rishøi è nata nel 1978, è una delle più importanti scrittrici norvegesi contemporanee. Ha conquistato i lettori con la sua narrazione essenziale ma potente, con un occhio attento per le meraviglie della vita quotidiana e per i personaggi vulnerabili ai margini della società. Le sue storie rievocano le atmosfere di grandi scrittori del passato come Astrid Lindgren, H.C. Andersen e Charles Dickens. I suoi libri, pubblicati in oltre venti paesi, hanno ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio Brage, il Premio della critica e il Premio Dobloug dell’Accademia svedese.

Maria Valeria D’Avino è nata a Roma, ha studiato letterature della Scandinavia in Italia, dove si è laureata presso l’Università La Sapienza, e a Copenaghen. Ha lavorato per circa dieci anni per la RAI (Radio, Multimedia), collabora con l’Associazione Asinitas come insegnante di italiano L2 in corsi rivolti alle persone migranti e tiene seminari di traduzione e scrittura. Collabora con varie case editrici per consulenze e scouting e traduce soprattutto narrativa danese e norvegese (Iperborea, Marsilio, Feltrinelli, Orecchio Acerbo). Tra gli autori tradotti, Knut Hamsun, Cora Sandel, Jørn Riel, Dag Solstad, Thorkild Hansen, Johan Harstad, Dan Turèll, Monica Kristensen, Gaute Heivoll, Jussi Adler-Olsen, Gunnar Staalesen, Janne Teller, Gunnar Gunnarsson.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Francesca Gerosa, ufficio stampa Iperborea.

:: Il libro segreto degli elfi d’Islanda di Rán Flygenring e Hjörleifur Hjartarson (Iperborea 2024) a cura di Valentina Demelas

21 gennaio 2025

Un viaggio incantato, un’esperienza che intreccia parole e illustrazioni per guidare il lettore nel cuore dell’immaginario islandese: Il libro segreto degli elfi d’Islanda di Rán Flygenring e Hjörleifur Hjartarson, edito da Iperborea, è una lettura imperdibile per chi ama la cultura e il folklore nordico, raccontato per mezzo di un’ottima scrittura, tra sogno e ironia.

In occasione della presentazione milanese del libro, nell’ambito di Bookcity, il pubblico è stato guidato in un’esperienza che si è rivelata tanto immersiva quanto illuminante. La traduttrice del libro Silvia Cosimini ha saputo, con grande maestria, grazie ad aneddoti e passaggi molto interessanti, trasferire l’anima dell’opera, restituendo ai partecipanti non solo la bellezza delle storie raccontate, ma anche la vibrazione magica che permea la cultura islandese, dove la natura, le leggende e il quotidiano si mescolano in un’unica narrazione.

Iperborea, casa editrice sempre attenta a proporre testi che risuonano con l’essenza delle tradizioni, ha colto appieno la sfida lanciata da questa opera: un viaggio tra il visibile e l’invisibile. Illustrazioni e testo sono complementari, veri e propri compagni di viaggio. Le immagini evocate dal testo si materializzano in disegni che rivelano, oltre la superficie, un mondo nascosto fatto di suggestioni, misteri e leggende senza tempo.

Nel cuore di questa narrazione, troviamo una nuova visione degli elfi, più complessa e profonda rispetto all’immaginario comune. Questi esseri non sono creature fiabesche, ma entità che popolano la cultura islandese con una presenza tangibile, capaci di influenzare la realtà con poteri misteriosi. Gli autori, con uno stile che mescola leggerezza e serietà, ci guidano alla scoperta di un popolo nascosto che vive accanto a noi, ma al di là della nostra percezione. Gli elfi islandesi non sono solo un prodotto di racconti antichi, ma sono figure capaci di sconvolgere il corso degli eventi senza mai dimenticare il loro carattere imprevedibile.

Il tuo vicino è diventato ricco e non ti spieghi come? La costruzione di una nuova strada si arena di colpo? Questo libro ti racconta perché. Ogni capitolo è un viaggio che mescola storia e mito, da amori impossibili resi possibili da un intervento invisibile a storie di trasformazioni e prodigi. Le narrazioni sorprendono, ma non si limitano a raccontare le leggende. Gli elfi, in questo libro, emergono come entità sorprendentemente moderne: combattenti per l’ambiente, progressisti nelle loro riflessioni sociali, e custodi di una tradizione che resiste al passare del tempo.

Una delle caratteristiche più affascinanti dell’opera è la sua capacità di affondare nelle radici più profonde del folklore, ma anche di trasformare questo materiale in qualcosa di completamente nuovo. Lo stile limpido e incisivo è capace di evocare immagini potenti senza mai appesantire la lettura. Le parole non si limitano a raccontare storie, ma ci invitano a entrare in esse, a diventare parte integrante di un mondo che è simultaneamente tangibile e surreale. La scrittura, ricca di umorismo e poesia, riesce a fondere la leggerezza della narrazione con una profondità che lascia il lettore pensieroso e affascinato.

Le illustrazioni di Flygenring, con il loro stile giocoso, ma ricco di dettagli, non sono solo una cornice, ma un dialogo continuo con il testo. Le sue immagini non fanno che accentuare la sensazione di trovarsi di fronte a un mondo che sfugge alla nostra comprensione, ma che possiamo comunque percepire.

Un libro che è dunque molto più di una semplice raccolta di leggende. Ogni pagina invita a essere sfogliata più volte, per cogliere dettagli nascosti o semplicemente per il piacere di perdersi nell’arte visiva. Ogni pagina del libro è un invito a guardare più da vicino, a scoprire i dettagli nascosti che arricchiscono la storia e le storie, riuscendo a trasformare la lettura in un’esperienza sensoriale completa. Un’opera unica, capace di regalare leggerezza e profondità allo stesso tempo. È un invito a rallentare, a osservare il mondo con occhi nuovi, a riscoprire la bellezza che si cela nell’invisibile. In un’epoca in cui siamo costantemente proiettati verso l’esterno, questo libro rappresenta una pausa rigenerante, una porta verso un altrove che risuona con le corde più intime della nostra immaginazione.

Consigliato a chi cerca un rifugio dalla frenesia quotidiana, a chi ama le storie che sfidano la realtà senza prendersi troppo sul serio e a chi desidera sorridere e riflettere nello stesso momento. È un libro da leggere con una tisana calda in mano e perché no, un pizzico di meraviglia nel cuore.

Non soltanto un omaggio alla cultura islandese, ma anche una celebrazione della magia nascosta nel mondo e dentro di noi. Sfogliare questo libro significa accettare l’invito a esplorare un regno che si svela solo a chi è disposto a fermarsi a osservare e ascoltare, consapevole che la magia, dopotutto, non ci abbandona mai.

Rán Flygenring è nata nel 1987. Spesso viene definita «una bizzarra via di mezzo tra un’elfa e una severa aguzzina», in realtà è una scrittrice e disegnatrice. Dal 2011 ha illustrato di tutto, cimentandosi non solo con gli uccelli di Fuglar, ma anche con francobolli, rapporti sulla caccia alle balene e sulla parità di diritti, inviti a matrimoni e fiere campionarie, vulcani e donne alla presidenza della Repubblica.

Hjörleifur Hjartarson è nato nel 1960. Si occupa di scrittura, musica e teatro, ma anche di tanto altro. Ha pubblicato romanzi e raccolte di versi e insieme al suo gruppo musicale Hundur í óskilum (Cane sciolto) ha scritto e messo in scena spettacoli teatrali e musical dai toni sociali. Con Rán Flygenring ha realizzato anche Fuglar. Inventario non convenzionale degli uccelli d’Islanda, pubblicato in Italia da Quinto Quarto nel 2021.

Silvia Cosimini è nata a Montecatini Terme (PT) nel 1966. Si laurea in filologia germanica a Firenze e nello stesso anno si trasferisce in Islanda per un progetto di ricerca all’Istituto Arnamagnæano, laureandosi in lingua e cultura islandese all’Università di Reykjavík con una tesi sulla traduzione. In Italia frequenta il Master in traduzione letteraria della Ca’ Foscari di Venezia e il corso di specializzazione «Tradurre la Letteratura» della SSIT di Misano Adriatico. Da più di vent’anni si dedica esclusivamente alla traduzione e alla promozione della letteratura islandese contemporanea e medievale: ha tradotto autori quali Halldór Laxness, Thor Vilhjálmsson, Guðbergur Bergsson, Arnaldur Indriðason, Hallgrímur Helgason, Jón Kalman Stefánsson, Andri Snær Magnason e molti altri. Nel 2011 le è stato assegnato il premio nazionale per la traduzione dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, e nel 2019 il premio Orðstír dal Presidente della Repubblica islandese. È tutor didattico presso il dipartimento di Filologia Germanica dell’Università degli Studi di Bologna e docente a contratto di lingua e letteratura islandese all’Università Statale di Milano.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Francesca Gerosa, ufficio stampa Iperborea.

:: I gufi dei ghiacci orientali,  Jonathan C. Slaght  (Ipeborea 2024) A cura di Viviana Filippini

23 dicembre 2024

Ci sono traguardi che si vogliono raggiungere e si fa di tutto pur di riuscire nell’intento. Questo è quello che mette in atto Jonathan C. Slaght, scienziato e scrittore americano, pur di raggiungere e trovare il gufo pescatore di Blakiston, diventato poi il protagonista de “I gufi dei ghiacci orientali”, edito da Iperborea e tradotto da Luca Fusari. Per il naturalista è una vera e propria ossessione decifrare la vita dei gufi e lo studioso non esiterà un attimo a partire  per l’estremo Oriente russo per trovarli lì nella zona denominata Litorale, dislocata tra il Mar del Giappone e la Cina. Il saggio non è solo un’indagine compiuta da un occhio attento ed esperto, che osserva il volo dei gufi, il loro modo di costruire il nido, il punto preciso su un albero dove esso viene fatto, il tipo di piumaggio, la sua consistenza, lunghezza e colore per capire quale è l’esemplare maschio e la femmina, il tipo di guano per comprendere cosa questi uccelli mangiano o come funziona il corteggiamento. Il libro è molto di più. Esso è un volume pieno di avventura, di suspense, di vita quotidiana, nel senso che Slaght racconta, passo dopo passo, con estrema cura e attenzione il viaggio nel glaciale territorio russo, gli appostamenti lunghi e tattici, gli incontri umani e animali che lui ha vissuto in prima persona per portare avanti la sua ricerca e che gli hanno lasciato ricordi indelebili. Slaght non è solo. Accanto a lui ci sono i collaboratori più o meno chiacchieroni,  la gente del posto con la quale dialogare per scoprire molto sulla zona del Litorale e su coloro che vi abitano, perché sono l’immagine  di un’umanità variegata e varia. Per esmepio il naturalista si imbatte in ex agenti del KGB sovietico, poi ci sono eremiti, fuggiaschi, cacciatori senza un braccio, uomini di acciaio tutti lì nel ltiorale tra macchiene e motoslitte. Elemento comune che legata un po’ questa umanità è il fatto che tra una pagina e l’altra spesso compaiano e vengano condivise bottiglie di vodka, etanolo e pure detergente. Non solo, perchè se da una parte il ghiaccio e la neve imperano ovunque, dall’altra, lo scrittore ci racconta anche della presenza di  corsi d’acqua caldi per la presenza di gas radioattivi.  Allo stesso tempo però, il testo di Slaght spinge il lettore alla riflessione che ha al centro la fragilità  degli equilibri che stanno alla base dell’ecosistema e del mondo naturale e di come i cambiamenti climatici e ambientali (fenomeno dell’antropizzazione) scatenati spesso dall’uomo stesso possano incidere e gravare sul corso vitale degli animali. “I gufi dei ghiacci orientali” di  Jonathan C. Slaght è un saggio che ha al centro l’ornitologia e lo studio naturalistico ma, allo stesso tempo, è un avventuroso racconto di vita vissuta e ricerca a stretto contatto con quella madre Natura che l’essere umano dovrebbe conoscere a fondo e tornare ad amare e rispettare.

Jonathan C. Slaght è uno scienziato e scrittore americano, direttore regionale per l’Asia temperata della Wildlife Conservation Society. Suoi articoli sono comparsi su testate come “New York Times”, “Guardian”, “Scientific American” e “Smithsonian Magazine”. “I gufi dei ghiacci orientali”, è il suo primo libro e ha vinto il PEN/E.O. Wilson Literary Science Writing Award ed è stato finalista al National Book Award.

Source: Ufficio stampa Iperborea.

:: Il grande Nord. Viaggio intorno al mondo lungo il sessantesimo parallelo, Martin Tallack, (Iperborea, 2024) A cura di Viviana Filippini

15 Maggio 2024

“Il grande nord. Viaggio intorno al mondo lungo il sessantesimo parallelo” di Martin Tallack, edito da Iperborea è un libro che mescola diversi generi letterari, nel senso che non è solo un saggio che mette al centro il tema del viaggio attorno al sessantesimo parallelo del pianeta terra alla scoperta di tutti quei luoghi che lo caratterizzano. Accanto ad esso ci sono le storie e il vissuto umano e naturale. Quello che Tallack fa è portarci nel suo pellegrinaggio personale, alla scoperta del suo universo interiore e di quel  cammino di ricerca di pace e equilibrio al quale lui  anela dal momento della morte improvvisa del padre, scomparso tragicamente. Il saggio, ma è anche un po’ memoir di viaggio, è una vera e propria avventura umana, dove l’autore racconta il perché ha deciso di affrontare i luoghi scelti per il percorso e il rapporto con le persone che incontra. Non solo, infatti oltre al presente, allo stesso tempo, troviamo la storia passata, le abitudini, usi e costumi, miti, leggende e folklore delle località visitate e delle popolazioni incontrate. Realtà, avventura, ieri e oggi si intrecciano in una narrazione scorrevole che trascina chi legge in un mondo di emozioni appassionanti dove l’aspetto umano ed emotivo hanno un ruolo fondamentale per lo scrittore  e per il lettore che diventa, pagina dopo pagina, partecipe delle emozioni e avventure dello scrittore britannico. Tallack, che tra l’altro è anche cantautore, ci accompagna in quello che è un itinerario nel Nord attorno al sessantesimo parallelo, dove lo spostamento fisico diventa un profondo viaggio alla ricerca di sé. Tra le tappe ci sono le Shetland dove regnano sovrane la roccia e la torba;  la Groenlandia con Quassik, la montagna dei corvi; il Canada con Fort Smith che all’inizio del XX secolo non era ancora una località molto sviluppata, ma con la corsa all’oro del Klondike ci fu una vera e propria invasione del Canada Occidentale. Troviamo poi l’Alaska dove i turisti accorrono per vedere la risalita dei salmoni rossi e il valore della terra è importante e fondamentale, perché essa rappresenta il passato e il futuro del paese  ma, allo stesso tempo, è fragile e indomita. Tallack ci porta in Siberia a contatto con gli eveni della Kamčatka, e alla loro convivenza con le renne tra i ghiacci siberiani; a San Pietroburgo, voluta da Pietro il Grande verso la fine XVII, dopo essere rimasto affascinato dall’Europa Occidentale, soprattutto da Londra e Amsterdam. Un passaggio lo si fa anche in Finlandia con le Isole Åland e in questa cultura finlandese si percepisce il forte attaccamento alla propria identità e si scopre che, un tempo, i palazzi prendevano i nomi dai pesci e dagli animali facevano da traino all’economia locale, tanto è vero che ci imbatte nella casa delle anguille, in quella delle capre, quella dell’aringa o dell’abramide (è un pesce). Si arriva infine in Svezia e Norvegia per muoversi tra canali e canaletti, divinità antiche, botanici come Linneo e società moderna e contemporanea alle prese con eventi inaspettati come gli attentati del 22 luglio 2011 in Norvegia dove morirono 77 persone. “Il grande Nord. Viaggio intorno al mondo lungo il sessantesimo parallelo” di Martin Tallack è un libro che si apre al mondo nordico attorno al sessantesimo parallelo, un universo sì vasto, a volta solitario, ma affascinante dove realtà differenti si trovano a condividere lo stesso spazio diventando “casa” e come dice Tallack: “centro del mondo”. Traduzione Stefania De Franco.

Malachy Tallack è uno scrittore e cantautore britannico. Con il romanzo “La valle al centro del mondo, apparso in Italia presso Bompiani, è stato candidato all’Highland Book Prize e all’Ondaatje Prize della Royal Society of Literature. Il grande Nord è stato Libro della Settimana per la BBC Radio 4 ed è entrato nella shortlist del prestigioso Saltire First Book Award. Dopo aver vissuto per buona parte della sua vita sulle isole Shetland, ora risiede a Fife, vicino a Edinburgo.

Source: richiesto all’editore. Grazie all’ufficio stampa Iperborea.

:: I dettagli, Ia Genberg, (Iperborea, 2024)A cura di Viviana Filippini

9 aprile 2024

“I dettagli” è il romanzo di Ia Genberg, edito da Iperborea, dove la protagonista è un’ anziana donna a letto afflitta dalla febbre che ripensa la suo passato. Questo le permette di concentrarsi su alcune persone che hanno avuto un ruolo cardine nella sua esistenza. Dalle amanti famose presentatrici tv, a uomini con i quali si sono vissute intense passioni, ad amicizie vere e profonde, fino a quella donna che le ha dato al vita e con la quale il rapporto è sempre stato parecchio complicato. Il libro di Ia Genberg è un vero e proprio viaggio  dentro il vissuto personale della protagonista, dove il lettore, grazie alla narrazione/rievocazione di momenti che hanno lasciato in lei e  nella sua esistenza segni profondi. Il lettore compie un vero e proprio viaggio nel tempo, nello spazio e nelle vite più o meno fragili della voce narrante e dei suoi comprimari, in una Stoccolma dei primi anni Novanta. Non mancano poi riferimenti all’importanza dello scrivere e del leggere, con la citazione di libri che poi ritroviamo alla fine del romanzo nella sezione creata dalla traduttrice dove vengono inseriti i libri inediti in Italia, ma nominati tra un pezzo di vita e un altro. Oltre a questo ci si domanda però cosa hanno di così importante i comprimari della protagonista? Lo si comprende leggendo le relazioni d’amore, i rapporti d’amicizia e familiari narrati, scorgendo i dettagli che li caratterizzano e sono piccoli tasselli che magari non tutti notano ma che, per un’attenta osservatrice quale è  la voce narrante, sono fondamentali per assimilare le esistenze di certe persone che ha conosciuto e con le quali ha vissuto. Tra di loro ci sono Johanna, una ex fidanzata della protagonista diventata molto nota e  con la quale, nonostante le promesse non è stato amore eterno. Ad un certo punto irrompe Niki, con la quale da subito risulta difficile costruire un rapporto di amicizia stabile e duraturo vista la sua versatilità nel cambio degli stati d’animo. Nel cuore della protagonista c’è spazio anche per Alejandro, con lui ci sarà una relazione sì travolgente, ma problematica vista quella sua peculiarità caratteriale di stare sempre in bilico tra atteggiamenti opposti. L’ultima parte ha al centro Birgitte, una figura femminile molto importante per la protagonista, ma per la quale forse è più doloroso attuare il ricordo. Sì perché la donna è la madre della narratrice. Un figura femminile piena di problemi e fragilità che, nonostante tutto, è comunque sempre rimasta presente nella vita della donna. Con “I dettagli”, la giornalista e scrittrice svedese Ia Genberg, porta noi lettori in un mondo narrativo di una donna che ripensa e riflette sui tempi passati e dove alcuni dettagli che restano nella sua memoria, sono la prova concrete del fatto che certe persone anche se escono dal nostro vissuto lasciano, in qualche modo, un segno perenne. Traduzione Alessandra Scali.

Ia Genberg è Nata a Stoccolma nel 1967. Giornalista e scrittrice svedese ha esordito nel 2012 come autrice di romanzi. Il romanzo, tradotto in più di trenta paesi, ha ricevuto l’ambito Premio August nel 2022 e il Premio Aftonbladet nel 2023, ed è stato finalista al Premio Svenska Dagbladet e al Premio Adlibris.

Source: richiesto dal recensore.

::Rombo, Esther Kinsky, (Iperborea, 2023) A cura di Viviana Filippini

12 giugno 2023

Rombo è quel rumorio costante e continuo che aleggia prima della grande scossa, ed è quel sentire costante che destabilizza gli animali e gli animi più sensibili prima del grande tremore. “Rombo” è il  romanzo di Esther Kinsky, edito da Iperborea, nel quale attraverso le storie di diversi personaggi, viene ricostruito il tremendo terremoto che colpì il Friuli il 6 maggio del 1976 (in realtà ne arrivò poi un altro a settembre). Tanti sono i personaggi che animano le pagine del volume, dai bambini, a giovani, passando per i più maturi, tutti sono impegnati a raccontare le loro esistenze prima, durante e immediatamente dopo la grande scossa che cambiò per sempre le vite delle persone residenti in quella zona, e trasformato la morfologia paesaggistica. Ecco presentarsi esistenze diverse come quella di Adelmo arrivato in Italia dalla Germania, un piccolo eroe sopravvissuto al terremoto assieme al suo inseparabile amico indiano: l’unico giocattolo che è riuscito a portare in salvo dalle macerie del terremoto. Accanto a lui i racconti di  vita di Olga, nata in Venezuela ma residente da anni in Friuli, la quale narra dei suoi viaggi quotidiani in pullman per andare a lavorare in ufficio a Gemona, o Lina che usa la scrittura come strumento per fermare in modo eterno quello che vuole ricordare, poi Gigi noto come il guardiano delle capre sulle montagne e Silvia che è alle prese con una mamma un po’ presente e spesso assente, che le racconta del suo lavoro al mare. Quello che colpisce del libro è che l’autrice tedesca (spesso in Italia, proprio in Friuli), grazie al racconto corale dei protagonisti, ci permette di conoscere le vite singole dei suoi personaggi e, allo stesso tempo, di comprendere la macchina del soccorso che si mise in moto da tutta Italia dopo la grande scossa, per aiutare il dilaniato Friuli a rinascere. “Rombo”  è un libro interessante, poichè oltre alle storie di vita, forza e coraggio di persone comuni, alla fragilità che sta dentro e fuori agli esseri umani, l’autrice mette frammenti che vanno a ripescare nella tradizione, nel passato, nelle leggende popolari, unite anche – lo si nota prima di ogni nuova sezione del libro- a frammenti estratti da libri del settore, che da sempre si occupano dello studio dei movimenti tellurici. “Rombo” di Esther Kinsky è un romanzo a più voci, non solo umane, ma anche quella leopardiana natura madre-matrigna , che dovremmo imparare ad ascoltare in modo maggiore, per cogliere quei segnali di cambiamento che trasformano per sempre l’essere umano e il paesaggio. Traduzione di Silvia Albesano.

Esther Kinsky narratrice, poetessa e traduttrice letteraria, è una delle voci più alte e originali della scena letteraria tedesca, insignita dei più prestigiosi riconoscimenti, come il Premio della Fiera di Lipsia, il Premio Paul Celan e il premio Adelbert von Chamisso. In Italia ha pubblicato Macchia e Sul fiume (Saggiatore, 2019 e 2021). Il suo ultimo romanzo, Rombo, ha ricevuto il Premio Kleist ed è candidato al Deutscher Buchpreis.

Source: richiesto all’editore. Grazie all’ufficio stampa Iperborea.

:: Recensione: L’uomo che voleva essere colpevole di Henrik Stangerup (Iperborea 2023) a cura di Emilio Patavini

1 giugno 2023

Dopo la recensione di Kallocaina di Karin Boye (Iperborea 2023), facciamo un ulteriore passo nella letteratura distopica scandinava. L’occasione ci viene offerta dall’uscita de L’uomo che voleva essere colpevole (Manden der ville være skyldig, 1973) di Henrik Stangerup per i tipi di Iperborea, ritornato in libreria dal 19 aprile 2023. Il romanzo era stato precedentemente pubblicato nel 1990 da Iperborea e nel 2001 da Guanda, con traduzione dal danese di Anna Cambieri e una postfazione di Anthony Burgess, in cui l’autore di Arancia meccanica lo definisce «un romanzo che merita l’attenzione di tutti» (p. 167). Da questo romanzo è stato tratto anche un film del 1990, The Man Who Wanted to Be Guilty del regista danese Ole Roos.

Protagonista indiscusso del romanzo è Torben, scrittore ex sessantottino che vive in uno dei tanti supercondimini di una futuribile Copenaghen assieme alla moglie Edith e al figlio Jesper. Lavora all’INRL (Istituto Nazionale per la Razionalizzazione della Lingua), un ente statale che si occupa di impoverire la lingua danese all’insegna dell’eufemismo trasformando parole con «connotazioni negative» in parole con «connotazioni positive». Si noti, per inciso, come l’impoverimento della lingua si rifletta sempre nell’inaridimento culturale, nella perdita di identità, nello straniamento del singolo: il riferimento al Newspeak orwelliano sorge spontaneo, ma come nota Anthony Burgess nella sua Prefazione, «mentre lo scopo della Nuovalingua di Orwell è l’eliminazione di taluni elementi altamente sovversivi, quello perseguito un questa Danimarca è di togliere dalla lingue tutte le sue componenti negative ovvero, in altre parole, di promuovere una generalizzazione dell’eufemismo» (p. 170).

Una sera, in preda all’alcol e in un accesso d’ira, Torben uccide la moglie. Ma non è solo l’alcolismo a giustificare un atto così violento, perché a esasperare Torben è anche l’apatia della moglie – un tratto, questo, riscontrabile anche nell’atteggiamento di Mildred, moglie del pompiere Montag, protagonista di Fahrenheit 451, capolavoro distopico di Ray Bradbury. Ma lo stato danese qui immaginato – un’evoluzione delle socialdemocrazie scandinave – anziché riconoscerlo colpevole lo manda in un ospedale psichiatrico dove gli viene fatto credere che si è trattato di un incidente e che non è assolutamente responsabile dell’omicidio. Torben può così tornare alla normalità, ma in una società in cui il concetto di colpa è stato abolito l’unico desiderio del protagonista è quello di essere riconosciuto colpevole dell’uccisione di sua moglie e di espiare la propria colpa. Vedendo il suo desiderio negato, non gli resta altra via che sprofondare nella follia.

«Lui era colpevole. Non erano state le circostanze a spingerlo a uccidere Edith. Ma non desiderava essere punito, desiderava solo questo: che si riconoscesse che quella sera era perfettamente consapevole di ciò che faceva, anche se era pieno di whisky. Se invece insistevano che era stato spinto dalle circostanze, allora cos’altro erano quelle circostanze se non il prodotto di una società che non permetteva di parlare d’altro che di circostanze, e che negava all’individuo il diritto a una vita propria, ai propri sogni e alla propria inviolabile identità?» (p. 136)

Il romanzo proietta in un futuro non troppo remoto problemi come nevrosi, paranoie, depressione e crisi di coscienza, tutti profondamente indagati sotto il profilo psicologico dall’autore danese, che racconta il senso di noia e impotenza di fronte al crescente conformismo di un welfare state che dice di prendersi cura dei suoi cittadini «dalla culla alla tomba». In questo «processo kafkiano alla rovescia», come lo ha definito l’editore, seguiamo le vicende di Torben, l’uomo che voleva essere colpevole: lo stato in cui vive non punisce gli assassini, ma li sottopone a trattamenti psichiatrici per poi reinserirli nella società. Si tratta, come si è detto, di un futuro distopico in cui le ideologie sono ormai un ricordo del passato, in cui il denaro contante non esiste più, l’inquinamento è imperante, il governo incoraggia le case editrici a pubblicare esclusivamente “romanzi sociali”, e in cui l’autore si spinge persino a immaginare test obbligatori per gli aspiranti genitori… Nelle prime pagine si assiste inoltre a un dibattito sulla revisione delle fiabe di Hans Christian Andersen – ebbene sì, proprio lui, «l’intoccabile, il sacro gioiello della nazione» (p. 16). Lette oggi, queste pagine risuonano familiari e non possono che far pensare alla recentissima polemica sorta intorno alla proposta di revisionismo linguistico ai danni di autori come Roald Dahl o Agatha Christie.

Molti sono infine gli elementi tipici della distopia: si è già notata la manipolazione della lingua, ma si possono riscontrare anche la somministrazione di pillole tranquillanti ai soggetti considerati “squilibrati” – similmente al soma, la droga funzionale al controllo della popolazione ne Il mondo nuovo di Aldous Huxley – o la sterilizzazione dell’aggressività attraverso le cosiddette attività AA (Anti-Aggressività) – che presenta punti di contatto con Ritorno dall’universo di Stanisław Lem. Questi esercizi AA, che vedono impegnati gli inquilini dei supercondomini, consistono nel picchiare con violenza manichini di pezza e insultare figure mostrate in diapositive, incitati da funzionari che svolgono appositamente questa mansione, detti Assistenti: «“A morte! A morte! Spara! Uccidi!” All’inizio magari qualcuno esitava, ma a poco a poco si lasciava travolgere da quell’onda di odio collettivo» (p. 111). Questo rituale collettivo sembra echeggiare i quotidiani due minuti d’odio presenti in 1984 di George Orwell, in cui il nemico dello Stato, Emmanuel Goldstein, appare sugli schermi causando la reazione incontrollata del pubblico.

«Torben […] non riuscì a liberarsi dall’idea che era stato predestinato a fare del male e che vi era un legame preciso tra il giorno in cui aveva colpito il figlio del calzolaio e la sera in cui aveva sbattuto la testa di Edith contro il muro e il pavimento. Esistevano dunque uomini che nascevano cattivi? E lui era di quelli?» (p. 151)

Tutto il romanzo è incentrato attorno al concetto di colpa ed espiazione: Anthony Burgess parla di «pelagianesimo scandinavo» (p. 167), rifacendosi al movimento ereticale del V secolo che negava il peccato originale, in contrapposizione all’agostinismo: «Sant’Agostino sosteneva che l’uomo è peccatore e succhia il peccato insieme al latte materno. Al contrario, Pelagio, originario delle isole britanniche, afferma che l’uomo viene al mondo in una condizione, per così dire, neutra, ovvero che non ha bisogno della grazia divina e che è in grado di accedere al regno dei cieli grazie ai suoi soli sforzi e senza l’aiuto di nessuno» (p. 168). Nel romanzo il «pelagianesimo» di cui parla Burgess viene definito da Stangerup «mediocre pietismo nordico» (p. 29). Per concludere, particolarmente efficace è il giudizio di Anthony Burgess su questo romanzo che merita davvero di essere letto: «[a]l contrario di quelle visioni di orrori futuri, che amo leggere nei libri perché so che è impossibile che il futuro le realizzi, l’invenzione di Stangerup riesce a raggelare come da anni nessun altro libro, proprio perché è già quasi una realtà» (p. 172).

L’autore, Henrik Stangerup, nato a Copenaghen nel 1937 e morto a Langebæk nel 1998, di professione giornalista, si afferma in campo letterario con una trilogia ispirata a Søren Kierkegaard (non è un caso se L’uomo che voleva essere colpevole si apre con una citazione del filosofo danese): Lagoa Santa, definito alla sua uscita dal Chicago Tribune «il miglior libro straniero dell’anno»; Il seduttore (Iperborea 1989); e Fratello Jacob (Iperborea 1993). È stato inoltre autore di una vasta produzione saggistica e regista di cinque film.

Source: inviato dall’editore. Si ringrazia l’Ufficio Stampa Iperborea per aver gentilmente inviato una copia del libro al recensore.

:: Kallocaina. Il siero della verità di Karin Boye (Iperborea 2023) a cura di Emilio Patavini

5 marzo 2023

Pubblicato nel 1940, un anno prima della morte dell’autrice, Kallocaina è il romanzo più famoso di Karin Boye, scrittrice e poetessa svedese. Nata a Göteborg nel 1900, studia greco antico e norreno a Uppsala, dove entra in contatto con il movimento di ispirazione socialista Clarté. La influenzano il nichilismo di Nietzsche, la psicoanalisi freudiana, le religioni orientali e gli antichi miti scandinavi. Nel 1922 pubblica Nuvole, sua prima raccolta poetica. Nel 1929 sposa Leif Björk, un attivista del movimento clarteista (anche se il matrimonio terminerà qualche anno dopo), e collabora alla rivista d’avanguardia Spektrum, dove pubblica con Erik Mesterton la sua traduzione de La terra desolata di T.S. Eliot. Nel 1932 si trasferisce a Berlino, dove si sottopone a psicoanalisi per comprendere meglio se stessa e la propria omosessualità. Nel 1934 si innamora di una ragazza tedesca, Margot Hanel. Nel 1940 si trasferisce ad Alingsås, dove scrive Kallocaina, il suo capolavoro. Il 23 aprile 1941 esce di casa senza farvi più ritorno: il suo corpo viene ritrovato qualche giorno dopo nel bosco. Con il suo suicidio – seguito un mese dopo da quello di Margot Hanel – si spegne una delle voci più importanti della poesia svedese.

Kallocaina, il suo ultimo romanzo, è uno dei grandi romanzi distopici del Novecento, assieme a Noi (1924) di Evgenij Zamjatin, Il mondo nuovo (1932) di Aldous Huxley e 1984 (1949) di George Orwell. La prima edizione italiana, da tempo fuori catalogo, uscì nel 1993 per Iperborea. L’11 gennaio, a distanza di trent’anni, è uscita una nuova edizione del romanzo, tradotto da Barbara Alinei e con la postfazione di Vincenzo Latronico. Kallocaina descrive una società totalitaria e militarista, dominata da uno Stato Mondiale, in cui l’individuo è completamente annullato in nome della collettività e in cui le persone non si considerano “individui”, ma “compagni soldati”. Il romanzo è scritto in forma di diario da un chimico, Leo Kall, inventore del siero della verità (che prende il nome di kallocaina in suo onore). In questo stato poliziesco, le autorità sfruttano le potenzialità offerte dalla kallocaina, prontamente impiegata come strumento di controllo. In un primo momento, l’applicazione pratica della kallocaina si limita al campo della giustizia, dove può essere utilizzata negli interrogatori per far confessare la verità agli imputati. «D’ora in poi nessun criminale potrà negare la verità. Neanche i nostri pensieri più intimi ci appartengono più, come a torto abbiamo creduto per molto tempo» (p. 20), afferma soddisfatto Leo Kall, continuando: «i colpevoli confesseranno spontaneamente e senza riserve con una semplice iniezione» (p. 59). Nella società descritta da Karin Boye, tutto appartiene allo Stato: non solo i propri figli, ma anche i pensieri. Tutto è sacrificato in nome di quella «unica cosa sacra per tutti: la collettività» (p. 28). Ma in seguito ci si rende conto che essa «permetterebbe di prevedere e prevenire molte delle atrocità che ora ci piovono addosso all’improvviso» (p. 63). Questa lucidissima intuizione di Karin Boye sembra quasi anticipare il racconto Rapporto di minoranza (The Minority Report) di Philip K. Dick, in cui la polizia si serve di precognitivi per sventare i crimini prima ancora che essi siano commessi.

Quello che si crea è un clima di reciproca diffidenza, dove chiunque ritenuto «pericoloso per lo Stato» (p. 100) può essere denunciato dal proprio collega o dal proprio coniuge. Lo stesso Kall denuncia l’odiato collega Rissen e arriva a sospettare di sua moglie Linda.

In tutto questo si affaccia la visione di una Città Deserta vagheggiata dai nemici dello Stato e avvolta nella leggenda, una «città abbandonata e in rovina in un luogo inaccessibile» (p. 160), «sconosciuta e irraggiungibile» (p. 160), più antica dello Stato stesso, distrutta da bombe, gas e batteri, eppure bramata e abitata dai “diversi”, coloro che vengono definiti con disprezzo «asociali». Per usare, ancora una volta, le parole di Leo Kall, si tratta di «una favola su cose che non esistono. Cimeli di una cultura morta! In quel villaggio deserto bombardato dai gas sopravviverebbero i resti di una civiltà che risale all’epoca precedente le grandi guerre. Ma non c’era nessuna civiltà! […] Qualcosa che meriti il nome di civiltà è inconcepibile durante l’epoca civil-individualistica. I singoli lottavano contro i singoli, i gruppi sociali contro i gruppi sociali. […] Questa io la chiamo giungla, non civiltà. […] La civiltà non può esistere che nello Stato» (pp. 161-62). La descrizione della Città Deserta rimanda naturalmente alla Waste Land eliotiana, tradotta dalla stessa Boye. Alcuni versi in inglese vengono riportati anche in esergo.

Da una parte l’opera riprende alcuni elementi già presenti nelle precedenti distopie (le droghe come strumento di controllo erano già comparse nel romanzo di Huxley), ma dall’altro innova il genere e anticipa alcune delle tematiche trattate da Orwell nel suo più famoso 1984. Disseminati in ogni luogo sono i «milioni di occhi e orecchi che vedevano e sentivano giorno e notte le azioni e i dialoghi più intimi di tutti i compagni» (p. 122), oscura prefigurazione della pervasività tecnologica che caratterizza 1984 con i suoi onnipresenti teleschermi. Il protagonista, Leo Kall, non nutre una segreta avversione nei confronti dello Stato come Winston Smith, ma come nota nella sua postfazione Vincenzo Latronico «è a tutti gli effetti un antieroe, più rigido e conformista di chi ha intorno» (p. 240), è un esaltato che non solo si rende conto delle potenzialità della sua scoperta, ma si adopera affinché siano messe in atto, dando il via «a un’opera di pulizia che avrebbe liberato il corpo dello Stato da tutto il veleno inoculato dai criminali del pensiero» (p. 135). È lo stesso Kall, infatti, a proporre una legge «contro i pensieri e i sentimenti ostili allo Stato» (p. 138), una «nuova legge contro la mentalità anti-Stato» (p. 178). Le autorità accolgono con favore la sua proposta, in seguito alla quale anche «i pensieri possono essere condannati» (p. 177). Ecco dunque il concetto di psicoreato (thoughtcrime) teorizzato nove anni prima della pubblicazione del capolavoro orwelliano. Eppure Kall non ha dimenticato le parole del collega Rissen: «Nessuno che abbia passato i quarant’anni ha la coscienza pulita» (p. 240), e infatti vive nel terrore di essere sottoposto al siero che porta il suo nome. Non si fida nemmeno di se stesso. Sa benissimo che nessuno è innocente, che tutti hanno qualcosa da nascondere. Questo dato di fatto è il pilastro su cui poggiano le sicurezze dello Stato, perché come afferma lui stesso: «La ragione sacra e necessaria dell’esistenza dello Stato è la nostra mutua, legittima sfiducia l’uno nell’altro. Chi mette in dubbio questo fondamento mette in dubbio lo Stato» (p. 126).

Leggendo questo romanzo non si può fare a meno di intuire che esso è stato scritto da una sensibilità diversa, da una voce originale, quale è quella di Karin Boye, benché scelga di narrare la sua storia da un punto di vista maschile. Si tratta di una voce anzitutto poetica, che diversamente da Orwell o da Huxley antepone la soggettività dell’io narrante, l’introspezione psicologica (quasi psicoanalitica) e la riflessività del personaggio alla parte più propriamente narrativa o di azione. L’accento è posto sui pensieri di Leo Kall, estensore del diario nonché protagonista, e il lettore segue il suo flusso di coscienza.

Karin Boye nata nel 1900 a Göteborg, è una delle grandi voci della poesia svedese. Dopo la Prima Guerra Mondiale aderisce al movimento pacifista Clarté e viaggia in Europa vivendo le inquietudini del suo tempo: visita, turbata, l’URSS di Stalin (1928), la Germania che si prepara a Hitler (1932) e l’agognata Grecia (1938), culla della civiltà e dei valori a lei più cari. Il dissidio mai risolto tra impegno sociale e politico, tra una ferrea esigenza di coerenza e di ricerca di verità e un desiderio di appagamento e di abbandono agli istinti naturali la porterà a cercare la morte, solitaria, nella natura, il 23 aprile del 1941, giorno in cui i nazifascisti invadono la Grecia. Oltre alle numerose raccolte di poesie, scrive cinque romanzi di cui Kallocaina (1940) è il più noto.

Source: inviato dall’editore. Si ringrazia l’Ufficio Stampa Iperborea.