Posts Tagged ‘I classici del noir’

:: Una spaventosa faccenda e altri racconti di Jim Thompson (Fanucci 2006) a cura di Giulietta Iannone

3 novembre 2017

una spaventosa faccendaJim Thompson credo sia un nome che non necessiti di grandi presentazioni, specie tra noi lettori amanti del noir contemporaneo americano. Nel mio ipotetico pantheon ha un posto di rilievo, e non solo io tendo a pensare che sia stato uno dei più grandi e versatili, perlomeno della sua generazione, se non il più grande.
Nacque nel 1906 in una sperduta e minuscola cittadina dell’ Oklahoma, una generazione dopo Chandler (1888- 1959) per intenderci, e morì a Hollywood verso la fine degli anni ’70 solo e alcolizzato, come un tipico personaggio dei suoi libri, libri che almeno in vita furono considerati, dopo un effimero successo negli anni ‘50, niente di più che romanzetti pulp da quattro soldi (a parte tre, tutti i ventinove libri pubblicati tra il 1942 e il 1973 erano tascabili).
Per capire il suo valore arrivarono in massa i critici dagli anni ’80 in poi del Novecento, facendo accostamenti vertiginosi più che ai maestri del noir e dell’ hardboiled, ad autori prettamente letterari e non di genere come Céline, Erskine Caldwell per non parlare di William Faulkner o addirittura Dostoevskij. Insomma quando un autore viene sdoganato, gli osanna della critica arrivano fino al Cielo.
Ma insomma Jim Thompson se lo meritava, avrebbe certo meritato anche più riconoscimenti in vita, meno disperazione e indifferenza specie negli ultimi anni di vita, ma forse avrebbero alterato il suo stile, (o forse il successo stesso non apparteneva alle sue corde) e noi oggi non avremmo avuto opere come L’assassino che è in me, Un uomo da niente, o Colpo di spugna, romanzi che se vogliamo rappresentano un punto di non ritorno e una nuova ridefinizione del genere.
Dunque sebbene più famoso per i suoi romanzi Jim Thompson non evitò la narrativa breve, e se volete accostarvi a questo autore vi consiglio proprio di iniziare dai racconti. Non sarà un innamoramento veloce, Jim Thompson non utilizza artifici letterari ed effetti speciali o fuochi d’artificio, anzi ha uno stile sobrio, piano se vogliamo, che utilizza anche cinicamente un’ apparente calma compositiva per poi mordere all’improvviso come un serpente a sonagli. Ma ragazzi se amate l’arte del racconto da Jim Thompson c’è solo da imparare, dalla caratterizzazione dei personaggi (truffatori, prostitute, psicopatici, assassini e tutto il sottobosco borderline dell’ epoca che lui conosceva per esperienza diretta), all’ambientazione (perlopiù squallida e degradata, e metropolitana), a quel mood che oscilla tra cieca disperazione e ottusa speranza, che naturalmente noi lettori sappiamo benissimo quanto sia senza futuro.
Jim Thompson tocca corde profonde, grazie a un’autenticità che nasce da una profonda sofferenza. Lo sguardo di pietà umana e tenerezza che getta sui i suoi antieroi, è qualcosa che commuove e rende splendide storie di per sé sordide, deprimenti e sporche, anzi cattive ma Jim Thompson non giudica né giustifica, i suoi perdenti sono gentaglia, ma forse l’intera umanità è fatta di gentaglia, di cialtroni per cui stare dal lato giusto della legge non è una grande priorità e che cercano sempre una nuova occasione ma non la trovano mai.
Una spaventosa faccenda e altri racconti (Fireworks. The Lost Writings, 1998), raccolta curata da Robert Polito, il suo biografo ufficiale, autore anche della breve e brillante prefazione, edita in Italia nel marzo del 2006 da Fanucci con traduzioni di Eleonora Lacorte, raccoglie 12 racconti usciti nell’arco di vent’anni (1946-1967) e pubblicati sulle più famose riviste americane di genere.
Abbiamo un Jim Thompson in splendida forma capace di scrivere racconti come Buio in sala, Per sempre (il mio preferito), Una spaventosa faccenda, Pagare all’uscita e La falla del sistema il più insolito e filosofico se vogliamo. Jim Thompson scrive racconti di suspense, neri fino nel midollo. Il cinismo di Aurora a mezzanotte è difficilmente sostenibile, nonostante l’apparente dolcezza con cui è scritto. La storia è sordida, dolorosa, disturbante, e lascia poco spazio a forme anche velate di redenzione o lieto fine.
I suoi truffatori sono quasi sempre falliti e mezze tacche, alle prese col colpo che gli dovrebbe cambiare la vita, ma tutto gli si ritorce sempre contro, e non perché il male deve essere punito e meglio se in modo eclatante, ma perché la vita e i meccanismi corrotti e contorti che la regolano portano a questo fallimento esistenziale prima che etico o morale. In un lento e inesorabile sgretolamento di difese.
Mitch Allison il truffatore sfortunato (ma criminale nel midollo) de Il calice di Cellini, lo ritroviamo anche in un secondo racconto, Una spaventosa faccenda (che dà il titolo italiano alla raccolta) ed è se vogliamo il più limpido esempio dell’antieroe tipicamente americano caro a Jim Thompson.
Gli elementi autobiografici si perdono in una densa struttura narrativa in cui la realtà è deformata dalle aspirazioni e da un disperato desiderio di riscatto e di conservazione e sopravvivenza. Truffare una compagnia, uccidere, prestarsi a grandi e piccoli raggiri è quasi una forma di compensazione, un desiderio folle di ottenere un risarcimento per una vita di stenti, povertà e miseria.
I personaggi sono fermamente convinti che la loro condizione è una grande ingiustizia, loro cercano solo di pareggiare la bilancia, come la sfortunata Ardis Clinton (non vi anticipo il colpo di scena finale, ma è geniale) e il suo folle piano congeniato col suo amante che porterà a derive horror e soprannaturali.
Ho in lettura Un uomo da niente, vi saprò dire, intanto buona lettura per questo.

Per approfondire: Lia Volpatti – Senza speranza da Vita da niente, Omnibus Gialli Mondadori

Jim Thompson, per tutti Jim, nacque in Oklahoma, nel 1906. A causa di dissesti finanziari familiari fin da ragazzo fu costretto a fare i lavori più umili, dal manovale al fattorino, dall’operaio nei pozzi petroliferi al gestore di sale cinematografiche. La scrittura arriva piuttosto tardi tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta. Thompson deve la sua fama principalmente ai romanzi. Ne ha scritti più di trenta, molti dei quali nel suo periodo più prolifico, dalla fine degli anni Quaranta alla metà degli anni Cinquanta. Poco apprezzato in vita, la sua statura di autore cresce negli anni Ottanta con le riedizioni dei suoi romanzi per la casa editrice Black Lizard.
I personaggi che popolano i libri di Thompson sono truffatori, perdenti, psicopatici; alcuni di questi vivono ai margini della società, altri vi sono perfettamente inseriti. La visione nichilista dell’autore è quasi sempre espressa da una narrazione in prima persona; la profondità della sua comprensione degli abissi della follia criminale è quasi spaventosa. Difficile trovare personaggi “buoni”, nei suoi libri: anche quelli apparentemente più innocui mascherano egoismo, opportunismo e vizio.

Source: libro preso in prestito dalle biblioteche del circuito SBAM.

:: La stagione dei tradimenti, Philippe Georget (EO, 2017) a cura di Giulietta Iannone

26 luglio 2017
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Oh, guardatevi dalla gelosia, mio signore. È un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre. Beato vive quel cornuto il quale, conscio della sua sorte, non ama la donna che lo tradisce: ma oh, come conta i minuti della sua dannazione chi ama e sospetta; sospetta e si strugge d’amore!

(Iago ad Otello, atto III, scena III, traduzione italiana di Cesare Vico Lodovici)

Dopo anni di libero amore, rivoluzioni sessuali varie, promiscuità più o meno serenamente accettata, sembra che il tradimento sia ancora un tema capace di reggere la trama di un crudo polar, un poliziesco alla francese per intenderci, un genere che forse solo i francesi sanno davvero scrivere con quel tocco di introspezione e di spleen, di vita quotidiana ripetitiva e rassicurante, di violenza informe, più che fisica, psicologica.
Il tradimento e la gelosia, due entità strettamente connesse e humus ideale per quel genere di letteratura a cui interessa più sondare l’animo umano (e per esteso il quadro sociale), che determinare dove siano davvero i colpevoli e gli innocenti. In un tradimento, in un adulterio per meglio dire, nello sgretolarsi di un amore, di una coppia nata per durare, per arrivare insieme alla vecchiaia, non c’è mai un colpevole solo. I ruoli sono ambigui, non c’è nessun vero innocente. Non a caso questo tema è stato utilizzato spesso nel noir, soprattutto quando diventa ossessione e sfocia nel delitto.
Nell’Antico Testamento questa colpa è tanto grave da prevedere la lapidazione della donna adultera. E’ la rottura di un patto, più che tra uomo e donna, tra uomo e Dio. Non a caso il tema dell’infedeltà, anche morale, acquista spesso i toni dolorosi e emotivi dell’adulterio. Essere traditi dall’uomo o dalla donna che si ama ha qualcosa di irreversibile, non si torna indietro, anche se non è detto che superata l’offesa, l’orgoglio ferito, la paura di non distinguere più quando l’altro ci mente, ci inganna, ci raggira, la coppia non possa risultare rafforzata, il perdono reciproco dopo tutto è una grande prova di coraggio, di fiducia.
Di questi temi tratta La stagione dei tradimenti (Méfaits d’ hiver: Ou variations sur l’adultère et autre péchés véniels, 2015), di Philippe Georget, edito in Italia da EO e tradotto dal francese da Silvia Manfredo.
Stavo per perdermi l’incontro con questo autore, (in Italia ha già pubblicato sempre con EO D’estate i gatti si annoiano, In autunno cova la vendetta e Il paradosso dell’ aquilone), giungo ai suoi libri al terzo della serie del tenente di polizia di Perpignan, Gilles Sebag. E l’inizio della lettura non è stato promettente, in un certo senso troppo lento, un uomo, un poliziotto da un sms scopre che sua moglie Claire lo tradisce. Lui che anche i colleghi riconoscono dotato di fiuto leggendario, lo scopre per caso. Si è ingegnata, Claire, ha escogitato tutto alla perfezione perché non lo scoprisse, e invece, senza meriti, la rivelazione e la vita di lui va in pezzi. Nello stesso tempo viene chiamato sul luogo di un delitto, una donna uccisa dal marito in una camera d’albergo. Una donna che aveva appena tradito il marito. Due adulteri, slegati, noiosi, comuni.
Quando la storia ha iniziato a interessarmi? Quando si scopre che i due fatti non sono slegati per niente, quando si scopre un legame, e soprattutto è interessante come l’autore fa scoprire tutto ciò al lettore, tra interrogatori e intuizioni facendoci entrare piano piano nella vita intima del protagonista di cui di colpo diventano importanti tormenti e disperazione. E lo fa lentamente, facendo scoprire passo passo le carte. Facendoci pensare che i due amanti siano gli stessi (magari con un nome diverso), in un gioco di sdoppiamenti e di specchi.
Poi no, non è così, la trama poliziesca si ricollega forse più a un giallo classico di Dame Agatha Christie, forse il suo libro più noir, Curtain: Poirot’s Last Case, (la citazione in esergo di Shakespeare è in parte citata da questo libro), e a un celebre film di Henri-Georges Clouzot, Le Corbeau. Dopo questo punto di svolta, la lettura ha cominciato a procedere spedita fino alla scoperta dell’identità di The Eye.
Gilles Sebag è un bel personaggio, magnificamente caratterizzato con luci e ombre, simpatico per certi versi, dignitoso nel suo ruolo di uomo tradito (lui direbbe cornuto, con quella sua valenza umiliante e derisoria), sebbene anneghi il dolore nell’alcool, nel fumo, tormenti la moglie con domande imbarazzanti, si tuffi nel lavoro, scoprendo con sgomento che rispecchia proprio cosa capita nella sua vita.
Divertenti sono le parti in cui tratta delle riviste femminili, o dei siti internet, che ti fa sembrare che la maggior parte delle donne francesi stiano consumando tradimenti e si ingegnino a scoprire i mille modi per tenerli nascosti ai propri partner. Insomma si sorride anche. Amaro ma si sorride.
I rapporti tra colleghi sono ben caratterizzati, ben descritto è il paesaggio, i luoghi, lo spirito dei posti. E la vita quotidiana, la routine di una coppia sposata, i figli, il sesso, le preferenze, i pranzi, le feste comandate, i segreti che si mantengono, nonostante la convivenza. Georget è molto attento alle dinamiche e sfumature psicologiche sia maschili, che femminili. E i riflessi che queste hanno sul contesto sociale.
Singolare e non banale è la descrizione dell’ambiente della polizia, le beghe burocratiche che un medico legale deve superare per farsi riconoscere l’onorario per una visita a un detenuto, la zona ristoro fatta di qualche sedia qualche tavolo e un distributore automatico, il posto dove i poliziotti vanno a mangiare piatti tipici rafforzando lo spirito di gruppo, tra commenti sulle indagini e squarci di vita familiare e personale. Tutto a favore di un realismo ottenuto anche grazie all’aiuto di amici poliziotti di Perpignan, di Tolosa e di altre località, fonte di molte confidenze.
E le telecamere puntate su ogni angolo della città, ore e ore di nastri visionati, che ti sembra di vederle le borse sotto gli occhi dei poliziotti. Insomma Philippe Georget merita una possibilità, magari scoprirete, come me, un altro autore da tenere d’occhio.

Philippe Georget è nato a Épinay-sur-Seine nel 1963. Dopo una laurea in Storia, si è dedicato al giornalismo, prima in radio e poi in televisione per France 3. Appassionato viaggiatore, nel 2001 ha fatto il giro del Mediterraneo in camper con la moglie e i tre figli, attraversando in dieci mesi Italia, Grecia, Giordania, Libia e altri paesi. Con D’estate i gatti si annoiano, suo romanzo d’esordio, pubblicato nel 2012 dalle nostre edizioni, ha vinto nel 2011 il Prix SNCF du Polar e il Prix du Premier Roman Policier de la ville de Lens.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Giulio dell’Ufficio Stampa EO.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: La casa dei Krull, Georges Simenon (Adelphi, 2017) a cura di Giulietta Iannone

10 marzo 2017
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Simenon non è solo Maigret. “La casa dei Krull” (Chez Krull, 1939), nuovamente tradotto da Simona Mambrini per Adelphi, appartiene infatti alla sua produzione svicolata dal celebre commissario con sede al numero 36 di Quai des Orfèvres. E’ un romans-dur, come si è soliti definire la sua produzione altra, non prettamente poliziesca, più letteraria, ma in fin dei conti omogenea e coerente con l’intera poetica simenoniana. Che non è altro che un puntuale e inesorabile scavo nella psicologia dei personaggi, nel cuore e nei bassifondi della psiche umana.
Atmosfere plumbee, pioggia, umidità, il tram che passa scampanellando ogni 3 minuti, la vita che scorre monotona lungo un canale, un modesto emporio-osteria frequentato da marinai e cavallanti, questo è lo scenario in cui si apprestano a recitare i personaggi di questo breve romanzo scritto alla fine degli anni 30, (poco prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale) in cui traspaiono tutti gli odi e l’ostilità che avrebbero poi quasi profeticamente portato al conflitto.
Al centro, protagonista una famiglia tedesca naturalizzata francese, e mai accettata dalla piccola comunità di provincia in cui si è trasferita. Poi l’arrivo di Hans, parente di Germania, rompe gli equilibri. Chi ha ucciso Sidonie? Povera ragazza del luogo tubercolotica e senza futuro? La comunità compatta accusa i Krull.
Il tema del diverso, dello straniero viene trattato da Simenon con grande attenzione psicologica, scavando nell’interiorità di personaggi opachi, quasi scoloriti. E’ la luce infatti che manca, in questo romanzo fatto di ombre, che scoloriscono tra crepuscoli e albe livide. Il grigiore, il non colore si insinua nelle cose di pessimo gusto dell’abitazione dei Krull, casa rifugio, muro eretto contro l’emarginazione di cui sono vittima, pur avendo fatto di tutto per adeguarsi, confondersi con il paesaggio umano circostante, che ha il privilegio di avere una sua dimensione autoctona, conforme, integrata. I Krull sono “tedeschi” “crucchi” spregiativamente diversi, strani, peggiori. I Krull sono un corpo estraneo da espellere, da cacciare.
Oltre ad essere una storia di atmosfere e ambienti La casa dei Krull è sicuramente una storia di personaggi, di presenze spettrali e tragiche. C’è Cornelius, il capofamiglia, artigiano intrecciatore di cesti, isolato nel suo laboratorio e nella sua lingua (non più tedesco, ma non ancora francese) figura che si erge a simulacro dolente e biblico, la madre che cerca in ogni modo di difendere il figlio, Anna e Liesbeth che partecipano al dramma in atto.
E Hans che osserva questo dramma familiare in interni quasi come occhio esterno, e di più contribuisce alla degenerazione verso la tragedia: seduce la cugina Liesbeth, (fatto che sarà fondamentale, se ben osserviamo, per il concatenarsi degli eventi) estorce soldi al futuro suocero del cugino Joseph, ricambia l’ospitalità con il suo cinismo e la sua indifferenza.
Che poi alla fine chi ha ucciso Sidonie diventi un dettaglio marginale, di scarsa importanza, accentua l’impegno di Simenon a non farne un poliziesco (sebbene ci sia un omicidio, e una blanda indagine poliziesca) con le sue classiche dinamiche di disvelamento del colpevole. Anche se un colpevole (del vero dramma del romanzo) c’è, e non è l’assassino di Sidonie. Questo sdoppiamento credo sia il coup de teatre magistrale dell’autore, in una vicenda comunque troppo deprimente e verista, per scivolare nei canoni rassicuranti di chi cerca sempre in una storia il lieto fine.

Georges Simenon, romanziere francese di origine belga nasce a Liegi il 13 febbraio 1903. La sua vastissima produzione (circa 500 romanzi) occupa un posto di primo piano nella narrativa europea. Grande importanza ha poi all’interno del genere poliziesco, grazie soprattutto al celebre personaggio del commissario Maigret. Ricordiamo “Maigret e il caso Saint-Fiacre”, “Il testamento Donadieu”, “Una confidenza di Maigret“, “Maigret esita”, “Maigret e il commerciante di vini”; i due racconti autobiografici, “Quando ero vecchio” e “Lettera a mia madre” e il  libro di ricordi “Memorie intime” seguite dal libro di Marie-Jo (1981), sul tragico destino della figlia, suicida nel 1978.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo lo sconosciuto addetto stampa Adelphi.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: Recensione di La ragazza dei cocktail di James M. Cain (Isbn, 2013) a cura di Fabrizio Fulio-Bragoni

14 Maggio 2013

9788876384417gCome la prendereste se un editore di pregio -uno di quelli che stimate e dei quali vorreste possedere l’intero catalogo- a un certo punto annunciasse l’uscita dell’inedito di uno dei vostri autori preferiti -di più, dei preferiti di un tempo; uno di quelli che, anche se magari non si vede, vi hanno segnato la tarda adolescenza; uno di quegli autori che, vorreste vi dicessero, hanno lasciato un marchio indelebile sul vostro stile-?
Vi avvicinereste al testo con il cinismo del lettore smaliziato che ha assistito a troppe operazioni di “ripescaggio”, o vi dedichereste alla lettura, grati all’editore per la grande opportunità?
Ok, in certi casi l’eventualità è piuttosto remota; sopratutto se l’autore in questione è morto da trentacinque anni (trentasei, a voler essere pignoli), e ancora di più se ha scritto una ventina di romanzi hardboiled considerati -e non a torto- essenziali per gli sviluppi successivi del genere poliziesco, del noir, del pulp e di tutte le loro impalpabili varianti postmoderne.
Se poi l’autore ha fornito soggetti a film indimenticabili e -giustamente- indimenticati come La fiamma del peccato, Il postino suona sempre due volte, Ossessione ecc., l’eventualità si fa veramente remota.
Remota, certo, ma non nulla.
E così capita di approdare in libreria e trovarsi di fronte un inedito di James M. Cain. Proposto da Isbn. E siccome non si vuole fare la figura dei cretini, si procede al contrario, cominciando a informarsi sulla storia del testo: Com’è che un romanzo come La ragazza dei cocktail salta fuori solo nel 2012?
E si scopre, (merito della postfazione di Charles Ardai, consultata di straforo per non attirarsi le ire del libraio) che in effetti si tratta di un romanzo incompiuto. Che nella corrispondenza tra l’ottantatreenne James M. Cain e il suo agente dell’epoca ci sono vari accenni al manoscritto de La ragazza dei cocktail. Che poco prima di morire l’autore ne ha parlato con un intervistatore. E che la versione data alle stampe è frutto di un minuzioso lavoro di editing condotto dallo stesso Charles Ardai che firma la postfazione.
Charles Ardai; uno che, vi sembra di ricordare, è scrittore (anche se non l’avete letto), e fondatore di “Hard Case Crime” (http://www.hardcasecrime.com/), casa editrice che ha fatto dell’hardobiled (“dai capolavori perduti del noir ai romanzi dei migliori autori contemporanei”; il tutto in edizioni tascabili, super economiche e corredate da copertine originali dall’irresistibile sapore vintage) una vera e propria ragione di vita.
Insomma, date le premesse, il finale è scontato: vi portate a casa il libro di Cain, staccate il telefono, posticipate tutte le scadenze, vi date malati e cominciate la lettura.
E i sospetti iniziali (quei pochi residui) si dissipano presto, anzi, subito, fin dalle prime righe:
“Ho incontrato per la prima volta Tom Barclay al funerale di mio marito, come mi avrebbe rinfacciato più avanti, anche se allora mi aveva fatto un’impressione così blanda che non ricordavo di averlo mai visto prima”.
Vi trovate rituffati nel solito universo di James Cain; certo, l’incipit non è esattamente di quelli classici: la traduzione non è d’epoca e si vede, e, nostalgia a parte (ma è lecito, poi, essere nostalgici di costruzioni traballanti e scelte stilistiche spesso discutibili?), si vede anche che Rossari (autore di un paio di romanzi tutti suoi e traduttore, tra gli altri, di Twain, Bennett, Beniof, Thompson, Everett, Sinclair, Stein, Portis e Fry) è un vero professionista; sì, perché, pur dichiarando che “tradurre uno scrittore semplice è difficile”, riesce a “svecchiare” (termine che racchiude in se’, e anzi occulta, tutto il rischio dell’operazione, qui perfettamente riuscita) i polverosi modi dell’harboiled in traduzione,  rapportandosi “criticamente” con i classici e correggendo alcune storture traduttive, ma senza tradirne lo spirito e senza rinunciare a una sintassi vagamente demodé e al lessico d’epoca (da segnalare, su tutto, i meravigliosi dialoghi).
Confortati dall’avvio, ci si tuffa nel romanzo.
Hyattsville, Maryland, anni ’60. La giovane e avvenente Joan Medford ha appena perso il marito (in circostanze piuttosto misteriose, o almeno così la pensa l’agente Church, uno dei due detective incaricati di indagare sul caso) e se la passa così male da essere costretta ad affidare il figlio neonato Tad alle cure dell’insopportabile Ethel (sorella del defunto Ron Medford) e cercarsi un lavoro. Vedova di un alcolizzato, per ironia della sorte si ritrova a servire cocktail in un bar, il “Garden of Roses”. Qui, conosce Earl K. White, attempato ma facoltoso spasimante al quale, dopo lunghe riflessioni, decide di concedere la mano: Earl non sarà il massimo ma sembra gentile; e poi bisogna pensare a Tad…
Ed è a questo punto che la situazione precipita: la protagonista si ritrova nuovamente al centro di un’indagine per omicidio, e stavolta l’agente Church pare pronto a tutto per inchiodarla…
Se da un punto di vista tematico La ragazza dei cocktail può sembrare un romanzo tipico (vi si ritrova l’intero campionario dei topoi cari all’autore de La morte paga doppio, dalla donna fatale all’uomo in balia del suo fascino, dalla morte incombente al senso di ambiguità morale che è alla base della reazione ambivalente -voyeurismo e riprovazione- manifestata dal pubblico d’epoca), è nelle scelte narrative che l’opera rivela tutta la sua originalità: non è la prima volta che Cain pone al centro della narrazione un personaggio femminile (Mildred Pierce), e tutt’altro che inedito è l’uso della prima persona (Il postino suona sempre due volte, La morte paga doppio, Serenata ecc.). Ma è la prima volta che le due circostanze convivono. Sì, perché ne La ragazza dei cocktail, è proprio Joan a raccontarsi, e anzi ad affidare la sua vita ad un nastro, nel tentativo di fugare anche gli ultimi sospetti di colpevolezza. Ma la sua operazione è fallimentare; non convince, o non del tutto.
Il ruolo delle donne nei romanzi di Cain è ben noto; e poi Joan Medford non è né Chambers né Huff: se questi sono essenzialmente (anti)eroi attinti alla fonte esistenzialista, uomini incatenati a una sorte tragica (avente per agente la femme fatale di turno), la “ragazza dei cocktail” è un personaggio libero che, dopo aver agito (non si sa bene in che modo, visto che mancano i testimoni) secondo arbitrio, fa di tutto per presentarsi come vittima del “caso” (il che è di per sé sospetto). Come tutti i lettori dei “vecchi” noir sanno, caso e destino sono due entità opposte: il primo è incidentale, il secondo è necessario. Non c’è spazio per il caso nel noir; e poi qui la quantità di circostanze presentate come “accidentali” è tale da minare alla base la credibilità dell’intera testimonianza.
E così, grazie a un “semplice” stratagemma narrativo, Cain riesce a instillare il dubbio nel lettore, trasformando un romanzo “tipico” in una geniale, inattesa e coinvolgente costruzione sul tema dell’attendibilità.
Dimenticavo: nel caso foste ancora lì a chiedervi chi sia il Tom menzionato nell’incipit… be’, non vi resta che leggere il romanzo. Traduzione di Marco Rossari.

James M. Cain (1892-1977), autore di romanzi e racconti come Il postino suona sempre due volteLa morte paga doppio Mildred Pierce, è considerato un maestro della letteratura hard boiled americana, al pari di Raymond Chandler e Dashiell Hammett. I suoi libri hanno ispirato alcuni tra i più grandi film noir di tutti i tempi, tra cui Ossessione di Luchino Visconti, La fiamma del peccato di Billy Wilder e la recente miniserie televisiva della HBO Mildred Pierce, vincitrice di cinque Emmy. Il ritrovamento della Ragazza dei cocktail, l’ultimo romanzo «perduto» di Cain, è stato definito da Stephen King l’evento letterario dell’anno.

:: Recensione di Viva la muerte! di André Héléna (Aisara, 2012) a cura di Giulietta Iannone

29 luglio 2012

Viva la muerte! (J’aurai la peau de Salvador, 1949) è un bellissimo e amaro noir di André Héléna, pubblicato da Aisara e tradotto dal francese da Giovanni Zucca.
Ambientato in Spagna durante la Guerra Civile, e subito dopo l’avvento di Franco, e scritto qualche anno prima di Massacres à l’anisette (1955), altro noir di Héléna con ambientazione spagnola, ha per protagonista Josè Ruiz un delinquente di strada abituato sin da ragazzo a cavarsela con espedienti, furti e piccole rapine.
Nel prologo assistiamo all’incontro di Josè con un uomo in un bistrot di esuli di Montmartre.
Sarà per nostalgia, sarà per l’alcool, Josè inizia a raccontare allo sconosciuto la sua vita, la sua giovinezza in Spagna, il suo amore tormentato per Conchita, il suo odio per Salvador, un ex complice di una rapina al Banco de España scappato con buona parte del bottino.
Viva la muerte! è infondo la storia di una vendetta perseguita come unica ragione di vita da un uomo che infondo ha perso tutto, non in ultimo l’amore di Conchita, suo grande amore adolescenziale, divenuta proprio la donna di Salvador.
E’ la storia narrata in prima persona di un uomo votato alla solitudine nella più autentica tradizione noir.

Ero come un lupo solitario che vaga, d’inverno, nei boschi ormai spogli. Non può avvicinarsi a niente e a nessuno. Qualunque essere incontri, è un nemico. E’ votato alla solitudine. Era proprio così. Ero condannato a restare solo. In trincea contro il mondo, un indesiderabile, un uomo da abbattere, un lupo rabbioso. Insomma, niente per cui essere contenti e rendere grazie al Cielo.

Amarezza, melanconia, disincanto si uniscono ad un soffio poetico che quasi stride con il linguaggio duro, basso, anche volgare sicuramente inconsueto per il periodo in cui fu scritto.
La modernità di Héléna è senz’altro la caratteristica più rilevante e quasi sconcertante. Pensare che questo libro fu pubblicato nel 1949 lascia in effetti una sensazione di stupore misto a meraviglia.
L’abilità con cui alterna il registro sentimentale e poetico a riflessioni amare e non prive di un certo cinismo, pensiamo solo alle considerazioni che fa fare al protagonista sulle donne, velate di pura misoginia, è senz’altro la cifra distintiva del suo stile personale e originale che gli ha fatto giustamente guadagnare il titolo di Prince Noir.
Non ci sono ideali politici a nobilitare i comportamenti dei personaggi: Josè quasi per caso si unisce a degli anarchici, Salvador per interesse diviene falangista.
Héléna non ammanta la storia di retorica comune, e lo si nota specialmente nel suo antimilitarismo dichiarato che gli fa dire frasi lapidarie come:

appena un uomo ha una divisa addosso, diventa un malvivente.

Per gli appassionati di Héléna e del noir, da non perdere.

André Héléna, autore maledetto, dalla personalità controversa, considerato uno dei maestri del noir francese, scrive centinaia di romanzi molti dei quali sotto pseudonimo. Nato nel 1919 a Narbonne, si trasferisce giovanissimo a Parigi, partecipa alla guerra civile spagnola e, sul finire della seconda guerra mondiale, nel 1944 si unisce per un breve periodo alla Resistenza. A causa di una banalissima vicenda di debiti e firme false finisce per qualche mese in carcere, esperienza che avrà una grande influenza nella sua produzione letteraria. Si guadagna da vivere passando da un lavoretto all’altro (non ultimo il rappresentante di insetticidi…) e, a quanto si racconta, vende anche i propri libri porta a porta. Nel periodo a cavallo fra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta raggiunge un considerevole successo. Nel 1972, minato dall’alcolismo, muore a 53 anni.

:: Recensione di Il museo dell’inferno di Derek Raymond (Meridiano Zero 2012) a cura di Giulietta Iannone

27 gennaio 2012

Una cosa avrei voluto dire a Bowman, prima che ammazzasse di botte qualcun’altro: come pensi passino il loro tempo i ladri, gli assassini, i suicidi? Volevo ricordargli che lo passano sognando ad occhi aperti su materassi squarciati in qualche casa abbandonata piena di siringhe: mezzi fatti, con un Walkman scassato come unica compagnia, gli spifferi sotto la porta che sollevano la polvere, le parole “fanculo la pula”  scritte sulla polvere della finestra, mentre altri uomini si rigirano gemendo nel sonno, tra lenzuola macchiate del loro seme. Volevo mostragli l’angoscia dei loro incubi,  fargli capire cosa si prova a cercare a tentoni lo scarafaggio schiacciato la sera prima.  Volevo parlargli del sole che spacca i muri al mattino mentre i camion giù sulla superstrada, delle loro teste che esplodono quando non hanno nessun motivo per alzarsi.  Perchè infilare i piedi in scarpe senza suole? Perchè stare lì a mettersi i jeans? In quelle tasche bucate non potrebbero metterci niente, ammesso che avessero dei soldi. Era questo che volevo dire a Bowman.

Il museo dell’inferno, Dead man upright traduzione e postfazione di Alberto Pezzotta, quinto e ultimo romanzo della serie Factory dopo E morì a occhi aperti, Aprile è il più crudele dei mesi, Come vivono i morti, Il suo nome era Dora Suarez,  (il penultimo scritto da Derek Raymond, l’ultimo prima di morire nel luglio del 1994 sarà Not Till the Red Fog Rises, da poco ristampato da Meridiano Zero), è un romanzo che ha già dal titolo, scelto dal traduttore traendo spunto da un episodio del romanzo data l’impraticabilità della traduzione letterale, dispensa l’esatta gradazione di orrore che l’autore ha intenzione di consegnarci. Gli appassionati di Raymond sono una ristretta cerchia di congiurati accomunati da  un’ inquietante propensione a non spaventarsi davanti alle numerose declinazioni del male e che soprattutto non hanno paura di sporcarsi le mani. Leggere Raymond è infatti una esperienza dannatamente seria e sfibrante. Malvagità, brutalità, ferocia, non ci vengono risparmiate nè filtrate dal rassicurante ottimismo borghese che anestetizza buona parte della letteratura contemporanea, a volte anche travestita da noir. Raymond ha dissolto, estirpato la membrana che separa l’atto criminale, in tutto la sua virulenta abiezione, da chi lo compie e da chi leggendo assiste al suo svolgimento. Non ci sono barriere, cordoni protettivi, ancore di salvataggio, tutto ci è presentato senza filtri nè morali nè filosofici. Il male per Raymond non è un arzigogolo letterario, è una reale necessità atta a spiegare la condizione umana e l’inferno quotidiano che ci circonda. E in questo Il museo dell’inferno è la vetta di questa discesa scomoda e pessimistica al cuore della questione. Amato non da molti, e forse neanche da Raymond stesso, (che gli preferiscono il più elegante Il suo nome era Dora Suarez o il più coerente Aprile è il più crudele dei mesi), Il museo dell’inferno a mio avviso racchiude una certa eccezionalità e quasi l’azzardo di un uomo che sentendo arrivare la morte si sporge oltre l’abisso corteggiando gli estremi limiti consentiti. Certo ci sono pochi punti di riferimento: la Factory, distretto di polizia londinese in Poland Street, in cui opera il disilluso sergente senza nome della sezione A14  Delitti Irrisolti; una Londra arida e desolata come la terra desolata di T.S. Eliot, e certo la snervante dissoluzione della trama già presente in Incubo di strada è capace di trasmettere uno stranito senso di smarrimento, oltre alle deliranti farneticazioni di un serial killer di una tristezza che scortica la capacità di sopportazione, pur tuttavia come i figli meno amati racchiude in sé un eroico slancio di ribellione. Più che a James Ellroy, la cui differenza principale per me è che Derek è un naturalista mentre Ellroy è un romantico, vedo una stretta comunanza tra Derek e un altro maledetto del noir, Cornell Woolrich, stesso amore per i derelitti, stessa predilezione per lo squallore prosaico della vita quotidiana e le ambientazioni sordide, stessa ossessione per il male, per il crimine comune intossicato da banale mediocrità. Due fratelli nella notte, seppure separati da anni e da continenti. Che dire in conclusione leggere Il museo dell’inferno è quasi una necessità, un po’ come chiudere un cerchio quando si sa che è tutto finito e non ci sarà mai più un seguito.

Derek Raymond era lo pseudonimo di Robert William Arthur Cook, nato a Londra nel 1931 e ivi morto, al ritorno da una peregrinazione durata una vita, nel 1994. Sottrattosi ben presto all’educazione borghese impartitagli dalla famiglia, ha iniziato a viaggiare vivendo, tra gli altri posti, in Marocco, in Turchia, in Italia, improvvisandosi nei lavori più improbabili: dal riciclaggio di auto in Spagna all’insegnamento dell’inglese a New York, dall’impiego come tassista alla carriera di trafficante di materiale pornografico. I suoi esordi nella carriera letteraria risalgono agli anni Sessanta, con opere chiaramente influenzate dall’esistenzialismo di Sartre. Un’influenza che riemergerà a partire dagli anni Ottanta nella sua serie noir della Factory a cui questo romanzo appartiene. L’opera di Raymond vive di assoluta originalità nel panorama dell’hard boiled internazionale.

:: Recensione di L’occhio indiscreto di George Harmon Coxe (Polillo Editore 2011) a cura di Giulietta Iannone

28 dicembre 2011

L’occhio indiscreto (Murder with Pictures, 1935), opera prima dello scrittore americano George Harmon Coxe, (che introdusse il personaggio del fotoreporter Kent Murdock, per oscuri motivi ancora inedita in Italia), è da poco uscita nella collana I Mastini n° 10 della Polillo, con traduzione di Francesca Stignani, e per gli amanti dell’ hard boiled classico fatto di donne fatali, gangster dai capelli azzimati alla grande Gastby, poliziotti duri e puri e fotoreporter con l’hobby del delitto magari per risolvere un caso e prendersi la ricompensa è una lettura senz’altro imperdibile.
Siamo a Boston, davanti alle porte di un’aula giudiziaria si accalcano i giornalisti e i fotografi dei più importanti giornali della città in attesa di sapere se il gangster Nate Girard, uno di quelli che hanno fatto i soldi al tempo del proibizionismo con il contrabbando di liquori, verrà condannato alla sedia elettrica per omicidio.
A sorpresa il verdetto è di assoluzione, grazie anche al suo avvocato Mark Redfield che per l’occasione si guadagna una parcella da cinquantamila dollari.
Per festeggiare Redfield organizza un party a casa sua e invita anche Kent Murdock fotoreporter del Courier Herald che con Girard ha qualche legame essendo il gangster l’attuale amante di sua moglie Hestor, avida ex ballerina di fila proveniente dal burlesque, dalla quale cerca di ottenere disperatamente il divorzio.
Tra gli invitati Murdock nota un’affascinante biondina vestita di blu il cui volto spicca per onestà tra quelli degli altri invitati, ma il suo tentativo di attaccare discorso con la ragazza finisce miseramente. Murdock tornando nel suo appartamento situato nello stesso stabile, nota per le scale il fratello dell’uomo ucciso presumibilmente da Nate Girard.
La mattina dopo mentre si fa la doccia, la biondina del party si nasconde nel suo appartamento un attimo prima che il tenente Bacon della Squadra Omicidi faccia irruzione e gli comunichi che Mark Redfield è stato ucciso. Murdock nasconde la ragazza e si getta a capofitto nell’indagine per guadagnare i diecimila dollari della ricompensa che gli consentiranno di divorziare da Hestor.
Ecco in breve la trama di questo romanzo decisamente gradevole e pieno di verve, con un tocco di ironico romanticismo che spinge Kent Murdock a fare la sua dichiarazione d’amore ad una stranita e divertita Joyce Archer, sorella del principale indiziato scappato con la vedova della vittima.
Mark Redfield non sarà il solo a morire in questo romanzo forse minore, ma sicuramente interessante sia per lo svolgimento della trama, per l’effervescenza dei dialoghi e per il fascino discreto del protagonista, Kent Murdock, un fotoreporter gentiluomo capace di innamorarsi, ammansire poliziotti, subire aggressioni, e risolvere delitti, accompagnato dalla sua fida macchina fotografica, dal sorriso disarmante e dalla sua incorruttibile (non si sa fino a che punto) onestà.

George Harmon Coxe (1901-1984), nato a Olean, nello stato di New York, dopo aver abbandonato gli studi trovò lavoro dapprima come boscaiolo, poi in una fabbrica di automobili. Ben presto, però, il suo amore per la scrittura lo spinse a dedicarsi al giornalismo e tra il 1922 e il 1927 collaborò con varie testate. Nel 1927 si trasferì a Cambridge, Massachusetts, dove lavorò in un’agenzia di pubblicità fino al 1932 quando decise di rimettersi a scrivere. Tre anni dopo diede alle stampe il suo primo romanzo, Murder with Pictures (L’occhio indiscreto), nel quale introdusse il suo personaggio più famoso, il fotoreporter Kent Murdock. Fu per lui l’inizio di una lunga carriera letteraria durante la quale pubblicò 63 opere, 23 delle quali con Murdock come protagonista. Dal 1936 al 1938 lavorò per la MGM come sceneggiatore. Stimato dalla critica e dai colleghi («Il più professionista dei professionisti», lo definì il noto critico e scrittore Anthony Boucher), nel 1964 fu insignito del Grand Master Award dai Mystery Writers of America, associazione della quale era stato presidente nel 1952. Il suo ultimo romanzo, No Place for Murder (Fenner: la morte mi perseguita) fu pubblicato nel 1975, nove anni prima della sua morte avvenuta a Old Lyme nel Connecticut.

:: Recensione di La teoria dell’1% di Frédéric H. Fajardie a cura di Giulietta Iannone

18 dicembre 2011

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Se Parigi, con la sua gigantesca periferia grigia e anonima, faceva da sfondo ad Assassini di sbirri neo-polar di esordio di Frédéric H. Fajardie, in La teoria dell’1%,  seconda avventura di Tonio Padovani il commissario di origini italiane più improbabile di tutta la letteratura noir francese e non solo, ci troviamo nel bel mezzo del mese di settembre del 1979  in Normandia, nella quieta e amena campagna intorno a Pourceauville, terra del calvados, del livarot, della sigaretta papier mais che fa vomitare, delle vacche da latte e delle mosche da merda. Sopravvissuto quasi per miracolo al Grand Guignol di fuoco e proiettili con cui terminava il precedente romanzo il nostro anarchico commissario con il braccio sinistro semi-paralizzato, la gamba destra più corta di due centimetri, le decine di cicatrici e ovunque le schegge di vetro e di acciaio trascorre i suoi giorni a godere la pace della campagna con la sua Francine e il suo cane Tip-Toe quando all’improvviso si ritrova impantanato in una miserabile vicenda di delitti campagnoli. L’uomo nero, con il volto deformato da una calza di nylon, un mantello nero, un cappello simile a quelli usati dai filibustieri e dagli chouan del XVIII secolo e con sulla spalla, per colorire il quadretto, niente di meno che una falce si aggira per la campagna a mietere vite riproponendo un raccapricciante rituale che trae le sue origini, particolari macabri compresi, addirittura da fatti avvenuti al tempo dello sbarco del D day. Padovani si attacca al telefono, chiama lo Zio, chiede rinforzi e si fa spedire la sua sgangherata squadra al completo: Primmerose, un Pierre Bellemare ingenuo , un po’ minchione, allegro e sognatore: un Pierre Bellemare irreale insomma, Mamadou, una specie di Burt Lancaster africano, e in aggiunta Hautes Etudes, il mini commissario in prova di cui curare la formazione. Riuscirà il nostro commissario a risolvere il caso e a fermare questa strage che ha tanto il sapore di una vendetta? Non c’è manco da chiederselo. Fajardie costruisce una storia decisamente dissacrante, va a colpire proprio un nervo dolente della storia francese, le carognate e le codardie commesse durante l’occupazione nazista dai collaborazionisti che finita la guerra dettero alle fiamme gli archivi tedeschi che testimoniavano tutte le loro azioni per addirittura spacciarsi per appartenenti alla Resistenza. Su questo grumo oscuro Fajardie delinea un‘indagine poliziesca sui generis, con stile e ironia, riuscendo a divertire e sfiorando addirittura la comicità in alcune battute folgoranti che seppure con amarezza fanno ridere con le lacrime agli occhi. Grande traduzione di Giovanni Zucca. Imperdibile.

Frédéric H. Fajardie (nato il 28 agosto 1947 a Parigi e morto il  primo maggio a Parigi) è stato uno scrittore e sceneggiatore francese. Nell’ agosto del 1979 pubblica il suo primo romanzo  Assassini di sbirri, un adattamento molto libero dell’Orestie, un mito dell’antica Grecia. È all’origine di un nuovo genere letterario, il neo-polar, riconosciuto dal critico Max-Pol Fouchet.

Source: libro inviato dall’editore. Ringraziamo l’Ufficio Stampa “Aisara”.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: Recensione di Massacro all’anisette di André Héléna (Aisara, 2011) a cura di Giulietta Iannone

7 novembre 2011

anisetteAvevano paura solo dei carabineros, loro sì che avevano l’autorità per chiedere i documenti. Conclusione bisognava evitare i gendarmi. Ma per l’appunto quei tizi arrivano sempre quando non devono. Per ora l’essenziale era superare quella dannata curva. Dopodiché avrebbero probabilmente trovato un paesaggio più aperto e avrebbero potuto vedere cosa conveniva fare. Ma in fondo al suo cuore Justin non vedeva nessuna soluzione. Era convinto che fossero tutti in trappola, come topi. No non avevano nessuna possibilità di cavarsela, ci sarebbe voluto un miracolo e raramente il buon Dio sta dalla parte dei gangster.   

Una partita di cocaina è al centro di un gioco al massacro tra due bande criminali di trafficanti, una francese e una spagnola, sotto il sole rovente di un’ estate barcellonese, in questo bellissimo noir del 1955 di Andrè, Helena tradotto dal francese da Barbara Anzivino, Aisara edizioni.
Gangster story prima di tutto, ma anche affresco di una società uscita dalla Seconda Guerra Mondiale che si divide in gente per bene che si accontenta di un lavoro onesto, vive con un solo abito bello per la domenica, paurosa di infrangere le regole, e gente senza scrupoli pronta a tutto per portare a segno il colpo della vita e guadagnarsi la grana necessaria per fare la bella vita, magari comprandosi un’acienda in America Latina.
Gregoire e Justin, gli anti-eroi protagonisti di Massacro all’anisette, fanno parte di questa seconda categoria di uomini, senza più scrupoli e regole morali, ormai assorbiti dalla legge della Mala che fa abbandonare gli amici pur di salvarsi la vita, uccidere chi tradisce e denuncia alla polizia, vendicarsi di chi per avidità e sete di denaro vuole fare il furbo e prendersi tutto.
Gregoire e Justin oltre che complici sono amici, ma questa amicizia non salverà né uno né l’altro, passerà come un alito di vento sulla storia lasciando in Justin un vago senso di colpa nell’abbandonare l’amico e fuggire con il resto della banda in direzione di Parigi, dopo un’ affare di droga andato a male in cui ha perso la vita Manuel e altri due membri della banda sono scampati quasi per miracolo.
La droga è perduta, l’unica alternativa è la fuga con una jeep verso il confine, senza documenti, senza soldi, con la sola speranza di farla franca.
Gregoire abbandonato a Barcellona, senza la sua donna che l’ha tradito fuggendo con il resto della banda verso Parigi, è pieno di rabbia, di vero e proprio odio, è armato e non può far altro che cercare i suoi nemici della banda rivale e farsi dare quello che gli spetta. Non basta un oscuro presentimento, una morsa allo stomaco per fermarlo e spingerlo ad andare incontro al suo destino, che inevitabilmente ha il sapore della morte.
Quello che sorprende in questo romanzo è la sconcertante modernità di Helena, non solo per l’uso disinvolto del linguaggio, molto libero e fedele testimone del gergo dei delinquenti, ma per la capacità di descrivere un mondo senza falsi pudori, in cui i protagonisti sono assassini e criminali privi di retorica, dove nessuno è innocente.
Helena ci presenta dei personaggi vividi e vitali, umanamente privi di spessore, ma nello stesso tempo per cui è difficile non provare un briciolo di simpatia e in questo sta la grandezza e la peculiarità, se vogliamo, di questo scrittore decisamente fuori dai canoni.
Anche l’ambientazione è parte integrante di questa magia che riesce a creare: l’ambiente del porto disseminato di bistrot dove tutti bevono l’anisette celebrato dal titolo, brulicante di vita notturna, di prostitute pesantemente truccate dagli abiti sgargianti, di marinai, contrabbandieri.

Lì la folla era leggermente diversa. Si mischiavano marinai del mondo intero, turisti e persone assolutamente indefinibili. Si andava dal mozzo cinese al marinaio norvegese, passando per i lupi di mare del commercio americano. Per non parlare della folla di neri raccattati nei locali per marinai di San Francisco o di Port Said. Gli arabi vendevano merce parigina e tappeti. Se ne portavano cinque o sei sulle spalle e c’era da chiedersi come non si beccassero una congestione con quel caldo.

Incredibilmente, e contrariamente ad ogni aspettativa, una vena di lirismo e di poesia impreziosisce una struttura narrativa scarna e ruvida in cui la semplicità disarmante si infrange in uno stile limpido e dalla lucentezza di un diamante.
Considerato uno dei suoi romanzi minori, forse a torto, sicuramente per gli amanti del noir una lettura che riserverà notevoli sorprese. Postfazione di Hervé Delouche.

André Héléna, autore maledetto, dalla personalità controversa, considerato uno dei maestri del noir francese, scrive centinaia di romanzi molti dei quali sotto pseudonimo. Nato nel 1919 a Narbonne, si trasferisce giovanissimo a Parigi, partecipa alla guerra civile spagnola e, sul finire della seconda guerra mondiale, nel 1944 si unisce per un breve periodo alla Resistenza. A causa di una banalissima vicenda di debiti e firme false finisce per qualche mese in carcere, esperienza che avrà una grande influenza nella sua produzione letteraria. Si guadagna da vivere passando da un lavoretto all’altro (non ultimo il rappresentante di insetticidi…) e, a quanto si racconta, vende anche i propri libri porta a porta. Nel periodo a cavallo fra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta raggiunge un considerevole successo. Nel 1972, minato dall’alcolismo, muore a 53 anni.

:: Recensione di Se muoio prima di svegliarmi di Sherwood King (Polillo Editore 2011) a cura di Giulietta Iannone

17 luglio 2011

bnhSe muoio prima di svegliarmi (If I Die Before I Wake, 1938), dello scrittore americano Sherwood King, quinto titolo della collana I Mastini dedicata dalla Polillo all’hard boiled, è diciamolo subito un classico del noir che ispirò, con alcune licenze, la celeberrima trasposizione cinematografica dal titolo La signora di Shanghai, (che Orson Welles girò nel 1946 con Rita Hayworth, al tempo sua moglie, che con questo film divenne la famme fatale per eccellenza del cinema hollywoodiano degli anni ’40).
Il romanzo fu già edito in Italia nella collana Il Giallo Mondadori nel 1972, numero: 1226, con il titolo L’altalena della morte, traduzione di Dino Falconi, ma grazie alla Polillo torna con una nuova traduzione di Bruno Amato, moderna e filologicamente accurata.
New York. Laurence Planter è un giovane ex marinaio assunto come autista da un ricco avvocato di nome Mark Bannister, un uomo infelice che vive ritirato, a causa di una gamba malandata ricordo di guerra, in compagnia della bellissima moglie Elsa, di parecchi anni più giovane di lui. Un giorno riceve una strana proposta da Lee Grisby, il socio di Bannister: riceverà 5 mila dollari se fingerà di ucciderlo permettendogli così di sfuggire dalla moglie e con una nuova identità di rifarsi una vita nei Mari del Sud.
Laurence, seppur tentato dai soldi, percepisce subito che qualcosa non quadra, ma ormai per tirarsi indietro è troppo tardi. Accusato di omicidio, con la prospettiva di finire i suoi giorni sulla sedia elettrica del tutto innocente, Laurence farà di tutto per uscirne vivo giocando la sua partita con una dark lady spietata e senza scrupoli, la cui unica debolezza è essersi innamorata di lui.
Se muoio prima di svegliarmi, scritto magistralmente da un quasi sconosciuto Sherwood King, è un piccolo capolavoro in cui gli archetipi del genere, dall’innocente accusato ingiustamente, alla dark lady avida e corrotta, giocano la loro parte in un susseguirsi di colpi di scena capaci di creare una suspence continua e tesissima.
Noir dal meccanismo impeccabile ed equilibrato, in cui ogni tassello si incastra alla perfezione l’uno nell’altro, raggiunge il suo vertice grazie soprattutto ad un nervoso gioco psicologico registrato dalla voce del protagonista che racconta l’azione in prima persona.
Bello anche il personaggio del sergente McCracken, poliziotto onesto e ligio al dovere, un eroe all’antica, che crede nell’innocenza di Laurence non ostante tutto giochi a suo sfavore, e non si arrende fino a che non avrà assicurato alla giustizia il vero colpevole.
Stile, dialoghi, personaggi semplicemente perfetti.

Raymond Sherwood King (1904-1973) nacque a Yonkers, New York, ma crebbe tra il Kansas e Milwaukee, nel Wisconsin, dove si laureò alla Marquette University. Trasferitosi a Chicago, dopo esperienze nel campo della pubblicità e delle vendite, divenne collaboratore fisso del quotidiano Chicago Tribune. Pur essendosi dedicato alla narrativa, con una predilezione per quella poliziesca, fin da giovanissimo, pubblicò il suo primo romanzo, il mystery Between Murders, solo nel 1935. Oggi la sua fama è legata al libro successivo, If I Die Before I Wake (Se muoio prima di svegliarmi), che risulta essere la sua ultima opera.

:: Il bacio della vedova di Andrè Héléna (Aisara 2011) a cura di Giulietta Iannone

27 giugno 2011

Il bacio della vedova di Andrè HélénaAdesso non aveva quasi più paura. Era triste, ecco tutto, era triste. Solo i rimpianti tornavano da lui come cani fedeli ma fastidiosi. La gioia e la felicità avevano senza dubbio tagliato la corda molto tempo prima. Del resto che gioie aveva avuto? Aveva creduto di averle. Ogni felicità era stata una finzione. Erano state tutte rovinate da cose  squallide da storie di soldi o di adulterio. Anche dall’amicizia era stato tradito. Aveva finito per non credere più a niente, per avere una vita corrotta, fatta di imbrogli. Era arrivato ad un punto che la felicità la comprava come si compra un pacchetto di sigarette come si affitta una ragazza. All’ora, al mese, o all’anno. Ma infondo era sempre una questione di soldi. Fino al moneto in cui… E dire che era lui che stava per baciare la Vedova!

In una Parigi malinconica e piovosa popolata da gangster, prostitute, magnaccia, poliziotti e poveri diavoli si consumano tra bistrot e hotel malfamati le ultime ore di libertà di Maxence, un ragazzo decisamente sfortunato, a cui il destino ha truccato le carte portandolo inesorabilmente nelle braccia della ghigliottina.
“Il bacio della vedova”, così si chiama la ghigliottina dai tempi della Rivoluzione Francese, infatti porrà fine ai suoi giorni e per quanto faccia, per quanto si dibatta, nessuna grazia, nessun miracolo lo salverà da questo tragico destino.
Maxence conosce le regole del gioco sa di non essere nato sotto una buona stella, sa che se solo non si fosse innamorato di Anna Martina, se solo non avesse incontrato Robert il Lionese il gangtser appena evaso, beh forse il destino avrebbe potuto essere diverso, ma tutto congiura contro di lui, e l’inevitabile sentenza di morte che gli pende sul capo e già scritta, anche quando Mario Chilone il droghiere italiano si ferma nel suo solito bistrot a prendere un Cinzano prima di tornare a casa in seno alla sua solida famiglia borghese con la sua borsa piena di soldi, perché lui per arrotondare fa l’usuraio dissanguando i suoi compatrioti.
A casa sua con una pistola in pugno lo aspetta proprio Robert il Lionese l’ex fidanzato della sua figlia maggiore Ida, un gangster che vuole i suoi soldi e forse anche sua figlia. Chilone si fa derubare senza muovere un dito perché infondo è un vigliacco, invecchiato e impaurito da tutte le notizie che si leggono sui giornali, forse da giovane avrebbe reagito ma ora no ha bisogno di chi faccia il lavoro sporco per lui così si reca a casa di Guido lo straccivendolo e gli chiede il modo di contattare suo nipote Bruno il Siciliano, un gangster, proprietario a Pigalle di un bar il Saturne in rue Fontaine, paravento per i suoi traffici illeciti.
Incerto se tiene di più alla figlia o ai soldi Chilone chiede aiuto a Bruno che subito incarica Hector, un killer che lavora per lui, di uccidere Robert e di recuperare la borsa con i soldi.
L’esecuzione avviene proprio sotto gli occhi di Maxence in un ristorante di Les Halles e da questo momento in poi il destino del giovane è segnato.
Il bacio della vedova è un noir decisamente privo di sbavature o facili sentimentalismi. E’ un noir duro, in cui il senso di tragedia anticipato dall’epilogo posto all’inizio stempera e vanifica qualsiasi parvenza di suspense.
Maxence il protagonista è destinato a morire ghigliottinato, questa verità ci viene presentata quasi brutalmente nelle prime pagine del romanzo.
Helena non fa sconti, non indora la pillola, non cerca di abbellire il tutto con un’ aura romantica o commovente. Maxence infondo non ha nulla di eroico  è solo un piccolo delinquente senza nè arte e nè parte che cattura sì la simpatia del lettore per il suo ostinato tentativo di guadagnarsi una vita diversa, un amore, una speranza di riscatto, pur tuttavia è un vinto conscio di aver perso nel momento stesso che si permette ancora di avere speranza.
Un senso inevitabile di tragedia lo pervade e lo schiaccia in un gelido dramma esistenziale che in un certo senso accomuna l’umanità intera, l’ineluttabilità della morte. L’essenza stessa del noir.
La mala parigina, e tutto il sottobosco che la circonda fatto di spogliarelliste drogate,  prostitute minorenni, killer dagli occhi di ghiaccio sopravissuti a infanzie difficili per cui uccidere è una cosa naturale e non gli provoca la minima emozione, fanno da sfondo come un coro greco simbolo di tutta l’umanità dolente e disperata che popola questo romanzo breve e nello stesso tempo ricco di sfaccettature.
Di un lirismo a tratti struggente e a tratti patetico come il trucco disfatto di una bella donna Il bacio della vedova raggiunge vette a dir poco inconsuete. Capolavoro.

André Héléna, autore maledetto, dalla personalità controversa, considerato uno dei maestri del noir francese, scrive centinaia di romanzi molti dei quali sotto pseudonimo. Nato nel 1919 a Narbonne, si trasferisce giovanissimo a Parigi, partecipa alla guerra civile spagnola e, sul finire della seconda guerra mondiale, nel 1944 si unisce per un breve periodo alla Resistenza. A causa di una banalissima vicenda di debiti e firme false finisce per qualche mese in carcere, esperienza che avrà una grande influenza nella sua produzione letteraria. Si guadagna da vivere passando da un lavoretto all’altro (non ultimo il rappresentante di insetticidi…) e, a quanto si racconta, vende anche i propri libri porta a porta. Nel periodo a cavallo fra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta raggiunge un considerevole successo. Nel 1972, minato dall’alcolismo, muore a 53 anni.

:: Recensione di Divieto di soggiorno di André Héléna a cura di Giulietta Iannone

10 marzo 2011

1Cinematograficamente parlando André Héléna non fu quasi per nulla fortunato. Il suo amore per il cinema nato in un primo tempo dalle sue collaborazioni con la radio non fu ricambiato nonostante i suoi vani tentativi portati avanti quasi con disperata ostinazione. Non che non ci furono progetti cinematografici, anzi anche il grande Jean-Pierre Melville si interessò e progettò di girare alcuni film dalle sceneggiature che André Héléna avrebbe scritto tratte dalle sue opere ma per motivi oscuri, presumo per motivi di budget, ma non escludo anche divergenze artistiche tra il regista e Héléna,  tutto si impantanò e lo stesso avvenne con il meno famoso Jean Rollin.
Addirittura ci fu un adattamento del suo romanzo più famoso Il sapore del sangue di Marcel Blistène che rimase però unicamente sulla carta anche se erano arrivati a scritturare già il cast che comprendeva attori di prima grandezza come Alain Bouvette e Armand Mestral.
Unica eccezione fu Interdit de sejour di Maurice De Canonge uscito a Parigi il 26 gennaio del 1955 e in Italia con il titolo Aggressione Armata di cui André Héléna scrisse il soggetto e la sceneggiatura assieme a Simone Sauvage in collaborazione con il dialoghista Andrè Tabet. Non tutto andò liscio comunque e infatti la sceneggiatura originale fu rimaneggiata e adattata da Albert Simonin e Jean Rossignol che si occuparono di renderla più politicamente corretta e meno dura, per esempio il personaggio di Suzy che nella sceneggiatura originale era un prostituta venne promossa ad entraineuse, il linguaggio venne depurato.
Questa limitazione della sua libertà artistica fu accettata da André Héléna con una certa insofferenza ma non avendo scelta, viste anche le precedenti fallimentari esperienze, non si oppose più di tanto anche se l’anno seguente sempre con la collaborazione di Simone Sauvage, pubblicò la versione letteraria di Interdit de sejour e riprese molti elementi della sceneggiatura originale con alcune sostanziali modificazioni che resero la storia “indurita” e “incupita” come scrive Michel Marmin nella prefazione dell’edizione francese Laceranti istanti di felicità nella notte del destino che appare come postfazione nella versione italiana Divieto di soggiorno pubblicata nel maggio del 2010 da Aisara e tradotta da Barbara Anzivino.
La trama resta per lo più identica e incentrata su alcuni temi cardine come la polemica contro i metodi assai discutibili che la polizia utilizzava per combattere il crimine, il divieto di soggiorno, e il ruolo degli informatori che in un certo senso ne è conseguenza. E’ forse il romanzo più tragico e romantico di Héléna. Si narra infatti la storia di due giovani amanti parigini Simon Langlois e Suzy il cui amore sfortunato si scontra e inevitabilmente viene sconfitto dal Destino e dalle perverse leggi fatte di sopraffazione e violenza che regolano sia gli ambienti della Malavita che della polizia incaricata di perseguirla.
Simon e Suzy, che in maniera paradossale Héléna porta il lettore ad invidiare per la loro capacità di essere felici non ostante tutte le condizioni siano avverse, in fondo sono due anime semplici, hanno aspirazioni modeste, sognano un piccolo paradiso borghese, una guinguette in riva alla Marna, con una spiaggia davanti alla porta, una casa ammobiliata con sei stanze da affittare.
Il tema dell’innocente ingiustamente accusato e perseguitato dalla polizia viene portato alle estreme conseguenze e amplificato e reso più crudele dalla presenza costante di una felicità irraggiungibile che scintilla e quasi la si tocca, ma sempre sfugge.
Mentre il personaggio di Suzy, dolce, generosa, romantica, tenera, un po’ patetica conserva una certa immutabilità e mi ha ricordato il personaggio di Irma la douce (piece francese in due atti di Alexandre Breffort del 1956 praticamente lo stesso anno e ripresa poi nel 1963 da Billy Wilder non come musical ma come film con Shirley MacLaine come protagonista), quello di Simon si evolve durante la narrazione. Iniziamo infatti a conoscere un giovane timido, ansioso, sincero, innocente, ingenuamente innamorato di una donna che non sa essere una prostituta, con il suo onesto lavoro di incastonare in un laboratorio di orefice, orgoglioso dei suoi settanta bigliettoni al mese, cifra ridicola agli occhi di Paulo il corso, il delinquente, l’assassino, il tentatore che ha già in mente come utilizzare il giovane per uno dei suoi colpi.
Naturalmente il colpo va male e Simon viene coinvolto mentre inutilmente cerca di dimostrare la sua innocenza. E’ l’inizio della sua discesa all’inferno, forse veramente iniziata quando qualcosa era morto in lui nell’attimo che aveva scoperto quale fosse in realtà il mestiere della sua amata.
Da questi punti cardine la discesa è inevitabile, Simon perde la sua innocenza e si trasforma volente o nolente in un delinquente anche non essendolo e per lo più in un infame informatore, dopo il ricatto del commissario Chenier che del personaggio probo e difensore della legge conserva solo le spoglie.
L’epilogo tragico non può che essere un’inevitabile conseguenza. Sullo sfondo la Parigi dei bistrot, dei caffè, degli alberghi dimessi e nello stesso tempo dignitosi, descritta con lampi folgoranti e poetici nelle sue varie stagioni, nelle luci notturne e malinconiche, sotto la pioggia e sotto il sole.

André Héléna (Narbona, 8 aprile 1919 – Leucate, 18 novembre 1972) è stato uno scrittore francese. Nacque a Narbonne, nel sud della Francia, nel 1919. Nel 1944, a soli diciassette anni, pubblicò la sua prima raccolta di poesie intitolata Le Bouclier d’or e fondò la rivista di poesia «Le Poterne», ma a causa di alcune illegalità nella vendita degli abbonamenti finì in carcere. I sei mesi di reclusione saranno propizi per la stesura del suo primo romanzo, Les flics ont toujours raison, pubblicato nel 1949. Héléna scrisse poi undici romanzi nel 1952, diciotto nel 1953, dieci ancora nel 1954. In totale, in trent’anni di carriera, Héléna scrisse duecento romanzi. Tra questi si ricordano soprattutto Le goût du sang (1953) e Les clients du Central Hôtel (1960) che gli valsero i maggiori riconoscimenti. Nel 1955 dal suo Interdit de séjour viene tratto un film per il cinema diretto da Maurice de Canonge. Dimenticato dai contemporanei, Héléna morì nel 1972. (Fonte wikipedia).