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:: Recensione di La fabbrica delle vespe di Iain Banks (Meridiano Zero, 2012) a cura di Giulietta Iannone

29 giugno 2012

E dove sono adesso, dove io e Eric siamo seduti, sdraiati, a dormire, a guardare, in questa calda giornata d’estate, tra sei mesi cadrà la neve. Il ghiaccio e il gelo, la brina e la condensa, il vento ululante che arriva dalla Siberia, spinto sopra la Scandinavia a spazzare il Mare del Nord, le acque grigie del mondo e l’aria livida dei cieli. Tutte queste cose poggeranno le loro mani fredde e decise su questo posto e ne prenderanno possesso.
Voglio ridere, o piangere, o tutt’e due le cose, mentre sto qui a pensare alla mia vita, alle mie tre morti. Quattro, ora, visto che la verità di mio padre ha ucciso ciò che io ero. 

La fabbrica delle vespe (The Wasp Factory, 1984) libro d’esordio dell’autore scozzese Iain Banks, tradotto da Alessandra Di Luzio, (autrice anche della interessante postfazione da leggere rigorosamente dopo aver letto il romanzo fino all’ultima parola), fu edito per la prima volta in Italia con il titolo La fabbrica degli orrori da Fanucci nel 1996, per poi passare a Guanda e Tea alcuni anni dopo.
Ora, dopo che Alessandra Di Luzio ha rivisto e revisionato la traduzione, approda a Meridiano Zero e inaugura la collana “de te fabula narratur” punta di diamante del nuovo corso della gloriosa casa editrice padovana intrapreso con la acquisizione da parte di Odoya.
In più occasioni definito romanzo di culto La fabbrica delle vespe è un romanzo decisamente surreale e inquietante e per alcuni versi anche scioccante non tanto per gli aspetti macabri e per la violenza descritta fin nei minimi dettagli contro animali e bambini, sottolineata da abbondanti dosi di humour nero, ma per la totale naturalezza con cui il protagonista descrive il suo essere percepito come normale e deprivato quasi da ogni senso di colpa, sebbene abbia la consapevolezza di avere crimini spaventosi sulla coscienza.
Frank Cauldhame, il sedicenne antieroe e narratore in prima persona di questa terribile favola macabra, possiede o è posseduto dal Male nella sua forma più velenosa e eccessiva. La sua infanzia, la sua adolescenza sono dominati da un segreto che verrà rivelata nell’ultimo capitolo, forse nel finale più sconcertante che abbia mai letto.
La tentazione di rivelarvi questo segreto è tanta e la capacità della traduttrice di non fare trapelare nulla durante la traduzione è davvero eroica, per cui cercherò di resistere e di parlarvi di questo libro senza rovinarvi il salto sulla sedia che farete nel leggere di cosa Frank è vittima, fatto che ribalterà probabilmente in parte la pessima opinione che vi sarete fatti di lui o anche se non giustificherà del tutto il suo comportamento perlomeno gli darà una spiegazione comprensibile e quasi razionale.
Dite che è impossibile? Non conoscete il sottile amore per il paradosso di Iain Banks, conosciuto in Italia forse più per i suoi libri di fantascienza con il nome di Iain M. Banks, ma capace di costruire trame contaminate di horror e critica sociale davvero sinistre.
Frank Cauldhame adolescente complicato e fuori dalla società, non ha certificato di nascita né è mai andato a scuola, vive con il padre in una piccolissima isola della Scozia in uno stato di quasi completo isolamento sacerdote di un culto quasi religioso che implica le immolazioni come vittime di piccoli animali e anche di tre bambini, uccisi quando non aveva ancora compiuto dieci anni.
La sua sete di sangue e di dolore sembra avere origini oscure probabilmente legate a cosa succede dietro la porta dello studio di suo padre, sempre chiusa a chiave. La strana normalità in cui Frank è immerso sembra precipitare quando vengono avvertiti che il fratello Eric, piromane da anni rinchiuso in ospedale psichiatrico, è scappato e la polizia pensa che sia stia dirigendo nell’isola per tornare a casa.
Per palati forti.

Iain Banks (Dunfermline 1954-2013), grandissimo scrittore scozzese, è considerato dalla critica e dai lettori l’autore più significativo emerso nella fantascienza britannica contemporanea. Dopo aver girato l’intera Europa in autostop svolgendo i più svariati lavori, negli anni Ottanta è clamorosamente salito
alla ribalta letteraria con la pubblicazione del romanzo La fabbrica delle vespe (Meridiano Zero 2012). Fra le sue opere fantascientifiche magistrali sono i romanzi appartenenti al celebre “Ciclo della Cultura”.

:: Recensione di Il museo dell’inferno di Derek Raymond (Meridiano Zero 2012) a cura di Giulietta Iannone

27 gennaio 2012

Una cosa avrei voluto dire a Bowman, prima che ammazzasse di botte qualcun’altro: come pensi passino il loro tempo i ladri, gli assassini, i suicidi? Volevo ricordargli che lo passano sognando ad occhi aperti su materassi squarciati in qualche casa abbandonata piena di siringhe: mezzi fatti, con un Walkman scassato come unica compagnia, gli spifferi sotto la porta che sollevano la polvere, le parole “fanculo la pula”  scritte sulla polvere della finestra, mentre altri uomini si rigirano gemendo nel sonno, tra lenzuola macchiate del loro seme. Volevo mostragli l’angoscia dei loro incubi,  fargli capire cosa si prova a cercare a tentoni lo scarafaggio schiacciato la sera prima.  Volevo parlargli del sole che spacca i muri al mattino mentre i camion giù sulla superstrada, delle loro teste che esplodono quando non hanno nessun motivo per alzarsi.  Perchè infilare i piedi in scarpe senza suole? Perchè stare lì a mettersi i jeans? In quelle tasche bucate non potrebbero metterci niente, ammesso che avessero dei soldi. Era questo che volevo dire a Bowman.

Il museo dell’inferno, Dead man upright traduzione e postfazione di Alberto Pezzotta, quinto e ultimo romanzo della serie Factory dopo E morì a occhi aperti, Aprile è il più crudele dei mesi, Come vivono i morti, Il suo nome era Dora Suarez,  (il penultimo scritto da Derek Raymond, l’ultimo prima di morire nel luglio del 1994 sarà Not Till the Red Fog Rises, da poco ristampato da Meridiano Zero), è un romanzo che ha già dal titolo, scelto dal traduttore traendo spunto da un episodio del romanzo data l’impraticabilità della traduzione letterale, dispensa l’esatta gradazione di orrore che l’autore ha intenzione di consegnarci. Gli appassionati di Raymond sono una ristretta cerchia di congiurati accomunati da  un’ inquietante propensione a non spaventarsi davanti alle numerose declinazioni del male e che soprattutto non hanno paura di sporcarsi le mani. Leggere Raymond è infatti una esperienza dannatamente seria e sfibrante. Malvagità, brutalità, ferocia, non ci vengono risparmiate nè filtrate dal rassicurante ottimismo borghese che anestetizza buona parte della letteratura contemporanea, a volte anche travestita da noir. Raymond ha dissolto, estirpato la membrana che separa l’atto criminale, in tutto la sua virulenta abiezione, da chi lo compie e da chi leggendo assiste al suo svolgimento. Non ci sono barriere, cordoni protettivi, ancore di salvataggio, tutto ci è presentato senza filtri nè morali nè filosofici. Il male per Raymond non è un arzigogolo letterario, è una reale necessità atta a spiegare la condizione umana e l’inferno quotidiano che ci circonda. E in questo Il museo dell’inferno è la vetta di questa discesa scomoda e pessimistica al cuore della questione. Amato non da molti, e forse neanche da Raymond stesso, (che gli preferiscono il più elegante Il suo nome era Dora Suarez o il più coerente Aprile è il più crudele dei mesi), Il museo dell’inferno a mio avviso racchiude una certa eccezionalità e quasi l’azzardo di un uomo che sentendo arrivare la morte si sporge oltre l’abisso corteggiando gli estremi limiti consentiti. Certo ci sono pochi punti di riferimento: la Factory, distretto di polizia londinese in Poland Street, in cui opera il disilluso sergente senza nome della sezione A14  Delitti Irrisolti; una Londra arida e desolata come la terra desolata di T.S. Eliot, e certo la snervante dissoluzione della trama già presente in Incubo di strada è capace di trasmettere uno stranito senso di smarrimento, oltre alle deliranti farneticazioni di un serial killer di una tristezza che scortica la capacità di sopportazione, pur tuttavia come i figli meno amati racchiude in sé un eroico slancio di ribellione. Più che a James Ellroy, la cui differenza principale per me è che Derek è un naturalista mentre Ellroy è un romantico, vedo una stretta comunanza tra Derek e un altro maledetto del noir, Cornell Woolrich, stesso amore per i derelitti, stessa predilezione per lo squallore prosaico della vita quotidiana e le ambientazioni sordide, stessa ossessione per il male, per il crimine comune intossicato da banale mediocrità. Due fratelli nella notte, seppure separati da anni e da continenti. Che dire in conclusione leggere Il museo dell’inferno è quasi una necessità, un po’ come chiudere un cerchio quando si sa che è tutto finito e non ci sarà mai più un seguito.

Derek Raymond era lo pseudonimo di Robert William Arthur Cook, nato a Londra nel 1931 e ivi morto, al ritorno da una peregrinazione durata una vita, nel 1994. Sottrattosi ben presto all’educazione borghese impartitagli dalla famiglia, ha iniziato a viaggiare vivendo, tra gli altri posti, in Marocco, in Turchia, in Italia, improvvisandosi nei lavori più improbabili: dal riciclaggio di auto in Spagna all’insegnamento dell’inglese a New York, dall’impiego come tassista alla carriera di trafficante di materiale pornografico. I suoi esordi nella carriera letteraria risalgono agli anni Sessanta, con opere chiaramente influenzate dall’esistenzialismo di Sartre. Un’influenza che riemergerà a partire dagli anni Ottanta nella sua serie noir della Factory a cui questo romanzo appartiene. L’opera di Raymond vive di assoluta originalità nel panorama dell’hard boiled internazionale.

:: Recensione di Día de los muertos di Kent Harrington

6 giugno 2011

dias de los muertosDía de los muertos di Kent Harrington è un nero di confine, anzi un nerissimo piccolo capolavoro simile ad un tizzone sputato dall’inferno. Un classico che la Meridiano Zero rispolvera in grande stile in una nuova edizione che farà felici non solo i vecchi appassionati di noir come me, ma anche coloro che si accostano per la prima volta al genere e vogliono iniziare con i capisaldi del noir americano sporco e cattivo per intenderci, quello senza redenzione e senza luce anche se ambientato nell’assolata e bollente Tijuana, città feticcio del genere, da quando James Ellroy (chi non si ricorda di Tijuana Mon Amour), l’ ha eletta capitale mondiale dei disperati, dei maledetti da Dio e dagli uomini.
A Tijuana si va per fare impunemente tutto ciò che nelle rispettabili città dell’America perbenista e bacchettona non si può fare. E’ un asilo di reietti, un rifugio di anime dannate schiave del gioco d’azzardo, delle donne e della droga.
A Tijuana tutto è concesso. Tutto.
Lo sa bene Vincent Calhounun perdente con le ore contate che se non lo fa fuori il virus che gli scorre nelle vene ha una sfilza di nemici pronti a sparare il proiettile fatale.
Come c’è finito in quell’angolo di niente con le spalle al muro, senza via d’uscita? E’ una lunga storia che ci riporta ad un tempo in cui era un onesto professore precario in un piccolo paesino rurale della California.
Tutto andava per il meglio finchè non posò gli occhi su una donna, una studentessa Celeste Stone e come nelle peggiori favole nere che si rispettino fu l’inizio della fine. Scacciato dalla scuola con disonore, interdetto dall’insegnamento per tutti i secoli a venire per essere stato scoperto con le braghe calate in compagnia della ragazza, arrestato, in alternativa alla galera non poté far altro che arruolarsi nel corpo dei Marines e ora si trova a Tijuana agente della Dea suo malgrado, pieno di debiti fin sopra i capelli a causa della sua irresistibile passione per le corse dei cani, e non può far altro per pagare i suoi debiti che trasportare clandestini al di la del confine tra un accesso di febbre e l’altro.
Día de los muertos è il resoconto tragico e disperato del suo ultimo giorno di vita e Vincent Calhoun sputerà sangue credetemi ma lo farà conservando qualcosa di raro e di prezioso, conservando se stesso.
Come ha detto lo stesso Harrington il debito verso Jim Thompson è evidente ma nello stesso tempo è bene dire che non risulta una sbiadita copia dell’originale. Harrington ha un suo stile, una sua singolarità che in un certo senso lo rende unico e dannatamente politicamente scorretto.
Vincent Calhoun può esser visto come una sorta di Philippe Marlowe maledetto, capace di toccare il fondo del barile pur continuando ad andare avanti. Non troverà una morte eroica, il suo sogno di lasciare tutto e scappare con la sua donna in un altrove lontano verrà inesorabilmente tradito, pur tuttavia conserva un che di grandioso.
Tifiamo per lui fino alla fine, non ostante tutto sia contro, consci che non ci sarà un finale lieto ad attenderci, ma nello stesso tempo pronti a tendergli una fune, a fermare quella dannata macchina che corre verso l’orizzonte con a bordo la sua donna, lasciandolo solo nella resa dei conti finale.

:: Recensione di Notte di sangue a Coyote Crossing di Victor Gischler a cura di Giulietta Iannone

15 marzo 2011

4Immaginatevi una città fantasma di quelle che costellano come chiazze polverose la desolante realtà della provincia americana. Una città che si sviluppa lungo un’unica via, un’ unica spina dorsale, la Main Street, costeggiata da negozi: la bottega del barbiere, l’emporio, la banca, l’ufficio dello sceriffo, la stazione dei pompieri. Edifici che sembrano i resti spettrali di un vecchio set cinematografico abbandonato dove si giravano vecchi western con il sottofondo lagnoso di qualche ballata country. Con un unico bar Skeeter ’s dove si facevano anche hamburger, un vecchio drive-in, il Tropicana, ormai dismesso e in avanzato stato di abbandono, un motel, una stazione di servizio Texaco, un trailer park che si riduce ad essere “uno scalcinato assembramento di una ventina di case mobili” e tanta campagna incolta, coltivata, adibita a pascolo, limitata da ranch.
Benvenuti nel profondo Oklahoma, e per la precisione a Coyote Crossing, uno sputo di paese in mezzo al più beato nulla. Già il nome è tutto un programma, un nome appiccicato da qualche pioniere forse in vena di scherzi per dare nuova vita ad un paese “nel buco del culo dell’Oklahoma” che prima che arrivasse la ferrovia forse “chiamavano Creek Qualcosa, con qualche parola indiana che significava spirito di scorpione sputato dall’inferno o giù di li”. A Coyote Crossing non succede mai nulla. La gente è tranquilla, non ci sono che bifolchi e camionisti, e a vigilare su tutti lo sceriffo Frank Kruger, un omone gigantesco, tenero come uno schiacciasassi che ha i suoi metodi per ricacciare i ragazzetti che arrivano in paese per ubriacarsi: due colpi di sfollagente assestati nei punti giusti, una notte in guardina e vedi che non ritornano.
Già ma una notte d’agosto un evento imprevisto darà il via ad un vertiginoso susseguirsi di morti ammazzati che vedrà al centro il vicesceriffo part-time Toby Sawyer, ancora un ragazzo in fondo, padre per caso, marito controvoglia, amante di una minorenne per noia,  il cui unico chiodo fisso è la musica e il rimpianto per la vecchia band con la quale aveva vissuto per una breve stagione il sogno di scollarsi da quel pantano.
Qualcuno ha pensato bene di crivellare di colpi il pick up di Luke Jordan, naturalmente con lui a bordo. Ora il cadavere di Luke inizia a decomporsi circondato dalle facce perplesse dello sceriffo e del suo vice part-time. Chi può essere stato a dare il via ad una sparatoria in piena regola nella via principale di Coyote Crossing? Il fatto grave è che Luke Jordan, il classico bullo di paese, belloccio e violento, sempre in jeans stinti, T-shirt senza maniche e stivali da cowboy in finta pelle fatti passare per pelle di serpente a sonagli, ha dei fratelli delinquenti come lui, coinvolti in ogni disonesto traffico nel giro di miglia. “Un intera famiglia assoldata dal diavolo per i suoi sporchi affari.” E questo significa che presto piomberanno in città a reclamare vendetta come nel più classico film western dei bei tempi andati, pensiamo solo a Mezzogiorno di fuoco o Sfida all’O.K. Corral.
Toby Sawyer anche se ancora inesperto non è proprio stupido e capisce all’istante che quando il cadavere di Luke scompare, e ironia della sorte proprio lui era stato incaricato di vigilarvi, beh qualcosa che non quadra deve esserci per forza. E che dire quando vede un suo collega Billy Banks complottare con una banda di chicanos gli stessi che l’hanno appena gonfiato come una zampogna per prendergli un paio di chiavi, per giunta quelle sbagliate.
E’ l’inizio di una notte allucinante e interminabile in cui si troverà a uccidere un collega a colpi d’ascia, a correre con in braccio il figlio di pochi mesi inseguito da un pioggia di proiettili, a entrare in una stanza di un motel con il muso di un camion, a saltare da una finestra di una casa in fiamme, a vedersela molto da vicino con un dobermann inferocito, a sfuggire alla vendetta dei fratelli Jordan seriamente intenzionati a ucciderlo credendolo il responsabile della morte di Luke, per una faccenda di corna che gli cade addosso come una tegola tra capo e collo, e infine come se non bastasse dovrà fare i conti con i veri responsabili di un traffico di clandestini.
Questo è in sintesi quello che succede in questo adrenalinico e scoppiettante western-noir moderno, ultima opera edita in Italia dell’ormai mitico e inimitabile Victor Gischler, per gli amanti del pulp noir una garanzia. Dopo la Gabbia delle scimmie, esordio spiccatamente hard boiled, Anche i poeti uccidono black comedy già recensita da noi su queste pagine e Black city. C’era una volta la fine del mondo, meglio conosciuto con il titolo originale Go-go girls of the apocalypse, ecco a voi dunque Notte di sangue a Coyote Crossing (Meridiano Zero).
La penna nera e intinta di veleno, molto alla Jim Thompson, di Gischler ci porta a confrontarci con un Toby Sawyer atipico antieroe, paladino di un’altra America violenta e nello stesso tempo irriverente, ancora capace di un’ostinata moralità, dove i buoni si contrappongono ai cattivi e ne escono pure vincenti. I personaggi sono sfaccettati e compositi, ognuno con i suoi tratti caratteristici anche i personaggi minori, specialmente quelli femminili, che magari compaiono in una o poche scene come la vecchia matriarca Antonia, nonna ultranovantenne dei terribili fratelli Jordan, la infelice e insoddisfatta Doris, moglie fedifraga del protagonista e madre degenere del piccolo Toby junior, un frugoletto rosa che non fa che dormire e che lei non esiterà ad abbandonare, l’indipendente e forte Molly, gothic girl minorenne della situazione, amante di Toby e decisa anche lei ad abbandonare Coyote Crossing per sfuggire a un patrigno ubriacone e violento.
Lo stile di Gischler cadenzato da un ironia e un humour nero a go go alterna particolari decisamente splatter, da non perdersi l’uccisione a colpi d’ascia, a parti più spiccatamente thriller. E poi la traduzione di Luca Conti è un fatto non trascurabile. Si legge alla velocità di un treno senza freni scagliato nella notte a tutta birra e sovrastato da un cielo nero come la pece chiazzato da stelle grandi come stelle di latta. Dal 26 marzo in tutte le librerie. Da non perdere.

Notte di sangue a Coyote Crossing di Victor Gischler, Meridiano Zero, Collana Meridianonero, Traduzione dall’inglese di Luca Conti, Titolo originale dell’opera The deputy, 2011, 256 pagine, Prezzo di copertina Euro 14, 00.

:: Recensione di Stanze nascoste L’autobiografia di Derek Raymond (Meridiano Zero, 2011) a cura di Giulietta Iannone

12 febbraio 2011

1Stanze nascoste è essenzialmente un libro di memorie, lo sforzo di un uomo che sente avvicinarsi la vecchiaia, forse anche la morte, e vuole fare un bilancio della propria vita ricorrendo ad un’arma a doppio taglio, un’arma impropria in fondo che se mal maneggiata può fare solo danno: l’uso sconsiderato della verità.
Se consideriamo che scrisse di suo pugno

Vengo da una famiglia in cui la menzogna era la norma, al punto che era inevitabile affinare il linguaggio per non lasciarsi scappare la verità

diventa subito chiaro come per lui fu una vera lotta corpo a corpo perseguire il vero senza lasciarsi sedurre dalle lusinghe abbellendo i fatti e le riflessioni per farsi vedere dagli altri nella sua luce migliore. Questa lotta impari e titanica durò per tutte le 335 pagine di Stanze nascoste e ci lascia un po’ storditi e quasi sgomenti.
Anche confrontarsi con Derek Raymond infatti è una vera lotta corpo a corpo, la sua scrittura ha qualcosa di magico, di inarrivabile, è così magistrale che qualsiasi cosa si scriva può suonare falsa e di maniera a meno che non decida di fare una serie continua di citazioni, ipotesi che non ho scartato del tutto considerato che nessuno sa parlare di Derek Raymond come Derek Raymond.
Dicevo che era un libro di memorie ma non solo, Raymond si preoccupa di annoiare i lettori che non amano i libri, perché  di libri parla, di scrittura, di noir, del processo misterioso e nascosto che opera nelle stanze buie della sua anima e lo porta a creare trame, dialoghi, personaggi.
Le sue lezioni sono fulminanti. Ci affascina quando parla del piacere della scrittura.

La frase perfetta è come una bella donna che indossa l’unico vestito giusto per lei in quel momento e solo una goccia di profumo, niente di superfluo e lo sguardo che ha mentre attraversa una stanza in penombra è solo per te. Questo è il piacere che provo nel mio lavoro, quelle poche volte che succede quando il linguaggio appartiene completamente al personaggio, è ciò che dice. Quando accade non lo dimentichi e ti ripaga di tutti gli sforzi che hai fatto.

Ci fa riflettere sul rapporto tra lingua scritta e quella parlata.

Devi ascoltare quello che scrivi. Se non ci riesci, per quanto rumore tu faccia, c’è sempre silenzio.

Dà una sua personale definizione di stile.

Per me è vitale continuare a scrivere in modo che la lingua si muova nella mente del lettore non meccanicamente ma spontanea, realistica, autentica. È questo che intendo per stile. La struttura ha le sue regole e funzioni inconsce come il corpo che normalmente passano inosservate, si notano solo quando mancano.

Ci commuove quando parla di solitudine.

Non conosco il valore dell’intimità finchè non resto solo. Allora capisco tutto. Il problema sta tutto qui, eppure è questo che fa di me un cantore della solitudine e degli orrori che l’accompagnano.

Per chi voglia capire davvero cosa sia il noir, immergersi nelle pagine della sua autobiografia è davvero un’esperienza  insostituibile.

Sono sicuro che fu quando mi opposi per la prima volta ai miei genitori che capii che per ottenere qualcosa di buono e tangibile bisogna soffrire. Siccome il noir, come lo concepisco io, parla di questo, è molto importante essere chiari quando si usano termini come bene, male, costrizione, pazzia, assenza e non fermarsi al primo significato che spesso si dà a questa parola”.

O ancora sul finale

Il noir parla di tutta questa bellezza e anche di questa tristezza. Porta il lutto non per il crimine, che è l’ultima espressione della disperazione, ma per la realtà e la compassione che la gente per bene, se ce ne è ancora, dedica ai morti – soprattutto a quelli che si sono sottratti da soli ad un’esistenza lenta e fredda. Il noir questo vicolo nero e stretto, è l’unico scopo della mia scrittura, il mio tentativo di capire la condizione umana, dopo aver vagato tra paradiso e inferno come un cliente indeciso tra due pub, uno da un lato e uno dall’altro della strada.

Continuerei a lungo a citare Raymond perché quasi ogni sua frase è una piccola epiphany joyciana ma tanto vale rimandarvi alla lettura del libro. Quello che so per certo è che leggere Raymond nel mio piccolo ha migliorato il mio stile, sbloccato meccanismi, reso più fluido il distacco tra ciò che penso di voler scrivere e la pagina scritta. È un’ esperienza che consiglio di fare a tutti, specie agli aspiranti scrittori che forse non impareranno a scrivere come Raymond ma sicuramente impareranno a  conoscere meglio se stessi.

Traduzione di Federica Alba e Pamela Cologna.

Derek Raymond era lo pseudonimo di Robert William Arthur Cook, nato a Londra nel 1931 e ivi morto, al ritorno da una peregrinazione durata una vita, nel 1994.
Sottrattosi ben presto all’educazione borghese impartitagli dalla famiglia, ha iniziato a viaggiare vivendo, tra gli altri posti, in Marocco, in Turchia, in Italia, improvvisandosi nei lavori più improbabili: dal riciclaggio di auto in Spagna all’insegnamento dell’inglese a New York, dall’impiego come tassista alla carriera di trafficante di materiale pornografico. I suoi esordi nella carriera letteraria risalgono agli anni Sessanta, con opere chiaramente influenzate dall’esistenzialismo di Sartre. Un’influenza che riemergerà a partire dagli anni Ottanta nella sua serie noir della Factory a cui questo romanzo appartiene. L’opera di Raymond vive di assoluta originalità nel panorama dell’hard boiled internazionale.

:: Recensione di Incubo di strada di Derek Raymond (Meridiano Zero, 2011) a cura di Giulietta Iannone

1 gennaio 2011

1Si chiamava Robert William Arthur Cook, ma gli amanti del noir lo ricorderanno come Derek Raymond, pseudonimo con cui firmava uno dopo l’altro i suoi capolavori: E morì a occhi aperti, Aprile è il più crudele dei mesi, Come vivono i morti, Il mio nome era Dora Suarez.
Derek Raymond è morto, ormai dal lontano 1994, ma resta uno dei grandi maestri del noir, difficilmente imitabile, difficilmente superabile, perché opera e vita in Derek Raymond si fondono ed acquistano una valenza liberatoria e a loro modo tragica.
Derek Raymond non si atteggiava ad anima dannata, era quello che scriveva, parlava di se stesso, in prima persona esponendosi sempre senza filtri, mediazioni, barriere e per questo arrivava al lettore con tutta la sua carica di violenza e disperazione e provocava ferite, faceva sanguinare, non faceva prigionieri.
Non ringrazierò mai abbastanza Marco Vicentini che con la sua Meridiano Zero ci ha permesso di leggere i suoi capolavori in traduzioni curate che danno a Derek Raymond il giusto posto che merita nella storia della letteratura permettendo anche a coloro che non conoscono l’inglese di immergersi nell’atmosfere tragiche e infette dei suoi libri.
Lo so andrò controcorrente, probabilmente Incubo di strada non verrà ricordato come uno dei suoi capolavori e molti critici si affanneranno a vederci limiti e difetti, ma a mio avviso merita un discorso a parte, merita di essere rivalutato e considerato per quello che è: la storia di un addio, il destrutturato lamento di un morente che con le fluide proiezioni di un incubo getta una luce di speranza e di amore in un mondo dominato dalla violenza, dalla tragica sopraffazione del più forte sul più debole, dall’impossibilità di trovare una strada che porti alla redenzione e alla salvezza.
Una vena insolitamente romantica e non pessimista pervade queste pagine e ci porta quasi agli antipodi di opere ben più tragiche come Aprile è il più crudele dei mesi o Il mio nome era Dora Suarez. Certo non dobbiamo aspettarci un happy end consolatorio o vincitori, ma pur restando nei canoni del noir c’è uno scardinamento del genere, un superamento dei suoi limiti. Vita e morte si intrecciano così fittamente, e in questo mi ha ricordato molto Hugues Pagan, da trovare un canale di congiunzione il sogno appunto  o meglio l’incubo del titolo.
La trama è scarna, essenziale quasi astratta e priva di climax. Non c’è intensità crescente nè concatenamento di avvenimenti né catartica risoluzione e ricostituzione dell’equilibrio, anzi c’è un voluto esatto contrario, un tono smorzato e  spoglio in cui gli sprazzi di cieca violenza sono le uniche note di colore in una tela dove se no emergono i toni onirici del nero e del grigio.
Incubo di strada è un’eccezione, un caso a sé peculiare e straordinario nella sua unicità, fu scritto nel 1988 per il mercato francese e inedito in Italia fino a ora. I bassifondi di Parigi sono lo scenario d’elezione, le strade sporche di pioggia e di corruzione morale e fisica più che gli interni crepuscolari rendono viva e vitale l’atmosfera di disgregazione e perdizione in cui si muovono i personaggi in cui solo il protagonista principale ed Elenya, la sua donna, emergono dando agli altri personaggi la consistenza di gnomi.
La trama dicevamo è destrutturata, a tratti incoerente, priva di consequenzialità, onirica appunto come un quadro surrealista dove non si rispettano distanze e proporzioni.
E’ la storia di un flic, Kleber appunto, un poliziotto invecchiato male e stanco di violenza che ha trovato la sua pace e la sua redenzione nell’amore per la sua donna Elenya, un ex prostituta polacca, bellissima come le donne angelicate del dolce stil novo, strappata dalla strada e dallo sfruttamento del suo protettore.
Kleber è un poliziotto che la strada non ha corrotto, che non è sceso a compromessi, che ha conservato la sua umanità e lo si nota con vivida chiarezza all’inizio del libro durante l’interrogatorio del giovane che ha ucciso la sua donna. Poi il suo carattere prende il sopravvento: la sua incapacità di lisciare i superiori lo spinge a gettare all’ortiche la sua carriera, a prendere a pugni un ispettore gesto che darà il via ad una vera e propria discesa agli inferi.
Prima sospeso dal servizio, poi sempre più coinvolto in affari illegali per proteggere Mark l’amico delinquente che arriverà a coinvolgerlo fino ad un tragico scontro a fuoco che innescherà una spirale di violenza e una guerra aperta con la malavita che vedendolo ormai solo e indifeso potrà attaccarlo senza pietà. Una bomba messa nella sua auto e diretta a lui farà morire accidentalmente Elenya e con lei ogni speranza di amore, di salvezza.
Da questo momento in poi la giustizia tenderà sempre più a confondersi con la vendetta fino all’atto finale, inevitabile, tragico e devastante in cui Kleber troverà la morte. Morte che non sarà altro che il proseguimento di un sogno, il ricongiungimento con Elenya in un altrove in cui la violenza e il male non avranno più ragione d’esistere.

Incubo di strada di Derek Raymond Meridiano Zero collana Meridianonero traduzione Marco Vicentini 2010, 159 pagine, brossura, Euro 13,00.

Derek Raymond era lo pseudonimo di Robert William Arthur Cook, nato a Londra nel 1931 e ivi morto, al ritorno da una peregrinazione durata una vita, nel 1994. Sottrattosi ben presto all’educazione borghese impartitagli dalla famiglia, ha iniziato a viaggiare vivendo, tra gli altri posti, in Marocco, in Turchia, in Italia, improvvisandosi nei lavori più improbabili: dal riciclaggio di auto in Spagna all’insegnamento dell’inglese a New York, dall’impiego come tassista alla carriera di trafficante di materiale pornografico. I suoi esordi nella carriera letteraria risalgono agli anni Sessanta, con opere chiaramente influenzate dall’esistenzialismo di Sartre. Un’influenza che riemergerà a partire dagli anni Ottanta nella sua serie noir della Factory a cui questo romanzo appartiene. L’opera di Raymond vive di assoluta originalità nel panorama dell’hard boiled internazionale.