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:: Un’intervista con Isabella Zani, traduttrice italiana di “La vedova di Hong Kong” di Kristen Loesch, a cura di Giulietta Iannone

26 ottobre 2025

Benvenuta Isabella, e grazie di averci concesso questa intervista che verterà sul suo lavoro di traduzione di un libro molto particolare e per certi versi anche davvero complesso come La vedova di Hong Kong. Mentre lo leggevo mi è venuto spesso in mente di poterle fare delle domande per aiutarmi a comprenderlo e soprattutto a capire meccanismi narrativi che a volte sfuggono alla stessa autrice. Si può dire che anche il traduttore è un medium, parla con gli spiriti, si è sentita così mentre lo traduceva?

Grazie a voi per l’invito e, per cominciare, tra “malati” di libri e di lettura direi di darci del tu.

È senz’altro vero che il traduttore sia un medium, nel senso etimologicamente più stretto di “intermediario” tra una lingua e un’altra. Rispetto a chi pratica lo spiritismo, però, il traduttore di narrativa gode del grande vantaggio di poter guardare dentro un oggetto molto meno misterioso di una sfera di cristallo o di uno specchio oscuro, cioè il libro, o meglio il testo; e di avere a che fare con entità, i personaggi, non sempre trasparenti ma creati per essere leggibili. E questo anche quando ha a che fare con autori che non ci sono più, perché ogni scrittore che valga lascia un’eredità di senso interpretabile nei mondi che ha creato.

Tu credi al soprannaturale, anche non dogmatico? Conoscevi la spiritualità cinese, tutte quelle leggende legate agli spiriti, agli dèi, al mito? Come ti sei documentata mentre traducevi? Ci sono pagine che hai letto per assorbirne il ritmo, la cadenza, il meraviglioso?

Questa non è una domanda, bensì addirittura tre, alle quali proverò a rispondere con ordine e con onestà. Come persona no, non credo al soprannaturale in nessuna versione, quale che sia l’etichetta con cui viene presentato. Come traduttrice però devo credere a tutto, dato che il mio compito non è giudicare le scelte narrative dei miei autori bensì presentarle ai futuri lettori delle mie traduzioni come plausibili, esteticamente ed emotivamente.

Sempre come persona, no, non possiedo una formazione legata alla spiritualità orientale in genere, e traducendo questo romanzo mi sono documentata quand’era necessario come sempre faccio svolgendo il mio lavoro: tramite le fonti reperibili in rete o in biblioteca, e con l’aiuto di colleghi ed esperti nei settori rilevanti. Come traduttrice non solo devo credere a tutto, ma devo anche capire tutto, per poterlo restituire con qualche credibilità; tuttavia accorgersi di non sapere cose, e doverle imparare, è una delle grandi gioie del mestiere.

Infine, se per “letto” si intende “letto ad alta voce”, no, non è una mia abitudine mentre lavoro, perché di norma una scrittura felice è in grado di suonare la propria musica originale stando sulla pagina, e di accompagnare il traduttore alla ricerca di un’equivalente (che non significa identica) musica dell’italiano… o almeno questo è l’intento, poi saranno i lettori a giudicare se riuscito o meno.

Il romanzo attinge profondamente alla spiritualità cinese, al culto degli antenati, alle leggende locali di Hong Kong. Come hai gestito la resa in italiano di questi concetti, così specifici ma anche universali? Hai sentito il bisogno di “spiegare” o hai preferito lasciare una certa aura di mistero?

È un tipo di decisione in cui di norma ci si lascia guidare dal testo. Questo romanzo è ambientato perlopiù in specifici luoghi della Cina e animato da personaggi cinesi, ma è scritto in inglese, quindi in un certo senso anche l’autrice aveva già “tradotto” le vicende – sia pure di fantasia – dalla lingua in cui si sarebbero svolte alla propria, e per questo ha inserito delle spiegazioni nel processo di scrittura dove lo sentiva necessario; in questi casi il mio lavoro può limitarsi alla “normale” resa in italiano. In altri, dov’è l’autrice a decidere di usare dei termini cinesi (o presi da altre lingue) senza tradurli e lasciare al contesto il compito di chiarirli, ho fatto la stessa cosa, in modo che le dosi di mistero presenti nell’originale e nella traduzione si equivalessero. Il lettore desideroso di approfondire un qualunque elemento del testo ha senz’altro a disposizione molti modi rapidi di soddisfare la propria curiosità.

La vedova di Hong Kong è intriso di un’atmosfera sospesa, quasi rarefatta, dove il confine tra reale e sovrannaturale è labile. Com’è stato per te abitare questa soglia durante il lavoro di traduzione? Hai mai avuto la sensazione che le parole ti stessero portando da qualche altra parte, oltre la pagina?

L’ho avuta spesso ma per un motivo totalmente personale, legato alla mia biografia. Avevo una carissima amica che era di genitori europei ma che per un caso del destino era nata e aveva vissuto a lungo a Hong Kong, e conosceva la Cina continentale. Nel corso della nostra amicizia mi ha raccontato molto spesso di quei luoghi, dei loro abitanti e della loro cultura, con cui era cresciuta in contatto strettissimo; ora questa persona è scomparsa da diversi anni, ma per tutto il tempo della stesura e della revisione del romanzo tradotto ho sentito la sua voce e i suoi racconti risuonarmi dentro molto nitidamente, e ho avuto l’impressione di passare dalle pagine a un luogo del cuore dove io e la mia amica siamo ancora insieme. Penso che il romanzo le sarebbe piaciuto molto.

Lo potresti definire un romanzo post-coloniale? È un genere che leggi o frequenti?

La mia esperienza in questo senso si limita alla traduzione, ormai risalente a due decenni fa, di un bel romanzo dell’autore nigeriano Chris Abani. Se vale la definizione per cui è letteratura post-coloniale quella prodotta da autori nati nei paesi che hanno subito la colonizzazione europea, ma scritta nella lingua dei colonizzatori, tenderei a escludere La vedova di Hong Kong, da questo ambito. Semmai lo ascriverei a quello più ampio delle storie di fuga e sradicamento, condizione che nel libro non riguarda solo la protagonista Mei.

Il romanzo può essere definito anche un romanzo gotico con venature horror, benché molto leggere. C’è stata una scena che ti ha fatto veramente paura? O pensi anche tu che più dei fantasmi vendicativi fanno paura la soppressione della memoria, lo sradicamento culturale, la violenza dei vivi?

Più che davanti alle scene sanguinose, le mie personali paure si risvegliano davanti a quelle di separazione forzata e di lutto, perché rievocano sensazioni note contro cui la pagina scritta costituisce una protezione molto fragile. Ma se si esce dalla dimensione individuale, mi sembra innegabile che tutto ciò che gli esseri umani riescono a fare ad altri esseri umani nella realtà senza, a quanto pare, trarre alcun moto di redenzione da millenni di carneficine e delitti efferati, sia molto più spaventoso di qualunque violenza immaginata e narrata.

Il romanzo intreccia con eleganza passato e presente, vivi e morti, spiriti e memorie. Come sei riuscita a fronteggiare le tre linee temporali, a capitoli alternati, con cui è scritto il romanzo? L’hai tradotto consequenzialmente o diviso in blocchi temporali?

Indipendentemente dalla struttura, traduco ogni romanzo da lettrice, per così dire: cercando di saperne il meno possibile prima di cominciare il lavoro e procedendo di pagina in pagina senza salti perché voglio farmi sorprendere, e al limite anche confondere. È sempre possibile tornare indietro e fare delle modifiche se ci si accorge che qualcosa che succede “dopo” influenza la resa di qualcosa che è successo “prima”; come traduttrice mi è già accaduto di tradurre romanzi dalla struttura non lineare, e a rischio di sembrare un disco rotto, ripeto che un buon testo aiuta sempre a riannodare i fili.

La lingua originale, l’inglese dell’autrice, è profondamente influenzata dalla cultura cinese. Come si restituisce questa doppia anima – occidentale nella forma, orientale nel respiro – in una terza lingua, l’italiano?

A me pare che in questo romanzo la cultura cinese influenzi, più che la lingua, le caratteristiche dei personaggi e il modo in cui interagiscono tra loro; la sintassi è senz’altro inglese, benché l’ambientazione sia orientale e l’autrice abbia una formazione da slavista. Semmai la resa in italiano ha dovuto tenere conto di un certo gusto per le metafore legate appunto alla cultura cinese: “la bocca come una prugna salata”, “la faccia rossa e lucida come una busta di Capodanno”. Pochi di noi hanno assaggiato una prugna salata, o visto una busta di Capodanno, ma non sarebbe stato corretto ridurre le similitudini a qualcosa di più familiare, perché fanno parte del mistero di cui si diceva più sopra e sono lontane per noi come lo sono per il lettore di lingua inglese.

Cosa è stato più difficoltoso durante la traduzione del libro? C’è qualche parte che hai affrontato davvero come una sfida? Di cosa sei più soddisfatta?

Affronto ogni traduzione come la sfida di restituire al lettore italiano la stessa esperienza estetica, in senso letterario, che il testo mi porta a immaginare abbia provato il lettore di lingua originale. Nel caso della Vedova di Hong Kong forse una difficoltà è stata quella di fare attenzione a evitare di introdurre nel mio testo elementi estranei all’ambientazione. Per esempio i funghi “orecchio di Giuda” (in inglese cloud ear)sono diventati semplici “funghi orecchio”: in inglese il problema non si poneva, ma in italiano il riferimento evangelico sarebbe risultato incongruo in bocca a un personaggio cinese. In generale direi che sono soddisfatta dell’equilibrio che mi pare di aver trovato tra il lessico e il modo di esprimersi di Mei bambina e quelli di Mei adulta, anche se il merito non è solo mio; non c’è traduttore che non debba ringraziare i suoi revisori, quando sono stati attenti e precisi come nel caso di questo libro.

La scrittura di Kristen Loesch è poetica, quasi musicale. Come hai lavorato per conservarne la musicalità in italiano, evitando l’eccesso di lirismo ma senza tradire la delicatezza dell’originale?

Desolata, ma qui torna il disco rotto: ogni buon testo prende per mano il traduttore, gli dice come vuole essere tradotto, si tratta solo di ascoltarlo. Se non c’è eccesso di lirismo nella mia versione è perché non eccede l’originale; se c’è la giusta delicatezza è perché era già “giusta” prima, e si trattava solo di individuarla e restituirla. Come questo avvenga non è facile da spiegare; c’entrano sicuramente la personale sensibilità per la lingua di partenza, la padronanza della lingua di arrivo, l’esperienza man mano che la si accumula, ma anche un elemento “medianico” di cui in effetti ogni traduttore capace è dotato ma che difficilmente riesce a descrivere a parole, forse anche perché non si manifesta in ciascuno allo stesso modo.

Mei attraversa decenni, guerre, lutti, metamorfosi. Tu che l’hai “accompagnata” parola per parola, come descriveresti il tuo rapporto con questa protagonista? Ti è rimasta dentro, alla fine? O c’è un altro personaggio, anche minore, che ti ha particolarmente colpita e ti ha arricchita mentre traducevi le sue vicende?

Con questa protagonista ho avuto un rapporto ambivalente, nel senso che alcune sue collere e rigidità nei confronti del prossimo, pur essendo giustificate dalle sue molte esperienze tragiche, talvolta mi parevano eccessive; ma con i personaggi ben scritti succede sempre di aver voglia di abbracciarli e di prenderli a scrolloni contemporaneamente, di salvarli dalle circostanze ma anche da sé stessi. Poi devo confessare un affetto particolare nei confronti del personaggio di Madame Volkova, la bottegaia russa, profuga e dolente come Mei, che a quanto sembra non si lascia consumare dalla rabbia e crede fermamente nella possibilità di ritrovare qualche piccola gioia nell’esistenza. Leggerei e tradurrei volentieri il romanzo della sua vita.

Cosa speri che i lettori italiani sentano o scoprano, anche solo tra le righe, grazie al tuo lavoro?

Quello che spero con ogni traduzione: che il mio lavoro gli faccia scoprire una storia che valeva la pena di leggere, che gli faccia compagnia e gli lasci un bel ricordo. A un romanzo non si può chiedere molto di più; non sono tutti destinati a cambiare il mondo o la storia della letteratura, ma se per qualche tempo ci spalancano davanti agli occhi uno scenario diverso da quello di una quotidianità che può essere anche difficile, e ci fanno battere il cuore, hanno già fatto molto.

Dopo aver attraversato questa storia di spiriti, vendette, madri e figlie, è cambiata in qualche modo anche la tua idea di “memoria”? Cosa ci resta davvero, secondo te, quando tutto sembra perduto?

Credo che per ognuno la memoria sia una faccenda molto personale, che va anche protetta con qualche pudore. Se è vero, come ci ha insegnato Shakespeare, che “tutti i nostri ieri” servono solo a illuminare la strada verso la morte, è anche vero che tutto sommato stare al mondo significa accumulare ricordi, belli, ordinari e tremendi; penso sia bene tenerceli stretti perché è di quelli che siamo fatti, e nei momenti in cui tutto sembra perduto credo cha la memoria anche di un solo momento felice possa fare da motore alla speranza che un mondo più giusto esista, e che ciascuno di noi possa darvi un contributo anche solo vivendo una vita sincera.

:: La vedova di Hong Kong di Kristen Loesch (Marsilio 2025) a cura di Giulietta Iannone

20 ottobre 2025

Hong Kong è una città di fantasmi. Spiriti, spettri, presenze inquietanti, leggende, maledizioni fanno parte della sua storia ricca di leggende urbane su case infestate, tram che specie di notte si popolano oltre di passeggeri di ombre di spettri di persone morte tragicamente, di spiriti di annegati, e vendicativi. La stessa cultura cinese ha grande rispetto per i defunti, per gli spiriti degli antenati che vengono celebrati in templi domestici, o anche in grandi feste cicliche come la principale la Qingming Jie (o Festa degli Antenati), durante la quale le famiglie visitano le tombe per pulirle e onorare i defunti con offerte di cibo, fiori e “banconote” finte da bruciare. Poi c’è la Zhongyuan Jie (Festa dei Fantasmi) o altro modo detta La Festa degli spiriti Affamati.

Il confine tra mondo terreno e aldilà è da sempre non solo frutto di superstizione ma legato alla religiosità cinese delle tradizioni taoiste e buddiste. Il sovrannaturale acquista per cui anche una valenza culturale, e identitaria molto radicata.

La vedova di Hong Kong (The Hong Kong Widow, 2025) di Kristen Loesch, tradotto dall’inglese da Isabella Zani, e pubblicato in Italia da Marsilio, pressappoco in concomitanza con la pubblicazione in lingua inglese, è un romanzo in parte ambientato a Hong Kong, che racchiude storie appartenute al patrimonio culturale e alle radici cinesi dell’autrice.

La vedova di Hong Kong è innanzitutto un romanzo misterioso e piuttosto complesso, che per originalità e profondità non assomiglia a nessun altro romanzo da me letto finora. Difficile classificarlo: in parte romanzo storico, in parte gotico e horror con venature di sovrannaturale sia tradizionale cinese che in parte anche occidentale, memoria familiare, thriller investigativo, romanzo psicologico con elaborazione del lutto, e anche romanzo di formazione, – Mei la protagonista cresce e si evolve e noi l’accompagniamo da bambina fino ad anziana- e tutte queste componenti si amalgamano, senza sovrapporsi, in modo armonico e naturale.

Diciamo che la storia ruota intorno a un mistero, uno delle tante leggende metropolitane hongkonghesi, qui drammatizzata e rivisitata dall’autrice: cosa successe realmente nel settembre del 1953 in una sontuosa villa coloniale di Hong Kong chiamata Maidenhair House di proprietà di George Maidenhair, personaggio centrale del romanzo? Il tema della casa infestata non è certo nuovo nel romanzo gotico, con venature horror, ma qui non mira a fare paura, piuttosto a inquietare il lettore per approfondire temi come l’elaborazione del lutto, i traumi bellici, il desiderio di vendetta, l’amore tra madri e figlie.

La struttura narrativa è a capitoli alternati con indicativamente tre linee temporali: Shanghai negli anni 30 e 40, Hong Kong nel settembre del 1953, e Hong Kong nel 2015. All’inizio si fa un po’ fatica a seguire le direttive temporali, ma poi tutti i nodi vengono al pettine.

Poi si parla di vendetta di Mei la protagonista e per tutto il romanzo non si capisce di cosa si debba vendicare, per quello è anche misterioso, poi in un capitolo sul finale lo dice ed è uno dei principali colpi di scena. Ma ce ne sono altri che non vi anticipo. 

La scrittura è poetica, aulica, ci riporta alle antiche saghe e leggende cinese, alle storie di spiriti, maledizioni e miti ancestrali. Mi sono piaciuti tutti i personaggi: Mei, soprattutto, Jamie, Susanna, Max, Holly Zhang, la vedova russa Volkova, anche George, più una figura paterna, un insegnante, che un amante di Mei, e questo equivoco forse rende anche complesso il loro rapporto.

In conclusione, La vedova di Hong Kong è un romanzo originale, raffinato e inquietante al punto giusto, che si distingue per la capacità di fondere mito, storia e introspezione in una narrazione che affascina e coinvolge fino all’ultima pagina. Un’opera che cattura, e quasi imprigiona nelle pagine e lascia un’eco profonda nel lettore, come solo le storie più autentiche sanno fare.

Kristen Loesch è cresciuta a San Francisco. Laureata in Storia, ha poi conseguito un master in Studi slavistici all’Università di Cambridge.  La bambola di porcellana  è il suo romanzo d’esordio, da cui verrà anche tratta una serie tv. Vive sulla costa ovest degli Stati Uniti con il marito e i tre figli.

:: Prima e dopo la stagione delle piogge di Kafu Nagai (Marsilio 2025) a cura di Giulietta Iannone

27 settembre 2025

Prima e dopo la stagione delle piogge (Tsuyu no atosaki, 1931) dello scrittore giapponese Nagai Kafū, edito in Italia da Marsilio a cura di Alberto Zanonato, racconta la storia di una ragazza, Kimie, scappata di casa dalla campagna per evitare il matrimonio con un campagnolo e giunta a Tokyo dall’amica geisha Kyōko che l’inizia alla prostituzione non per avidità di denaro ma per una forma di ricerca esistenziale e trasgressiva, espressione di una società in transizione, e anche segno della decadenza delle vecchie tradizioni dove ormai è comune da geisha diventare cameriera o viceversa. E le celebri accompagnatrici, dedite all’arte dell’intrattenimento colto, frequentano abitualmente le case di appuntamento e spesso poco le differenziano dalle semplici prostitute, anche non di rado facendolo abusivamente senza autorizzazzione. Kimie è diversa dalle altre ragazze, ha un talento innato per sedurre e affascinare gli uomini, e non cerca il grande amore, ma solo esperienze molteplici che la facciano sentire viva. Trova poi lavoro come cameriera nel caffè Don Juan a Ginza, luogo che le da l’opportunità di conoscere i diversi uomini con cui si intrattiene. Ma la sua libertà di costumi attira anche maldicenze e molestie tanto che all’inizio del romanzo si reca da un indovino per sapere chi possa essere ma la sua reticenza nel fare domande le da un responso alquanto generico che perde di importanza. Il romanzo, sensuale e crudele, esplora i temi della modernizzazione e di quanto l’Occidente abbia adulterato le vecchie tradizioni. Nagai Kafū (1879-1959), considerato un importante scrittore della letteratura moderna giapponese, apprezzato da Tanizaki, è un autore che si accosta al naturalismo francese, alla Zolà per intenderci, e lo filtra con il gusto tutto giapponese per l’amore della natura e della bellezza. Kimie e le sue esperienze nei quartieri di piacere diventano il filtro con cui l’autore guarda i danni che la modernizzazione ha portato nel paese più a livello spirituale che materiale. La solitudine, la vacuità di queste vite si intersecano con l’apprezzamento per le vecchie tradizioni, il rispetto e l’amore per la cultura e l’erudizione. Il personaggio soprattutto di Tsuruko, moglie del romanziere Kiyo’oka Susumu, un amante di Kimie, incarna tutta la positività dei valori tradizionali, la sobrietà, il buon garbo, la buona educazione. Kimie invece incarna un personaggio femminile decisamente moderno e indipendente, visto con occhio indulgente e caratterizzato con grande attenzione ai dettagli dell’abbigliamento, del trucco, del modo di porgersi e offrirsi senza reticenze o pudore. E che la sua troppa libertà sia un rischio e un pericolo subito si fa evidente e gela un po’ la sua eccessiva spontaneità. Ma in fondo Kimie è una ragazza di buon cuore, che prova compassione per il vecchio protettore dell’amica Kyoko, e gli dà gli ultimi attimi di gioia in un finale amaro e melanconico specchio di un mondo decadente in lenta dissoluzione. La traduzione è a cura di Alberto Zanonato che scrive anche un’interessante introduzione. Luisa Bienati cura La vita e le opere.

Kafu Nagai Poeta del passato, interprete di una tradizione messa in crisi dai valori della modernizzazione, Nagai Kafu- (1879-1959) è uno dei grandi nomi della letteratura giapponese moderna. Sensibile al fascino della cultura occidentale, si avvicina al naturalismo francese negli anni giovanili, ma della lezione di Zola gli resteranno solo la precisione per il dettaglio e un amore per la descrizione che diventa esercizio di raffinata e colta letteratura. In risposta al veloce avvicendarsi degli eventi e alla frenesia dei tempi, trova rifugio estetico nelle emozioni e nelle atmosfere dei quartieri di piacere, ultimo riverbero della cultura tradizionale. Il passato è rivissuto nel presente, ricercato negli antichi quartieri della sua Tokyo, e riproposto come modello di una nuova creatività: il passato come la sola «luce che può illuminare l’incerto cammino del presente…

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:: Prima e dopo la stagione delle piogge di Kafu Nagai

12 settembre 2025

La giovane ventenne Kimie, cameriera presso il caffè Don Juan a Ginza, è vittima di maldicenze e molestie da parte di un individuo sconosciuto. Che qualcuno nutra del risentimento nei suoi confronti a causa della sua attività di prostituta, cui è stata iniziata dall’amica geisha Kyōko? Rivoltasi persino a un indovino per trovare risposte, Kimie – unico personaggio veramente a tutto tondo secondo la critica del premio Nobel Kawabata Yasunari – cercherà di venire a capo della vicenda destreggiandosi con scaltrezza tra i vari uomini che le gravitano intorno, dallo scrittore Kiyo’oka Susumu, suo amante, al vecchio donnaiolo Matsuzaki. Considerato il ritorno alla ribalta del suo autore dopo un lungo periodo di parziale silenzio e celebrato da Tanizaki Jun’ichirō come un rotolo illustrato moderno che con magistrale distacco delinea la storia popolare dell’epoca Shōwa, il romanzo di Nagai Kafū esplora il «mondo dei fiori e dei salici» di una Ginza bella solo all’apparenza e la vanità di quel «mondo fluttuante» che cela in realtà un lato sordido e vacuo. Un’aspra critica alla modernità che ha spinto al declino quel demi-monde che rappresentava l’ultimo baluardo della Tōkyō antica, in una cronaca dove ad accompagnare ogni momento cardine della narrazione è la pioggia del titolo che, con diversi gradi di intensità, fa da contrappunto agli eventi descritti.

Kafu Nagai Poeta del passato, interprete di una tradizione messa in crisi dai valori della modernizzazione, Nagai Kafu- (1879-1959) è uno dei grandi nomi della letteratura giapponese moderna. Sensibile al fascino della cultura occidentale, si avvicina al naturalismo francese negli anni giovanili, ma della lezione di Zola gli resteranno solo la precisione per il dettaglio e un amore per la descrizione che diventa esercizio di raffinata e colta letteratura. In risposta al veloce avvicendarsi degli eventi e alla frenesia dei tempi, trova rifugio estetico nelle emozioni e nelle atmosfere dei quartieri di piacere, ultimo riverbero della cultura tradizionale. Il passato è rivissuto nel presente, ricercato negli antichi quartieri della sua Tokyo, e riproposto come modello di una nuova creatività: il passato come la sola «luce che può illuminare l’incerto cammino del presente…

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:: Buonvino e il circo insanguinato di Walter Veltroni (Marsilio 2024) a cura di Patrizia Debicke

7 gennaio 2025

Buonvino e il circo insanguinato è il quinto romanzo che Walter Veltroni dedica affettuosamente al suo commissario romano comparso la prima volta nel 2019 in “Assassinio a Villa Borghese”.
Roma, 24 dicembre, vigilia di Natale . Il commissario Giovanni Buonvino, responsabile del commissariato di Villa Borghese, sta brindando nel suo ufficio praticamente invaso da panettoni, piatti e bicchieri di plastica con i colleghi nel giorno che impone la più scontata allegria prefestiva.
Nel frattempo nel giardino del Parco dei Daini si sta installando il Circo Colaiacono che si è faticosamente guadagnato quel posto ambito e di forte richiamo cittadino, in grado di garantire buone e affollate rappresentazioni festive. E toccherà proprio a lui a, Buonvino scortato ufficialmente da Cecconi e Robotti, andare sul posto per controllare l’esistenza dei permessi e di una corretta scelta degli orari onde evitare possibili lagnanze dei vicini (quali hotel stellati).
Solo su insistenza di Veronica, sua moglie, il commissario ha già acquistato i biglietti per loro due e per una coppia di amici, perché in realtà Buonvino non ama il circo. Anche quando era un bambino gli faceva tristezza benché i suoi continuassero a portarcelo. Allora lui rideva e batteva le mani per forza ma solo per non deluderli. Infatti oltre a odiare i pagliacci che addirittura lo terrorizzavano, non aveva mai capito perché qualcuno dovesse partecipare a uno spettacolo magari rischiando la vita per intrattenere un pubblico pagante.
I tre poliziotti arrivati al circo quando tutti i componenti della troupe sono intenti a dare gli ultimi tocchi verranno accolti dal proprietario e direttore di scena Ercole Colaiacono. Un incredibile e gigantesco personaggio che ricorda un po’ Anthony Quinn del film La strada di Fellini e che insisterà per presentargli personalmente tutta la sua troupe.
Tanto che la sera stessa prima della spettacolo Buonvino, Veronica e il loro due ospiti troveranno il personale , ormai quasi pronto ad entrare in scena. schierato quasi si trattasse di una parata ufficiale per un Capo di Stato. E in quell’occasione Colaiacono presenterà loro per prima la figlia Manuelita, punta di diamante dello spettacolo, già pronta a esibirsi come trapezista col marito Alberto. Spiega anche che per la coppia sarebbe il decimo anniversario di matrimonio, motivo di festa benché in realtà le espressioni denotino una certa tensione e anche quelle degli altri componenti della truppe appaiano un po’ tirate. Il Circo è piccolo, a conduzione familiare, molti dei membri dell’equipe sono legati tra loro. Quello che Buonvino nota è solo normale inquietudine ante spettacolo o la palese dimostrazione come la forzata lunga convivenza provochi, in tutti i gruppi familiari o in quelli di coloro che lavorano troppo insieme, inevitabili rivalità e risentimenti.
Ma lo spettacolo promesso è di alta qualità, garantito soprattutto dall’esibizione dei trapezisti, Alberto e Manuelita, pronti a eseguire i loro difficili numeri cinque metri da terra solo protetti in caso di cadute da una rete rettangolare.
I posti di Buonvino & company sono rigorosamente in prima fila. Prima del numero dei trapezisti ne passano altri diversi e quando loro si presentano Buonvino nota che stranamente Manuelita, la figlia del direttore, esibisce un sorriso forzato, un po’ triste forse.
E ben presto ohimé dopo i primi felici passaggi, il bello spettacolo vira alla tragedia quando, mancando la presa nel difficile numero di un salto mortale e mezzo, Manuelita precipiterà nel vuoto e, finendo su una parte rigida della rete di contenzione, atterrerà male, spezzandosi il collo.
Una morte in diretta con il pubblico che grida atterrito. L’immediato arrivo di un’ambulanza che trasporterà la giovane in ospedale accompagnata dal marito non consentirà purtroppo che dover constatare la sua morte. Tutti hanno visto che si è trattato un incidente … All’apparenza una tragica fatalità, ma il fatto che sia capitata solo dopo due mesi dopo l’incidente stradale che aveva provocato la morte della madre di Manuelina, a Buonvino sembra troppo una coincidenza. Qualcosa che merita almeno un approfondimento.
Per far completa luce sulla faccenda pertanto decide di sentire uno a uno tutti i componenti del circo. Alberto è disperato, ma non tutti gli altri forse appaiono così dispiaciuti. Girano voci e un pagliaccio sostiene addirittura d’aver sentito pochi giorni prima la voce di qualcuno minacciare Manuelita anche se ohimè non è riuscito a capire chi fosse.
Pian piano Buonvino arriverà a individuare un’intricata serie di relazioni e contrasti tra i componenti della troupe. Si tratta anche di mancati sogni di gloria che hanno provocato rivalità, invidie. La vicenda breve ma coinvolgente si carica di ombre sempre più scure. Ma a conti fatti il giallo ovverosia l’indagine vera e propria e gli inevitabili plot narrativi finiscono con il collocarsi in secondo piano annacquandosi un po’ rispetto alla brillante personalità del principale protagonista e alle sue sensazioni. Un protagonista Buonvino molto simpatico, intelligente e pieno di umorismo.
Walter Veltroni parla con affetto del circo che considera una vera e propria istituzione culturale. Optando per una scelta coraggiosa che volutamente par voler ignorare certe negative polemiche animaliste sulla condizione degli animali in cattività che vorrebbero decretarne la fine. Ma forse tutto quel mondo, orientandosi sempre di più sulle scelte fatte ormai dagli spettacoli portati in scena dal famosissimo Cirque du Soleil monegasco non ci costringerà a confrontarci con la fine in una colorata e sfavillante magia che ha incantato generazioni di bambini e influenzato grandi registi internazionali, senza mai dimenticare il grandissimo Fellini.

Walter Veltroni  è nato a Roma il 3 luglio 1955. È stato direttore dell’Unità, vicepresidente del Consiglio e ministro per i Beni e le attività culturali, sindaco di Roma, fondatore e primo segretario del Partito democratico. Oltre al primo capitolo delle indagini del commissario Buonvino, Assassinio a Villa Borghese, pubblicato sempre da Marsilio nel 2019, ha scritto vari romanzi, tra i quali La scoperta dell’alba (2006), Noi (2009), L’isola e le rose (2012), Ciao (2015), Quando (2017), tutti editi da Rizzoli. Ha realizzato diversi documentari tra i quali Quando c’era Berlinguer (2014), I bambini sanno (2015), Indizi di felicità (2017), Tutto davanti a questi occhi (2018) e la serie sulla storia dei programmi televisivi Gli occhi cambiano (2016). Nel 2019 è uscito il suo primo film, C’è tempo. Collabora con il Corriere della Sera e La Gazzetta dello Sport.

:: Giochi d’infanzia di Tanizaki Jun’ichiro, a cura di Luisa Bienati (Marsilio, 2024) a cura di Giulietta Iannone

25 ottobre 2024

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento il Giappone, aprendosi all’Occidente, iniziò un profondo processo culturale, politico e sociale teso alla modernizzazione e industrializzazione del paese. Questo rinnovamento, sempre nel rispetto delle radici culturali tradizionali, portò a una revisione dei processi educativi e della formazione di genere che di per sè avrebbe dovuto formare ed educare una nuova società di cittadini consapevoli e integrati in una struttura sociale complessa e variegata come era la società giapponese. L’importanza dei sistemi educativi, il maestro portava in classe ancora verghe di vimini e l’educazione si basava su meccanismi di premi e punizioni, è dunque ben evidenziata dalla diffusione di un genere letterario che ha per tema l’infanzia e l’adolescenza, i cosiddetti shonen momo (storie per bambini). In questo genere letterario specifico si colloca “Giochi di infanzia” di Tanizaki Jun’ichiro, edito nella collana Letteratura universale di Marsilio. Il testo comprende due racconti di Tanizaki: Shōnen (Adolescenti, 1911) e Chiisana ōkoku (Il piccolo regno, 1918) e un’interessante e corposa prefazione di Luisa Bienati, che ne ha curato anche la traduzione dal giapponse, oltre a un capitolo specifico sulla vita e le opere di Tanizaki, e un glossario finale. C’è da aggiungere che il testo è stato sottoposto a un comitato scientifico. Tanizaki è considerato uno dei più autorevoli e importanti scrittori della letteratura giapponese moderna, famoso per opere come La chiave, Diario di un vecchio pazzo, La croce buddista, tutte opere giunte in Occidente con grande clamore, data soprattutto la modernità, e la libertà con cui Tanizaki ha preservato la sua identità culturale in un contesto di rapidi cambiamenti della società giapponese del XX secolo. Il piccolo regno narra la vicenda umana ed educativa di un maestro elementare alle prese con una classe dominata da un alunno Numakura Shokichi, un ragazzo corpulento, le spalle grosse e rotonde, il viso quadrato dal colorito scuro, la nuca grossa, lo sguardo malinconico, una figura carismatica, dalla forte vocazione di leader, capace di contendere l’autorità anche al maestro coinvolto nei loro giochi infantili per l’affermazione di sè. Profondo lo scavo psicologico e lo studio della dinamica di interazione tra i personaggi a cui si alternano descrizioni della natura poetiche e affascinanti. Sempre di giochi infantili tratta Adolescenti, il secondo racconto, in cui la figura di Mitsuko sovrasta la narrazione e sovverte le regole tradizionali patriarcali in cui era la figura femminile in posizione di sudditanza e inferiorità, qui prende il sopravvento sui compagni di gioco maschi e alla fine ne fa i suoi schiavi. Non senza tracce di crudeltà i giochi infantili non riflettono un mondo di innocenza gentilezza, ma anzi di sopraffazione e lotta per ottenere l’ubbidienza e il dominio. Tanizaki spesso presenta, come in quest’opera, personaggi femminili forti che sfidano le aspettative di genere e affermano la loro identità oltre ai confini imposti dal patriarcato. Questi personaggi utilizzano il gioco e la finzione per affermare il loro potere e riscrivendo le dinamiche tradizionali che legano i rapporti tra uomini e donne mettono in discussione le strutture di potere esistenti in una sorta di protofemminismo del tutto originale e anomalo per la società del tempo. Oltre al valore letterario intrinseco questi racconti sono indubbiamente interessanti come testimonianza e forma di riscatto.

Junichiro Tanizaki, nato a Tokyo nel 1886 e morto nella città di Yugawara (prefettura di Kanagawa) nel 1965, si formò come scrittore a cavallo tra Ottocento e Novecento. Sconvolse il pubblico, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, per via della modernità dei suoi romanzi.
Tra le sue opere: L’amore di uno sciocco (1924 / Bompiani 2000), Vita segreta del signore di Bushu (1932 / Bompiani 2000), Libro d’ombra (1933 / Bompiani 2000), Neve sottile (1948 / Guanda 2009), Diario di un vecchio pazzo (1962 / Bompiani 2009), Morbose fantasie (Einaudi 2003), Nostalgia della madre (Einaudi 2004), Il demone (Einaudi 2010), Sulla maestria (Adelphi 2014).

:: Un’intervista con Qiu Xiaolong, su “Il Dossier Wuhan” (Love and Murder in the Time of Covid, 2023) a cura di Giulietta Iannone

2 luglio 2024

Benvenuto Xiaolong e grazie per aver accettato questa nuova intervista. Il dossier Wuhan è il tuo ultimo romanzo di Chen Cao. Vuoi parlarcene? Come è stato affrontato il Covid in Cina?

R: Grazie. In Il dossier Wuhan, puoi vedere l’enorme disastro che il Covid ha portato in Cina, ma più specificamente, è un quadro realistico di come la disastrosa politica “zero Covid” sia stata portata avanti con brutale forza dal governo del PCC, causando migliaia di vittime. E migliaia di morti come danni collaterali di questa politica disumana. Ad esempio, come descritto nel romanzo, una donna incinta in travaglio non poteva essere ricoverata in ospedale poiché non aveva quel giorno il certificato di aver effettuato un test Covid con risultato negativo, ed è morta dissanguata durante lo sforzo disperato di spostarla da un ospedale all’altro. Ed è una storia vera.

Il tuo romanzo è un’aperta denuncia dei metodi repressivi utilizzati per contenere l’emergenza epidemica. Non hai paura di eventuali ritorsioni da parte del governo cinese nei tuoi confronti?

R: Naturalmente sono più che nervoso per le eventuali ritorsioni. Ma un libro del genere deve essere scritto. La storia non può essere dimenticata o perdonata. Mi è capitato di essere quello capace di scriverlo, ma anche quello capace di presentarlo ai lettori in diverse lingue. I miei colleghi scrittori cinesi sono stati imbavagliati e non possono scrivere alcuna cosa sul Covid, a quanto mi risulta. Quindi continuavo a ricordare a me stesso una citazione di Confucio: “Ci sono cose che un uomo farà e cose che un uomo non farà“. Scrivere Il dossier Wuhan è una cosa che ho fatto e dovevo fare.

Il personaggio di Chen Cao invecchia insieme a te e diventa sempre più amareggiato per i mali che affliggono la Cina, un paese meraviglioso, dalla cultura millenaria. Il personaggio di Chen Cao rispecchia le tue emozioni? L’amore sarà per lui una consolazione?

R: Sì, sta invecchiando e diventando sempre più rattristato dai mali che affliggono la Cina, come dici tu. Per questo spero che l’amore possa essere per lui una delle poche consolazioni. Anche perché traduco sempre più poesie classiche (via Chen) da una cultura millenaria. È un tentativo di tenere me e Chen al sicuro dalle implacabili delusioni e disillusioni. Ovviamente io non sono Chen Cao.

Chen Cao ama la poesia, il buon cibo, è un ottimo traduttore, ha un forte senso etico e grande umanità, cosa ti somiglia e cosa ti differenzia da lui?

R: Questa è una domanda correlata. Sì, amo la poesia, il buon cibo (così sono diventato lo chef della mia famiglia), e recentemente ho anche scritto una prefazione a una nuova raccolta di poesie di T. S. Eliot pubblicata da un editore americano mentre presto sta per uscire la mia traduzione riveduta delle poesie di T. S. Eliot. Per quanto riguarda “un forte senso etico e una grande umanità“, non spetta a me dire se possiedo o meno queste qualità. Basti dire che condivido alcune qualità con Chen.

Tornando al Covid, tutto è partito da Wuhan, capoluogo della provincia di Hubei. Si parlava di un virus fuggito da un laboratorio a causa di un incidente e anche di trasmissione dagli animali all’uomo di un virus che, a causa di modificazioni genetiche, è diventato mortale per l’uomo. Forse non scopriremo mai le origini di questa epidemia, che idee ti sei fatto?

R: Ho letto parecchio sulla possibilità che il virus fosse fuoriuscito da un laboratorio di Wuhan come origine della pandemia di Covid. Ho fatto i compiti per la stesura del romanzo. Personalmente mi sento propenso allo scenario, anche se non sono mai stato uno specialista del settore. Quindi non posso dirlo con certezza. Grazie alla trasparenza intorno al laboratorio di Wuhan attuata dal governo del PCC, potremmo essere in grado di scoprire l’origine dell’epidemia di Covid nel mondo.

Vorrei davvero iniziare a studiare la lingua cinese, che consigli daresti ad un italiano che vuole intraprendere questo arduo percorso? Ho iniziato ma non sto facendo alcun progresso. Come hai imparato l’inglese? Iniziando a leggere libri in lingua inglese?

R: La mia risposta è semplice. Inizia a studiare senza preoccuparti troppo. La lingua cinese è contestuale. Una volta acquisito un certo numero di vocaboli cinese, potresti essere in grado di comprendere il testo cinese leggendolo contestualmente. Per quanto riguarda il mio modo di imparare l’inglese, ovviamente l’ho fatto attraverso i libri di testo. Come probabilmente saprai, ho studiato inglese principalmente da solo al Bund Park. Anche altri libri in lingua inglese, come narrativa e poesia, mi aiutarono molto, specialmente in quei giorni in cui tutte le opere letterarie erano state vietate tranne le “otto opere rivoluzionarie moderne”. Anche questo mi ha dato uno stimolo in più per imparare l’inglese.

E infine, nel salutarti e nel ringraziarti per la tua disponibilità, come ultima domanda ti chiedo se puoi dirci qualcosa sulla trama del tuo prossimo romanzo.

R: Sto lavorando al prossimo romanzo dell’ispettore Chen. Come forse vi ho detto, a volte è difficile scrivere un libro sulla Cina. Ciò che è accaduto alla Cina in passato e ciò che sta accadendo nel presente potrebbero essere strettamente interconnessi. Quindi il presente romanzo, pur concentrandosi su qualcuno che “è scomparso” nella Cina odierna, abbraccia più di trent’anni, esplorando le complicate interrelazioni nella storia cinese. Nel frattempo, tra un paio di mesi uscirà il mio secondo libro sul Giudice Dee (in francese e inglese).

:: Istruzioni per il buon governo – Antologia in 360 massime sui principi per il retto governare della Cina antica – introduzione di Tiziana Lippiello, a cura di Ludovica Gallinaro (Marsilio 2022) a cura di Giulietta Iannone

12 dicembre 2022

All’inizio dell’era imperiale Zhenguan, l’imperatore Taizong della dinastia Tang (618-907) decretò che fosse redatta l’opera Qunshu Zhiyao (Istruzioni per il buon governo). Affidò a due ministri della corte il compito di catalogare il materiale storico e storiografico attinente all’arte di governo, scegliendo tra i classici, le compilazioni storiche e le opere di pensatori ogni contenuto che potesse illustrare i principi della coltivazione di sé, della cura della famiglia e del governo dello Stato. Durante la dinastia Song (960-1279) l’opera andò perduta, ma fortunatamente una copia manoscritta a cura dei monaci giapponesi dell’epoca Kamakura (1192-1330) fu conservata in una delle collezioni del Museo Kanazawa. Nel sessantesimo anno (1795) del regno dell’imperatore Qianlong della dinastia Qing (1644-1911) l’opera fu restituita alla Cina.
La raccolta consta di sessantacinque volumi divisi in cinquanta libri e racchiude, attraverso un’esperienza politica plurisecolare, l’essenza della cultura cinese. La versione qui pubblicata è una selezione di 360 aforismi divisi in sei capitoli: Il dao del governante, L’arte del ministro, Valorizzare le virtù, Sull’atto del governare, Avere ligia premura e Comprendere e giudicare.

Metti in pratica la virtù, e il tuo cuore sarà leggero, gratificato giorno dopo giorno. Segui la falsità, e il tuo cuore sarà affaticato, logorato giorno dopo giorno.

(Classico dei documenti, libro II)

Se alcuni monaci giapponesi dell’epoca Kamakura (1192-1330) non avessero copiato questo importante documento e non fosse stato conservato nel Museo Kanazawa, per poi nel 1795 restituirlo alla Cina, i sessanta volumi de “Istruzioni per il buon governo” (Qunshu Zhiyao) sarebbero andati perduti e noi non potremmo fare tesoro di questa sapienza secolare mai tanto utile quanto oggi. La saggezza cinese è in un certo senso un patrimonio dell’intera umanità, e in questa selezione di 360 aforismi troviamo un fulgido esempio di questo sapere antico. L’arte del governo è un’arte difficile, complessa, strettamente legata alla moralità e l’abilità dei governanti. Non si può essere un saggio e capace governanate senza essere un uomo retto, onesto, e lungimirante. Questo volume è splendido e curato, con testo cinese a fronte, e ci porta a conoscere l’essenza del retto governare, forse ancora più importante de L’arte della guerra del già famoso Tzu Sun, l’antico generale cinese, stratega e filosofo che può essere considerato il Machiavelli cinese, a cui è attribuito questo testo. L’arte del buon governo è un’arte pacifica, etica, morale, e tesa al benessere e alla felicità di tutti. Perchè il cuore sarà leggero se si pratica la virtù.

Ludovica Gallinaro ha conseguito le lauree in Filosofia e in Lingua cinese all’Università degli Studi di Padova e all’Università Ca’ Foscari di Venezia, e ha ottenuto un dottorato in Filosofia cinese all’Università Tsinghua di Pechino con una tesi sul pensiero morale di Zhou Dunyi. Ha pubblicato articoli sul pensiero confuciano e neoconfuciano di epoca Song e svolge attività di traduzione di opere della filosofia cinese moderna e contemporanea.

Tiziana Lippiello, è rettrice dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. È autrice di numerosi saggi sul pensiero e le religioni della Cina antica, fra cui Auspicious Omens and Miracles in Ancient China: Han, Three Kingdoms and Six Dynasties (2001) e Il confucianesimo (2009). Ha tradotto e curato i Dialoghi di Confucio (20062). Per Marsilio ha curato La costante pratica del giusto mezzo (2010) ed è nel comitato scientifico della Letteratura universale Marsilio.

:: Nettuno e Mercurio. Il volto di Trieste nell’800 tra miti e simboli, Paolo Possamai (Marsilio 2022) A cura di Viviana Filippini

5 luglio 2022

“Nettuno e Mercurio. Il volto di Trieste nell’800 tra miti e simboli”  è il titolo del libro di memorie visive e storiche  edito da Marsilio, dedicato alla città di Trieste, scritto da Paolo Possamai, ideale da prendere sottobraccio con sè per visitare la città, ma entriamo nel dettaglio. Nettuno e Mercurio sono anche due antiche divinità ben note sin dai tempi degli antichi Greci e Romani. Nettuno era, e lo è ancora, il dio dei mari e delle correnti, e a Trieste di mare ce n’è. Mercurio per i Romani era la divinità del guadagno e del commercio e queste attività erano molto vive nella città di Trieste, soprattutto nell’800. Il libro di Possamai porta il lettore alla scoperta del volto urbano della città di Trieste che è protagonista in modo completo di questo volume. Interessanti sono sì le descrizioni dei diversi monumenti presi in esame, ma ancora più curioso è l’abbinamento alle fotografie inedite realizzate da Fabrizio Giraldi e da Manuela Schirra. Questo volume permette di restituire al lettore l’immagine di una città di impianto architettonico neoclassico nella quel la mitologia, le attività commerciali e il rapporto con la borghesia dell’epoca erano molto solidi. Matteo Pertsch, Antonio e Francesco Bosa, Pietro Nobile, Emilio Bisi sono solo alcuni degli architetti e degli scultori che agirono a Trieste contribuendo, attraverso l’architettura e la scultura, alla costruzione dell’identità della cittadina triestina dove eleganza, mitologia e lavoro si mescolano alla perfezione dal passato fino ai giorni nostri. E così, oltre a Mercurio e Nettuno, Giasone, Venere, ad accompagnare e vigilare sui triestini ci sono i santi patroni della città e figure simboliche come la Mercatura, la Giustizia, l’Onore, la Fama, l’Ingegno, l’Abbondanza, l’Industria, la Navigazione, la Perseveranza presentati in forma di sculture e  bassorilievi. Tutti lì presenti in diversi edifici pubblici (Teatro Verdi, Tergesteo, Palazzo della Borsa…) e privati (Palazzo Carciotti, Palazzo Vivante, Palazzo Rotonda Pancera). Queste e altre figure dal valore simbolico compaiono negli edifici con funzione civile e di abitazione, nei portoni, nelle cornici di porte e finestre, nelle facciate scolpite dei palazzi, dove dimostrano di non essere semplici decorazioni messe lì per fare bello uno stabile. Ogni singolo elemento decorativo è sì rappresentativo della stile architettonico neoclassico, ma ad un’attenta osservazione si ha come la sensazione che esso determini un’atmosfera di bizzarro, insolito e originale che pervade la città di Trieste. “Nettuno e Mercurio. Il volto di Trieste nell’800 tra miti e simboli”, di Paolo Possamai, narra e mette in risalto gli elementi architettonici che non solo decoravano le architetture presenti ma che, allo stesso tempo, rappresentavano l’identità di una città e della sua classe sociale borghese composta dai mercanti, commercianti e dirigenti. Prefazione di Giuseppe Pavanello.

Paolo Possamai (Vicenza, 1960), è direttore del quotidiano “Il Piccolo di Trieste” e in precedenza ha diretto “La Nuova Venezia” ed è stato inviato speciale del Gruppo Espresso. Dal 1999 scrive per “La Repubblica, in particolare sul dorso economico Affari & Finanza. È consulente della Fondazione Nord Est per la stesura del Rapporto sulla società e l’economia e ha pubblicato vari libri.

Source: richiesto dal recensore all’editore. Grazie all’ufficio stampa Marsilio.

L’amore al tempo dell’odio. Una storia sentimentale degli anni trenta, Florian Illies (Marsilio 2022) A Cura di Viviana Filippini

31 marzo 2022

È un viaggio indietro nel tempo quello che il lettore fa leggendo “L’amore al tempo dell’odio. Una storia sentimentale degli anni trenta” di Florian Illies, edito da Marsilio, anche se i fatti bellici di questi giorni fanno pensare a quello che sta accadendo in Ucraina. Quello fatto da Illies è un grande e lungo flashback, ma anche una esplorazione sentimentale nell’Europa degli anni Trenta che fa compiere a chi legge un vero e proprio cammino nelle vite di tanti uomini e donne che popolarono quella società del passato tra il 1929 e il 1939, all’interno della quale, piano piano, si stavano radicando quelli che sarebbero diventati poi dei regimi totalitari. Ciò che stupisce del volume (384 pagine) è che, nonostante tutti gli ostacoli, gli imprevisti, i provvedimenti che cominciarono a limitare la libertà delle persone, i protagonisti di queste vicende umane amavano e continuarono a farlo sfidando ogni intoppo, mossi da quella forza -l’amore- in grado di vincere su tutto e tutti. Pagina dopo pagina, con piccoli frammenti, Illies ci racconta la Storia in un arco temporale di un decennio, prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, attraverso pezzi di vite altrui, di personalità che nella Storia poi ci sono rimaste per il ruolo sociale, lavorativo, artistico o politico che esercitavano, ma che qui ci vengono narrate, in modo biografico, nella loro dimensione più privata e intima, quella relativa all’amore. Tra i protagonisti troviamo Picasso che compare con le diverse mogli e amanti; poi Sartre completamente rapito dal corteggiamento a Simone de Beauvoir; Thomas Mann con tutta la sua casata (figlie e figlie compresi) alle prese con relazioni di amicizia e amore che scatenarono contrasti nella famiglia. E ancora Dalì che si innamorò perdutamente di Gala, portandola via all’amico; Marlene Dietrich divisa tra la Germania e Hollywood alle prese con i suoi diversi amori e quello più grande per la figlia. Poi ci sono storie come gli amori complicati e non sempre corrisposti di Annemarie Schwarzenbach, appassionata di viaggi e di fotografia, o la storia di Gunta Stölzl prima e unica donna ad insegnare al Bauhaus, ma anche madre coraggiosa nell’allattare a scuola il figlio appena nato. Tra le tante personalità vorrei ricordare anche lui, Francis Scott Fitzgerlad con la moglie Zelda e quel loro matrimonio così complicato, doloroso minato spesso dalla malattia della donna che fu per l’autore fonte di sofferenza emotiva e spunto dei suoi capolavori letterari. “L’amore al tempo dell’odio” di Florian Illies è una vera e propria mappatura del sentimento umano nella quale ci sono tanti amori, tanti tradimenti, tante relazioni (altro che il gossip di oggi) che finirono per incomprensioni, ma anche per il diffondersi delle leggi razziali, mentre altri iniziarono nonostante la catastrofe imminente, come a evidenziare un attaccamento alla vita e al domani, capace di affrontare ogni ostacolo del vivere. Traduzione Francesco Peri.

Florian Illies (1971) è storico dell’arte. Editorialista della «Frankfurter Allgemeine Zeitung», ha diretto le pagine culturali di «Die Zeit», è tra i fondatori della rivista «Monopol» ed è stato direttore editoriale della casa editrice Rowohlt. Autore di bestseller tradotti in tutto il mondo, per Marsilio sono usciti 1913. L’anno prima della tempesta (2013, 2018 tascabile Ue), L’invenzione delle nuvole. Lettera d’amore sull’arte e la poesia (2018) e 1913. Un’altra storia (2019).

Source: richiesto all’editore. Grazie all’ufficio stampa Marsilio.

Anime nere. Due destini nella Roma Nazista, Anna Foa e Lucetta Scaraffia (Marsilio 2021) A cura di Viviana Filippini

3 giugno 2021

Elena Hoehn e Celeste Di Porto. Una nata in Slesia, l’altra in Italia. Entrambe presenti a Roma durante la Seconda guerra mondiale. I loro destini si incrociarono perché tutte e due le donne furono accusate di essere delle collaborazioniste dei tedeschi. In particolare la giovane Celeste Di Porto, bellissima e spregiudicata amante di un fascista, dopo lo scoppio della bomba di via Rasella nel marzo del 1944 cominciò ad aiutare i tedeschi trovare gli ebrei che abitavano o si nascondevano nel ghetto, alcuni dei quali (compreso il pugile Lazzaro Anticoli soprannominato “Bucefalo”) finirono poi nelle Fosse Ardeatine. Questo suo agire ambiguo la portò ad essere guardata con sospetto da tutti e a venire soprannominata la “Pantera Nera”. Elena Hoehn polacca, residente in Italia perché sposata con un italiano (il loro matrimonio celebrato con rito civile ebbe vita breve) finì nel ciclone della giustizia con l’accusa di aver nascosto Giovanni Frignani (suo amante), l’ufficiale dei Carabinieri che arrestò Mussolini e che poi fu inserito nella lista di coloro che persero la vita nelle Ardeatine. Due figure femminili da subito ambigue, dai destini separati fino a quando Celeste e Elena si incontrarono nel carcere delle Mantellate, dove nacque un rapporto che le portò a diventare amiche e ad avvicinarsi a Chiara Lubich e al nascente Movimento dei Focolari. Leggendo il libro di Anna Foa e Lucetta Scaraffia si ha la netta sensazione che la maggior parte della narrazione sia incentrata sulla figura della Hoehn e, effettivamente, è molto dettagliata la parte del saggio nella quale sono raccolte tante testimonianze attorno alla donna e alla sue relazioni, utili per comprendere quanto fosse fondata l’accusa di spionaggio per aver dato riparo al carabiniere ricercato per aver arrestato Mussolini dopo la sua rimozione. Elena e Celeste, due donne diverse tra loro, ma con relazioni e intrecci di vita che portarono i loro destini ad incrociarsi e a influenzarsi, tanto è vero che fu proprio durante la detenzione che la Di Porto si convertì al cattolicesimo (madrina al suo battesimo fu la Hoehn) evidenziando la volontà di prendere i voti, anche se poi il passo completo non lo fece. Messe alle strette dall’evidenza dei fatti Elena e Celeste cercarono di dare una svolta decisiva rivolta al cambiamento totale per quanto riguarda le loro esistenze. Dalla lettura del saggio sembra proprio che la Hoehn ebbe un ruolo fondamentale nella conversione della Di Porto. Resta sempre un dubbio e qualche domanda: le due donne cambiarono veramente, o nel loro io più profondo rimasero sempre quelle persecutrici che con il loro agire portarono la fine nella vita di molte persone nel marzo del 1944? Certo è che quello che le due autrici riescono a compiere nel loro libro ricostruendo le vite della Hoehn e della Di Porto è dare voce a storie umane per troppo tempo nascoste e rimaste sconosciute. Grazie alla Anna Foa e a Lucetta Scaraffia in “Anime nere. Due destini nella Roma Nazista” il lettore di oggi riesce a conoscere un nuovo frammento degli eventi bellici in Italia e le vite di due donne tra loro diverse, ma forse simili, che con il loro agire influenzarono il corso e gli eventi della Storia.

Anna Foa (Torino, 1944) ha insegnato Storia moderna all’Università La Sapienza di Roma. Autrice di numerosi volumi sulla storia degli ebrei in Europa e in Italia, recentemente ha pubblicato Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43 (2016) e La famiglia F. (2018).

Lucetta Scaraffia (Torino, 1948), storica e giornalista, docente di Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma, è stata editorialista dell’«Osservatore Romano», di cui ha fondato e diretto dal 2012 al 2019 il mensile «Donne Chiesa Mondo». Con Marsilio ha pubblicato Dall’ultimo banco. La Chiesa, le donne, il sinodo (2016), Tra terra e cielo. Vita di Francesca Cabrini (2017), Storia della liberazione sessuale (2019) e il giallo La donna cardinale (2020)

Source: richiesto dal recensore all’editore. Grazie all’ufficio stampa Marsilio.

:: 30 aprile 1993 Bettino Craxi. L’ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica di Filippo Facci (Marsilio 2021) a cura di Nicola Vacca

19 Maggio 2021

È una giornata di aprile del 1993. Una folla inferocita, istigata dal tintinnare delle manette scatenata dal circo mediatico – giudiziario di Mani Pulite, aspetta Bettino Craxi davanti all’ Hotel Raphaël, per scagliarli contro insulti e monetine. La Seconda Repubblica inizia con un altro Piazzale Loreto quel momento di barbarie decretò per sempre la fine della politica e l’avvento dell’antipolitica con cui oggi stiamo facendo i conti.
Filippo Facci, scrittore e giornalista, con 30 aprile 1993. Bettino Craxi. L’ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica ricostruisce nei minimi dettagli quei giorni infelici del nostro Paese in cui i lanciatori rossi e neri di monetine, rappresentanti dell’italico popolo bue, inferociti dalla gogna giustizialista disonorarono la democrazia.
Le inchieste giudiziarie del Pool milanese, iniziate ufficialmente nel 1992, che dovevano riguardare la corruzione nel mondo politico italiano sono infine servite a criminalizzare e a cancellare dalla scena parlamentare alcuni partiti, quelli di ispirazione moderata , e garantire un salvacondotto per la sinistra comunista e postcomunista, che ha ricambiato il favore dando sempre e comunque il suo appoggio ai pubblici ministeri politicizzati, fautori del teorema di Tangentopoli che si sono specializzati nell’amministrazione della giustizia dei due pesi e delle due misure.
La giustizia politica e il giustizialismo hanno sempre caratterizzato, fino ai nostri giorni, attraverso il meccanismo del circo mediatico giudiziario, il pericoloso intreccio tra una parte della magistratura e la politica (quella del Pci-Pds-Ds).
Una vera e propria strategia del ragno che ha visto alcuni “magistrati di partito” costituirsi, nel vuoto politico causato dalla loro azione, in “partito di magistrati” è al centro dell’inchiesta di Mani Pulite. Quella stagione, violando le regole sacrosante dello Stato di Diritto ha imposto per un decennio il protagonismo di alcuni Pm che si erano messi in testa, abusando della carcerazione preventiva con il facile tintinnio delle manette, di “rivoltare l’Italia come un calzino”
Facci fotogramma per fotogramma da eccellente cronista torna sui luoghi terribili di quel misfatto e rilegge attraverso la scena del lancio delle monetine tutte le scene di quella falsa rivoluzione che ha cambiato in peggio l’Italia, assassinando lo Stato di diritto.
L’autore ricostruisce il clima del Paese degli inizi degli anni ’90 che annaspava sotto le grinfie della giustizia politica e il clima infernale di Mani Pulite, dove una cultura del sospetto prevaleva sul buon senso della legge: il circo mediatico- giudiziario che calpestava le regole più elementari di vita civile: le sentenze continuavano ad essere comminate, prima che nelle aule di un tribunale, da giornalisti senza scrupoli armati da alcune procure.
Giustizia sommaria e giustizia spettacolo, questi i capisaldi del cosiddetto rito ambrosiano in un tempo in cui il pregiudizio morale assunse valenza politica e il disprezzo morale diventò elemento costitutivo del giudizio sui politici, come dimostra la folla inferocita che si riunì davanti all’Hotel Raphaël per linciare Bettino Craxi.
Il Pool aveva le idee chiare: abbattere la democrazia dei partiti con lo strumento antidemocratico del giustizialismo. Napoleone Colajanni in un libro dedicato a quella stagione (Mani Pulite? Giustizia e politica in Italia, Mondadori, 1996) affermò che tra le cause dell’attuale stato d’incertezza, non solo politica, in cui versa il nostro Paese si debba annoverare anche il modo in cui ha operato la magistratura. È illuminante quanto scrive a proposito dei giudici di Tangentopoli.

Questi uomini avevano però alcune caratteristiche comuni: l’avversione per il sistema dei partiti, che di fatto diveniva avversione per la democrazia così come esiste in Italia; la consapevolezza di disporre di uno strumento formidabile, qualora lo si fosse potuto usare, per operare il cambiamento; un orientamento, che si potrebbe definire fondamentalista, per cui la giustizia è una sorta di macchina inesorabile al cui centro è l’obbligo dell’azione penale, da portare avanti in ogni circostanza, qualunque essa sia”.

Filippo Facci ricostruendo quella stagione maledetta e la grande illusione rivoluzionaria delle toghe rosse di Mani pulite non ha dubbi: in quei giorni era morto il meglio e avanzava il peggio.
Il linciaggio di Bettino Craxi all’Hotel Raphaël resterà per sempre l’emblema del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica.
Un passaggio crudele e violento che ha aperto la strada al baratro istituzionale e alla morte definitiva del primato della politica.

Filippo Facci (Milano, 1967), giornalista e scrittore, inizia la sua attività professionale da giovanissimo, collaborando con «L’Unità» e «La Repubblica», e poi approdando all’«Avanti!». Editorialista del «Giornale», collabora con «Il Foglio» e tiene per anni una rubrica su «Grazia». Lavora a «Libero» e, dal 1999 al 2009, a Mediaset. È autore di numerosi libri, tra cui Di Pietro. La storia vera (2009) e Uomini che amano troppo (2015).

Source: libro inviato dall’editore. Ringraziamo l’Ufficio Stampa Marsilio.