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:: Istruzioni per il buon governo – Antologia in 360 massime sui principi per il retto governare della Cina antica – introduzione di Tiziana Lippiello, a cura di Ludovica Gallinaro (Marsilio 2022) a cura di Giulietta Iannone

12 dicembre 2022

All’inizio dell’era imperiale Zhenguan, l’imperatore Taizong della dinastia Tang (618-907) decretò che fosse redatta l’opera Qunshu Zhiyao (Istruzioni per il buon governo). Affidò a due ministri della corte il compito di catalogare il materiale storico e storiografico attinente all’arte di governo, scegliendo tra i classici, le compilazioni storiche e le opere di pensatori ogni contenuto che potesse illustrare i principi della coltivazione di sé, della cura della famiglia e del governo dello Stato. Durante la dinastia Song (960-1279) l’opera andò perduta, ma fortunatamente una copia manoscritta a cura dei monaci giapponesi dell’epoca Kamakura (1192-1330) fu conservata in una delle collezioni del Museo Kanazawa. Nel sessantesimo anno (1795) del regno dell’imperatore Qianlong della dinastia Qing (1644-1911) l’opera fu restituita alla Cina.
La raccolta consta di sessantacinque volumi divisi in cinquanta libri e racchiude, attraverso un’esperienza politica plurisecolare, l’essenza della cultura cinese. La versione qui pubblicata è una selezione di 360 aforismi divisi in sei capitoli: Il dao del governante, L’arte del ministro, Valorizzare le virtù, Sull’atto del governare, Avere ligia premura e Comprendere e giudicare.

Metti in pratica la virtù, e il tuo cuore sarà leggero, gratificato giorno dopo giorno. Segui la falsità, e il tuo cuore sarà affaticato, logorato giorno dopo giorno.

(Classico dei documenti, libro II)

Se alcuni monaci giapponesi dell’epoca Kamakura (1192-1330) non avessero copiato questo importante documento e non fosse stato conservato nel Museo Kanazawa, per poi nel 1795 restituirlo alla Cina, i sessanta volumi de “Istruzioni per il buon governo” (Qunshu Zhiyao) sarebbero andati perduti e noi non potremmo fare tesoro di questa sapienza secolare mai tanto utile quanto oggi. La saggezza cinese è in un certo senso un patrimonio dell’intera umanità, e in questa selezione di 360 aforismi troviamo un fulgido esempio di questo sapere antico. L’arte del governo è un’arte difficile, complessa, strettamente legata alla moralità e l’abilità dei governanti. Non si può essere un saggio e capace governanate senza essere un uomo retto, onesto, e lungimirante. Questo volume è splendido e curato, con testo cinese a fronte, e ci porta a conoscere l’essenza del retto governare, forse ancora più importante de L’arte della guerra del già famoso Tzu Sun, l’antico generale cinese, stratega e filosofo che può essere considerato il Machiavelli cinese, a cui è attribuito questo testo. L’arte del buon governo è un’arte pacifica, etica, morale, e tesa al benessere e alla felicità di tutti. Perchè il cuore sarà leggero se si pratica la virtù.

Ludovica Gallinaro ha conseguito le lauree in Filosofia e in Lingua cinese all’Università degli Studi di Padova e all’Università Ca’ Foscari di Venezia, e ha ottenuto un dottorato in Filosofia cinese all’Università Tsinghua di Pechino con una tesi sul pensiero morale di Zhou Dunyi. Ha pubblicato articoli sul pensiero confuciano e neoconfuciano di epoca Song e svolge attività di traduzione di opere della filosofia cinese moderna e contemporanea.

Tiziana Lippiello, è rettrice dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. È autrice di numerosi saggi sul pensiero e le religioni della Cina antica, fra cui Auspicious Omens and Miracles in Ancient China: Han, Three Kingdoms and Six Dynasties (2001) e Il confucianesimo (2009). Ha tradotto e curato i Dialoghi di Confucio (20062). Per Marsilio ha curato La costante pratica del giusto mezzo (2010) ed è nel comitato scientifico della Letteratura universale Marsilio.

:: Lo spettro del Dio mortale, Hobbes, Schmitt e la sovranità di Etienne Balibar, raccolta a cura di Giada Scotto (Rogas Edizioni 2022) a cura di Giulietta Iannone

16 settembre 2022

L’idea di sovranità è al giorno d’oggi in crisi? Oppure la messa in discussione della sua tradizionale configurazione statale e nazionale offre l’occasione di un suo differente rilancio? Questi gli interrogativi al centro dei saggi di Balibar, proposti per la prima volta in Italia. Lavorando sulla teoria della sovranità di Hobbes e sul pensiero di uno dei suoi massimi interpreti novecenteschi, Carl Schmitt, il filosofo francese porta alla luce le contraddizioni e le aporie interne alla dottrina dello Stato e al contempo l’irrinunciabilità dell’idea eccedente di sovranità per sostenere e alimentare le istanze democratiche.

Lo spettro del Dio mortale, Hobbes, Schmitt e la sovranità è una raccolta di quattro saggi del filosofo francese Etienne Balibar, curata dalla ricercatrice Giada Scotto, tre dei quali qui tradotti per la prima volta in lingua italiana. Il testo contiene: Prolegomeni alla sovranità: la frontiera, lo Stato, il popolo apparso nel 2000 sulla rivista “Le Temps Modernes”; Lo Hobbes di Schmitt, lo Schmitt di Hobbes, nato prima come prefazione poi pubblicato autonomamente nel 2010 all’interno della raccolta di saggi Violence et civiltè; Schmitt una lettura conservatrice di Hobbes? apparso nel 2003 sulla rivista “Droit” e infine Il Dio mortale e i suoi fedeli soggetti: Hobbes, Schmitt e le antonomie della laicità pubblicato nel 2012 sulla rivista “Ethique, politique, religions”. Testi scritti in tempi differenti che concorrono a formare un’unica complessa e articolata discussione sul concetto di sovranità che Balibar ha sviluppato dal confronto con Carl Schmitt, teorico novecentesco della sovranità, e soprattutto dalla interpretazione schmittiana della dottrina della sovranità di Thomas Hobbes.

Partendo dal concetto di crisi della sovranità, estesa e mutuata da una più estesa incertezza delle istituzioni sovranazionali che formano la costruzione europea, Balibar si interroga su quali sono i limiti e le contraddizioni di queste categorie di pensiero in un contesto problematico e in sempre costante evoluzione come quello in cui ci troviamo a vivere per pervenire a interessanti soluzioni non solo filosofiche astratte ma anche applicabili al contesto politico e sociale contemporaneo.

Forse è meglio prima di addentrarci nello studio delle analisi qui contenute fare un passo indietro e gettare un po’ di luce sul pensiero e la formazione di Balibar. Allievo di Louis Althusser, formatosi in un confronto dialettico con Marx e Lenin, Balibar è tra gli intellettuali di sinistra più attivi del secondo Novecento francese. Una militanza politica problematica quella con il Partito comunista francese, in cui militò dal 1961, per poi uscirne drammaticamente nel 1981 in seguito a severe critiche sull’operato del partito di cui denunciò severamente il suo nazionalismo in materia di immigrazione a fronte di episodi violenti verificatesi nelle banlieu parigine. Il crescente emergere in Francia di sentimenti nazionalisti e xenofobi, non solo tra aderenti della destra del Front National di Jean Marie Le Pen, portò Balibar a sentire la necessità e l’urgenza di un ripensamento della questione della sovranità e di una decostruzione della configurazione statale. La democratizzazione della democrazia sembra una delle sue più recenti proposte al vaglio. Tra cittadinanza, cosmopolitismo e lotta contro la clandestinità come fonte di esclusione e ingiustizia, il tema dell’immigrazione ha un ruolo fondamentale nella rielaborazione di concetti come sovranità, nazione, e stato.

Étienne Balibar (1942) è professore emerito di Filosofia politica e morale all’università Paris X-Nanterre e distinguished professor of Humanities alla University of California di Irvine. Allievo e collaboratore di Louis Althusser, è tra i più autorevoli filosofi politici contemporanei. Tra le sue pubblicazioni tradotte più recentemente Cittadinanza (2012), Crisi e fine dell’Europa? (2016), Gli universali. Equivoci, derive e strategie dell’universalismo (2018), Al cuore della crisi (2020).

Giada Scotto (1991) è dottoressa di ricerca in Storia dell’Europa presso l’Università Sapienza di Roma con uno studio sulla teologia politica di Carl Schmitt. La sua ricerca è parte di un più ampio interesse per la filosofia politica e per il dibattito contemporaneo sulla genesi e il funzionamento degli Stati democratici.

Source: libro inviato dall’editore. Ringraziamo Simone Ufficio Stampa Rogas Edizioni.

:: Twenty – Il nuovo secolo americano: venti anni di guerra e pace nelle cronache di un giornalista italiano di Francesco Semprini (Signs Books 2021) a cura di Giulietta Iannone

12 settembre 2022

Federico Rampini scrive, nella prefazione di “Twenty”, che «mettere insieme i fatti, gli eventi, allineandoli uno dopo l’altro, ricostruire il dettaglio di ciò che accadde, è un tipo di lavoro che, alla lunga, invecchia meno delle dotte e presuntuose analisi, degli editoriali in prima pagina, molti dei quali, se riletti oggi, provocano imbarazzo. Francesco Semprini ha messo insieme, in quest’opera, il suo lavoro di cronista in prima linea, materiale tuttora utile e interessante». “Twenty” è la narrazione dell’America del XXI secolo attraverso scatti e dispacci che lasciano lo spazio di giudicare, conferendo opportuni strumenti di critica… con la consapevolezza di una narrazione prevalentemente in presa diretta, senza filtri e senza alcun privilegio, se non quello dell’autore di essere rimasto sempre il più vicino possibile ai fatti.

Per capire l’America, o meglio gli Stati Uniti d’America, errore di termini in cui incorriamo spesso quando nominiamo i territori d’oltre Oceano, l’America naturalmente è un continente che comprende Nord e Sud America per cui anche Messico, Argentina, Perù, etc.., ho trovato di estremo interesse la lettura di Twenty – Il nuovo secolo americano: venti anni di guerra e pace nelle cronache di un giornalista italiano di Francesco Semprini, edito nel 2021 da Signs Books. Gli Stati Uniti d’America con tutte le loro criticità, le loro recessioni, la disoccupazione, le crisi istituzionali sono un macrocosmo variegato e complesso la cui analisi, anche svolta da importanti analisti è sempre difficile e sfugge a molte sottigliezze, per cui è interessante raccoggliere i fatti, filtrati dall’esperienza di un giornalista che vive negli Stati Uniti dal 2001, e seppure di sensibilità prettamente europea conosce dinamiche e problematiche di un paese a volte molto diverso da come l’immaginiamo. Fenomeni di massa e mediatici come Trump non sono spiegabili senza conoscere il vero cuore degli Stati Uniti, la sua gente, quello scontento, quella delusione non solo in termini di crisi economica, che hanno fatto recedere il paese da faro della libertà, con un preciso ruolo anche a livello mondiale e una sorta di orgoglio nazionale, in un secondo piano rispetto a nuove realtà emergenti. Ho trovato di estremo interesse i capitoli riservati a Trump, dal decimo con il titolo più che emblematico Uragano Trump, che consiglio di leggere soprattutto in prospettiva delle nuove elezioni del 2024 che probabilmente riproporranno un confronto (ancora più agguerrito e senza regole) tra Hillary Clinton e Trump, con un paese molto cambiato dopo una pandemia devastante, e una crisi militare nel cuore slavo dell’Europa. Le incognite sono tante ma per comprendere questo paese è bene capire l’importanza e il ruolo che caratterizzano le relazioni specialmente con la Cina, vero punto in cui convergono tutte le tensioni esterne e interne. A quel punto la Casa Bianca dovrà decidere se ritenere Pechino responsabile della devastazione umana ed economica causata dal Covid-19. E questo sarà davvero il punto di svolta delle nuove amministrazioni. Io in tutta sincerità mi auguro che non si arrivi mai a uno scontro diretto, in favore di una sempre maggiore cooperazione e conoscenza reciproca. Politicizzare il virus forse sarà proprio l’errore più grave che i candidati sia repubblicani che democratici potranno fare, perchè sì addensa il consenso nel breve termine contro un nemico comune, ma è foriero di incognite ancora maggiori nel lungo periodo. Tutte riflessioni che ho maturato durante la lettura di questo libro che consiglio sia a chi è a digiuno di faccende statunitensi, sia a chi pur conoscendo il paese si pone degli interrogativi. Semprini è molto abile nel rendere la materia interessante. Edizione arricchita da illustrazioni e contenuti multimediali fruibili con smartphone o tablet (QR Code). Il volume è anche audiolibro con i brani letti da Francesco Semprini. Prefazione di Federico Rampini. Postfazione di Alberto Simoni.

Francesco Semprini, giornalista professionista, vive negli Stati Uniti dal 2001. Ha seguito per La Stampa le più importanti vicende politiche ed economiche americane del nuovo secolo, ed è stato inviato di guerra nei principali teatri di crisi del pianeta. Per il quotidiano torinese ha aperto un ufficio di corrispondenza alle Nazioni Unite. Ha curato ed è co-autore del volume Emergenza Libia (Rubbettino Editore) e ha prodotto Siete Mil, documentario breve sulla crisi del Venezuela.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Anna dell’Ufficio stampa dedicato.

:: In lode della guerra fredda di Sergio Romano (Longanesi 2015) a cura di Giulietta Iannone

2 Maggio 2022

A dispetto del nome, la Guerra fredda fu un lungo periodo di pace e stabilità per l’Europa. Pur se costellati da momenti di grande tensione, i decenni che seguirono la Seconda guerra mondiale furono caratterizzati dalla fermezza con cui le due superpotenze, Unione Sovietica e Stati Uniti, seppero frenare le forze che al loro interno premevano per lo scontro, ben consapevoli che lo scoppio di una guerra nucleare avrebbe avuto conseguenze disastrose per tutti. Con la caduta del muro di Berlino e la disintegrazione dell’Urss, i confini dell’ex Impero sovietico divennero nuovamente contesi, rinacquero antichi nazionalismi, scoppiarono numerose guerre: in Cecenia, nel Caucaso e nella ex Jugoslavia. Gli Stati Uniti, dal canto loro, pensarono di avere vinto la Guerra fredda, ma oggi emergono chiari i limiti della superpotenza americana e le conseguenze del suo avventurismo: rivoluzioni sfuggite di mano, guerriglie fomentate dal fanatismo religioso, contrasti sempre più accesi con la Russia. Ma la fine della Guerra fredda, e i conflitti del dopoguerra, hanno avuto come effetto soprattutto il sorgere dei «non Stati» – Isis, Ghaza, Kurdistan iracheno, Bosnia, Kosovo, Siria, Libia – con le grandi incognite che ne derivano: come si combatte contro un «non Stato»? Come lo si governa? E come si può ricostruire l’ordine perduto?

In questi giorni confusi e convulsi ho ripreso un libro di Sergio Romano, autorevole commentatore di quasi tutti i fatti salienti accaduti dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi, uscito ormai nel 2015 dal titolo emblematico di In lode della guerra fredda. Con la sua mente lucida e analitica Romano ripercorre gli avvenimenti storici occorsi dalla Rivoluzione Ungherese alle rivolte arabe in Egitto, Libia e Siria, senza tralasciare gli antefatti della cosidetta “questione ucraina” e lo fa focalizzando importanti correlazioni e riflessioni che spiegano l’evolversi di un processo lento e difficoltoso che ha il suo punto di svolta nel crollo del regime comunista dell’Unione Sovietica. La fine dell’URSS ha posto di fatto fine alla Guerra Fredda, cosa di per sè positiva, ma ha anche in realtà spezzato quell’equlibrio di forze, a prescindere dalle valutazioni etiche e morali dei vari regimi, che mantenevano la pace seppur sotto la minaccia di un conflitto atomico. Possiamo definirla vera pace? Questa è un’interessante domanda etica che mi sono posta durante la lettura considerando il fatto che sebbene in Occidente si visse un periodo di relativa assenza di conflitti armati (senza dimenticare le guerre jugoslave, comunque post caduta Muro) non si rinuncio a coflitti armati per procura in altre parti del mondo. In lode della guerra fredda dunque è un compendio, molto illuminante, di più di cinquant’anni di storia politica, caratterizzato da capitoli brevi ed essenziali che sintetizzano i principali avvenimenti occorsi e aiutano grazie a un linguaggio semplice ed efficace, a fare chiarezza su avvenimenti per i più giovani, che non hanno vissuto quegli annni, ancora oscuri. I meno giovani, che hanno avuto un’esprienza diretta delle conseguenze di quei fatti, potranno comunque, grazie a questo testo, avere una visione di insieme utile a far luce su quelle dinamiche sotterranee che hanno portato agli avvenimenti contemporanei. Naturalmente sono interpretazioni, teorie politiche, giudizi forse in alcuni casi anche troppo severi, specialmente nei riguardi degli Stati Uniti con cui Romano non ci va leggero imputandogli colpe e responsabilità, determinati però dal punto di vista privilegiato da cui l’autore li ha osservati. Consiglio di leggere soprattutto attentamente i capitoli riguardanti la crisi ucraina, e l’irresistibile avanzata della Nato, oltre al capitolo intitolato: Chi ha vinto la Guerra Fredda? E poi naturalmente c’è il dopo e tutti gli strascichi che sono occorsi. Ci si domanda perchè tante guerre “calde” si sono sviluppate nel post Guerra Fredda, e soprattutto si analizzano le difficoltà nell’intraprendere un percorso di convivenza pacifica e governance globale democratica diretta, sempre considerato che i paesi democratici al mondo sono una minoranza ristretta e privilegiata. E soprattutto sempre che i popoli del mondo la vogliano e non preferiscano rinunciare a parte della loro libertà e dei loro diritti fondamentali in cambio di un maggiore benessere economico o financo della mera sopravvivenza. Doloroso dilemma che ci fa riflettere sui costi (reali) della democrazia, e sui sacrifici che siamo disposti ad affrontare per il mantenimento della pace, sempre considerato che una guerra globale (atomica) a tali condizioni non prevede nessun vincitore (e tutti lo sanno). La debolezza dell’Unione europea, pur mantenenedo un giudizio relativamente positivo sull’operato dei vari attori politici dalla Merkel a Hollande, è il punto critico che Romano ha focalizzato nel 2015 che ha ripercussioni fino ad oggi e questo giudizio è condiviso anche da altri osservatori politici e mi sento di condividerlo anche io sebbene mi interroghi su come ricostruire l’ordine perduto, impossibile se dimentichiamo che senza una diffusa e condivisa giustizia sociale ed un’equa distrubuzione delle risorse non ci può essere vera pace, la sola condizione possibile per la sopravvivenza della nostra specie.

Sergio Romano (Vicenza, 1929) è stato ambasciatore alla NATO e, dal settembre 1985 al marzo 1989, a Mosca. Ha insegnato a Firenze, Sassari, Pavia, Berkeley, Harvard e, per alcuni anni, all’Università Bocconi di Milano. È editorialista del Corriere della Sera. tra i suoi ultimi libri pubblicati da Longanesi: La Chiesa contro (2012), Morire di democrazia (2013), Il declino dell’impero americano (2014), In lode della Guerra fredda. Una controstoria (2015), Putin (2016), Trump (2017), L’epidemia sovranista (2019), Processo alla Russia (2020).

Source: libro inviato dall’editore. Ringraziamo l’Ufficio stampa Longanesi.

:: GIANNI VIOLA: “IL PROFUMO SOAVE DELL’IMPERIALISMO” a cura di Antonio Catalfamo

3 ottobre 2021

Gianni Viola è un giornalista free lance che ha fatto della libera informazione una missione, ormai da lungo tempo, occupandosi di argomenti scottanti, affrontati con profondità d’analisi e spirito critico. In questo suo corposo volume, Il soave profumo dell’imperialismo (Kimerik Edizioni, Patti, 2010, euro 14,00), concentra l’attenzione sulla distruzione della Jugoslavia, in seguito a tutta una serie di vicende storiche tragiche che necessitano di essere finalmente chiarite.

Attraverso una grande mole di dati, notizie, informazioni, ricercate con competenza e con pazienza attingendo a varie fonti, non accessibili al grande pubblico, egli spiega come è stato abbattuto il regime comunista jugoslavo non solo con l’uso delle armi, ma anche per mezzo di un apparato propagandistico enorme e dispendioso, che, però, ha prodotto i frutti programmati e che ha cominciato ad operare quando ancora il sistema dei Paesi socialisti era in piedi, quindi non solo in Jugoslavia, ma in tutto l’Est europeo, avendo come vertice d’irradiazione e punto di partenza i governi delle grandi potenze capitalistiche occidentali, e, soprattutto, quello degli Stati Uniti d’America.

Si è trattato e si tratta di un sistema organizzativo e informativo molto sofisticato, molto radicato, capillare, che opera a vari livelli e che è in grado di condizionare e manipolare l’opinione pubblica mondiale, in maniera subdola e penetrante. Esso ha costruito l’immagine di Slobodan Milosevic come uno spietato criminale, sanguinario, cinico, responsabile di migliaia e migliaia di morti, ed è riuscito a farla arrivare anche nel più sperduto angolo del pianeta, cosicché una menzogna, sapientemente ripetuta un’infinità di volte, è divenuta verità consolidata ed incontrovertibile. Ha adottato lo stesso metodo già sperimentato per infangare l’immagine di Mao Tse-Tung, presentato come autore di genocidi che hanno riguardato addirittura milioni di persone, di Fidel Castro e di molti altri dirigenti del movimento comunista internazionale, oggetto di “libri neri”, dossier, documentari, informazioni tutte da verificare nella loro fondatezza, diffuse ora capillarmente via Internet, per accreditare, infine, l’idea che il comunismo è un sistema di per sé criminale, che va equiparato al nazismo.

L’imperialismo, però, come suggerisce il titolo di questo libro di Gianni Viola, non si è limitato a diffondere il proprio “soave profumo” propagandistico. Ha fatto sentire anche l’odore della polvere da sparo, in quanto l’azione di propaganda è stata accompagnata da quella delle armi. La Serbia, nella fattispecie, è stata bombardata per giorni e giorni, seminando la morte e il terrore in mezzo alla popolazione civile, fino a quando ogni resistenza umanamente possibile è stata spezzata. Tutto un popolo è stato messo in ginocchio, umiliato, distrutto fisicamente e psicologicamente. Ma questo non è stato considerato un crimine dai tribunali internazionali. Anzi, pure queste morti innocenti e queste devastazioni sono state addebitate a Milosevic, come responsabile di tutta la guerra del Kosovo.

Da un po’ di tempo si parla degli effetti che l’uranio impoverito, presente in alcune armi, ha avuto sulla salute delle popolazioni colpite dall’ondata bellica, nonché su quella degli stessi militari che hanno utilizzato armamenti letali. Ma neanche questi ulteriori effetti nefasti sono stati posti a carico di chi ha dato ordine di utilizzare il materiale bellico pericolosissimo che li ha prodotti. Persino il rapporto causale tra l’uso di tali armi e i tumori riscontrati in diversi militari impegnati nel conflitto è stato messo in discussione da alcuni giudici chiamati in causa da soggetti che si ritenevano vittime dell’uranio impoverito maneggiato a scopi bellici. Noi non siamo degli esperti del settore e non possiamo pronunciarci in materia. Gli sviluppi della situazione, le nuove conoscenze scientifiche, ci diranno forse nei prossimi anni la verità, se mai si perverrà ad essa. Comunque, è indubbio che morte e distruzione sono state seminate dalle truppe che hanno attaccato la Serbia e che porre queste conseguenze sul conto del “criminale” Milosevic è un’operazione tutta da dimostrare sul piano della logica giuridica, ma anche della logica comune.

Gianni Viola, sin dalle prime pagine, evidenzia che l’attacco a quel che restava della Jugoslavia progressivamente smembrata non sarebbe stato neanche lontanamente pensabile ai tempi dell’Unione Sovietica. Il presupposto di tutto questa operazione distruttiva era, dunque, il crollo dell’Urss. A nostro avviso, tutti gli effetti contro la convivenza civile e la democrazia vera che sono derivati e che deriveranno da questo avvenimento storico disastroso per l’intera umanità non sono ancora ben chiari e definiti. Nei prossimi anni, forse nei prossimi decenni, se continuerà a lungo la fase restauratrice della storia aperta dal crollo dei regimi comunisti dell’Est europei, avremo le idee più chiare, naturalmente a nostre spese, perché dovremo constatare che le condizioni di vita, in termini materiali e ideali, dell’umanità peggioreranno sempre più e che non c’è una forza in grado di contrastare la deriva autoritaria che investe tutto il mondo. Grandi sacrifici si imporranno ai diseredati del pianeta prima di poterne mettere in piedi una di egual potenza di quella sovietica, in grado di contrastare il dominio sempre più esasperante del più forte, ammesso che si riesca a costruirla, visto che l’avversario non resterà a guardare, ma contrasterà con tutti i mezzi, sempre più accresciuti, l’azione costruttiva. Il comunismo ha avuto indubbiamente molti limiti, ma è stato l’unico sistema nella storia dell’umanità a togliere il potere alle classi più forti e prepotenti e ad attribuirlo a quelle meno abbienti.

Il sistema dei Paesi socialisti è stato attaccato dalle potenze imperialiste sin dalla sua nascita. Ma esso ha resistito bene per decenni. Con riferimento specifico alla Jugoslavia, possiamo dire che Tito era riuscito a creare un Paese che, per la prima volta, metteva insieme, su un piano paritario, le diverse nazionalità in esso presenti, assicurando a tutti un tenore di vita dignitoso e una sostanziale uguaglianza economico-sociale. Ma, probabilmente, il male covava sotto la cenere e ad un certo punto è emerso, quando la figura carismatica di Tito è venuta meno. La Jugoslavia, nonostante le sue peculiarità e la sua autonomia dal blocco dell’Est, di cui andava orgogliosa, ha seguito il destino di tutti i Paesi dell’Europa orientale, con il crollo del regime comunista, lo smembramento dello Stato multietnico e la sua sostituzione con staterelli fondati su basi etnico-religiose che pretendevano e pretendono di assicurare omogeneità, fra i quali sono state scatenate guerre disastrose che hanno seminato morte e miseria.

Un’analisi relativa al male sotterraneo che ha corroso alle fondamenta la società socialista è stata avviata da Milovan Gjlas. nonostante i limiti e le ambiguità, per certi aspetti, della stessa e il carattere controverso del personaggio, che, però, è riuscito a cogliere e a denunciare un fenomeno che sicuramente ha influito in maniera decisiva sul crollo di tutti i regimi comunisti dell’Est europeo: il processo di burocratizzazione al quale essi sono andati incontro, in conseguenza del quale la classe dirigente, ai vari livelli, si è impadronita progressivamente del potere, utilizzandolo non a favore del popolo, ma contro di esso e a proprio vantaggio esclusivo, fino ad espropriare i beni collettivi, privatizzandoli ed impadronendosene, dando vita a nuove lobby che hanno assunto connotati marcatamente capitalistici. In Jugoslavia i capi delle varie Repubbliche, che, contemporaneamente, erano alla guida della Lega dei comunisti, in una direzione collegiale dopo la morte di Tito, hanno abbandonato la strada del socialismo e hanno fondato degli staterelli su basi etnico-religiose, sull’autoritarismo e sulla repressione di ogni opposizione, su sistemi economico-sociali a carattere privatistico e capitalistico.

E’ necessario uno sforzo teorico per capire le ragioni di questo processo involutivo, quali sono state le sue matrici causali, in che misura esse sono legate all’ideologia marxista o, quantomeno, alle sue applicazioni concrete. Solo portando sino in fondo questa analisi sarà possibile trovare la via per uscire dall’impasse in cui si trova attualmente il movimento operaio e comunista a livello mondiale e nelle sue articolazioni nazionali. Sinora, purtroppo, questo sforzo non è riuscito a produrre risultati rilevanti o, comunque, sufficienti ad assicurare un rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria.

Lo studio di Gianni Viola, grazie ai numerosi dati che fornisce, alla chiave interpretativa degli stessi, rappresenta un passo significativo in avanti, un mattone che serve senz’altro alla grande costruzione teorica di cui sentiamo il bisogno e, perciò, va letto e meditato da un gran numero di persone.

Gianni Viola, Il soave profumo dell’imperialismo, con una nota introduttiva di Ivan Pavicevac, Casa editrice Kimerik, Patti (Messina), 2010, euro 14.

:: 30 aprile 1993 Bettino Craxi. L’ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica di Filippo Facci (Marsilio 2021) a cura di Nicola Vacca

19 Maggio 2021

È una giornata di aprile del 1993. Una folla inferocita, istigata dal tintinnare delle manette scatenata dal circo mediatico – giudiziario di Mani Pulite, aspetta Bettino Craxi davanti all’ Hotel Raphaël, per scagliarli contro insulti e monetine. La Seconda Repubblica inizia con un altro Piazzale Loreto quel momento di barbarie decretò per sempre la fine della politica e l’avvento dell’antipolitica con cui oggi stiamo facendo i conti.
Filippo Facci, scrittore e giornalista, con 30 aprile 1993. Bettino Craxi. L’ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica ricostruisce nei minimi dettagli quei giorni infelici del nostro Paese in cui i lanciatori rossi e neri di monetine, rappresentanti dell’italico popolo bue, inferociti dalla gogna giustizialista disonorarono la democrazia.
Le inchieste giudiziarie del Pool milanese, iniziate ufficialmente nel 1992, che dovevano riguardare la corruzione nel mondo politico italiano sono infine servite a criminalizzare e a cancellare dalla scena parlamentare alcuni partiti, quelli di ispirazione moderata , e garantire un salvacondotto per la sinistra comunista e postcomunista, che ha ricambiato il favore dando sempre e comunque il suo appoggio ai pubblici ministeri politicizzati, fautori del teorema di Tangentopoli che si sono specializzati nell’amministrazione della giustizia dei due pesi e delle due misure.
La giustizia politica e il giustizialismo hanno sempre caratterizzato, fino ai nostri giorni, attraverso il meccanismo del circo mediatico giudiziario, il pericoloso intreccio tra una parte della magistratura e la politica (quella del Pci-Pds-Ds).
Una vera e propria strategia del ragno che ha visto alcuni “magistrati di partito” costituirsi, nel vuoto politico causato dalla loro azione, in “partito di magistrati” è al centro dell’inchiesta di Mani Pulite. Quella stagione, violando le regole sacrosante dello Stato di Diritto ha imposto per un decennio il protagonismo di alcuni Pm che si erano messi in testa, abusando della carcerazione preventiva con il facile tintinnio delle manette, di “rivoltare l’Italia come un calzino”
Facci fotogramma per fotogramma da eccellente cronista torna sui luoghi terribili di quel misfatto e rilegge attraverso la scena del lancio delle monetine tutte le scene di quella falsa rivoluzione che ha cambiato in peggio l’Italia, assassinando lo Stato di diritto.
L’autore ricostruisce il clima del Paese degli inizi degli anni ’90 che annaspava sotto le grinfie della giustizia politica e il clima infernale di Mani Pulite, dove una cultura del sospetto prevaleva sul buon senso della legge: il circo mediatico- giudiziario che calpestava le regole più elementari di vita civile: le sentenze continuavano ad essere comminate, prima che nelle aule di un tribunale, da giornalisti senza scrupoli armati da alcune procure.
Giustizia sommaria e giustizia spettacolo, questi i capisaldi del cosiddetto rito ambrosiano in un tempo in cui il pregiudizio morale assunse valenza politica e il disprezzo morale diventò elemento costitutivo del giudizio sui politici, come dimostra la folla inferocita che si riunì davanti all’Hotel Raphaël per linciare Bettino Craxi.
Il Pool aveva le idee chiare: abbattere la democrazia dei partiti con lo strumento antidemocratico del giustizialismo. Napoleone Colajanni in un libro dedicato a quella stagione (Mani Pulite? Giustizia e politica in Italia, Mondadori, 1996) affermò che tra le cause dell’attuale stato d’incertezza, non solo politica, in cui versa il nostro Paese si debba annoverare anche il modo in cui ha operato la magistratura. È illuminante quanto scrive a proposito dei giudici di Tangentopoli.

Questi uomini avevano però alcune caratteristiche comuni: l’avversione per il sistema dei partiti, che di fatto diveniva avversione per la democrazia così come esiste in Italia; la consapevolezza di disporre di uno strumento formidabile, qualora lo si fosse potuto usare, per operare il cambiamento; un orientamento, che si potrebbe definire fondamentalista, per cui la giustizia è una sorta di macchina inesorabile al cui centro è l’obbligo dell’azione penale, da portare avanti in ogni circostanza, qualunque essa sia”.

Filippo Facci ricostruendo quella stagione maledetta e la grande illusione rivoluzionaria delle toghe rosse di Mani pulite non ha dubbi: in quei giorni era morto il meglio e avanzava il peggio.
Il linciaggio di Bettino Craxi all’Hotel Raphaël resterà per sempre l’emblema del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica.
Un passaggio crudele e violento che ha aperto la strada al baratro istituzionale e alla morte definitiva del primato della politica.

Filippo Facci (Milano, 1967), giornalista e scrittore, inizia la sua attività professionale da giovanissimo, collaborando con «L’Unità» e «La Repubblica», e poi approdando all’«Avanti!». Editorialista del «Giornale», collabora con «Il Foglio» e tiene per anni una rubrica su «Grazia». Lavora a «Libero» e, dal 1999 al 2009, a Mediaset. È autore di numerosi libri, tra cui Di Pietro. La storia vera (2009) e Uomini che amano troppo (2015).

Source: libro inviato dall’editore. Ringraziamo l’Ufficio Stampa Marsilio.

First Lady, Dario Salvatori, (Oltre edizioni 2021) A cura di Viviana Filippini

18 Maggio 2021

Sono 46 i Presidenti che si sono alternati alla giuda degli Stati Uniti d’America dal 1789 ad oggi.  46 uomini che hanno portato avanti il Paese a stelle e strisce nel corso del tempo, attraversando guerre interne (come non ricordare quella di Secessione dal 1861 al 1865) e mondiali. Questi uomini, in realtà non erano soli e a narrare le esistenze delle loro compagne di vita ci ha pensato Dario Salvatori con “First Lady”, edito da Oltre edizioni. Il volume è un interessante saggio biografico che racconta il vissuto delle mogli di tutti i capi di stato americani, da Martha Washington fino a Jill Biden, moglie dell’ultimo presidente eletto.  Sì, ma nel mezzo ci sono anche Eleanor Roosevelt, Bess Truman, Jackie Kennedy, Nancy Reagan, Michelle Obama e Hillary Rodham Clinton, in quello che, leggendo, è un vero e proprio viaggio nelle vite di donne che forse hanno incarnato e incarnano il lato meno noto del potere americano, ma che sono state e sono ancora le co-protagoniste dello sviluppo della vita degli U.S.A. Per esempio c’è la storia di Florence Harding, first lady dal 1921 al 1923, che venne definita “Nuova donna dell’era progressista” e fu la prima a introdurre la musica Jazz nella Casa Bianca e alla radio, riaprendo poi le porte della “Casa della gente” chiuse con lo scoppio della Prima guerra mondiale. Bird Johnson, first lady dal 1963 al 1969, fu molto attenta all’ambito ambientalistico e alimentare e nonostante le infedeltà del marito, acquistò una stazione radiofonica e divenne una geniale imprenditrice e “la prima donna miliardaria ad aver fatto tutto da sola” e tante altre figure femminili nei panni di first lady che con il loro agire portarono qualcosa di più o meno rivoluzionario per il popolo americano. Un esempio Betty Ford (first lady dal 1974 al 1977) raccontò pubblicamente la sua malattia (cancro al senso) e la tossicodipendenza, portando tutti gli americani a rivalutare le modalità in cui queste due tematiche venivano affrontate. Il libro di Dario Salvatori non si limita a racconta le vite di queste donne che hanno vissuto accanto ai mariti presidenti, ma riesce a far conoscere dettagli, particolarità, interessi e qualità intellettive che evidenziano come queste figure femminili, in passato magari più in disparte rispetto ai mariti, ebbero un ruolo importante nella vita politica americana. Certo è che in “First Lady”, Salvatori dimostra come ognuna di queste donne, in modo maggiore o minore, furono davvero presenti e lasciarono un segno nella vita politica americana nazionale e mondiale.

Dario Salvatori, giornalista, scrittore, conduttore radio-tv. Nel cast di molti programmi di Renzo Arbore (“L’Altra Domenica”, 1976; “Quelli della notte”, 1985; “Meno siamo, meglio stiamo”, 2005). Fra i suoi programmi: “Famosi per 15 minuti”, “Swing!” (con Maurizio Costanzo), “Diario TV”. Ha pubblicato oltre quaranta libri. È al suo terzo libro a carattere americanistico.

Source: richiesto dal recensore. Grazie all’ufficio stampa 1A Comunicazione.

:: Controvento di Fabio Martini (Rubettino, 2020) a cura di Nicola Vacca

30 aprile 2020

cop libro Martini

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Bettino Craxi rivive a vent’anni dalla sua scomparsa. Quest’anno sono usciti diversi libri sull’ultimo statista della Prima Repubblica.
Negli ultimi decenni la sua figura controversa è stata analizzata e presa di mira da letture e interpretazioni manichee che non hanno reso giustizia alla verità storica sul personaggio politico Craxi.
Controvento. La vera storia di Bettino Craxi, scritto da Fabio Martini, inviato di politica del quotidiano La Stampa, è il libro più importante, il saggio più argomentato e imparziale su uno dei protagonisti della vita politica italiana.
Martini ripercorre la biografia di Craxi dall’ascesa nella Milano del dopoguerra fino al tragico epilogo da cui è scaturita la fine miserabile di questo Paese.
Dai primi passi di consigliere comunale, assessore, fino a arrivare in Parlamento e poi a Palazzo Chigi.
L’autore passa in rassegna tutte le stagioni politiche e esistenziali di Bettino Craxi, gettando nuova luce su pagine oscurate o inedite della sua vicenda politica e umana.
Mette in risalto il suo carattere duro, il decisionismo, punto di forza e di debolezza che gli ha fatto fare anche scelte impopolari per il bene del Paese, che lo ha reso “antipatico”, uomo politico che non cadde mai nel populismo e non fui mai capace di dire bugie.
Il socialista di minoranza che fin da giovane si ribella ai comunisti che non ha mai tradito la scommessa del primato della politica.
«La politica prima di tutto». Sarà il suo grande amore per la politica che gli farà vincere tutte le battaglie più importanti della sua vita, sarà un eccesso di politica che lo farà capitolare nelle battagli finali.
Il Bettino Craxi che Fabio Martini ci presenta è un uomo dal forte carisma che non ha fatto nulla per mostrarsi simpatico, è stato un vero antipatico che politicamente sapeva il fatto suo.

«A venti anni dalla sua scomparsa – ha affermato Fabio Martini in una recente intervista – e dopo decenni di contrapposizioni frontali tra detrattori e adulatori, è più facile rispondere a questa domanda. Craxi è destinato a passare alla storia come il leader socialista, che dando il suo decisivo assenso all’installazione degli euromissili assieme al cancelliere tedesco Schmidt, favorì indirettamente la dissoluzione dell’impero sovietico; fu il primo capo di governo italiano che osò platealmente ribellarsi ad un gesto illegale dell’alleato americano; fu l’unico leader socialista europeo che, senza accettare la realpolitik verso i regimi comunisti, diede un appoggio materiale e ideale a tanti dissidenti che invece il Pci guardava con distacco e sospetto. Fu il primo socialista che sdoganò la categoria dell’anticomunismo democratico. Il primo che, dopo una lunga trattativa, assunse una decisione dirimente come il decreto sulla scala mobile, contro il parere della Cgil. E d’altra parte dopo di lui non è più esistita una forza socialista organizzata e il fatto che siano scomparsi anche Dc e Pci, non diminuisce il significato di questa défaillance».

Nelle pagine di Fabio Martini non c’è nessuna apologia. La storia di Bettino Craxi la racconta basandosi sui fatti, non omettendo anche i suoi errori (l’intuizione del rinnovamento istituzionale e l’incapacità di realizzare la Grande Riforma).
Martini racconta la vera storia di Bettino Craxi, un decisionista che non fu mai populista, che ebbe il coraggio di tagliare i baffi a Marx.
Dal Midas fino alla conclusione tragica della sua carriera politica, avvenuta per mano di un manipolo di toghe agli ordini di Botteghe Oscure, Craxi ha lavorato alla costruzione di una sinistra democratica e riformista.
Essere da sinistra anticomunista in quegli anni non era una cosa facile. Il “duro e puro” Enrico Berlinguer arrivò a definire Bettino Craxi un “pericolo per la democrazia”.
Ma Craxi non prendeva ordini dai comunisti. Non si lasciava intimorire dagli emissari in Occidente dell’Unione Sovietica.
Amava il suo Paese e lo voleva moderno e competitivo. Era fermamente convinto che soltanto una sinistra democratica, liberale e riformista fosse la via giusta per dare una speranza alla nostra democrazia.
I comunisti vedevano in Craxi, e nella sua certa idea della sinistra, un pericolo e un nemico da abbattere.
Così è stato. Il “pericoloso anticomunista” Bettino Craxi è stato epurato dai magistrati del Pool milanese, con la regia occulta e la complicità morale dei comunisti, di alcuni giornali, e forse anche degli Stati Uniti.
Tutti i partiti della sinistra defunta si ispirano al riformismo. Nel corso degli anni riformisti e socialisti sono diventati anche Veltroni, D’Alema, Fassino e Violante. Sulla loro disfatta politica pesa come un macigno la figura di Bettino Craxi. In certo modo lo hanno ambiguamente riabilitato, dopo aver contribuito pesantemente alla sua eliminazione.

«Sono certo che la storia condannerà i miei assassini, solo una cosa mi ripugnerebbe essere riabilitato da coloro che mi uccidono».

È accaduto proprio questo. Fassino nella sua autobiografia – pubblicata qualche anno fa da Rizzoli – scrive che Craxi aveva ragione e Berlinguer torto, Veltroni d’incanto scopre che il suo comunismo è incompatibile con la libertà. Loro hanno avuto paura di fare seriamente i conti con il postcomunismo e il fantasma politico di Bettino Craxi, la cui eliminazione per via giudiziaria ha lasciato irrisolti tutti i problemi di quella guerra civile a Sinistra che il leader socialista aveva già vinto. Renzo De Felice nel 1995 ha scritto

«I socialisti nel bene e nel male hanno avuto una funzione culturale solo con Craxi. Prima non esistevano.
La verità oggi è una sola. Le idee riformiste di Bettino Craxi – nel bene e nel male – sono sopravvissute al suo massacro giudiziario».

Nel suo racconto tutto politico Fabio Martini parla a trecentosessanta gradi dell’ultimo leader della Prima Repubblica, con i suoi limiti e con i suoi errori che gli costarono cari, e con le sue luci che contribuirono all’ultima stagione di crescita dell’Italia.
Un libro onesto che si conclude con l’invito a andare oltre i pregiudizi e capire quale sia stato “tra luci e inevitabili ombre” il contributo di Craxi nel consolidamento della democrazia in Italia e nella conquista della libertà in tanti Paesi oppressi dalla dittatura.
È arrivato il tempo per capire meglio. Questo libro ci aiuterà molto.

Fabio Martini è inviato di politica del quotidiano “La Stampa”. Ha collaborato a “Mondoperaio” ed è autore de L’opposizione al governo Berlusconi, Laterza, Il piccolo principe, con Marco Damilano, Sperling; La fabbrica delle verità, Marsilio. Insegna Giornalismo politico all’Università Tor Vergata.

Source: libro inviato al recensore dall’editore.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: Un’ intervista con il Dott. Tiziano Ciocchetti redattore di Difesa Online a cura di Giulietta Iannone

24 marzo 2020

PandemiaBenvenuto Tiziano e grazie di aver accettato questa nuova intervista. Data la gravità del momento, e la difficoltà di tracciare scenari possibili una volta finita la pandemia, inizierei col chiederti una valutazione prettamente personale della situazione. In che misura secondo te cambieranno gli equilibri geopolitici e strategici una volta che l’allarme sanitario sarò rientrato? C’è un rischio reale per la tenuta democratica degli stati?

Sicuramente andremo incontro ad un peggioramento delle nostre, già precarie, condizioni economiche. Con il risultato di far aumentare il malcontento nei confronti di una classe politica che si è dimostrata inadeguata (una situazione che ricorda l’8 settembre). L’Unione ha mostrato il suo vero volto, ovvero quello di un gruppo di inutili burocrati incapaci di fronteggiare la crisi. Gli altri Stati hanno fatto affidamento ai propri leader costituzionalmente riconosciuti, mentre da noi assistiamo alle apparizioni facebook della coppia social Casalino-Conte, con un Parlamento, de facto, sospeso.

Il ridimensionamento dell’esercitazione Defender Europe che ripercussioni avrà secondo te? Un’unificazione delle forze armate europee sotto un’unica autorità è ancora sul piatto delle consultazioni e trattative o la pandemia in corso ha incidentalmente provocato un ritorno più spiccato ai vari nazionalismi? 

La Defender Europe è una esercitazione finalizzata a mostrare ai russi chi comanda in Europa (ne ho descritto il senso geopolitico in un articolo per Difesa online), cioè gli americani. Il dispiegamento di 25.000 uomini, o meno, è solo un atto dimostrativo.
Unificazione di forze europee? Fantasia! La NATO non verrà mai soppiantata, almeno per i prossimi vent’anni.
I nazionalismi sono sempre esistiti, solo noi italiani facciamo finta di non vederli. Prendiamo il surplus di Bilancio con l’Estero della Germania, da anni Bruxelles sostiene che è troppo alto e che Berlino deve diminuirlo. Ma la Germania lo reinveste nel suo welfare (il migliore in Europa) perché altrimenti non esisterebbe una Germania unita.

Stiamo assistendo a un utilizzo delle forze armate non più per meri scopi bellici, ma forse per la sua accezione più nobile di difesa della popolazione e mantenimento dell’ordine. È un’evoluzione prevista o si è fatta come si suol dire di necessità virtù? 

Le Forze Armate di una nazione esistono per difendere la stessa da nemici esterni, quindi già difendono la popolazione. Quando i militari vengono utilizzati per l’ordine pubblico vuol dire che la situazione interna è critica.

Per quanto riguarda la tenuta dell’Unione europea, esiste un piano comune, una qualche forma di coordinamento in caso di minacce pandemiche? Prevede che comunque venga messo in atto nei prossimi mesi?

Piani comuni per simili eventi non ne esistono, perché ogni paese dell’Unione agisce secondo i propri scopi e, come ci hanno dimostrato, ignorando le difficoltà degli altri.

In che misura la disinformazione e le fake news stanno influenzando l’opinione pubblica?

Io avrei più paura delle fake dei governi. Per quanto riguarda la disinformazione il nostro esecutivo non è stato secondo a nessuno.

Nel caso di un’ipotetica guerra batteriologica diciamo tradizionale, esiste una strategia e un piano comune europeo per fronteggiare la questione?

Esiste solo in ambito NATO. Ovvero secondo quanto stabiliscono gli USA.

E in che modo si potrebbe fronteggiare un eventuale attacco terroristico che utilizzasse armi batteriologiche?

Non si potrebbe.

La NATO non ha attivato alcun protocollo in caso di pandemia? Come si collocano in questo quadro di instabilità l’invio di medici militari e non, derrate e aiuti all’Italia da parte di paesi esterni alla NATO come la Russia, la Cina e Cuba? Non dovrebbe essere per prima Bruxelles, e poi Washington a coordinare gli aiuti nei paesi europei più colpiti? 

Dovrebbe essere così. Ma questa pandemia sta evidenziando la finzione di certe alleanze.

Finita l’emergenza come si ovvierà all’inevitabile disturbo post traumatico sofferto dalla popolazione? Servono dunque non solo virologi, e immunologi ma anche medici militari esperti di queste problematiche?

Serviranno sostanziosi investimenti pubblici, unico rimedio efficace.

Grazie della disponibilità, speriamo di aver fatto chiarezza con informazioni chiare e attendibili e sensibilizzato i nostri lettori su queste tematiche.

:: Il destino americano di Luigi Bonanate (Nino Aragno Editore 2019) a cura di Giulietta Iannone

25 gennaio 2020

Il destino americano - BonanateIl ruolo statunitense nel mondo è al centro dell’ultimo saggio di Luigi Bonanate dal titolo quanto mai evocativo Il destino americano (Nino Aragno Editore). Un testo singolare nella sfera delle Relazioni Internazionali che focalizza la sua attenzione nell’ambito circoscritto dell’analisi della politica estera in quanto tale di un unico soggetto, per quanto eccezionale come possono essere gli Stati Uniti d’America.
Innanzitutto c’è da chiarire un concetto necessario per la comprensione del testo e delle motivazioni che hanno spinto l’autore a scriverlo: non è un libro sulla storia della politica estera nord americana. Si parte infatti dall’assunto che chi lo legge già la conosca, anche solo a grandi linee ricavando le proprie nozioni dalla lettura dei giornali, dei saggi di approfondimento, dei manuali storiografici. Insomma questo è un testo specialistico in cui non troverete un mero elenco di avvenimenti, date significative, punti di svolta, ma più analiticamente una storia di idee, di concetti tratta da lettere, discorsi, pagine di diario, delle persone che come si suol dire hanno fatto la storia americana.
È un saggio a tesi, infatti tutto concorre a dimostrare che il mito dell’alternanza tra impegno internazionale e isolazionismo americano non ha ragione di esistere.
Da sempre gli Stati Uniti d’America hanno avuto una visione, se non proprio una cosciente missione autoimposta, di governance mondiale. Questo espansionismo prima territoriale, ricordiamo tutti lo spirito di frontiera tanto decantato dal cinema hollywoodiano, poi quando ogni granello del territorio nord americano era stato raggiunto, planetario, non è mai venuto meno in nessuna fase di questi oltre due secoli di storia.
Questa posizione predominante non è certo solo dovuta ad una cosiddetta superiorità intellettuale o culturale, ma è suffragata da contingenti realtà più materiali: l’atomica fa degli USA la più grande potenza militare mai vista nella storia.
Finita poi la minaccia comunista, eccezionale strumento di controllo politico, con il crollo nell’ 89 del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’impero sovietico, e la conseguente fine del sistema politico internazionale bipolare, gli Stati Uniti si sono trovati esattamente dove volevano essere: al centro del sistema liberal democratico internazionale.
Certo con la fine dell’Unione sovietica gli USA hanno celebrato il loro trionfo, ma altre sfide, altre minacce si sono profilate subito dopo all’orizzonte. Punto di svolta sicuramente è stato l’11 settembre del 2001, in cui diciamo i festeggiamenti post ’89 ebbero definitivamente fine e le sfide del terrorismo internazionale cambiarono equilibri, alleanze e strategie.
Che poi il successivo declino USA, quasi che la spinta propulsiva verso un eterno progresso si fosse interrotta, ha portato il paese verso la perdita dello status di massima potenza mondiale, altri stati si stanno attivamente dando da fare per subentrare, è un’altra questione non approfondita nel testo, ma che sicuramente resta sullo sfondo e apre nuove ipotesi di studio e di analisi.
Dunque questo libro ripercorre i quasi 250 anni della storia “esterna” degli Stati Uniti fino alle apparenti manovre pubbliche di disimpegno dell’attuale presidente americano, che tuttavia neanche lui limita i suoi interventi all’estero, la questione iraniana è sicuramente un esempio recente e molto significativo.
Infine l’autore termina il libro analizzando le prospettive future e augurandosi che questo suo lavoro sia d’invito alla riflessione sul vero senso della politica estera, e pur dichiarandosi poco propenso all’ottimismo, rilevando il crollo di ogni tensione morale, e l’abbandono di progetti di progresso comuni, traccia tuttavia una direttiva virtuosa da seguire: ovvero abbandonare la volontà di potenza, i sogni di gloria, di vittoria e di sopraffazione.

Luigi Bonanate è professore emerito nell’Università di Torino, socio dell’Accademia delle Scienze di Torino e Medaglia d’oro dei benemeriti della cultura e dell’arte. Ha insegnato Relazioni internazionali per più di 40 anni, e tiene corsi alla Scuola di studi superiori Ferdinando Rossi dell’Università di Torino, alla Facoltà di Scienze strategiche e a quella teologica dell’Italia settentrionale. Il suo primo libro era stato La politica della dissuasione (1972); i più recenti Anarchia o democrazia (2015) e Dipinger guerre (2016). Per i tipi di Aragno ha curato l’edizione di scritti di H. de Balzac, R. Rolland, R. Serra, D. Galimberti e L. Rèpaci, N. Revelli.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Nino Aragno.

:: Un’ intervista con Luigi Bonanate – Il destino americano, a cura di Giulietta Iannone

6 gennaio 2020

Il destino americano - BonanateBenvenuto professor Bonanate, e grazie di aver accettato questo invito. Nella nostra precedente intervista ci aveva anticipato l’uscita del suo nuovo libro Il destino americano (Nino Aragno Editore) e avendo avuto occasione di leggerlo colgo l’occasione di poterne parlare con l’autore.

Una premessa va fatta per giustificare la mia “divagazione” di politica estera, aspetto della vita internazionale che non avevo mai affrontato direttamente. Ma il 2019 era il settantennale del Patto Atlantico e del connesso strumento strategico chiamato NATO: il loro insieme disegnava il quadro della protezione che gli Usa erano disposti a prestare agli alleati europei. Ma 70 anni dopo tutto ciò era ormai in crisi o desueto; allora valeva la pena ripensare la storia internazionale che il paese più importante del mondo si era costruito e vissuto.

Già il titolo è rivelatore, e contiene l’intuizione principale che l’ha guidata nella stesura del testo. 13 piccole colonie si ribellarono alla madre patria, si unirono e iniziarono a costruire le fondamenta di quella grande nazione che sono gli Stati Uniti d’America. Come si è costruito l’eccezionalismo che ha contraddistinto la storia americana?

Per rispondere a questa domanda – spiacente, ma bisogna leggersi il libro! Ma il mio punto di partenza riguarda “l’eccezionalità di una continuità”: un piccolo gruppo di immigrati (così li chiameremmo ora) che per un secolo, all’incirca, cercarono di comprarsi un posto nella società mondiale “buona”, e per il secolo successivo di arrivare fino a dominarla. La mia idea è che tale progetto fosse intrinseco (anche se non sempre vissuto con eguale consapevolezza tanto dai politici quanto dalle pubbliche opinioni) alla vicenda americana e che i segni si possano riscoprire proprio attraverso il loro collegamento. Ho scelto di evidenziare tutto ciò attraverso alcuni grandi discorsi dei principali “padri fondatori” che ne sono stati gli interpreti preclari. (Ho seguito questo modello anche in altri passaggi storiografici, invitando ad esempio – con qualche tremito – alla lettura di una lettera di Hitler a Roosevelt)

Nel suo libro ha voluto analizzare la storia della politica estera statunitense definendola storia “esterna” degli Stati Uniti d’America, collegata e intrecciata alla storia “interna” molto più di quanto si creda. In che misura, con che grado di consapevolezza questa interconnessione è sentita negli Stati Uniti stessi, e nel resto del mondo?

Osservazione corretta, la cui portata va estesa ovviamente a tutto il mondo: non possono esistere due politiche separate, distinte o eterogenee; chi lo pensa sbaglia completamente bersaglio. È facile accettare l’idea della separatezza perché ci consente di nasconderci sempre nel territorio dell’altro, quando qualche cosa ci va male. Ma è evidente che tra le due dimensioni non può non correre un filo strettissimo: come potrebbe del resto, uno stato entrare in una guerra se non sulla base della sicurezza (corretta o fallace) di avere la sua società pronta a seguirlo? E una politica di alleanze come può svilupparsi se i rapporti politici, commerciali, culturali, tra due paesi non sono buoni? Non ci si allea mai con un nemico (solo il Regno d’Italia vi riuscì – e con quali risultati – nella Grande guerra…).
Ma è proprio la mancata percezione, più popolare che politica (ma dai politici insufflata nelle pubbliche opinioni per poterne manipolare le emozioni), della totale compattezza delle due dimensioni (interno/esterno: è una copia discussissima nella teoria delle reazioni internazionali), che ha reso e sovente rende fallimentari i progetti di politica estera. Ciò valse, a tempo debito, anche per gli Stati Uniti che nell’Ottocento sono prevalentemente impegnati nello sviluppo interno, mentre dopo la Grande guerra comprenderanno di avere a portata di mano una potenza superiore a ogni altra.

Lettere, discorsi, pagine di diario, la sua ricostruzione è più una storia di idee e di persone, che hanno cambiato il mondo, che una mera cronaca fattuale di avvenimenti. Perché questo approccio?

Per me è un approccio assolutamente scontato: non ho mai guardato la realtà come un qualche cosa che è destinato a schiacciarmi sotto la sua mole: dico, i fatti, gli eventi, le notizie, segreti, gli errori, gli inganni, e tutto ciò li circonda. Il mio, paradossalmente, non è un desiderio di conoscenza, bensì di spiegazione, interpretazione, razionalizzazione. La comprensione non si fonda sui fatti ma sulla loro interpretazione, prodotta dalla formulazione di una ipotesi (una o più) alla quale poi toccherà di ricollegare tra di loro i fatti corredandoli del loro significato intrinseco e sistematico: nulla avviene nel vuoto.
Aggiungo che le stesse vicende personali possono dirci molto meno che quel che sembra quando nominiamo i grandi personaggi: Lenin ha guidato la rivoluzione sovietica; certo, è vero: ma non soltanto non fu l’unico a farla ma egli ne fu – forse – più il frutto che non l’elemento fondamentale. Né possiamo credere che la morte di 50 milioni di persone vada accollata al solo Adolf Hitler – accanto a sé ebbe una società, una cultura, una finanza concordi.

Lo “spirito di frontiera” sembra fondamentale, una spinta propulsiva che da quando è sorta ha dato un indirizzo preciso all’evoluzione coerente e coesa di questa nazione, vista come un tutt’uno dotato di senso. Spirito di frontiera, Provvidenza (termine caro a John Jay), “Destino Manifesto”, “America First” quanto c’è di mitico e iconico in queste corrispondenze?

Lo spirito di frontiera è il vero e proprio connotato originario dello spirito americano, ma al contrario del modo europeo di considerare il territorio e i suoi confini. In America quasi non c’erano confini e furono gli statunitensi a porli e poi, continuamente, a spostarli in avanti. In Europa, i grandi imperi o le grandi potenze pensavano a difendere i confini o a consolidarli; ovviamente però, poi, svolgendosi le guerre europee tra stati ormai consolidati, queste finivano per essere più grandi e violente.

Descrive nel suo libro la seconda guerra mondiale come atipica. Può esplicitarci questo concetto?

L’atipicità della seconda guerra mondiale sta, oltre ovviamente che nelle sue dimensioni e nel livello della sua mortalità, nell’essere stata combattuta ben più per dei principi che per delle terre. Fu la guerra tra due ideologie (o forse tre) e due concezioni del mondo, vinta per fortuna dall’Occidente (capitalistico), che rappresentava il modello, sostanzialmente, più accettabile. Quanto più grande è una guerra quanto più imponenti sono le sue ragioni ideali e ideologiche. Le guerre per il petrolio possono o potranno essere anche più violente, ma alla fine il vincitore si troverà soltanto qualche barile in più o in meno di petrolio e non necessariamente migliori condizioni di vita e di benessere.

L’atomica fa degli USA la più grande potenza militare mai vista nella storia. L’unica con la capacità concreta di porre fina davvero alla storia (non solo nell’accezione di Fukuyama). Secondo lei ha saputo usare proficuamente tutto questo (forse eccessivo) potere, o l’ha come dire sprecato, per certi versi? Mi riferisco a quella sorta di declino Usa (impensabile dopo il 1989 quando giunse la fine del sistema politico internazionale bipolare) e alla perdita dello status di massima potenza mondiale che sembra inesorabilmente in atto. Quali scelte e decisioni (anche errate) hanno portato a questo?

Il discorso sulla Bomba è molto ampio e complesso: per un verso, è vero che rappresenta l’unico modo efficace per porre fine alla vita sulla terra, a causa dell’”inverno nucleare” (una glaciazione progressiva resa inevitabile dal fall out); ma d’altra parte è un’arma e un sistema d’arma di grande complessità organizzativa il cui uso lascerebbe aperto qualsiasi tipo di possibilità, fino appunto allo scontro finale.
Le narrazioni cui siamo ritmicamente sottoposti sugli esperimenti missilistici sono un grande strumento propagandistico ma una innovazione piccolissima dal punto di vista strategico. Soltanto gli Usa oggi come oggi (e come da 70 anni in qua) sono in grado di immaginare, organizzare, pianificare un uso professionale e “definitivo” dell’apparato nucleare. Nessuno, fuor che gli Stati Uniti, può neppure immaginare di sopravvivere all’attacco nucleare che avesse lanciato: gli Usa non possono essere sconfitti con uno “splendido primo colpo” (come si diceva una volta) e avrebbero sempre la capacità di “secondo colpo”, la vendetta. Neppure la Cina è capace, almeno per ora, di tanto.

L’idea di dominazione planetaria, all’origine stessa della sua posizione egemonica di esportatrice oltre che di merci dello stesso American way of life, in che misura incide realmente e concretamente, secondo lei, nelle scelte presenti, e soprattutto future, di questa singolare nazione? Insomma gli Stati Uniti saranno davvero soddisfatti solo quando tutto il mondo somiglierà a loro?

L’idea della dominazione planetaria è intrinseca alla cultura politica statunitense, ma non nel senso europeo fondato sulla conquista imperialistica. No: gli americani pensano che la conquista del mondo sia una “missione” assegnata loro da Dio, perché tutto il mondo ha diritto di godere dell’american way of life. Agli americani non importa il governo mondiale in sé ma soltanto in quando condizione di realizzazione del “paradiso in terra”, secondo la fortunata formula di Christopher Lasch. Il fine non è di far diventare tutto il mondo come l’America ma di diventare tutti uguali e “americani” perché laggiù si vive meglio che altrove, ed è Dio stesso che lo vuole! Aggiungo: c’è molta (benevola) ingenuità nell’immagine del mondo corrente in America.

L’isolazionismo e la manifesta o ostentata neutralità dunque sono solo un mito? Quanto volontariamente coltivato dagli Stati Uniti stessi?

Certo che è un mito. Nelle loro politiche estere di breve raggio, gli Usa si comportano come tutti: è logico che dopo la Grande guerra fossero stufi di occuparsi di Europa, piena di debiti nei loro confronti… La seconda guerra mondiale non la volevano ma la seppero vincere guidando una grande coalizione. La guerra fredda aveva addirittura il fine di fermare l’avanzata sovietica in Europa: ma dove? L’Urss restò in piedi soltanto perché nessuno le diede una spallata. Anche allora gli Usa erano la guida e i protettori di un mondo che “si difendeva”!
Anche oggi, il presidente Trump comanda azioni che per ogni altro paese al mondo sarebbero precisamente azioni di guerra e lui le proclama difensive.
Ma insisto, nell’immaginario collettivo americano non domina lo spirito di conquista, come invece fu per l’Inghilterra, la Spagna o la Francia nei secoli passati: gli americani non vorrebbero mai occuparsi di politica internazionale (e in effetti l’opinione pubblica ne è particolarmente ignorante) perché il mondo dovrebbe semplicemente unificarsi in una solo società: non quella del federalismo, ma dell’americanizzazione felice della terra.

Nel suo libro evidenzia un interessante problema per la ricerca, riguardo al fatto se gli eventi sono stati guidati o oppure solo accolti. Lei personalmente che idea si è fatta?

Ho già toccato, indietro, questo tema; in generale, comunque nessuno può dare risposte definitive. Per questo soltanto le ipotesi hanno un senso: si formulano, si discutono, si applicano… Prima di arrivare a leggi generali, ci vuole ben altro. Per secoli si è sostenuto che l’equilibrio fosse il principio fondamentale delle relazioni internazionali – poi si è visto che non ne è mai esistito, e che al massimo può servire come modello di analisi ma non di spiegazione. Io ipotizzo che esista un “destino americano”: si tratta poi di dimostrarlo o confutarlo.

Scriverà mai un libro analogo a questo ripercorrendo le direttrici della storia “esterna” cinese?

Penso proprio di no, in primo luogo perché la storia “soggettiva” non mi ha mai troppo affascinato; in secondo luogo, perché la Cina non è ancora “vicina”; ha e avrà tantissimi problemi di transizione, cosicché è difficile valutarne la performance; in terzo luogo, perché l’età mi sconsiglia di imboccare strade che potrei non riuscire a percorrere fino in fondo.

Infine concludo, termina il suo libro augurandosi che sia d’invito alla riflessione sul vero senso della politica estera, e pur dichiarando che non può essere ottimista, rilevando il crollo di ogni tensione morale, e l’abbandono di progetti di progresso, traccia tuttavia una direttiva virtuosa da seguire, ovvero abbandonare la volontà di potenza, i sogni di gloria, di vittoria e di sopraffazione. Ricordo l’entusiasmo con cui anche i giovani aderirono agli alti ideali che mossero la nascita dell’Unione europea, lei crede, o meglio si augura, che questo spirito universale rinasca e si fortifichi? Grazie.

Ottimismo o pessimismo: una storia infinita e che non si disvelerà mai. Il mio ottimismo prevale in termini metodologici, aprioristici e mai (purtroppo) in termini propositivi. Come ho raccontato mille volte, molti interessanti e serissimi studi immaginano che il nostro (occidentale) futuro non sarà roseo, sia perché è statisticamente prevedibile che ogni tanto scoppi una grande guerra che riporta tutti al punto di partenza, sia infine perché i lombi occidentali sembrano davvero stanchi e dopo un millennio di superiorità debbano cedere lo scettro al primo che lo pretenderà!

:: Il naufragio della ragione – Reazione politica e nostalgia moderna di Mark Lilla (Marsilio 2019) a cura di Giulietta Iannone

29 giugno 2019

Il naufragio della ragioneMark Lilla, saggista americano, docente universitario, collaboratore di riviste americane e inglesi, intellettuale eclettico e stimato, è l’autore di Il naufragio della ragione un libro quanto mai necessario nei nostri tempi confusi per capire quali forze, idee, strutture di pensiero sono alla base della sfiducia, del pessimismo, se non del vero e proprio catastrofismo che intride la nostra epoca.
Il naufragio della ragione è composto da una prefazione dell’autore, tre sezioni (pensatori, correnti ed eventi), e una postafazione.
Il libro racchiude tre saggi su pensatori del primo Novecento: Franz Rosenzweig, Eric Voegelin e Leo Strauss, inoltre l’autore analizza due movimenti intellettuali contemporanei: i neo-con, un importante filone della destra americana, e un piccolo ma interessante movimento dell’estrema sinistra accademica, devoto a un “nuovo ordine” capace di sfidare l’apparente deriva della storia che vede profonde affinità tra san Paolo, Lenin e Mao. E infine troviamo un saggio relativo a un singolo evento (i terribili attentati jihadisti francesi a Parigi nel gennaio 2015) che contiene due articoli che Lilla scrisse per il “New York Review of Books” relativi a due libri Il suicidio francese di Eric Zemmour e Sottomissione di Michel Houellebecq in cui i francesi, e il mondo intero con loro, cercarono una chiave di lettura illuminata per dare senso ai drammatici fatti appena trascorsi.
Il naufragio della ragione in sintesi analizza con acume e perspicacia una forza tellurica che sembra scuotere in modo sempre più incisivo il dibattito sociale e politico di questi anni difficili che stiamo vivendo: la nostalgia. Per un passato, per un Eden perduto di cui non ci restano che le macerie. La nostalgia, questo sentimento tardo romantico sembra il carburante propulsore dello “spirito reazionario”, spirito che ha attraversato tutta la storia contemporanea, ma proprio a causa della sua immaterialità e indefinitezza non è mai stato sconfitto dalla storia, a differenza dello spirito rivoluzionario che ha portato nel Novecento a tragedie e derive totalitaristiche, di cui è il contraltare.
Ma quando le cose iniziarono ad andare male, quando la storia prese l’accidentata strada che la sta portando verso l’abisso? Su questo i cosiddetti teorici della reazione sono divisi: per alcuni l’après moi le déluge va ricercato a partire dall’illuminismo, altri dalla Controriforma, per altri ancora prima, a partire dal Medioevo.
Per capire tutto ciò Lilla sceglie tre pensatori del Novecento, i su citati Franz Rosenzweig, Eric Voegelin e Leo Strauss, e ne studia il pensiero, le origini familiari, e li mette a confronto. Poi analizza le correnti intrise di nostalgia, animate e vivificate dallo spirito reazionario così volubile e volatile, attaccato per molto tempo come retrivo e oscurantista, relegato ai margini del discorso pubblico, e invece oggi quanto mai vitale e quasi riabilitato.
Interessante lo sguardo che dà ai fatti di gennaio 2015 occasione per un’amara riflessione su dove stia andando la società Occidentale e su quali siano stati i germi intellettuali, le idee che hanno portato a questa deriva, questa indubbia crisi che stiamo vivendo. Nella postfazione poi termina con un affascinante parallelismo letterario che ci porta a confrontare Don Chisciotte e Madame Bovary.
Tanti dunque sono i concetti analizzati con spirito lucido e partecipe, tanti i fraintendimenti in cui spesso cadiamo che Lilla stigamatizza e disvela. Innanzitutto pone come punto fermo la sostanziale differenza che esiste tra conservatori e reazionari, spesso confusi. Chiarito questo concetto tutto acquista nuova luce e maggiore chiarezza.
Certamente va ammirata la vasta cultura di Mark Lilla che passa elegantemente e senza apparente sforzo intellettuale da riflessioni teologiche, storiche, letterarie, filosofiche, politologiche rendendo però il testo di fatto complesso, un tantino ostico per il lettore non avvezzo a queste tematiche. Usa un linguaggio abbastanza settoriale il cui intento non è certo quello di farsi capire da tutti ma solo da persone culturalmente preparate per non perdersi tra accenni, ironiche frecciatine, riflessioni e sottintesi.
Un po’ del sapore iniziatico dello gnosticismo è calato anche su di lui, anche se forse non del tutto consapevolmente. Tuttavia io ho trovato il testo una lettura stimolante e ricca di rimandi e approfondimenti su concetti che forse non avevo mai messo in relazione a tematiche politiche o politologiche.
Propedeutiche alla lettura di questo testo sono molte letture dalle Lettere di San Paolo, al Corano, alla Città di Dio di sant’Agostino, al Libretto Rosso di Mao, davvero troppe per una sterile elencazione ma Lilla parla a lettori che questi testi li conoscono e possono seguire le sue divagazioni sempre intelligenti e mai avulse da una anche divertente verve polemica.
Destra e sinistra, Europa e America, mondo accademico e opinione pubblica, Islam e cristianesimo, sembra che il mondo contemporaneo viva di blocchi contrapposti, antinomie pervase da una nostalgica tensione verso una mitica e immaginaria età dell’Oro, un mondo ideale intriso di valori tradizionali dall’onestà alla purezza di intenti, alla rettitudine che virtuosamente governavano l’agire umano.
Non si può non rivolgerci all’origine delle religioni o per meglio dire dei miti ancestrali che lasciano nell’uomo contemporaneo alcune delle poche certezze che ancora gode, preoccupato dalle incognite del futuro.
Sottovalutare questo significa precludersi una delle chiavi interpretative più che mai necessarie per comprendere il mondo contemporaneo, dalla Russia di Putin all’America di Trump, e le loro politiche di restaurazione e ordine, che sembrano attrarre tanti consensi, ma possono nello stesso tempo contenere i germi di derive dagli sviluppi ancora non del tutto prevedibili. Traduzione dall’inglese di Stefano Travagli e Anita Taroni.

Mark Lilla (1956) insegna al Dipartimento di Storia della Columbia University. Collabora con la «New York Review of Books» e altre riviste americane e inglesi. Autore di diversi volumi, in Italia sono usciti Il Dio nato morto. Religione, politica e Occidente moderno e Il genio avventato. Heidegger, Schmitt, Benjamin, Kojève, Foucault, Deridda e i tiranni moderni (2010). Con Marsilio ha pubblicato L’identità non è di sinistra. Oltre l’antipolitica (2018).

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo l’Ufficio stampa Marsilio.