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:: MAGGIE. RAGAZZA DI STRADA E ALTRE STORIE NEWYORKESI di Stephen Crane (Rogas Edizioni 2022) a cura di Giulietta Iannone

20 novembre 2022

Maggie. Ragazza di strada è uno dei grandi romanzi che chiudono l’Ottocento americano, ma che, per temi trattati e tecniche stilistiche, si proietta ormai ben dentro il Novecento. La storia è quella di di una ragazza dei bassifondi newyorkesi, operaia in una fabbrica di colletti e polsini, con un retroterra familiare disastrato, fra povertà, violenza e alcolismo. La conoscenza di Pete l’illude di potersi staccare da quell’ambiente: ma Pete non è il bianco cavaliere che lei crede…Accompagnano questa nuova edizione italiana del romanzo alcune «storie newyorkesi» che Crane scrisse negli anni intorno a Maggie e che confermano la sua qualità di scrittore e interprete della nuova realtà metropolitana.

E’ sorprendente che un autore ottocentesco possa essere così moderno. Leggendo Maggie. Ragazza di strada, romanzo breve di Stephen Crane si ha l’impressione di leggere un romanzo contemporaneo, in cui coesistono critica sociale, spunti sociologici, riflessioni post industriali. Stephen Crane, autore tanto amato da Hemingway, non era un autore ottocentesco, e non ne aveva la caratura, sebbene un po’ di Zolà è riscontrabile nel suo piglio narrativo e nella sua verve polemica. Prendiamo Maggie. Ragazza di strada, il volume edito da Rogas edizioni e curato e tradotto da Mario Maffi contiene anche altri racconti newyorkesi di ambiente urbano, pressapoco scritti nello stesso periodo, inizia con una scena molto disturbante di guerriglia urbana, dei ragazzini pocopiù che dei bambini si prendono a calci e pugni, fronteggiandosi tra bande. Poi la scena si sposta in interno, nell’inferno domestico di una famiglia media degli slums newyorkesi, insulti, bestemmie, botte, piccoli e grandi crudelta di una coabitazione violenta nel degrado (materiale e morale) e nella povertà se non nella miseria. Come un fiore in una pozzanghera troviamo Maggie, una bella ragazza che non sembra corrotta da questo squallore. Lavora come operaia in una fabbrica di colletti e polsini, e vede sfiorire la sua giovinezza. Presto lo splendore della giovinezza che illlumina il suo volto passerà anche per lei e diventerà come sua madre, una gorgone incanutita, vecchia, grinzosa, alcolizzata. Prima di questa inevitabile parabola compie l’insensatezza di innamorarsi di Pete, il principe azzurro che la toglierà da questo ambiente malsano e degradato. Per ingenuità, inesperienza lo segue e sarà per lei l’inizio della fine. Pete non è il principe azzurro che lei sogna, e scacciata di casa non potrà che finire sul marciapiede. Nessuna critica morale sulla “vittima” nessun ottocentesco biasimo, anzi ironia a piene mani su ciò che si intende per rispettibilità e decoro in cuori aridi ed egoisti, tipici sepolcri imbiancati di una società decadente e ipocrita. Maggie morirà, probabilmente uccisa da un cliente, e la madre arriverà a piangere e strapparsi le veste ed addirittura a perdonarla, figlia ingrata e disubbidiente educata così bene da una famiglia così onesta. L’ironia e il sarcasmo di Crane è pungente e dissacrante, la morale del racconto e sottesa a un canto del cigno di una giovinezza bruciata da un ambiente degradato, da rapporti familiari e umani inesistenti, e da una società imprigionata in regole spietate e disumane, senza redenzione o perdono. Merita una lettura questo autore poco convenzionale, anzi una riscoperta se non lo conoscete, per la sua lezione di scrittura e indipendenza intellettuale così svicolata dal suo tempo.

Stephen Crane (1871-1900) pubblicò nel 1893, sotto pseudonimo e a proprie spese, questo breve romanzo, che tuttavia non ebbe successo. Dovette attendere tre anni prima di riproporlo, con alcune revisioni e con il proprio nome, a un editore importante. Nel frattempo, aveva pubblicato Il segno rosso del coraggio e il suo nome circolava nel mondo letterario come quello di un autore di grandi promesse. Dopo questi due romanzi dirompenti, Crane, sofferente di tubercolosi, scriverà altre opere significative (fra queste, Il mostro, La scialuppa, due raccolte di poesie), coprirà in quanto reporter la guerra ispano-americana e quella greco-turca, e – apprezzato da scrittori come Howells, Conrad, James, Wells – morirà non ancora trentenne in un sanatorio tedesco.

Mario Maffi ha insegnato Cultura anglo-americana per oltre quarant’anni. Si è occupato di culture giovanili e immigrate, di letteratura realista e naturalista, di geografie culturali. Fra i suoi libri più noti: Mississippi. Il Grande Fiume (2004, 2009); Tamigi. Storie di fiume (2008); Americana. Storie e culture degli Stati Uniti dall’A alla Z (con C. Scarpino, C. Schiavini. S. M. Zangari; 2013); Città di memoria. Viaggi nel passato e nel presente di sei metropoli (2014). È anche autore del romanzo Quel che resta del fiume (2022). http://www.mariomaffi.it

:: Lo spettro del Dio mortale, Hobbes, Schmitt e la sovranità di Etienne Balibar, raccolta a cura di Giada Scotto (Rogas Edizioni 2022) a cura di Giulietta Iannone

16 settembre 2022

L’idea di sovranità è al giorno d’oggi in crisi? Oppure la messa in discussione della sua tradizionale configurazione statale e nazionale offre l’occasione di un suo differente rilancio? Questi gli interrogativi al centro dei saggi di Balibar, proposti per la prima volta in Italia. Lavorando sulla teoria della sovranità di Hobbes e sul pensiero di uno dei suoi massimi interpreti novecenteschi, Carl Schmitt, il filosofo francese porta alla luce le contraddizioni e le aporie interne alla dottrina dello Stato e al contempo l’irrinunciabilità dell’idea eccedente di sovranità per sostenere e alimentare le istanze democratiche.

Lo spettro del Dio mortale, Hobbes, Schmitt e la sovranità è una raccolta di quattro saggi del filosofo francese Etienne Balibar, curata dalla ricercatrice Giada Scotto, tre dei quali qui tradotti per la prima volta in lingua italiana. Il testo contiene: Prolegomeni alla sovranità: la frontiera, lo Stato, il popolo apparso nel 2000 sulla rivista “Le Temps Modernes”; Lo Hobbes di Schmitt, lo Schmitt di Hobbes, nato prima come prefazione poi pubblicato autonomamente nel 2010 all’interno della raccolta di saggi Violence et civiltè; Schmitt una lettura conservatrice di Hobbes? apparso nel 2003 sulla rivista “Droit” e infine Il Dio mortale e i suoi fedeli soggetti: Hobbes, Schmitt e le antonomie della laicità pubblicato nel 2012 sulla rivista “Ethique, politique, religions”. Testi scritti in tempi differenti che concorrono a formare un’unica complessa e articolata discussione sul concetto di sovranità che Balibar ha sviluppato dal confronto con Carl Schmitt, teorico novecentesco della sovranità, e soprattutto dalla interpretazione schmittiana della dottrina della sovranità di Thomas Hobbes.

Partendo dal concetto di crisi della sovranità, estesa e mutuata da una più estesa incertezza delle istituzioni sovranazionali che formano la costruzione europea, Balibar si interroga su quali sono i limiti e le contraddizioni di queste categorie di pensiero in un contesto problematico e in sempre costante evoluzione come quello in cui ci troviamo a vivere per pervenire a interessanti soluzioni non solo filosofiche astratte ma anche applicabili al contesto politico e sociale contemporaneo.

Forse è meglio prima di addentrarci nello studio delle analisi qui contenute fare un passo indietro e gettare un po’ di luce sul pensiero e la formazione di Balibar. Allievo di Louis Althusser, formatosi in un confronto dialettico con Marx e Lenin, Balibar è tra gli intellettuali di sinistra più attivi del secondo Novecento francese. Una militanza politica problematica quella con il Partito comunista francese, in cui militò dal 1961, per poi uscirne drammaticamente nel 1981 in seguito a severe critiche sull’operato del partito di cui denunciò severamente il suo nazionalismo in materia di immigrazione a fronte di episodi violenti verificatesi nelle banlieu parigine. Il crescente emergere in Francia di sentimenti nazionalisti e xenofobi, non solo tra aderenti della destra del Front National di Jean Marie Le Pen, portò Balibar a sentire la necessità e l’urgenza di un ripensamento della questione della sovranità e di una decostruzione della configurazione statale. La democratizzazione della democrazia sembra una delle sue più recenti proposte al vaglio. Tra cittadinanza, cosmopolitismo e lotta contro la clandestinità come fonte di esclusione e ingiustizia, il tema dell’immigrazione ha un ruolo fondamentale nella rielaborazione di concetti come sovranità, nazione, e stato.

Étienne Balibar (1942) è professore emerito di Filosofia politica e morale all’università Paris X-Nanterre e distinguished professor of Humanities alla University of California di Irvine. Allievo e collaboratore di Louis Althusser, è tra i più autorevoli filosofi politici contemporanei. Tra le sue pubblicazioni tradotte più recentemente Cittadinanza (2012), Crisi e fine dell’Europa? (2016), Gli universali. Equivoci, derive e strategie dell’universalismo (2018), Al cuore della crisi (2020).

Giada Scotto (1991) è dottoressa di ricerca in Storia dell’Europa presso l’Università Sapienza di Roma con uno studio sulla teologia politica di Carl Schmitt. La sua ricerca è parte di un più ampio interesse per la filosofia politica e per il dibattito contemporaneo sulla genesi e il funzionamento degli Stati democratici.

Source: libro inviato dall’editore. Ringraziamo Simone Ufficio Stampa Rogas Edizioni.

:: “La città polifonica”, il saggio sull’antropologia della comunicazione urbana di Massimo Canevacci (Rogas, 2018) a cura di Irma Loredana Galgano

2 gennaio 2019

La città polifonicaDopo le edizioni brasiliane e la prima italiana, risalente al 1997, Massimo Canevacci decide di riproporre il suo saggio sull’antropologia della comunicazione urbana La città polifonica, che viene pubblicato a settembre 2018 da Rogas Edizioni.
Un testo a cui l’autore sembra essere particolarmente legato, sarà per il fatto che narra dell’indagine grazie alla quale ha «appreso a stare sul campo». Un campo davvero complesso, la metropoli di São Paolo, che ha stimolato al massimo il suo “stupore metodologico”. Un viaggio profondo nella megalopoli che ne ha scaturito un altro, più intimo e personale, alla ricerca di se stesso e delle proprie emozioni, sensazioni. Lo stupore di questi sentimenti provati ha consentito a Canevacci di trovare la giusta apertura verso la ricerca, la comprensione, l’indagine e l’analisi. Aprirsi verso l’ignoto ha rappresentato la svolta e la buona riuscita dell’indagine sul campo.
Uno spaesamento che provano tutti gli etnografi, maggiormente se alla prima esperienza sul campo, uno smarrimento che tale non è, piuttosto un passaggio per arrivare all’altro attraverso se stessi.
Polifonia, comunicazione e ubiquità sono le parole chiave per seguire e interpretare l’indagine sul campo dell’autore, condotta in una metropoli che oggi è certamente diversa, sul piano sociale e architettonico, rispetto al tempo della ricerca ma non al punto da inficiarne gli esiti. E proprio la permanente validità sembra avere spinto Canevacci alla ripubblicazione del testo, con qualche accorgimento e una nuova premessa introduttiva.
Nella prima parte del testo l’autore richiama i grandi antropologi, ne rammenta i lavori, le indagini e le riflessioni. E sembra farlo, più che per edurre il lettore alla comprensione, per ritrovare in questi i prodromi delle conclusioni cui egli stesso giunge.
E così l’antropologia interpretativa di Clifford Geertz, le notevoli opere di Claude Lévi-Strauss come anche la critica letteraria di Michail Bachtin si fondono alle riflessioni dello stesso Canevacci generando una sorta di voce corale, anch’essa polifonica come la città indagata dall’autore.
L’esotico e il comune, l’architettura e i suoni si mescolano nel resoconto di Canevacci esattamente come tutto ciò i suoi occhi hanno osservato e le sue orecchie ascoltato nel periodo trascorso a São Paolo.
Nella seconda parte ci si addentra sempre più nei meandri di questa enorme megalopoli come anche nelle riflessioni dell’autore. Un percorso dove l’occhio sembra farla da padrone. L’osservazione è fondamentale e prioritaria al punto che, per rendere meglio l’idea di quanto narrato, Canevacci inserisce nel testo numerose foto di angoli, installazioni, architetture, soggetti, persone, simboli e quant’altro può servire a definire i contorni di questa immensa capitale del consumismo, sociale prima ancora che economico e commerciale.
Un saggio antropologico, La città polifonica di Massimo Canevacci, senz’altro interessante, anche per chi non studia o non conosce le linee guida di un resoconto etnografico. Un saggio sull’antropologia della comunicazione urbana che dimostra il forte legame che unisce una metropoli, che può essere São Paolo come una qualsiasi altra capitale mondiale, a un remoto villaggio Bororo. Comunicazione che nell’era digitale diventa subito connessione. Trasformazione. Evoluzione. E tutto a una velocità che non smette di sorprendere, esattamente come lo studio antropologico ma non antropocentrico condotto anche da Canevacci in Terra Brasilis.

:: Mr. Bennett & Mrs. Brown di Virginia Woolf (Rogas Edizioni, 2015) a cura di Lucilla Parisi

25 aprile 2016

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Virginia Woolf ci parla ancora di scrittura e lo fa schierando, per l’occasione, nomi come D.H. Lawrence, James Joyce, T.S. Eliot e E.M. Forster (solo alcuni) per i Georgiani e H.G. Wells e Arnold Bennett in rappresentanza dei romanzieri inglesi di epoca edoardiana. Due fazioni, due modi di leggere la realtà e di intendere la scrittura. Le loro opere hanno segnato un’epoca, esercitato influenze, aperto strade e affermato regole.

Più di tutto hanno insegnato a creare personaggi. Sul punto, la Woolf non ha dubbi. Tutto parte da lì, dalla donna che ci siede di fronte in treno e dalla capacità di renderla credibile nella descrizione che ne diamo. Mrs. Brown è il pretesto, l’esempio di scuola, il tema su cui lavorare e iniziare a raccontare. Il difficile è saper coglierne l’essenza e renderla reale.

Pensate a quanto poco conosciamo del carattere – pensate a quanto poco sappiamo dell’arte.

Con questo breve scritto sulla scrittura (pubblicato nel 1924 come saggio inaugurale della nascente collana della casa editrice creata dalla Woolf e dal marito Leonard, la Hogart Press), nato probabilmente nella casa di Rodmell, ove visse per anni, e scritto nella stanza “tutta per sé” (aggiunta nel 1929 alla casa), la Woolf scomoda la tradizione letteraria inglese per riflettere e far riflettere, in realtà, sulle condizioni del romanzo del Novecento, evidenziandone le carenze e i fallimenti. Soprattutto ci spiega come le convenzioni, sociali e letterarie, abbiamo nel tempo modificato il punto di vista dello scrittore e il modo di narrare, creando esempi di scrittura profondamente diversi, a volte troppo lontani dalla sensibilità del lettore.

Mr. Bennett è il vecchio modo di narrare, da cui trarre spunti di riflessione e di discussione, con le sue “superate” descrizioni (ed esercizi di stile) dagli autori che vennero dopo, più attenti alla “natura” del personaggio, al carattere, alla Mrs. Brown nello scompartimento del treno, ma ancora troppo presi a scardinare le vecchie convenzioni per poterne teorizzare di nuove. Ciò che appare chiaro alla Woolf sono la fine della stagione dei grandi romanzieri (da Tolstoj a Flaubert, dalla Austen a Thomas Hardy) e il vuoto lasciato dalle epoche successive.

Perciò, osservate, lo scrittore georgiano ha dovuto iniziare sbarazzandosi del metodo in auge al momento. E’ stato lasciato solo, faccia a faccia con Mrs Brown, senza alcun metodo per raccontarla al lettore. Ma questo non è esatto. Lo scrittore non è mai solo. Con lui c’è sempre il pubblico – se non nello stesso posto, almeno nello scompartimento vicino.

La sfida che la Woolf lancia è proprio questa, riuscire a condurre Mrs. Brown e la sua storia fuori dallo scompartimento del treno (che da Richmond è diretto a Waterloo) per arrivare quindi al lettore. Ma perché ciò accada è necessario che lo scrittore veda Mrs Brown con i suoi piedi, chiusi in lindi stivaletti che a malapena sfiorano il suolo, che sappia cogliere la sua aria di sofferenza, di apprensione e che, soprattutto, sappia renderla reale.

In Le tre ghinee, Diario di una scrittrice e Una stanza tutta per sé, la Woolf ha affrontato il tema del mestiere di scrivere, con un occhio particolare alla scrittura femminile e alle oggettive difficoltà di esprimere la propria creatività in una società sorda alle esigenze delle donne e della loro arte.

Qui la scrittura sembra cercare nuovi padri a cui ispirarsi, luoghi familiari a cui tornare e regole sui cui modellarsi, senza tuttavia perdere di vista le Mrs. Brown, le signore dell’angolo di fronte.

Una convenzione in scrittura non è tanto differente da una convenzione nelle maniere. Sia nella vita che in letteratura è necessario possedere i mezzi per colmare il distacco tra la padrona di casa e il suo sconosciuto ospite da un lato, e tra lo scrittore e il suo ignoto lettore dall’altro.

Testo a fronte.
Traduzione di Adalgisa Marrocco.

Virginia Adeline Woolf (Londra 1882 – Rodmell, East Sussex, 1941), autrice di alcuni fra i più importanti romanzi inglesi del Novecento, frequentò da giovanissima i maggiori artisti e letterati dell’età vittoriana. Agli inizi del XX secolo diede vita con la sorella Vanessa e intellettuali quali E.M. Forster e J.M. Keynes al gruppo Bloomsbury, destinato a dominare per oltre un trentennio il panorama culturale inglese. Tra le sue opere principali ricordiamo La stanza di Jacob (1922), La signora Dalloway (1925), Al Faro (1927) e Orlando (1928).

Source: libro inviato dall’ editore, ringraziamo l’Ufficio stampa Rogas edizioni.

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