:: 81280JL Lennon, l’Iik e i topi salterini di Lorenzo Mazzoni (Edizioni Spartaco, 2025) a cura di Giulietta Iannone

14 ottobre 2025 by

Instant Karma’s gonna get you/ Gonna knock you right on the head/ You better get yourself together/ Pretty soon you’re gonna be dead.

John Lennon

81280JL Lennon, l’Iik e i topi salterini di Lorenzo Mazzoni, pubblicato da Edizioni Spartaco, è un romanzo che non passerà inosservato, e non certo per le 456 pagine, o perché l’autore ci ha abituato ad opere provocatorie, surreali, buffe, satiriche e nello stesso tempo tragiche come sono i nostri tempi. Forse con questo romanzo l’autore ha spostato un altro po’ l’asticella consegnandoci un romanzo visionario, provocatorio e incapace di lasciare indifferenti.

Al netto delle provocazioni e dell’eccesso – che non è mai fine a sè stesso -, un ritratto generazionale post Woodstock lisergico e contemplativo, pazzo e visionario, tenero e nostalgico. Un romanzo che davvero ci porta a fare un viaggio, in un mondo imperfetto, tragico, ma tuttavia meraviglioso, e lo fa con una forza immaginifica che si nutre tanto della storia quanto dell’utopia, tanto della cultura pop quanto del pensiero politico radicale.

Non aspettatevi una lettura facile, i personaggi sono tanti, complessi con diramazioni e legami tra loro, le strade narrative impervie, la ricostruzione storica degli anni ’80 alternativa, ma ne vale la pena. Vale la pena immergersi in questa ricostruzione lisergica dove la droga, più del petrolio, finanzia guerre, destabilizza i giovani, propaga il caos. La teoria è affascinante e nello stesso tempo agghiacciante e ci conduce a Mark Chapman: inventore dell’Iik, una cannabis geneticamente modificata (che tanto richiama al Fentanyl), prigioniero a Teheran, omicida di Lennon.

Cospirazioni, operazioni coperte, agenti della CIA, rivoluzionari, militanti, guru, teppisti, malavitosi, telepati, l’affresco è composito, la fantasia a Mazzoni non manca, ma pure con l’inquietudine che quello che dice non sono fesserie, le sue ricostruzioni, sebbene romanzate, hanno un fondo di verità, sono ricostruzioni sensate, anche coerenti per quanto pazzesche, estreme, incredibili.

E questa inquietudine alimenta la nostra curiosità di lettori, e ci sgomenta, pur facendoci anche sorridere, piangere o allarmare. E qui torniamo al titolo, quell’8 dicembre del 1980, in cui davanti al Dakota Building Lennon fu ucciso. Non da un pazzo, non un gesto isolato di un esagitato, ma qualcosa di ancora più inquietante, e oscuro, che Mazzoni costruisce ribaltando responsabilità, e non dico altro per non togliervi il piacere della lettura, ma davvero quello fu un punto di svolta, e Lennon era una spina nel fianco per troppe persone, il suo pacifismo, la sua anarchia, il suo talento visionario che entrava nel cuore di tanti giovani.

Mazzoni scrive un romanzo che è insieme un’inchiesta paranoica, un manifesto underground, un viaggio psicotropo nella psiche collettiva. Ogni pagina vibra di riferimenti pop: dischi, fanzine, canzoni, visioni, deliri, complotti, sogni infranti. La narrativa si fonde con il delirio percettivo: il ritmo accelera come un vinile graffiato, la realtà si scompone in frames da videoclip post-moderno.

E allora si torna lì, al cuore della questione: dopo Woodstock, la rivoluzione non è fallita. È stata neutralizzata, assorbita, corrotta. Gli ideali di pace e amore si sono dissolti in una polvere bianca, e gli anni Ottanta – con la loro estetica sgargiante e la loro oscurità sistemica – sono diventati il teatro perfetto per questa deriva.

Un romanzo necessario, scomodo, che farà discutere, ripeto. Ma soprattutto un romanzo vivo, come lo sono le idee che prova a raccontare. Per chi ha amato Lennon, per chi ha creduto in qualcosa di diverso, per chi ancora oggi si chiede: e se fosse andata diversamente?    

Illustrazione di copertina di Giancarlo Covino

Lorenzo Mazzoni, nato a Ferrara nel 1974, ha abitato a Londra, Istanbul, Parigi, Sana’a e Hurghada. Scrittore e reporter, ha pubblicato numerosi romanzi, tra cui per Edizioni Spartaco, Quando le chitarre facevano l’amore(2015), con cui ha vinto il Liberi di Scrivere Award, Il muggito di Sarajevo (2017) e 81280JL. Lennon, l’Iik e i topi salterini (2025). È docente di scrittura creativa di Corsi Corsari e consulente per diverse case editrici. Collabora con Il Fatto Quotidiano.

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:: Visioni di cinema: L’anno del Dragone di Michael Cimino, a quarant’anni dall’uscita

11 ottobre 2025 by

L’anno del Dragone (The Year of the Dragon, 1985), diretto da quel genio eclettico, e per certi versi troppo visionario per l’epoca, di Michael Cimino, è un film che non smette di far discutere cinefili, appassionati o semplici spettatori. Quarto lungometraggio di Cimino, cinque anni dopo le vicessitudini di I Cancelli del Cielo, (Heaven’s Gate, 1980), con sceneggiatura oltre che sua anche di Oliver Stone, basata sul romanzo bestseller del 1981 di Robert Daley, scrittore, giornalista ed ex ufficiale di polizia di New York (che rinnegò piuttosto accesamente il lungometraggio di cui aveva venduto i diritti, soprattutto per la rappresentazione delle forze dell’ordine), L’anno del Dragone divise gli spettatori tra l’ammirazione per le indubbie qualità tecniche e la resa visiva, quasi di stampo operistico, e le criticità che hanno attirato molte opposizioni specie in America nelle organizzazioni cino-americane. Pur essendo radicato nella società americana degli anni ’80, di reaganiana memoria, conserva tuttavia un grumo di autenticità sopravvissuto integro anche ai giorni nostri, sebbene siano passati 40 anni esatti e sia il tessuto della società americana sia profondamente cambiato, sia la percezione delle comunità “altre”, in questo caso cinesi.

Protagonista principale del film è Stanley White, un invecchiato per ragioni di scena Mickey Rourke, allora al culmine della sua bellezza e della sua fama, pur non trascurando le doti recitative (da ex pugile le scene dei pestaggi sono molto realistiche), che non riesce proprio a far sembrare antipatico un personaggio che fa di tutto per esserlo: veterano reduce del Vietnam, poliziotto decorato per meriti di servizio non di scrivania, razzista, violento, intransigente, del tutto privo del senso delle gerarchie, allergico ai compromessi, insensibile verso le sensibilità altrui, ma tuttavia dolorosamente onesto (non è un poliziotto corrotto) seppure incarni tutto quello che c’è di negativo nell’idea, forse un po’ preconcetta, di uomo bianco, arrogante e prevaricatore. Comunque c’è da sottolineare che Stanley White è un personaggio che incarna perfettamente la paranoia securitaria dell’epoca reaganiana, e il film ne è uno specchio, forse distorto, e Cimino ne è ben consapevole.

Dopo l’assassinio, in un ristorante, sotto gli occhi di tutti, del boss di Chinatown a New York, Jackie Wong, White viene assegnato al Quinto distretto e subito fa capire che c’è aria nuova in città. A lui non interessano i patti, i compromessi con gli anziani della comunità cinese locale per quieto vivere, lui come un bulldozer vuole fare piazza pulita di tutto e restaurare l’ordine, il suo personale ordine di poliziotto di origini polacche, un immigrato anche lui anche se ormai completamente integrato nel tessuto sociale americano (“se mi arrendo io si arrende il sistema”, dice sconsolato a un collega).

A contrastarlo, Joey Tai, (John Lone), giovane, ambizioso elemento emergente della Triade o Tong newyorchese, genero del boss locale assassinato e probabilmente mandante del suo assassinio. Joey Tai vuole il potere, con ogni mezzo, a costo di scatenare una guerra personale con Stanley White, con tutto il dipartimento della Polizia di New York, e con tutta la società americana che relega ai margini l’etnia cinese permettendogli di farsi strada solo nella criminalità. C’è in lui rabbia, rivalsa, ambizione, sebbene sotto a una patina glaciale di gelido autocontrollo che l’attore che lo interpreta rende memorabile.

White è il suo opposto, quello che pensa dice, non trattiene commenti sferzanti né volgari o profondamente razzistici, detesta i giochi politici, non è aristocratico, non è ben educato o elegante, non è istruito, è mosso da un suo personale senso di giustizia e da un grumo di odio verso la gente asiatica che si porta dietro dal Vietnam, dove gli asiatici rappresentavano il nemico. Ma mentre in Vietnam, nella jungla, non ne vedeva il volto, qui a New York li può guardare in faccia, sfidare apertamente, affrontare in prima persona, in un processo di rozza semplificazione in cui gli asiatici sono ai suoi occhi tutti un’unica entità senza differenziazioni.

A Cimino non interessa il politicamente corretto, lui vuole opporre un ricalco della realtà, sebbene drammaturgicamente filtrata, descrivendoci una Chinatown, dove si muovono i personaggi, ricostruita nei minimi dettagli (dalle botteghe, ai vicoli, ai ristoranti, ai locali di scommesse) con tutto il folklore delle feste, delle processioni funebri, dei rituali che non sono solo un’esibizione esteriore, ma fanno parte di un senso etnico di comunità, un’adesione alle tradizioni di una cultura altra impiantata quasi a forza nel contesto urbano statunitense.

Non solo una Chinatown da cartolina, ma in filigrana una micro-città sotterranea con regole e microstrutture di potere parallele se non ostili a quelle ufficiali.

Le scene d’azioni sono veloci, sincopate, violente (se non iperviolente) e si alternano a momenti più riflessivi dove i personaggi parlano, si confrontano, si lasciano andare come nelle scene d’amore tra White e Tracy Tzu, la giornalista nippo-cinese che volente o nolente aiuterà White e di cui si innamorerà, dando vita a una relazione interetnica piuttosto insolita per il periodo, o al battibecco coniugale in cucina tra White e la moglie (una splendida e sciupata Caroline Kava).

La violenza urbana si fa strumento narrativo, come nella scena della strage al ristorante, Shanghai Palace, o nel pestaggio nei bagni della discoteca, o nell’uccisione del giovane poliziotto infiltrato cinese, Herbert, a cui è concessa una scena memorabile nell’appartamento high tech di Tracy Tzu, che esprime orgoglio identitario, dove difende con passione la superiorità della sua cultura millenaria, con orgoglio e altruismo. Ma ce ne sono altre anche meno sfumate ma piuttosto disturbanti, con i mezzi dell’epoca, con il sangue che a una visione contemporanea può risultare posticcio.

Tuttavia, ritengo che il passare del tempo non abbia scalfito eccessivamente la visionarietà del narrato, sebbene molto distante dalla sesibilità contemporanea alla luce del Stop Asian Hate, soprattutto per quanto riguarda la veridicità della dimensione psicologica dei personaggi, vibrante, autentica, necessaria seppure a tratti estremizzata ed eccessiva.

Non condivido completamente la critica che si fa del fatto che tutta la comunità cinese è vista come criminale, violenta, mafiosa, in filigrana c’è anche una dimensione onesta, laboriosa, risparmiatrice attenta ai valori familiari. Come Herbert, i lavoratori silenziosi della fabbrica, i camerieri dei ristoranti, la stessa Tracy Tzu, o il personaggio che lavora nella fabbrica di soia e chiama la polizia quando riviene i corpi dei due attentatori del ristorante, e lavora da oltre quarant’anni in quella fabbrica simile a una prigione e conserva tutti i suoi risparmi alla Chase Manhattan Bank, o anche semplicemente nel padre di Tracy Tzu che fa lo spedizioniere. Tutta una massa silenziosa a cui non si dà eccessivamente luce perchè il film focalizza l’analisi sulla criminalità, essendo appunto un noir moderno o ibrido, legato più alla tradizione del poliziesco metropolitano violento che al noir codificato degli anni ’40-’50.

Nel complesso è un film che non si fruisce come mero intrattenimento poliziesco ma invita a riflettere su veri temi morali, etici e sociali, portando lo spettatore a un livello di comprensione delle dinamiche in corso più alto e problematico. È senz’altro un’opera ambiziosa, non senza frizioni, per certi versi scomoda e conflittuale, che tuttavia porta avanti un discorso autoriale coerente, e non svenduto ai meri interessi commerciali di cassetta, grazie anche al fatto che trovò in De Laurentis un produttore illuminato, sebbene pretese alcuni tagli della sceneggiatura per limare alcuni eccessi e pretendendo un finale abbastanza convenzionale con la sparatoria al molo, ma concesse per esempio di girare in Thailandia alcune scene come chiedeva il regista. Insomma alcuni compromessi in via di produzione furono fatti, ma Cimino potè abbastanza liberamente esprimere la sua linea di pensiero.

Uno dei film più interessanti di Cimino dopo Il cacciatore (The Deer Hunter) e al netto delle polemiche che ha suscitato al tempo dell’uscita nelle sale soprattutto in America (1), mentre quando uscì a Honk Kong fu accolto appunto come un film d’azione d’autore (2) o ancora oggi, un ritratto aderente al mondo reale, o perlomeno alla percezione che in certi ambienti si aveva della comunità cinese nell’America degli anni ’80. Per il suo valore di testimonianza attuale ancora oggi.


  1. https://www.latimes.com/archives/la-xpm-1985-08-28-ca-25184-story.html
  2. https://www.upi.com/Archives/1985/11/22/Dragon-debuts-in-Hong-KongNEWLNHong-Kong-welcomes-Year-of-the-Dragon/2262501483600

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:: Mistero al profumo di cannella, i segreti di Cinnamon Falls di R.L. Killmore (Newton Compton, 2025) a cura di Patrizia Debicke

11 ottobre 2025 by

Tra le colline avvolte dal profumo di cannella e foglie dorate, Cinnamon Falls si presenta come un  rifugio ideale per chi fugge dal dolore, ma anche come il luogo dove i segreti, come la nebbia del mattino, non si diradano mai del tutto. Dopo una rottura umiliante, un grande amore costruito solo su una menzogna, Nia torna nella sua cittadina natale con il cuore in frantumi e l’intenzione di ritrovare un po’ di pace tra i sorrisi familiari e la gelateria di famiglia, frequentatissima e cuore pulsante della comunità. Ma la tranquillità autunnale che spera di trovare si incrina presto: un atroce delitto sconvolge la quiete della Festa d’Autunno e costringe la protagonista a fare i conti non solo con il presente, ma anche con un passato che credeva di avere sepolto.
L’autrice costruisce un’ambientazione calda e accogliente, quasi cinematografica, che ricorda le atmosfere delle serie britanniche di gialli “leggeri” o le cittadine perfette dei film Hallmark. Ogni dettaglio, il fumo che sale dalle tazze di sidro caldo, le zucche intagliate, i vicoli profumati di burro e spezie,  restituisce una sensazione di intimità domestica, di quella provincia americana dove tutti si conoscono, ma nessuno sa davvero tutto di nessuno. È proprio in questo microcosmo, apparentemente sereno, che si insinua l’ombra del mistero: un corpo ritrovato nella tavola calda di Rosie, la madre della migliore amica di Nia, morta anni prima in circostanze tragiche, e un messaggio inquietante che lascia presagire nuovi delitti.
Nia, fragile e impulsiva, ma guidata da una forza interiore che la spinge a non voltarsi dall’altra parte, si ritrova suo malgrado coinvolta nelle indagini. Non è un’investigatrice nata, e la sua curiosità troppo spesso sconfina nell’imprudenza: si muove in bilico tra coraggio e incoscienza, tra il desiderio di capire e la necessità di espiare sensi di colpa antichi. Al suo fianco ritroviamo Jesse, ex fidanzato del liceo e ora poliziotto escluso personalmente dall’inchiesta sul caso perché vecchio amico della vittima. Alto, tenebroso, segnato da un passato irrisolto, Jesse incarna la classica figura del “buono ferito”, diviso tra dovere e sentimento. Il loro rapporto è una danza di esitazioni e ricordi, fatta di battute non dette e di sguardi che parlano più delle parole: un legame sospeso tra nostalgia e un futuro forse ancora possibile.
Accanto a loro si muove una vasta galleria di personaggi secondari che contribuisce a rendere Cinnamon Falls viva e pulsante: l’amica eccentrica dai capelli viola, presenza ironica e leale; i vicini curiosi e affettuosi; i clienti abituali della gelateria, testimoni involontari di un dramma che si insinua nella quotidianità. Persino Midnight, il viziato gatto nero della famiglia di  Nia, sembra parte integrante del racconto, quasi un simbolo silenzioso della curiosità e della capacità di sopravvivere all’inquietudine.
Il ritmo narrativo alterna momenti di tensione a pause di dolcezza domestica: mentre l’indagine procede tra false piste e colpi di scena, l’autrice dosa con equilibrio mistero e romanticismo, evitando di far prevalere l’uno sull’altro. Il giallo, pur con qualche prevedibilità di troppo, mantiene viva l’attenzione con piccoli dettagli ben disseminati e un’atmosfera coerente che unisce brivido e conforto. L’elemento romantico, aggiunge calore e umanità a una vicenda che parla, in fondo, di nuove possibilità non solo in amore, ma nella vita.
La colorata Festa d’Autunno, con  la sua allegria di superficie, diventa il perfetto contrappunto simbolico al dolore e al mistero che serpeggiano sotto un’apparente calma con  la celebrazione della rinascita, della fine che prelude a un nuovo inizio. E in questo senso Nia rappresenta la città stessa, ferita, ma capace di riscoprire la propria forza.
Un mistero autunnale dal sapore di spezie e malinconia, dove il delitto serve da pretesto per esplorare i legami, le ferite e le nostalgie che uniscono una piccola comunità. Un romanzo che si legge con piacere, magari con una coperta sulle ginocchia e una tazza fumante accanto, lasciandosi avvolgere da un’atmosfera in cui ogni pagina profuma di cannella, amicizia e seconde occasioni.

Tradotto da Laura Mastroddi.

R.L. Killmore è lo pseudonimo dell’autrice statunitense Necole Ryse. Necole scrive da quando aveva quattro anni, quando incise trionfalmente l’alfabeto sul cofano della nuova Volvo della nonna. Quando non batte furiosamente i tasti del suo PC riempiendo fogli Word, piange su una pila di manoscritti incompiuti, abbandona serrati regimi di esercizio fisico autoimposti, rimprovera bambini innocenti nelle biblioteche o ascolta le conversazioni degli altri. Mistero al profumo di cannella. I segreti di Cinnamon Falls è il primo romanzo pubblicato dalla Newton Compton.

:: In memoriam: Il mostro del Casoretto. Sei storie della casa di ringhiera di Francesco Recami (Sellerio 2025) a cura di Valerio Calzolaio

10 ottobre 2025 by

Milano. Una casa di ringhiera in zona via Porpora, Casoretto-Re Raul (non lontano da Lambrate). Questi edifici sono tipiche case popolari diffuse nei distretti operai del Nord, qualcuna ce n’è a Roma, nessuna a Firenze. A pianta rettangolare, ormai non hanno più spazi comuni, pur mantenendo gli ingressi sui ballatoi (visibili a tutti) e dunque facilitando scene di teatro di condominio. Francesco Recami (Firenze, 1956) ha scritto una decina di deliziosi romanzi (2011-2024) di una serie ambientata in quel contesto di misfatti, personificazione della cattiva coscienza collettiva di chi vi vive. Come già per altri autori della casa editrice, Sellerio raccoglie ora in “Il mostro del Casoretto” sei racconti dell’autore, pubblicati fra il 2014 e il 2017 nelle periodiche raccolte tematiche (giallo, crisi, turisti, calcio, viaggiare, l’ottobre di un anno), con tutti i ben noti personaggi dei vari appartamenti di quel microcosmo a più piani e relazioni, in un brodo di pregiudizi ed equivoci.

:: Il vecchio incendio di Élisa Shua Dusapin (Elliot Edizioni 2025) a cura di Valentina Demelas

10 ottobre 2025 by

Il vecchio incendio di Élisa Shua Dusapin, pubblicato in Italia da Elliot con la traduzione di Massimo Ferraris, è un breve romanzo dalla voce sottile, profonda e molto poetica, capace di evocare un mondo interiore fatto di silenzi, ricordi e sospensioni. In poco più di centotrenta pagine, l’autrice costruisce un racconto intimo che parla di legami familiari, perdita e memoria, con una scrittura limpida e pudica, mai ridondante.

Dopo anni trascorsi a New York, Agathe torna nella quiete del Périgord per aiutare la sorella minore, Véra, a svuotare la casa di famiglia dopo la morte del padre. L’abitazione, immersa tra boschi fitti e profumati di resina, sembra trattenere i fantasmi del passato. Ogni stanza conserva tracce di un tempo rarefatto, ogni oggetto diventa eco di ciò che è stato. Véra, muta dall’infanzia, comunica solo attraverso messaggi sul cellulare: un silenzio concreto che amplifica quello emotivo fra le due sorelle, rendendo ogni gesto e ogni sguardo una fragile forma di linguaggio.

Nel corso dei giorni trascorsi insieme, Agathe e Véra si muovono tra ricordi e omissioni, tentando di riannodare i fili di un legame mai davvero sciolto, ma da sempre incrinato. La madre, fuggita anni prima, e il padre appena scomparso gravano come presenze assenti. Il vuoto lasciato dai genitori si riflette nel vuoto della casa da liberare, in un continuo gioco di specchi tra materia e sentimento. Lo svuotamento delle stanze si trasforma così in un atto simbolico: liberare la casa significa anche confrontarsi con ciò che è stato, accettare ciò che non può essere cambiato, lasciare andare.

La scrittura di Dusapin è di una sobrietà disarmante. In poche pagine accadono pochi fatti, ma ogni dettaglio vibra di significato. Le frasi brevi, essenziali, disegnano immagini nitide, quasi cinematografiche, che restano impresse nella mente. Il non detto diventa il vero motore della narrazione: ciò che non viene espresso a parole si insinua tra le righe, costruendo un tessuto emotivo di grande intensità, che stimola il lettore. A dominare è l’atmosfera, in cui la natura – con i suoi suoni ovattati, le luci filtrate tra gli alberi, il respiro del bosco – assume un ruolo quasi spirituale.

In questo paesaggio sospeso, Il vecchio incendio esplora temi universali: la solitudine che può esistere anche dentro la famiglia, il peso dei ricordi dell’infanzia, la difficoltà di esprimere l’amore quando è troppo tardi. Il silenzio, soprattutto, diventa protagonista: quello fisico di Véra e quello invisibile che separa le due sorelle. È uno spazio carico di significati, dove ancora ardono – come braci sotto la cenere – le emozioni che non trovano voce. L’“incendio” evocato dal titolo non è un evento, ma una metafora: è il fuoco antico delle passioni e dei dolori che continuano a bruciare dentro, anche quando sembrano spenti.

La forza del romanzo risiede nella sua capacità di commuovere profondamente, ma senza enfasi. Dusapin racconta il dolore e l’affetto con una grazia rara, evitando il melodramma e affidandosi a una scrittura di sottrazione. È un libro breve ma persistente, che lascia dietro di sé una scia di malinconia e di dolcezza. Alcuni passaggi restano volutamente in ombra, come ferite non completamente guarite; eppure è proprio in quelle zone d’ombra che il testo trova la sua verità più profonda.

Élisa Shua Dusapin si conferma come una delle voci più raffinate della narrativa contemporanea: la sua è una letteratura che non urla, ma sussurra. E proprio per questo riesce a farsi ascoltare.

Élisa Shua Dusapin è nata nel 1992 à Sarlat-la-Canéda in Dordogna da padre francese e madre sudcoreana, Elisa Shua Dusapin è cresciuta tra Parigi, Seul e Porrentruy (Svizzera). I suoi precedenti romanzi sono editi in Italia da Ibis Edizioni. Con il primo romanzo Inverno a Sokcho (2016) ha vinto i premi Robert Walser, Alpha, Régine-Desforges e Révélation SGDL e la sua traduzione inglese ha vinto il National Book Award. Con il secondo romanzo Le biglie del Pachinko (2018) ha vinto il Prix suisse de littérature e l’Alpes-Jura e il terzo, Vladivostok circus (2020) è stato selezionato al Premio Fémina. Il vecchio incendio è in corso di traduzione in oltre dieci paesi.

Source: libro gentilmente donato dall’editore, ringraziamo Giulia Olga Fasoli, responsabile dell’ufficio stampa Elliot Edizioni.

:: Parental fuori control. Convivere con i propri genitori e uscirne sani e salvi, Nicola Brunialti (Gallucci Bros) A cura di Viviana Filippini

10 ottobre 2025 by

Fare i genitori non è facile, ma anche essere figlio comporta qualche intoppo e in “Parental fuori control. Convivere con i propri genitori e uscirne sani e salvi”, edito da Gallucci Bros, Nicola Brunialti, grazie alle illustrazioni di Fumeddy, crea un vero e proprio manuale di sopravvivenza per ragazzi. Sì, perché l’autore è consapevole del fatto che per i figli è tutto un sentirsi dire, raccomandare, invitare a fare, studiare, pulire, apparecchiare, uniti anche a domande del tipo Con chi esci? Dove vai? Un parlare monodirezionale dei genitori a i figli, quei figli che non sempre riescono a comprendere i grandi e che quindi vedono quel loro prendersi cura, come un qualcosa di diverso e quasi opprimente. Con questo libro, simpatico e sferzante, Brunialti   cosa fa? Suggerisce ai lettori bambini e adolescenti le strategie da adottare per riuscire a sopravvivere alla serie infinita di domande e imposizioni che spesso arrivano da mamma e papà. Insomma, da le dritte giuste per provare a capire il mondo dei grandi. Non solo, perché tra le pagine ci sono forse anche alcune risposte a domande che i ragazzi e le ragazze mai penserebbero di fare ai propri genitori. “Parental fuori control. Convivere con i propri genitori e uscirne sani e salvi” di Nicola Brunialti,   è testo simpatico, divertente, una sorta di manuale di addestramento per rapportarsi ai genitori, perché anche se a volte non li si capisce proprio  e sembrano quasi venire da un altro pianeta, questo libro aiuta a comprenderli nel loro dire e fare. Ecco un’ ultima raccomandazione … magari sarebbe meglio non farlo leggere a mamma e papà. Età di lettura: da 12 anni.

Nicola Brunialti ha lavorato come pubblicitario per anni, firmando celebri campagne, tra cui quelle di Lavazza, Tim, Alitalia. È autore di “Chi ha incastrato Peter Pan?” e di altri programmi televisivi; ha scritto le canzoni “Dormono tutti” per Renato Zero e, con Simone Cristicchi, “Abbi cura di me”. Dal 2010 si dedica a tempo pieno alla scrittura di romanzi e di serie tv d’animazione per ragazzi. Incontra spesso i suoi lettori in occasione di festival letterari e nelle scuole. (fonte bio Gallucci)

Edoardo Testi, in arte Fumeddy, è un fumettista, vignettista e illustratore abruzzese classe 1989. Cresciuto a pizza, fumetti e cartoni animati, è sbarcato sul web con un’unica missione: capovolgere ogni broncio in un sorriso (anche amaro). È allergico al pelo dei gatti, ma li accarezza lo stesso. (fonte bio Gallucci)

Source: inviato dall’editore.

:: L’uomo perplesso: Viaggio negli abissi di Emil Cioran di Nicola Vacca (Edizioni Qed, 2025) a cura di Giulietta Iannone

10 ottobre 2025 by

Tornare a Cioran per Nicola Vacca, critico e poeta sensibile e di notevole caratura etica e morale, dopo Lettere a Cioran del 2017 edito da Galaad Edizioni, è un impegno concreto alla ricerca di una nuova chiave interpretativa che aggiunga nuove prospettive, e criteri di analisi, su un filosofo e scrittore criptico come Emil Cioran, oggi quasi ormai se non proprio dimenticato, sicuramente colpevolmente trascurato dalla critica filosofica più paludata.

Cioran dobbiamo ammetterlo e un intellettuale scomodo, di difficile comprensione e collocazione, non solo per gli studiosi accademici più ferrati, e dotati di strumenti scientifici di indagine e di conoscenza diretta dei suoi testi, ma anche soprattutto per i lettori curiosi che forse si avvicinano a Cioran per la prima volta, spaventati forse anche dall’aura nichilista che lo circonda.

Vacca in L’uomo perplesso: Viaggio negli abissi di Emil Cioran, pubblicato da Edizioni Qed, (Collana Hyle), un testo originale filosofico e nello stesso tempo letterario, torna con un secondo libro su di lui, dopo otto anni, con spirito battagliero e alla ricerca di nuove strade interpretative, come dicevo all’inizio, per proseguire un discorso iniziato con il precedente libro, già notevole e compiuto. Vacca ne sente l’urgenza, e la necessità, ci sarà riuscito? Lo scopriremo nella lettura del testo.  

Cioran è l’uomo perplesso del titolo che con le sue intuizioni ha fatto saltare il banco con una scorrettezza del pensiero che non ha eguali nella storia della letteratura. Parole definitive, deflagranti, che non ammettono compromessi, che Vacca utilizza per accompagnarci, novello Virgilio laico, alla scoperta di questo autore romeno ancora così necessario in un mondo contemporaneo che si nutre di false certezze e rassicuranti autoinganni.

Un altro tema toccato da Vacca, fin dall’inizio, è la libertà, per affrontare Cioran bisogna essere uomini liberi e non avere paura del proprio pensiero.

Libertà e verità si intrecciano contrapposte alla paura che limita il pensiero e l’azione degli uomini e li tiene in ostaggio, depotenziando tutto quello che di positivo ancora esiste e per cui vale la pena lottare anche a rischio di perdite personali. Questo ci insegna Cioran e questa lezione è chiara per Vacca che ce la consegna come un tesoro prezioso da difendere e custodire.

Da quarant’anni Vacca si confronta con Cioran, da quarant’anni ne studia il pensiero tramite la lettura dei suoi testi, delle sue lettere, dei suoi appunti sparsi, delle sue interviste, con l’obbiettivo di imparare, di crescere di affermarsi come essere umano consapevole e avveduto.

E lo studio dei suoi testi è centrale nella sua analisi, cerca le fonti dirette, si abbevera del testo originario scevro da filtri interpretativi esterni, a volte distorti. E questa caratteristica certo lo distingue.

È una lettura sofferta, si parla di sangue, di insonnia dello spirito e della carne, di abissi da colmare e padroneggiare con gli strumenti limitati dell’umano, ma consapevoli, e a prezzo del proprio tormento.

Come in un colloquio diretto, (almeno nella prima parte in cui si rivolge a un caro Emil) epistolare e intimo, Vacca si rivolge confidenzialmente a Cioran lamentando quanto sia assente il pensiero critico nelle devastanti barbarie del pensiero unico, o dando ragione a Citati quando scrive che i suoi pensieri sdegnano di essere pensieri, sono frammenti, schegge, una musica dello spirito.

Più che una frattura, un cambio di passo da Lettere a Cioran, è una continuazione, una prosecuzione con altri strumenti e una maggiore confidenzialità di chi ha fatto propri e introiettato il pensiero quasi in una dimensione amicale, se non fraterna. Poi riprende una parte più analitica abbandonando il tu, per una analisi più oggettiva, anche se sempre partecipata, e calda.

L’ammirazione è evidente, senza cadere nella palude retorica dell’agiografia, ma più che altro come una comunione di spiriti affini, un delirio di naufraghi nemici di ogni ortodossia.

Oltre a questo, si percepisce un’estraneità con il mondo coevo a Cioran, da cui trasuda tutta l’incomprensione con cui è stato sempre, e continua ad essere, accolto. Vacca la percepisce e ci soffre come si soffre per un amico il cui dolore è il proprio. Non che Vacca non citi e non conosca tutta la letteratura derivativa su Cioran, come il bel saggio di Seravalle Cioran verso la parola inzuppata di verità, ma ne inframezza le citazioni con pudore e consequenzialità, senza eccedere.

Resta perciò un’opera originale e necessaria, piuttosto inconsueta nel panorama letterario filosofico italiano, un testo breve, solo un’ottantina di pagine, come appendice di Lettere a Cioran, o meglio proseguimento di un discorso iniziato con il precedente libro che qui trova completezza.  

Abbondante ed esaustiva la bibliografia finale, anche per uno studio comparato a livello accademico, o di semplice approfondimento. Prefazione di Vincenzo Fiore, postafazione di Alessandro Seravalle. Da segnalare il ritratto di Emil Cioran di Alfredo Vacca, come contributo iconografico.

Nicola Vacca è nato a Gioia del Colle nel 1963, laureato in giurisprudenza. È scrittore, opinionista, critico letterario, collabora alle pagine culturali di quotidiani e riviste. Svolge, inoltre, un’intensa attività di operatore culturale, organizzando presentazioni ed eventi legati al mondo della poesia contemporanea. Dirige la rivista blog Zona di disagio. Ha pubblicato: Nel bene e nel male (Schena, 1994), Frutto della passione (Manni 2000), La grazia di un pensiero (prefazione di Paolo Ruffilli, Pellicani, 2002), Serena musica segreta (Manni, 2003), Civiltà delle anime (Book editore, 2004), Incursioni nell’apparenza (prefazione di Sergio Zavoli Manni 2006), Ti ho dato tutte le stagioni (prefazione di Antonio Debenedetti, Manni 2007) Frecce e pugnali (prefazione di Giordano Bruno Guerri, Edizioni Il Foglio 2008) Esperienza degli affanni (Edizioni il Foglio 2009), con Carlo Gambescia il pamphlet A destra per caso (Edizioni Il Foglio 2010), Serena felicità nell’istante (prefazione di Paolo Ruffilli, Edizioni Il Foglio 2010), Almeno un grammo di salvezza (Edizioni Il Foglio, 2011), Mattanza dell’incanto (prefazione di Gian Ruggero Manzoni Marco Saya edizioni 2013), Sguardi dal Novecento (Galaad edizioni 2014) Luce nera (Marco Saya edizioni 2015, Premio Camaiore 2016), Vite colme di versi (Galaad edizioni 2016), Commedia Ubriaca (Marco Saya 2017), Lettere a Cioran (Galaad edizioni 2017), Tutti i nomi di un padre (L’ArgoLibro editore 2019), Non dare la corda ai giocattoli (Marco Saya edizioni 2019), Arrivano parole dal jazz (Oltre edizioni 2020), Muse nascoste (Galaad edizioni 2021), Un caffè in due (A&B editrice 2022), Libro delle bestemmie (Marco Saya edizioni 2023), Mi manca il Novecento (Galaad edizioni 2024).

Source: libro inviato dalla casa editrice.

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:: Visioni di cinema: Shadow of China di Mitsuo Yanagimachi

7 ottobre 2025 by

Shadow of China (“China Shadow”) del regista giapponese Mitsuo Yanagimachi è un film del 1989 decisamente anomalo, e sottovalutato, sia nella produzione del regista, noto più per produzioni più intimiste, e attento all’interiorità di personaggi minimi e poco addentro con le dinamiche del potere, sia per la filmografia dei tardi anni Ottanta legata al passaggio della Cina da colonia britannica al ritorno alla madrepatria, e sia ai fatti di Tienanmen e alle rivolte studentesche atte a richiedere al governo centrale cinese più libertà e democrazia. Tratto dal romanzo giapponese di Masaaki Nishiki, Snake Head, piuttosto irreperibile e di difficile consultazione, narra la storia partendo dal 1976, anno della morte di Mao e l’arresto della Banda dei Quattro, e focalizza l’attenzione su due personaggi Wu Chang (interpretato da un carismatico e sensibile John Lone) e Moo-Ling sua compagna (interpretata da una deliziosa e sofferta Vivian Wu), due ex guardie rosse (portano la fascia nera al braccio in segno di lutto) che scelgono l’esilio a Hong Kong per sfuggire ai tumulti legati alle repressioni rivolte verso le Guardie rosse. Arrivati a Hong Kong con altri rifugiati politici, le loro strade si separano: Moo Ling diventa una celebre cantante di Club e Wu Chang, nel frattempo conosciuto come Henry Wong, per porre una distanza dal suo passato, un importante banchiere la cui ricchezza resta di origini dubbie e sconosciute. La storia riprende quando Henry Wong cerca di organizzare, tramite il suo consulente finanziario Burke, l’acquisizione dell’importante quotidiano in lingua cinese Wah Min Daily di proprietà dell’anziano signore della droga Lee Hok Chow. Avendo capito che la sua grande ricchezza può essere utilizzata come strumento politico, e che i Media possono costruire l’opinione pubblica nella formazione della Nuova Cina. Come strumento destabilizzante entra in gioco il giornalista giapponese Akira alla ricerca di informazioni su Kazuo Obayashi, un giapponese ex Guardia rossa, che poi si scopre essere lo stesso Henry Wong. La trama è davvero complessa e intricata, e non voglio spoilerare troppo della trama per coloro che non hanno ancora visto il film (segnalo che ci sono diversi rimontaggi a secondo del pubblico di destinazione) sospetto ci sia una versione estesa a cui non ho avuto ancora accesso che segnala scene tagliate, o rimontate, ma per le versioni che ho visto il materiale è degno di nota e ricco di spunti di analisi non banali, anche se è possibile che i tagli siano dovuti a un edulcorazione dei temi troppo caldi per rendere il film più commerciale e libero dai vincoli della censura. In conclusione, devo dire che è un film davvero notevole, non premiato al botteghino all’epoca, soprattutto per la sua visione innovatrice e futuristica, e può giovare vederlo oggi, col senno di poi, soprattutto dopo gli sviluppi che ha preso la storia. L’interpretazione di John Lone soprattutto si segnala come sofferta e partecipata, e frutto di un’analisi attenta del capitalismo postcoloniale, con un’attenta disanima dell’origine delle ricchezze e dei suoi legami con la criminalità o perlomeno con pratiche poco etiche. Nel finale, molto evocativo si attua la parabola morale del protagonista che decide di tornare nella Cina Continentale per continuare la lotta verso una nuova Cina, frutto dei suoi sogni anche di gioventù. Da rivalutare.

:: La figlia del drago di ferro di Michael Swanwick: un fantasy anarchico e iconoclasta, a cura di Emilio Patavini

6 ottobre 2025 by

The Iron Dragon’s Daughter è uscito in America nel 1993, per poi essere pubblicato come Cuore d’acciaio da Fanucci nel 1995 e con il suo seguito The Dragons of Babel (I draghi di Babele, 2007) per Urania all’interno della raccolta I draghi del ferro e del fuoco (2011). Nel novembre 2024 è stato finalmente ristampato da Mercurio Books, una nuova casa editrice indipendente. L’autore, Michael Swanwick, americano, classe 1950, ha vinto i premi Nebula, Hugo e il World Fantasy Award e ha scritto racconti a quattro mani con William Gibson e Gardner Dozois.

Prima di passare alla recensione mi si permetta una nota su questa nuova edizione. Nel colophon troviamo un trigger warning, ovvero un’avvertenza volta a indicare la presenza di un contenuto che potrebbe urtare la sensibilità dei lettori. Spero che questa pratica politically correct importata dagli Stati Uniti non diventi un’abitudine nell’editoria, e ammetto che trovarla riportata all’interno di un libro mi ha allarmato ben più del presunto elemento perturbante da cui voleva mettermi in guardia. Mi trovo quasi in imbarazzo a dover ribadire che un libro, in quanto veicolo di cultura, non ha alcun bisogno di bollini colorati come i film o di altre insensate misure affini. La traduzione di Susanna Bini qui riproposta a volte inciampa in calchi dall’inglese fin troppo evidenti, ma tutto sommato si lascia leggere con scorrevolezza.

Ciò premesso, veniamo alla trama. Jane Alderberry è una changeling, una bambina umana che nelle leggende viene scambiata nella culla con un figlio delle fate. Jane si ritrova così a vivere nella dura realtà del Mondo delle Fate e a lavorare a ritmi estenuanti in una fabbrica in cui vengono prodotti draghi meccanici. Se l’atmosfera steampunk echeggia la dickensiana Coketown di Tempi difficili (1854), qui troviamo già un aspetto innovativo del romanzo di Swanwick, in cui la figura del drago viene modernizzata traendo ispirazione dal cyberpunk: i draghi sono infatti creature meccaniche e cibernetiche, rivestite di ferro e dotate di circuiti elettrici, che vengono pilotate come caccia militari. Se Ann McCaffrey, con il suo ciclo dei Dragonieri di Pern, aveva inserito i draghi in un’ambientazione fantascientifica, Swanwick è andato ben oltre rendendoli cyberpunk.

Jane entra in contatto con uno dei questi draghi, il più potente e maligno, destinato alla demolizione. Il suo nome, Melanchton, è un chiaro rimando a Filippo Melantone, nome ellenizzato di Philipp Schwarzerdt (1497-1560), teologo amico di Martin Lutero e animatore della Riforma protestante. Il drago Melanchton è una creatura manipolatrice, astuta e subdola, blasfema e nichilista, animata dall’odio e dalla vendetta. Jane e Melanchton stringono un patto e progettano la fuga. Scappata dalla fabbrica, Jane frequenta prima il liceo e poi l’università di alchimia, stringendo nuove amicizie, sperimentando droghe, praticando sesso occasionale e dedicandosi al taccheggio e alle arti magiche. Il suo percorso non è un arco lineare di crescita bensì una continua spirale distruttiva, scandita dagli stessi errori, dalle stesse perdite e dagli stessi sensi di colpa, in cui incarnazioni diverse degli stessi personaggi tornano a rivivere in un eterno ritorno. Non è un caso che all’interno del romanzo si menzioni il nastro di Möbius, la superficie non orientabile descritta dalla topologia matematica che ha ispirato la struttura di alcuni film di David Lynch.

Un’altra innovazione che salta subito all’occhio del lettore è indubbiamente l’ambientazione. Swanwick descrive con capacità immaginativa e abilità creativa apparentemente inesauribili un universo che sovverte sia i canoni dell’high fantasy classico, di matrice tolkieniana, in cui il Mondo Secondario è sub-creazione del Mondo Primario, sia dell’urban fantasy, in cui elementi fantastici vengono trapiantati nel nostro mondo. Si potrebbe parlare di portal fantasy, quel sottogenere in cui un personaggio del nostro mondo si ritrova per qualche ragione catapultato in un mondo altro, ma La figlia del drago di ferro è un romanzo che proprio in virtù della sua natura camaleontica e ibrida sfugge a ogni tentativo di classificazione. Le etichette di science fantasy e di dark fantasy, pur se applicate con una certa ragionevolezza, appaiono riduttive se non eufemistiche. In effetti, la critica specializzata non ha lesinato tentativi di categorizzare di quest’opera con le definizioni più fantasiose e disparate: c’è chi ha parlato di elfpunk, chi di technofantasy, chi di industrial fantasy o ancora chi, come John Clute[1], ha parlato di anti-fantasy per via dell’amoralità dei suoi personaggi e in particolare della sua anti-eroina. Una definizione che potrebbe apparire calzante, ma che è stata rispedita al mittente dallo stesso Swanwick, che nel suo blog  ha affermato che «[q]uesto non è mai stato il mio intento»[2]. In un’intervista si è detto «scioccato» dalla definizione di anti-fantasy, perché «amo il fantasy e non stavo certo cercando di demistificarlo»[3].  

È anzi proprio l’ibridazione dei generi, unitamente alla complessità del testo, al gusto citazionista e alla tendenza alla decostruzione, che a mio avviso dovrebbe far pensare al carattere postmoderno di questo romanzo sui generis. Il tono oscilla tra il tecnico-scientifico alla Gibson, il colloquiale, il grottesco e il volgare, in una continua commistione di magia e cibernetica, che può essere sintetizzata in sintagmi molto espressivi ideati dall’autore come «cloruro d’ammonio e fegato di rospo» o «cornamuse elfiche e sintetizzatori». Il ricorso a visioni psichedeliche e allucinazioni lisergiche può ricordare Hunther S. Thompson, mentre tra gli scrittori che più hanno influenzato Swanwick troviamo Hope Mirrlees, autrice di Lud nella Nebbia (1926), cui l’autore ha dedicato anche una monografia[4], e naturalmente J.R.R. Tolkien. Il Wall Street Journal ha definito quello creato da Swanwick «l’universo fantastico più accuratamente immaginato dopo quello di J.R.R. Tolkien». Certo, si potrebbe pensare che si tratti di esagerazioni pubblicitarie che lasciano il tempo che trovano e da prendere con le dovute cautele; eppure va detto che Swanwick non appartiene a quel novero di autori che rinnegano Tolkien, non è affetto (come Michael Moorcock e altri) da quel complesso edipico che vorrebbe uccidere il padre putativo del fantasy moderno, ma ha ammesso il debito nei suoi confronti:

«A livello profondo e inconscio, [La figlia del drago di ferro] è una dura critica di ciò che il fantasy è diventato. Mi sono innamorato del fantasy al liceo, e ho letto La compagnia dell’anello nel corso di una lunga nottata. Finii i miei compiti alle 11 di sera, e lo aprii, pensando di leggere un capitolo o due prima di addormentarmi, e finii l’ultima pagina proprio quando suonò la campanella dell’appello nel mio liceo la mattina dopo. Dopodiché cercai e lessi tutti i grandi autori fantasy – E.R. Eddison, Mervyn Peake, Fritz Leiber, Hope Mirrlees, Amos Tutuola, e così via. Perciò la recente ondata di trilogie fantasy intercambiabili mi ha scosso quasi allo stesso modo della scoperta che i boschi in cui ero solito giocare da bambino sono stati rasi al suolo per fare spazio a mediocri complessi residenziali»[5]

Benché a mio avviso si sia lontani dalle vette letterarie e artistiche di quell’immortale capolavoro che è Il Signore degli Anelli, è possibile tracciare alcuni punti di contatto tra le due opere. Per esempio, si può notare come Swanwick mutui dall’opus magnum tolkieniano il tema della quest, volta non già alla distruzione di un artefatto magico, bensì alla distruzione dell’universo stesso e alla morte di Dio (anzi, della Dea). Parimenti tolkieniani sono l’importanza che i nomi rivestono all’interno dei due romanzi, e come la conoscenza dei veri nomi delle cose consenta di avere potere su di esse, o ancora si potrebbe vedere nella fuga di Jane dalla sua realtà un parallelo alle accuse di escapismo rivolte alla letteratura fantastica in generale e alle opere di Tolkien in particolare. Infine, The Iron Dragon’s Daughter (1993), The Dragons of Babel (2008) e The Iron Dragon’s Mother (2019) costituiscono una trilogia di romanzi autoconclusivi che condividono la stessa ambientazione, mentre – come è noto – la divisione de Il Signore degli Anelli in tre libri è stata una scelta dettata dall’editore.

Peraltro non bisogna dimenticare che Swanwick attinge a una delle fonti da cui trasse ispirazione Tolkien, la mitologia celtica. Non solo troviamo citati luoghi leggendari come Avalon, Lyonesse, Ys, Tír na nÓg, Mag Mell, Broceliande, a volte spogliati del loro significato mitico, ma anche nomi gallesi (o grafie simil-gallesi) e riferimenti alla mitologia gallese, come per esempio Caer Gwydion (letteralmente la “fortezza di Gwydion”), ovvero il nome gallese della Via Lattea; i Tylwyth Teg, nome gallese per indicare il Popolo delle Fate; Gwenhidwy, nome della moglie di Gwydion e di una sirena del folklore gallese; o l’awen, l’ispirazione poetica dei bardi gallesi. Inoltre, secondo Tom Shippey, il massimo critico tolkieniano, Swanwick potrebbe essersi ispirato ai The Denham Tracts – una raccolta di folklore britannico risalente alla seconda metà dell’Ottocento –per la lista di creature magiche che compaiono nella sua opera[6]. Nel secondo volume di questa raccolta compare un lunghissimo elenco di termini associati al folklore dell’Inghilterra settentrionale, tra cui la prima occorrenza del termine hobbits[7].

Il mondo in cui vive Jane è Faërie, il Mondo delle Fate, ma è una realtà parallela e superiore alla nostra. Un mondo popolato di ogni sorta di abitante del Piccolo Popolo e del folklore europeo: elfi, demoni, folletti, coboldi, orchi, troll, gargoyle, nani, streghe, fate, ninfe, gnomi, goblin, ma anche varie figure di spiritelli meno noti, come lutin (dalle leggende francesi), hogboon (dal folklore delle Orcadi), powrie (dal folklore scozzese), lešij (dalla mitologia slava), gwarchell (dal folklore gallese, citato anche da Grimm nel suo Deutsche Mythologie), nisse (dal folklore scandinavo), pillywiggin (dal folklore britannico). Queste creature fatate, tuttavia, non hanno nulla a che spartire con le fays vittoriane e gli alti elfi descritti da Swanwick – uomini d’affari senza scrupoli che vestono completi firmati – sono ben altra cosa rispetto agli aristocratici elfi tolkieniani. Un mondo spietato, violento, corrotto, industrializzato e consumista, in cui troviamo centri commerciali, locali notturni, catene di fast food, nani comunisti che combattono in nome della lotta di classe ed elfi dell’alta società che aspirano strisce di “polvere di fata”, ma anche reginette della scuola coinvolte in sacrifici umani alla The Wicker Man, mani di gloria e magia sessuale. L’uso di termini o elementi familiari al lettore calati in un contesto fantastico crea una sensazione di spaesamento, di dissonanza cognitiva, e questa sovrapposizione tra i due mondi contribuisce ad aumentare lo straniamento. Talvolta ci si trova di fronte ad apparenti incongruenze, come il riferimento a un «completo italiano», una «scarpa italiana» o ancora alle «sciarpe italiane» finite non si sa come nel Mondo delle Fate o al vino cecubo decantato da Orazio. In altri casi, l’autore si vale di un procedimento inverso, quello di camuffare oggetti della nostra realtà sotto nomi che ci risultano disorientanti, alieni: per esempio,  così come i draghi vengono usati come caccia militari, le auto sono dunque «cavalli di cromo» e i camion in «behemoth d’acciaio».

Come se non bastasse, ad arricchire questo chimerico calderone ribollente di spunti filosofici e contaminazioni letterarie non mancano citazioni neanche troppo velate al nostro mondo: Swanwick mette in bocca ai suoi personaggi le parole pronunciate da Neil Armstrong durante l’allunaggio, una  celebre frase di Robert Oppenheimer tratta dalla Bhagavadgītā, riferimenti all’incipit di Neuromante (1984) di William Gibson, alla poesia Goblin Market (1862) di Christina Rossettie allo pseudobiblion Culti indicibili inventato da Robert E. Howard.


[1]J. Clute – J. Grant (ed. by), The Encyclopedia of Fantasy, St. Martin’s Press, New York 1997, p. 914

[2]<https://floggingbabel.blogspot.com/2019/06/my-accidental-trilogy_25.html&gt;

[3]<https://paulsemel.com/exclusive-interview-the-iron-dragons-mother-author-michael-swanwick/>. Sul rapporto con Tolkien, cfr. anche M. Swanwick, “A Changeling Returns” in K. Haber (ed. by), Meditations on Middle-earth, St. Martin’s Press, New York 2001, pp. 33-46

[4]M. Swanwick, Hope-in-the-Mist: The Extraordinary Career and Mysterious Life of Hope Mirrlees, Temporary Culture, 2009

[5]<http://www.infinityplus.co.uk/nonfiction/intms.htm&gt;

[6]Cfr. T. Shippey, “Fighting the Long Defeat: Philology in Tolkien’s Life and Fiction” in id. Roots and Branches, Walking Tree Publishers, Zurich and Berne 2007,p. 154 e “The Faërie World of Michael Swanswick” in D. Fimi – T. Honegger (ed. by), Sub-creating Arda: World-building in J.R.R. Tolkien’s Works, its Precursors, and Legacies, Walking Tree Publishers, Zurich and Berne 2019.

[7]J. Hardy (ed.), The Denham TractsA Collection of Folklore by Michael Aislabie Denham, and Reprinted from the Original Tracts and Pamphlets printed by Mr. Denham between 1846 and 1859, Vol. II, The Folklore Society, London 1895, p. 79

:: L’onesta bugiarda di Tove Jansson (Iperborea 2025) a cura di Giulietta Iannone

4 ottobre 2025 by

Profondo Nord: un villaggio innevato da fiaba, e l’amicizia ambigua e inquietante tra due donne profondamente diverse, ma forse complementari, (forse addirittura entrambe specchio e riflesso dell’autrice) sono al centro di L’onesta bugiarda (titolo originale Den ärliga bedragaren, 1982), di Tove Jansson, autrice finlandese, della minoranza che scrive in lingua svedese. Edito in Italia questo ottobre in una nuova edizione da Iperborea e tradotto da Carmen Giorgetti Cima, L’onesta bugiarda è un romanzo psicologico e introspettivo, dalle insolite cadenze del thriller, che scava nelle dinamiche misteriose che legano i due personaggi principali, due donne, una anziana, e una giovane: Anna Aemelin, una sensibile illustratrice di libri per bambini che passa il suo tempo a dipingere con gli acquarelli boschi e conigli, ricevendo tante lettere dai suoi piccoli fan, e Katri Kling, una giovane donna enigmatica e scontrosa, caratterizzata da inquietanti occhi gialli da strega, nota per la sua intransigenza morale e la sua eccessiva e provocatoria sincerità, (non mente mai nemmeno per convenzioni sociali), che vive con un fratello disabile e un pastore tedesco senza nome. Anna Aemelin abita da sola in una grande casa, simile a un coniglio, che attira subito l’interesse di Katri che vorrebbe viverci con il fratello e inizia così a coltivare questa strana amicizia che Anna ricambia incapace di dire no alle persone. Anna vive ancora legata all’infanzia, ai suoi genitori, al suo mondo interiore fantastico e immerso nelle atmosfere fiabesche dei suoi disegni. Katri è invece razionale, pratica, forse anche calcolatrice, legata ai soldi e alla materialità del vivere. Due mondi psicologicamente in antitesi che si incontrano per vincere la grande solitudine che le accomuna. Abbandonata la letteratura per l’infanzia, celebre il suo mondo incantato dei Mumin, Tove Jansson ci presenta un romanzo per lettori adulti, caratterizzato da una lingua evocativa, elegante, e intrisa di sentimenti contrastanti, ma capace di suscitare interrogativi profondi sull’esistenza, sull’ambivalenza dei gesti quotidiani, sulla capacità di ferire la sensibilità altrui anche quando non lo si vorrebbe. Ma chi è l’onesta bugiarda del titolo? Forse lo sono entrambe le protagoniste in una profonda riflessione su cosa sia la verità, sempre mutevole e mai definitiva, e quanto la sincerità a tutti i costi non sia sempre un valore positivo, ma possa ferire appunto o diventare uno strumento di controllo, di manipolazione e di dominio. È una lettura lenta, sinuosa, cadenzata, priva di reali scossoni o colpi di scena, ma ricca di dettagli minimi, di impalpabile ricchezza espositiva che riflette un mondo interiore in perenne mutamento. Anche la descrizione della natura arricchisce di bellezza la narrazione con i suoi boschi oscuri e misteriosi e la sua neve perenne che congela un mondo di sentimenti inespressi, in cui le parole non sempre servono a comunicare, e di vulnerabilità. Anche fuori dalla letteratura per l’infanzia, Tove Jansson sa far sentire la sua voce, netta, precisa, autentica, forse più parlandoci di sé stessa che dei suoi personaggi. Molto amato da Ursula K. Le Guin. Da riscoprire. Postfazione di: Arianna Giorgia Bonazzi, immagine di copertina di Dee Nickerson.

Padre scultore e madre illustratrice, Tove Jansson (1914-2001) cresce tra una vivace casa-atelier di Helsinki e un solitario e avventuroso isolotto dell’arcipelago finlandese. Il mondo d’arte e fantasia dell’infanzia nutre la sua vocazione di pittrice, vignettista e scrittrice e le ispira la serie di libri sui Mumin, oggi un classico di culto noto e amato in tutto il mondo. Con lo stesso spirito, ironico e poetico, acuto e dissacrante, si è rivolta anche agli adulti. Iperborea ha pubblicato La barca e io, Viaggio con bagaglio leggero, Fair Play, Campo di pietra e il best-seller Il libro dell’estate. È inoltre in corso di pubblicazione per Iperborea l’intera serie delle strisce dei Mumin e una collana speciale di albi illustrati tratti dalle loro storie più celebri.

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Leggi l’incipit

:: Come uccidono gli Eredi di Jessica Goodman (TimeCrime 2025) a cura di Patrizia Debicke

4 ottobre 2025 by

Leggere “Come uccidono gli eredi” significa penetrare in un universo dorato e soffocante, dove il privilegio si veste di seta e gioielli ma odora di corruzione e paura. La prima sensazione che si prova è claustrofobia: giovani vite che “devono” apparire perfette, intrappolate in copioni imposti dalle famiglie e dalla società, e che invece sono soltanto pedine in una recita feroce.
E sarà proprio questa inquietudine tra libertà negata e bisogno di apparire che rappresenta il cuore del romanzo.
Il fulcro narrativo è il Club degli Eredi di New York, un esclusivo circolo che non si limita a garantire lusso e protezione, ma rappresenta una vera e propria consacrazione sociale. Entrarvi significa avere un futuro spianato, un lasciapassare per i piani più alti del potere economico e politico. È il regno dei “prescelti”, ragazzi che hanno respirato sin dalla nascita solo l’aria rarefatta delle élite, educati a non sbagliare ma anche a coprirsi sempre l’un l’altro pur di mantenere intatta la facciata.
I protagonisti riflettono le diverse sfaccettature di questo sistema. Bernie Kaplan è forse il personaggio più immediatamente empatico e la sua voce mette in evidenza la gabbia dorata in cui tutti si muovono. Dietro l’apparente sicurezza si nasconde il peso delle aspettative, il continuo timore che la verità possa emergere.
Isobel Rothcroft, regina di stile e perfezione, incarna l’ossessione per l’immagine, simbolo di una femminilità costruita a misura di copertina.
Skyler Hawkins, forse il più fragile, porta dentro di sé la contraddizione tra desiderio di ribellione e necessità di appartenere.
Ma la vera anomalia è Tori Tasso, l’outsider, sempre la migliore nei risultati scolastici, ma proveniente dal Queens. Lei è l’intrusa, la scheggia impazzita pronta a incrinare la simmetria del gruppo. La sua presenza non è solo un enigma narrativo, come ha fatto a ottenere un invito? ma rappresenta anche il confronto tra il mondo dei privilegiati e chi, come lei, conosce altre strade, altre possibilità di vita.
L’ambientazione è cruciale. Siamo nella Manhattan dei superattici e dei gala, un microcosmo che affonda le radici nell’eredità WASP, quel sistema di potere nato dai primi padri pellegrini e ancora oggi capace di imporre all’America regole invisibili. L’autrice non si limita a raccontare un delitto in un contesto mondano: porta in scena la sopravvivenza di un modello sociale che identifica la ricchezza come segno di predestinazione, il denaro come moderna grazia divina. La piramide sociale deve restare intatta e, per difenderla, ogni mezzo è valido: segreti, bugie, omissioni, silenzi compiacenti.
Il Ballo degli Eredi, a conclusione di un percorso scolastico superiore, è l’apice simbolico di questo meccanismo. Un’esclusiva festa scintillante, promessa di successo e visibilità, ma che può trasformarsi in un baratro. Dietro i sorrisi, gli abiti da haute couture e le coppe di champagne, serpeggiano rivalità, invidie e paure. Quando la tragedia sconvolgerà tutti, con una morte improvvisa, non sarà solo l’elaborato evento mondano a crollare: l’intero castello di apparenze verrà messo in discussione, rivelando la brutalità nascosta dietro quel patinato splendore.
Jessica Goodman costruisce la trama alternando i punti di vista dei protagonisti e crea un romanzo corale su due piani: la settimana prima del ballo e ciò che avverrà dopo la tragedia. Questo doppio binario narrativo accresce la tensione e la curiosità del lettore di scoprire come i pezzi possano andare a incastrarsi. Il delitto, se verrà riconosciuto come tale, diventerà non solo un enigma da risolvere, ma e soprattutto lo specchio di una società che si autodivora pur di mantenere il proprio potere.
Il vero motore del romanzo, infatti, non sarà l’indagine in sé, ma la critica sociale che vibra in ogni pagina. Gli Eredi sono ragazzi sacrificati al dio denaro, costretti a perpetuare un patto mai scelto, in una catena in grado di annientare ogni differenza e pensiero critico. Burattini scintillanti mossi da famiglie e istituzioni che temono il crollo del sistema più di qualsiasi scandalo.
“Come uccidono gli eredi” più che un romanzo di consumo è un pericoloso viaggio nei salotti dorati di New York, dove il lusso non è altro che una maschera. È il racconto di come quell’élite riesca a proteggere se stessa con spietata ferocia, fino a spingersi oltre il limite. Ed è soprattutto la storia di ciò che si è disposti a sacrificare: la verità, la coscienza e perfino la vita, pur di non scivolare fuori dalla piramide sociale.
Un romanzo incalzante, che parte in sordina ma accelera fino a un travolgente finale, dove i colpi di scena si susseguono senza tregua.
Jessica Goodman dimostra ancora una volta di saper trasformare un contesto scintillante in una intrigante trappola narrativa: perché in fondo, in quel mondo ovattato e crudele, il vero pericolo non è scoprire che ci sia un assassino, ma domandarsi quanti altri terribili segreti siano ancora sepolti sotto i tappeti dell’élite. Traduzione a cura di Emanuela Foglia.

Jessica Goodman è una caporedattrice di Cosmopolitan. Loro volevano essere noi è il suo debutto come autrice, seguito da They’ll Never Catch Us – Non ci prenderanno, ora pubblicato nella stessa collana. Dal suo romanzo d’esordio, HBO Max sta adattando una serie tv che vedrà protagoniste Sydney Sweeney, star di Euphoria, e la cantautrice Halsey al suo primo lavoro come attrice. Come uccidono gli Eredi è il suo nuovo thriller young adult a essere pubblicato nella stessa collana.

“Diario spirituale segreto” di Don Giuseppe Tomaselli con prefazione e postfazione di Giuseppe Portale (Edizioni Segno) a cura di Daniela Distefano

2 ottobre 2025 by

Non so perché si guarda la tv oggi in Italia. Cosa si può bere nell’anima di quegli intrugli propinati per divertimenti, lazzi, svaghi. Non la guardo da 20 anni anche se mi tengo aggiornata con i quotidiani online, e qualche volta passo davanti al televisore acceso mentre c’è il telegiornale. E’ una pozzanghera che imbratta l’anima, lo spirito. Guerre, corruzione, malasanità, omicidi, terrorismo, femminicidi, violenze sessuali.. potrei andare avanti…. all’infinito… e poi arriva la parte finale del notiziario, la peggiore. Si vorrebbe concludere la carrellata di notizie con note piacevoli e invece arriva ogni giorno “la pugnalata al cristiano”, come la chiamo io: concerti oceanici con raduni al limite dell’idolatria; nozze gay di vip; sfilata di moda con modelle e modelli anoressici o bulimici, o bulimici-anoressici…… Star del cinema con figli fecondati in vitro e senza l’altro genitore. Coppie di omosessuali che vorrebbero adottare un bambino o che fosse fatto per loro su misura. Anche qui si va all’infinito dello sprofondare… per un cristiano. Infine c’è la pubblicità, e senza accorgene siamo risucchiati nel vortice dei peccati olfattivi, gustativi, visivi e degeneriamo desiderando quello che oggi nel nostro Paese possono permetterselo in pochi.

Faccio questo lungo preambolo alla mia recensione su Don padre Tomaselli perché ora più che mai sarebbe opportuno far conoscere alle nuove generazioni sacerdoti che sono davvero santi e non lontano toppo dai nostri tempi. Il Bene esiste, cari ragazzi. Leggete i libretti di Don Tomaselli, amate Gesù e la Santa Vergine Maria con lo stesso ardore suo, come lo ha amato questo siciliano anomalo, che parlava con la testa bassa, non guardava fisso negli occhi, aveva un concetto della purezza che è obbligatorio recuperare perché ormai siamo diventati come Sodoma e Gomorra e il dramma è che non ce ne curiamo più.

Don Giuseppe Tomaselli era nato a Biancavilla, in provincia di Catania, il 26 gennaio 1902, da una famiglia umile di robusta morale e dal profondo spirito cristiano. Scrive, infatti, nel suo Diario, che San Padre Pio, suo “Protettore particolare”, gli aveva assicurato che egli era: “Stato senza l’amicizia di Dio solo tre giorni, prima di ricevere il Battesimo”. Finite le scuole elementari, maturò in lui il desiderio di farsi sacedote. Frequentò per questo, sino alla quarta ginnasiale, le scuole nel Piccolo Seminario Arcivescovile del suo stesso paese natìo. Seguendo la luce di Don Bosco, l’8 luglio 1928, a 26 anni, fu consacrato sacerdote. Per tanti anni egli venne a contatto con la povera gente e con ragazzi borderline. Dal 1960 fino al giorno della sua morte, avvenuta nella notte tra l’8 ed il 9 maggio 1989, egli operò a Messina. Don Tomaselli non si concedeva riposo, svago o vacanze. La stessa domenica era per lui la giornata più faticosa, dedicata a conferenze religiose e alla diffusione della buona stampa. Partiva al mattino presto, dopo aver celebrato la messa, e tornava spesso a notte inoltrata: e questo anche quando era già ultra ottantenne. Ogni giorno poi, prima di andare a letto, andava in cappella, passava da Gesù Sacramentato e si fermava intere ore lì davanti, deponendo nel Cuore di Gesù tutte le pene che aveva ascoltato durante la giornata stando a contatto con le varie mierie umane. L’Eucaristia, infatti, fu sempre il fulcro della sua esistenza,  l’alimento della sua vita e l’anima del suo apostolato. Don Tomaselli viveva continuamente immerso in intima unione con Dio: “Non lascio passare un solo quarto d’ora senza che io elevi espressamente la mia mente a Lui”.

Il venerdì, poi, era un giorno speciale. La sua Messa, come quella di San Padre Pio a cui egli era particolarmente legato, era una vera e propria celebrazione del Signore morto e risorto per la salvezza dell’intera umanità. Le sue prediche coniugavano precisione di dottrina e semplicità evangelica, unita a zelo apostolico instancabile, e all’Amore di Dio che scendeva nei cuori e li orientava al Signore di ogni illuminazione e di ogni consolazione. Basti pensare che per poterlo ascoltare, tante persone venivano anche da molto lontano. Nel pomeriggio, vi era sempre la conferenza e l’incontro personale con le anime, anche religiose e sacerdotali, che si protraeva sino a tarda sera. Padre Tomaselli ha consacrato ogni palpito del suo cuore alla dilatazione del Regno di Dio.  Il segreto di tanta inesauribile e molteplice dedizione risiedeva in una profonda vita interiore, in un cammino di fervore e santità, fatto tenendo sempre ben in mente e nel cuore i tre amori bianchi di Don Bosco: l’amore a Gesù Eucaristico, alla Vergine Immacolata ed al Papa.

Raccontava spesso con piacere che, giovane chierico nella Casa Salesiana di Caltagirone, una volta cadde da una considerevole altezza e che la Vergine Santa, da lui prontamente invocata, lo liberò dalla morte.

Ebbe il ministero della Parola e quello della buona stampa. E sull’esempio di Don Bosco, egli consacrò tutta la propria vita a scrivere e a diffondere i suoi libretti religiosi, tutti studiati intelligentemente e scritti con stile semplice e comunicativo. Sono agili, avvincenti, appetitosi. Scrisse il primo libretto su santa Teresa di Lisieux , poi scrisse il secondo e così via.. per giungere a più di cento pubblicazioni. In lui vi era un’anima mistica, perciò la sua penna era spesso “rovente” e, talvolta, “tagliente”, con un linguaggio evangelico. Era innamorato di Dio, dell’Eucaristia, della Vergine Maria e della anime. Furono tratti peculiari della sua ascesi spirituale: la purezza e la poverà. “La purezza è il campo di battaglia di tutti” – soleva dire.  “Gesù e Padre Pio, mio Protettore particolare datomi da Dio, assicurano che mai ho commesso un peccato mortale”. La virtù della purezza, per la cui conquista per lungo tempo aveva portato il cilicio, si manifestava nel tratto delicato, in quel suo parlare e camminare con gli occhi bassi. Al suo santo patrono egli dedicò un libretto dal titolo: “La Verginità di san Giuseppe”. La sua povertà fu poi esemplare, eroica. Il suo più grande desiderio: farsi “tutto a tutti – come San Paolo – per guadagnare tutti a Cristo”. Per questo accettava, anzi cercava con l’uso del cilicio, sofferenze di ogni tipo, fisiche e morali, che lo accompagnassero per tutta la vita, anche se nulla traspariva dal suo volto sempre sereno e sorridente. Ecco pertanto cosa si legge nel suo Diario: “Per grazia di Dio, provo grande gioia e soddisfazione allorché prego per coloro che mi fanno soffrire. Penso che la preghiera per coloro che mi fanno soffire  è di gradimento a Gesù e come Gesù ha perdonato e perdona le mie miserie, così anch’io devo perdonare generosamente e pregare. Mi ricordo una battuta che può sembrare strana. Un amico diceva:

-Lei prega per me?

-A dire il vero, non prego mai espressamente per lei!

– E perché?

– Perché lei non mi dà mai un dispiacere. Prego molto, moltissimo per quelli che mi fanno soffrire, più mancano verso di me e più prego per loro”.

Fu bersaglio del demonio. La gente gli portava ammalati vittime del demonio, e lui con pazienza, forza, pietà e coraggio esercitava la sua esemplare missione di esorcista e sacerdote santo. La morte arrivò per lui a 87 anni.

Il giorno del suo 60esimo anno di sacerdozio, il Signore disse:“Ti faccio oggi gli auguri e così ti do le trentamila anime che in questi mesi mi hai chiesto e per le quali hai lavorato con l’apostolato, con sacrifici, con le preghiere e le Sante Messe applicate, ed il tutto per i meriti dei miei trentatrè anni che passai sulla terra”.