Archive for the ‘Dal libro al cinema’ Category

:: Dal libro al cinema: La Marie del porto di Georges Simenon a cura di Giulietta Iannone

29 ottobre 2022

“Acqua cheta scardina i ponti” è un detto popolare che ben definisce il personaggio enigmatico e sfuggente di Marie, protagonista del romanzo La Marie del porto di Georges Simenon, romanzo del 1938, che nel 1950 Marcel Carnè trasformò in un’opera cinematografica con al centro una star di prima grandezza come Jean Gabin (bisognerà aspettare il 1958 per vederlo nella sua prima interpretazione di Maigret ne “Maigret tend un piege” di Jean Dellanoy) e una giovanissima (e forse troppo bella) Nicol Courcel, forse al primo impegno importante, nel ruolo di Marie. Del cast facevano anche parte Blanchette Brunoy, Claude Romain, Louis Seigner, René Blancard, Charles Mahieu, Robert Vattier, Louise Fouquet, e Olivier Hussenot più comparse assortite che animavano il piccolo villaggio portuale (Port-en-Bessin) dove vive Marie e la cittadina più grande a pochi chilometri di Cherbourg. Avendo da poco letto il libro e visto in francese su Youtube il film (libero da diritti) ho colto l’occasione per parlarne nella mia rubrica Dal libro al cinema. Premesso che il mio francese non è così buono, e che dunque qualcosa forse ho perso dei dialoghi, tuttavia le immagini sono così espressive, che mi hanno concesso di fare le mie valutazioni. Innanzitutto è un film in bianco e nero, uscito in Italia con il titolo La vergine scaltra, Gabin ruba la scena e prima che ve lo chiediate aveva superato il visto della censura, Marie ha 18 anni, è maggiorenne, (sebbene ne dimostri meno) e sebbene il lui della storia, almeno nel film, (nel libro ha poco più che trent’anni), sia di mezza età e quindi la differenza di età alla sensibilità moderna possa fare un po’ storcere il naso, è una storia che può rientrare nei canoni del lecito.

Insomma Marie non è una bambina, e non ne ha la psicologia, è una giovane donna piuttosto scaltra se vogliamo, consapevole delle sue scelte, emancipata, e tipicamente francese oltre che proveniente da una classe sociale (è la figlia di un pescatore della zona) che sebbene goda di una certa agiatezza (ha una casa, una barca di proprietà etc…) conosce il significato della fatica, e del lavoro. Rimasta orfana ha due strade: finire sul marciapiede, o trovarsi un lavoro, sceglie di farsi assumere come cameriera nell’unico Caffè del porto. Nè Simenon né Carnè si fanno illusioni, questa è la realtà, la vita è un gioco duro sia nella Francia del 1938 che in quella del 1950 (la prostituta “sfortunata” seduta al tavolo del locale di Chatelard a cui offre dei soldi è un buon memento). Premesso che bisognerebbe scrivere un saggio per questo film comparato al libro e questo breve mio testo non ha nessuna pretesa di essere esaustivo, devo dire che anche se diverso per alcune sfumature (Marie si reca nel film a Cherbourg, nella tana di Henri Chatelard, perchè preoccupata per Marcel e non per la trappola, come nel libro, un po’ “vigliaccamente” ordita da Chatelard, con la complicità di Odile) anche il film è un piccolo capolavoro della svolta naturalista di Carnè. Il tono del film è più leggero che nel libro, Marie è più bella della ragazzina smunta e pallida descritta da Simenon, Odile nel film ha il bellissimo sorriso e l’eleganza di Blanchette Brunoy, ed è meno “oca” dell’ Odile simenoniana, insomma a volerci vedere differenze ce ne sono, e sostanziali, anche se lo spirito del libro è stato rispettato. L’uomo di affari (a Cherbourg ha un’elegante brasserie, e un cinema che gli rendono sicuramente bene) un po’ sbruffone e la povera cameriera di un caffè del porto insomma non potrebbero essere più diversi.

Nulla li lega, lui conosce le regole del mondo e le adatta ai suoi comodi, ha un’amante, sorride a ogni donna che si trova sulla sua strada, ha un’attività legale ma insomma permette alle prostitute di adescare clienti nel suo locale, insomma il clima di corruzione e disonestà poteva essere reso più sordidamente ma un po’ sfumato c’è. Chatelard per quanto simpatico non è uno stinco di santo, almeno per la morale dell’epoca, ma ha un cuore, come quando investe Marcel e lo porta da lui e lo fa visitare da un medico o dà i soldi alla prostituta che non riesce ad adescare nessuno, o già nella scena iniziale accompagna anche solo Odile al funerale del padre, o porta a Odile la colazione a letto (molto joyciana come scena) e soprattutto non usa la violenza per costringere Marie a subire le sue avance (nella scena clou del romanzo, come del film) e a sottomettersi al suo capriccio, capriccio che per lui non è, se ne accorge quando credendola in pericolo corre dietro alla corriera. Lei è modesta, povera, una cameriera senza futuro, fidanzata a Marcel, un giovane garzone di un barbiere che indubbiamente non ama, tutta la parte del tribunale per l’emancipazione è stata saltata, e dell’importanza data ai fratellini non se ne fa cenno, vanno via coi parenti senza drammi, ma nonostante questo è indipendente, si mantiene da sé, porta una piccola croce al collo, è una ragazza seria, di una purezza antica, che non è tentata di seguire le orme della sorella sognando Parigi, sorride poco, e solo quando pensa o vede Chatelard. Più che fare la sostenuta per calcolo mantiene la sua individualità senza compromessi. E la sua scaltrezza sta, pur anche nella sua giovane età, nel capire il fondo di bontà che c’è in Chatelard, molto migliore da come appare. Marie è un bel personaggio, forse il migliore personaggio femminile di Simenon, che Carnè valorizza in un film decisamente solare e luminoso ricco di pathos, e dolcezza. Ai dialoghi partecipò (non accreditato) Jacques Prévert.

:: White Noise diventerà un film

15 gennaio 2021

Quando chiesi a Luigi Bernardi se mi consigliava di leggere Rumore Bianco di Don DeLillo mi disse sì, assolutamente, anzi si stupì che non l’avessi già letto. Così comprai l’edizione Einaudi tradotta da Mario Biondi e mi innamorai di quel libro, a prima vista si potrebbe dire. La notizia che il regista newyorkese Noah Baumbach lo adatterà per Netflix, con protagonisti Greta Gerwig (Babette) e Adam Driver (Jack Gladney) sulle prime mi ha incuriosito molto. Poi ho letto delle polemiche sul fatto che sia o meno un film filmabile e ho sorriso pensando alla faccia che avrebbe fatto Bernardi. Okey, Baumbach non ha mai tratto un film da un libro, e Rumore Bianco è un capolavoro proprio soprattutto per la scrittura molto entusiasta. Ma sì, penso in tutta onestà se ne possa fare un film, tutto è filmabile, se si ha un progetto in mente. Netflix sicuramente provvederà ai mezzi necessari per la realizzazione e noi spettatori non dovremo far altro che sederci in poltrona e guardare lo spettacolo. Le riprese inizieranno il prossimo giugno, la notizia sembra confermata, per cui polemiche o meno il film si farà. Vedremo chi scriverà la sceneggiatura, e se DeLillo sarà coinvolto, sempre che ne abbia voglia. Si sa scrivere una sceneggiatura è diverso che scrivere un romanzo, ma di precedenti illustri di grandi scrittori anche ottimi sceneggiatori ce ne sono, per cui stiamo a vedere.

:: Dal libro al cinema: Il Commissario Ricciardi serie tv diretta da Alessandro D’Alatri a cura di Giulietta Iannone

3 gennaio 2021

Una bella notizia per tutti i fan del Commissario Luigi Ricciardi, personaggio letterario nato dalla penna di Maurizio de Giovanni: il 25 gennaio uscirà in prima visione su RAI Uno il primo di 6 episodi dedicati alle indagini del celebre commissario dagli occhi verdi nella Napoli degli anni ’30. Disponibile su RaiPlay.

Un successo annunciato, una conferma per chi ha già amato la serie letteraria, un mezzo per avvicinare anche i pochi che ancora non la conoscono. Tutti, insomma siamo curiosi di vedere i personaggi prendere vita.

Ricciardi avrà il volto di Lino Guanciale, Enrica sarà interpretata da Maria Vera Ratti, Maione da Antonio Milo, la tata Rosa da Nunzia Schiano, il dottor Modo da Enrico Ianniello, Bambinella da Adriano Falivene. Gli episodi saranno: Il senso del dolore (1 ep.), La condanna del sangue (2 ep.), Il posto di ognuno (3 ep.), Il giorno dei morti (4 ep.), Vipera (5 ep.) e In fondo al mio cuore (6 ep.).

Ora tocca solo avere ancora un po’ di pazienza e vedere cosa sono riusciti a fare, ma dalle foto di scena sembra già che abbiano fatto un ottimo lavoro. Buona visione!

:: Dal libro al cinema: Il medico di corte di Per Olov Enquist a cura di Giulietta Iannone

18 febbraio 2020

Il medico di corteEra alquanto difficoltoso trasformare un romanzo celebrale come Il medico di corte di Per Olov Enquist in un film.
Un romanzo di idee (e di sentimenti), forse più ancora che di personaggi, capace di evocare profonde emozioni nel lettore, rattristato per il terribile destino del re danese Cristiano VII (è una storia vera perlopiù ricavata da fonti e documenti storici, e sicuramente realistica da un punto di vista psicologico in cui gioca molto l’interiorità dell’autore, Per Olov Enquist, che mette molto di sè), e per l’atroce fine del vero protagonista del romanzo, il medico d’Altona Johann Friedrich Struensee, decapitato e letteralmente squartato sulla pubblica piazza per ragioni che approfondiremo nel proseguo della mia analisi.
Insomma si potevano scegliere due strade antitetiche per certi versi: farne un grande e sontuoso affresco storico con maniacale attenzione per musiche, costumi, ambienti, di viscontiana memoria, o scegliere un approccio più intimistico e rarefatto, capace di evocare sensazioni più che di narrare fatti, accadimenti, circostanze.
Royal Affair (En kongelig affære) del regista danese Nikolaj Arcel sceglie un approccio ibrido, puntando molto sul carisma e sulla bravura degli attori, in primis Mikkel Boe Følsgaard, al suo debutto sul grande schermo, capace di rendere umanissimo e simpatico un personaggio scomodo che solo troppo approssimativamente si potrebbe bollare e stigmatizzare come “pazzo”; Trine Dyrholm l’algida Regina Madre Giuliana Maria; Mads Mikkelsen credibile nei panni di Johann Friedrich Struensee appassionato innovatore della società danese, ateo e illuminista, e innamorato della giovane regina Carolina Matilde di Hannover, sottovalutata da tutti forse per il suo aspetto poco appariscente (nella realtà) ma in definitiva una donna dalla tempra d’acciaio, interpretata da una brava Alicia Vikander, forse troppo bella per il ruolo ma capace di dare una certa durezza e un velato distacco al personaggio di per sé luminoso e protofemminista.
Insomma un film riuscito, a me è piaciuto molto e mi ha spinto a leggere il libro da cui è stato tratto. Insomma per una volta il cinema aiuta la letteratura e non la saccheggia, come alcuni ritengono a torto.
Film e libro, a parte superficiali discrepanze (faccio un esempio: nel romanzo la scena del contadino torturato sul cavalletto vede protagonista Struensee e il re Cristiano VII, nel libro invece c’è sempre Struensee ma invece del re la regina Carolina Matilde) mantengono lo stesso spirito e lo stesso ideale di fondo.
Certo il libro permette un maggiore approfondimento di alcune tematiche che nel film sono solo accennate, importante su tutte credo la contrapposizione tra le luminose verità Illuministe (trionfo delle libertà individuali, della giustizia sociale e dell’equità) e l’oscurantismo del pietismo religioso di stampo protestante erede di un’ epoca buia e antiprogressista in cui vigeva la tortura più brutale e le disumane condizioni di servitù dei contadini.
La “Rivoluzione Illuminista Danese” del 1768-1772 o meglio detta l’era di Struensee, che anticipa di qualche decennio la più cruenta Rivoluzione Francese, poi è sicuramente un periodo poco noto all’esterno dei confini della Danimarca, e merito di questo romanzo, e del successivo film, è sicuramente stato quello di farlo conoscere all’opinione pubblica contemporanea.
Paradossale che lo stesso Per Olov Enquist descriva il suo romanzo come una semplice storia d’amore (le venature erotiche e sensuali sono sicuramente più marcate nel romanzo) ma sicuramente questa unica dimensione è riduttiva: è un romanzo che contiene una forte carica morale e una severa critica dei sistemi educativi coercitivi (il povero Cristiano è un esempio dei danni devastanti che ciò provoca), è un inno alla libertà religiosa, sentimentale, etica, è un inno alla solidarietà umana e alla forza necessaria per difendere i propri ideali anche quando il proprio sforzo non è riconosciuto (dai contemporanei perlomeno).
L’ingenuità di Johann Friedrich Struensee, così alieno al grande gioco politico delle alleanze e della “scelta” dei nemici, ne fa certo un personaggio tragico, (seppure incredibilmente moderno, fu uno dei primi per esempio a usare il dentifricio, particolare minimo ma vi dà un idea di quanto fosse estraneo nel suo tempo) sconfitto dalla storia, un vinto se vogliamo che esce di scena nel più barbaro dei modi, pur tuttavia la sua impazienza (quasi avesse saputo del poco tempo che aveva a disposizione) nello sfornare decreti che rivoluzionarono nel concreto l’immobile società danese del tempo, dalla libertà di stampa, al vaccino contro il vaiolo per tutti, agli aiuti per i figli illegittimi, gettano un germe di cambiamento, rendono reale l’utopia e il desiderio di cambiare (in meglio) il mondo. Traduzione di Carmen Giorgetti Cima.

Per Olov Enquist nato nel Nord della Svezia nel 1934, è una delle grandi “coscienze critiche” della società scandinava. Al gusto per l’indagine storica e al desiderio di essere testimone del proprio tempo, aggiunge una capacità di scrittura che gli ha fruttato premi e riconoscimenti in tutto il mondo. Il libro delle parabole è il suo ultimo romanzo pubblicato da Iperborea, dopo il successo de Il medico di Corte (Premio Super Flaiano e Premio Mondello) e de Il libro di Blanche e Marie (Premio Napoli 2007).

Source: libro inviato dall’editore al recensore. Ringraziamo Francesca dell’ufficio stampa Iperborea.

Leggere o rileggere Queste oscure materie di Philip Pullman a cura di Elena Romanello

19 gennaio 2020

philip-pullman-la-bussola-doro-9788831002929-2-300x444È considerata una delle serie più interessanti e migliori di questo inizio 2020: Queste oscure materie, in originale His dark materials, in onda ogni giovedì su Sky, prodotta dalla BBC e realizzata negli stessi studios di Belfast diventati famosi grazie a Game of Thrones ha già trovato un vasto seguito di appassionati e appassionate, non solo i giovanissimi a cui in teoria si rivolgerebbe.
Come è ormai prassi abbastanza comune di molti serial, Queste oscure materie è ispirata ad un romanzo, anzi al primo libro di una trilogia, di Philip Pullman, che qualche anno fa aveva dato vita anche al non fortunato ma interessante film La bussola d’oro, e per l’occasione Salani propone una nuova edizione, con in copertina un fotogramma della serie televisiva, con la protagonista Lyra e il suo daemon, un animale che incarna l’anima e che nel suo mondo viaggia accanto ad ogni essere umano.
La serie è senz’altro molto bella, a cominciare dai titoli di testa, tra i più belli degli ultimi anni, ma il libro non è da meno, e l’occasione è senz’altro buona per leggerlo o rileggerlo e scoprire un mondo fantastico in cui si riflette sul nostro e sulle sue contraddizioni.
Infatti la storia ci porta al Jordan College di Oxford, in un’Inghilterra alternativa, dove vive Lyra, in un mondo dove oltre l’oceano esiste la Nuova Francia, dove giganteschi orsi corazzati regnano sull’Artico e ogni essere umano ha appunto il suo daimon: una parte di sé di sesso opposto al proprio, grazie al quale nessuno deve temere la solitudine.
Ma questo mondo sta attraversando un periodo di grave crisi: nella luce misteriosa dell’Aurora Boreale cade una Polvere di provenienza ignota, dalle proprietà oscure, che sta sconvolgendo scienziati, autorità e prelati religiosi, perché può davvero mettere in discussione credenze radicate da secoli.
Lyra, a soli undici anni, si trova al centro degli intrighi e, quando intuisce segreti pericolosi e inquietanti, decide di andare alla ricerca della verità grazie anche all’aiuto di una bussola d’oro, non sapendo cosa questo le costerà.
Queste oscure materie è un classico dei nostri tempi, un libro per tutte le età, tra invenzioni, fantasia, fantasy, dramma, epica,. In molti hanno definito questa trilogia, che ha più livelli di lettura, un’allegoria della condizione umana, capace di suscitare interrogativi fondamentali sul senso di ogni cosa e di ogni mondo.

:: Dal libro al cinema: Il Grande Sonno di Raymond Chandler a cura di Giulietta Iannone

26 novembre 2018

grande sonnoQuesto articolo uscì per la prima volta su Il Giorno degli Zombi come guest post, e la mia amica Lucia, che è un tesoro, mi ha dato il permesso di postarlo anche sul mio blog. Buona lettura!

It was about eleven o’clock in the morning, mid October, with the sun not shining and a look of hard wet rain in the clearness of the foothills. I was wearing my powder-blue suit, with dark blue shirt, tie and display handkerchief, black brogues, black wool socks with dark little clocks on them. I was neat, clean, shaved and sober, and I didn’t care who knew it. I was everything the well-dressed private detective ought to be. I was calling on four million dollars.

Erano quasi le undici di una mattina di mezzo ottobre, senza sole e con una minaccia di pioggia torrenziale nell’ aria troppo tersa sopra le colline. Portavo un completo azzurro polvere, con cravatta e fazzolettino blu scuro, scarpe nere e calze nere di lana, con un disegno a orologi blu scuro. Ero ordinato, pulito, ben raso e sobrio, e non me ne importava che la gente se ne accorgesse. Sembravo il figurino dell’ investigatore privato elegante. Andavo a far visita a un milione di dollari.

Parto dall’assunto che tutti abbiate letto o visto al cinema (forse più corretto dire in tv o dvd) Il grande sonno. Mi è estremamente difficile pensare che ci sia qualcuno che non l’abbia fatto e possa dirsi amante del cinema e della letteratura (non solo hardboiled). Raymond Chandler è un maestro indiscusso, assieme a Hammet ha contribuito a dettare i canoni del genere, le sfumature dello stile, i temi, la stilizzazione dei personaggi, l’ambiente, l’atmosfera, sin dai tempi in cui scriveva racconti per Black Mask con un nutrito manipolo di autori pulp, alcuni dei quali ormai colpevolmente dimenticati.
Ciò che mi accingo a fare è un azzardo, ne sono consapevole. Dire cose nuove su Il grande sonno (libro o film) è praticamente impossibile, si rischia di ribadire l’ovvio, di dire cose trite e risapute. Di scarso interesse per chiunque abbia anche solo una minima cultura cinematografica e letteraria.
Cosa mi spinge allora a imbastire questo articolo? Il grande (forse folle) amore che ho per Chandler, per Philip Marlowe, e per Humphrey Bogart (a mio avviso il miglior Marlowe di sempre).
Ci sono due approcci che potrei utilizzare: uno più documentaristico, se vogliamo nozionistico, darvi informazioni minuziose su autore, film, libro e periodo; uno più sentimentale, parlarvi di cosa ho amato di più, di cosa mi ha divertito o sorpreso.
Essendo ospite di Lucia, non essendo a casa mia, cercherò di stare in bilico tra i due estremi, sempre premettendo che come critica cinematografica non sono un granché, ma mi intendo di scrittura, anche cinematografica, amo leggere e studiare anche le sceneggiature (secondo me una nobilissima forma letteraria che andrebbe studiata come la narrativa). Quindi spero che l’articolo sia di interesse anche per gli specialisti, per coloro che hanno studiato questo film in parallelo al libro.

Dunque lettori dò per scontato che conosciate la trama, anche se qualche buco narrativo non manca, tipo chi ha ucciso l’autista di Sternwood: narra Craig Brown, editorialista del Daily Mail e di Vanity Fair, di quando durante le riprese de Il Grande sonno a film quasi ultimato Bogart e Howard Hawks furono intenti a discutere piuttosto animatamente su come fosse morto Owen Taylor, l’autista inabissato nella limousine di casa Sternwood. Humphrey Bogart propendeva per il suicidio, forse non potendone più. Hawks non convinto alla fine si decise e mandò un telegramma a Chandler (sarà rimproverato per quei 70 cent), e lui candido e serafico rispose che non ne aveva la più pallida idea o forse l’aveva dimenticato tra una sbronza e l’altra.
Il film di Hawks soffre dal punto di vista della consequenzialità della trama e della comprensione da parte dello spettatore, che fatica in effetti a collegare alcuni punti nodali, a causa di alcuni tagli della versione originale girata nel 1945, funzionali a rendere la lunghezza della pellicola gestibile dopo l’aggiunta di altre scene più leggere (i dialoghi buffi e i battibecchi tra Bogart e Bacall) che, secondo le intenzioni dei dirigenti, avrebbero divertito il pubblico.
Sta di fatto che, per molti versi, la trama (perlomeno del film) risulta incomprensibile. Sarebbe interessante sapere se si può risalire alle scene tagliate per un eventuale rimontaggio, ma per questo mi devo rimettere a Lucia.

La bellezza di questa storia non sta in una somma di perfezioni, ma proprio nel suo contrario. È un equilibrio di stridenti contrasti dove ambientazione, atmosfera e personaggi (e pungente ironia) prevalgono sul plot e sull’epilogo, e sulla logica classica del chi ha ucciso chi.
Neanche a Chandler questi temi interessavano più di tanto. Più la trama è complicata, più il lettore, come i personaggi, si perde in un labirinto, più la complessità del reale è bene espressa e rispecchia la vita, la vita vera dell’uomo comune, non solo dei villain che popolano lo squallido sottobosco criminale dell’epoca.
Partiamo dal titolo: Il grande sonno, the Big Sleep, nel gergo della mala è la morte. Il sonno da cui non c’è risveglio. Il sonno che azzera tutto, sogni, pensieri, aspirazioni, colpe, vizi. L’argine e il baricentro di questa storia nera e senza redenzione che vede solo nel protagonista un certo punto di equilibrio, una dimensione etica e morale, che non conforta, ma dà spazio a una sorta di respiro universale in cui rettitudine e disincanto, hanno una forma, una dimensione. Una dignità.
Se Philip Marlowe è immerso nel pantano della Los Angeles degli anni ‘30 tra contrabbandieri, biscazzieri, cialtroni di varia caratura, ricattatori, assassini senza coscienza e figlie viziate di miliardari prossimi alla morte, questo non toglie che una sorta di purezza emani da lui, un’aura, un’autenticità, una rettitudine che maschera con sferzanti battute ironiche di un’amarezza accecante e struggente.
Il tema della morte è ricorrente e si respira sin dall’odore di decomposizione già presente nella serra dove il generale Sternwood accoglie Marlowe, una sorta di antro infernale, (la camicia e il volto sudato di Bogart ben rappresentano questo disagio, perlomeno fisico) fino al letto di morte (dettaglio presente nel romanzo) in cui il vecchio attende con le mani esangui intrecciate al lenzuolo.

Philp Marlowe è un uomo comune, normale, squattrinato, alle prese con il male, di una società, di un mondo che non comprende e disprezza. La corruzione, la bassezza, l’avidità che percepisce, (e nel film come nel libro è tutto giocato nei dialoghi di una profondità psicologica e precisione devastanti), lo lambiscono senza entragli dentro, lui resta sempre una spanna sopra questo stagno di vizi e turpitudini. La violenza non fa parte del suo DNA, la conooce, la utilizza accidentalmente (uccide anche, se è il caso) ma lui è altro, è altrove, è l’eroe medioevale, cinico e disincantato, ma pur sempre in armatura e cavallo bianco, seppure dalla realtà venga rappresentato come un alcolizzato fallito.
Philip Marlowe resta un punto fermo, il solo vivo tra una palude di morti, e proprio per questo noi lo amiamo e tifiamo per lui. Dall’ inizio alla fine della storia. Senza ripensamenti. E vogliamo che la sua storia con Vivian sia a lieto fine, vogliamo dargli un premio per la sua rettitudine non sopraffatta da un mondo marcio e decadente. Anche se sappiamo che il lieto fine (almeno nel libro) non fa parte del pacchetto, che ad attenderlo c’è solo nuova solitudine o al massimo un paio di doppi whiskey bevuti in qualche scalcinato bar dai vetri rigati di pioggia. E forse a fargli compagnia il rimpianto e la malinconia della mancanza e di qualcosa che non è stato.

Il Grande Sonno, a cui seguì Addio mia amata, uscì in America nel 1939 per Alfred A. Knopf, ed è il romanzo con cui Chandler debuttò, con cui per la prima volta ufficialmente entrò nel panorama letterario Philip Marlowe (a dire il vero già apparso nei suoi racconti perlomeno in abbozzo), a far da spartiacque tra un prima e un dopo. Dopo Marlowe nulla fu più come prima, sebbene nacque più come una trovata stilistica che come personaggio autonomo, come lo stesso autore spiegò in un’ intervista a Irving Wallace del 1945.
Il Grande Sonno fu scritto nel 1938, alle soglie di una guerra che avrebbe devastato il mondo. Chandler saccheggiò letteralmente due suoi racconti lunghi già editi, Killer in the Rain (Black Mask, 1935) e The Curtain (Black Mask, 1936), oltre a tracce di Finger Man e creò il suo capolavoro. Come fece? Solo lui lo sa. Ciò non toglie che sapere come operò tecnicamente non sminuisce di una virgola il valore dell’opera.
Chandler fu un romantico, la sua prosa è lirica e letteraria, al servizio di storie dure e crude, decadenti se vogliamo, vivificate da un umorismo al vetriolo, che in parte fu stemperato nelle versioni cinematografiche più attente ai canoni che imponeva la rigida morale dell’epoca.  Chandler picchiava sotto la cintura: la sua analisi della società californiana, della ricchezza e del potere criminale è lucida e spietata, forse troppo per i suoi tempi e ancora attuale oggi.
Chandler era sicuramente un moralista, anche se non un moralizzatore, e questo non disturba perché si sente puzza di autenticità e di etica, l’etica di un ex oil executive caduto in disgrazia per il suo alcolismo, che si guadagnava da vivere scrivendo racconti per le riviste pulp, quelle che si trovavano nelle rastrelliere semi arrugginite dei drugstore o delle stazioni di servizio perse nel cuore della polverosa America degli anni ‘30. Scritte su carta da pochi cent, usa e getta si potrebbe dire oggi. E intanto leggeva i classici e studiava latino e greco.

Il Grande Sonno rappresenta la fine di un sogno, del sogno americano (c’è mai davvero stato?) trattato da tanta letteratura alta, tutto tramite gli archetipi e i canoni del romanzo poliziesco nero, dell’hardboiled più irregolare e di grana grossa. Che di fatto divenne vera letteratura, con piena dignità e diritto di esistere anche oggi assieme ai classici.
Il film diretto da Howard Hawks uscì nel 1946, poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale (Ci sarà anche un remake del 1978, dal titolo italiano Marlowe indaga, con Robert Mitchum, e la particolarità di spostare l’ambientazione da Los Angeles all’Inghilterra degli anni ’70); vede al centro due star di prima grandezza, Humphrey Bogart e Lauren Bacall, la cui alchimia e tensione è esplosiva sotto uno smalto di algida freddezza e regalità. L’effetto è sconcertante e straniante. E se vogliamo il segreto della bellezza e unicità di questo film iconico.
Faulkner scrisse la sceneggiatura assieme a Leigh Brackett, e Jules Furthman, ma i dialoghi fulminanti sono di Faulkner e rispecchiano ed echeggiano perfettamente quelli di Chandler (nella scarna semplicità di una sceneggiatura), e la cosa è singolare, dato che non potrebbero esistere due scrittori più diversi.
Nessun tempo morto, battute veloci come fuochi d’artificio, ironia, sarcasmo, giocati con eleganza e spregiudicatezza.
Uno scontro di ingegni tra Faulkner e Chandler, e di penne che è un piacere osservare in azione. Qui potete leggere la sceneggiatura originale.
Dialoghi e gioco di sguardi, tutto il film si gioca su questo, restando Marlowe /Bogart con il suo tranch spiegazzato al centro della scena seguito dalla macchina da presa a lui incollata. Pioggia, ombre, chiari scuri. E la sensualità felina di Lauren Bacall l’unica fonte di calore del film, ma anche Martha Vickers non scherza (e a essere sincera tutte le donne del film sono perfette: da Agnes, alle guardarobiere, alla moglie di Eddie Mars, più un cameo di Dorothy Malone, la libraia che scherza con Marlowe su edizioni rare e refusi). Un capolavoro, anzi due. Per una volta difficile decidere se sia meglio film o libro. Sono due opere d’arte distinte. Buona lettura e buona visione.

:: Dal libro al cinema: La ragazza nella nebbia di Donato Carrisi

2 novembre 2017

coverDunque vediamo, inizio col dire trasformare un bestseller letterario in un film, che poi sia di successo o no naturalmente lo decide il pubblico, e in un certo senso anche i critici, è un’ impresa che necessita di una certa dose di coraggio e di incoscienza. Linguaggio letterario e linguaggio cinematografico sono due tipi di linguaggio molto differenti si potrebbe dire speculari. La letteratura è un gioco di intelligenza, il cinema parla di sogni e visioni e tocca l’immaginario e l’inconscio.
Di norma, ma naturalmente non sempre, si parte dal libro, lo si trasforma in soggetto e in una sceneggiatura, si gira il film. Dunque necessitano uno scrittore, uno sceneggiatore, e un regista.
Semplice no?
Immaginatevi cosa può succedere quando scrittore, sceneggiatore e regista sono la stessa persona.
Di tutto, convenite?
E come ciliegina della torta immaginatevi lo scrittore sceneggiatore, esordiente assoluto come regista. E un gruppo di star nazionali e internazionali di prima grandezza da dirigere. E ci vuole esperienza, esperienza che un esordiente assoluto per quanto talentuoso non ha.
Immaginatevi questo e avrete un’ idea dell’azzardo compiuto da chi ha finanziato e voluto La ragazza nella nebbia film e libro di Donato Carrisi.
Dico subito che il film mi è piaciuto, ho trovato il Donato Carrisi regista interessante, anzi davvero bravo, anche considerando che per tutto il film non sapevo che era lui il regista. Credeteci o no è così che è andata. Non ho scelto io di vedere questo film, mi ha portato un’ amica.
Ora diciamo due parole sul libro. La ragazza nella nebbia uscì per Longanesi nel 2015. E’ il sesto romanzo di Donato Carrisi noto per grandi successi editoriali come Il suggeritore, Il tribunale delle anime, Il maestro delle ombre. Il romanzo è un classico thriller di ambientazione italiana, ispirato ad alcuni fatti di cronaca recente e all’effetto distorto provocato dall’ uso spregiudicato dei mass media. Comunità montana chiusa, segreti, bugie, il “mostro” probabilmente nascosto nella rassicurante normalità di un borgo dove tutti si conoscono. Il giornalismo cannibale pronto a far leva sugli istinti più bassi e malsani dell’opinione pubblica in nome dello share.
La ragazza nella nebbia film ha numerosi punti forti a partire dalla splendida ambientazione: un fiabesco Sud Tirolo nei dintorni di Bolzano e Bressanone. Interni e esterni. Montagne innevate, laghi, boschi, case di legno, camini che ardono. E le tv immancabilmente sempre accese, occhio indiscreto di una modernità quasi negata. (Pensate solo alla confraternita ultratradizionalista a cui appartengono i genitori della ragazzina scomparsa, o ai vestiti anni 70 di Alessio Boni, o all’uso di antiquate cassette VHS).
Un altro punto forte è un cast d’eccezione: Greta Scacchi (l’anziana giornalista paraplegica), Jean Reno (che recita eccezionalmente in italiano, uno spettacolo già di per sé), Alessio Boni (faccia intensa e tormentata e tanto teatro alle spalle) Toni Servillo (carismatico e istrionesco, figura di spicco del teatro e cinema napoletano) e le belle e brave Galatea Ranzi e Lucrezia Guidone.
E infine la storia giocata sul filo del dubbio, sulla lotta psicologica senza esclusione di colpi tra un poliziotto reduce da uno strano incidente (di chi è il sangue sulla sua camicia?) e uno strizzacervelli, filo conduttore di tutta la storia disseminata di flashback, fino alle scene finali con doppi colpi di scena carpiati.
Il film si regge sulla doppia interpretazione Servillo Reno, che apre il film, sull’ indagine di Servillo, e infine sull’ one man show dell’ insegnante Alessio Boni (i grandi scrittori copiano, e il male rende interessante le storie), il presunto innocente perseguitato da stampa e polizia. Giornalisti, avvocati e poliziotti non ne escono benissimo (la verità non interessa a nessuno, l’avvocato consiglia al suo assistito di non ricordarsi di essere innocente), e intingono di noir una sceneggiatura piuttosto funzionale alla storia seppure alcuni punti ancora restano per me oscuri, ma forse necessiterei di una seconda visione.
Che dire se vi piace il cinema italiano (di qualità) un buon film, Carrisi come regista più che promosso. Ora non mi resta che consigliarvi di leggere anche il libro.

:: Dal libro al cinema: Bentornato Pennywise! Esce oggi al cinema It dal romanzo di Stephen King

19 ottobre 2017

Penniwise

Pennywise (Bill Skarsgard) regge il filo del palloncino (Fonte MovieWeb)

Esce oggi nelle sale cinematografiche italiane IT, film tratto dal capolavoro omonimo di Stephen King. Un film che farà discutere, (già ha fatto discutere qui da noi prima dell’uscita) grande successo in America, apprezzato anche da King e pure da Tim Curry. Pennywise e il suo palloncino rosso ormai sono entrati nell’immaginario di generazioni di ragazzi ora adulti, che abbiano o no letto il libro, che abbiano o no visto la miniserie televisiva del 1990. It è un libro che ha una particolarità, fa paura, davvero paura. Non per scherzo. Trasporta le paure più profonde dell’ infanzia sulla pagina o su pellicola, in modo da terrorizzare davvero. It è un libro e ora film sulla paura, su come si genera, su come si propaga, e il bello, il bello davvero: come si combatte.

Ho amato il Pennywise di Tim Curry, e ora adoro questa sua nuova veste. Mi piacciono i costumi, la fotografia, i colori. Penso davvero sia un’ opera grandiosa. Gli occhi gialli di Pennywise fanno davvero paura, immaginateli visti all’improvviso di notte! Sono la quint’essenza del male. E tutti odiamo il male, ma in un certo senso anche ci affascina, ci ipnotizza. Ma bisogna combatterlo, e la ciurma  di ragazzini lo farà con ogni mezzo. A costo della vita.

Il regista Andy Muschietti in questo film si occupa dei “ragazzi”, girerà poi un secondo film nel 2019, sempre con Bill Skarsgard nel ruolo di Pennywise, dove i “perdenti” si ritrovano dopo 27 anni.

E voi? Andrete a vederlo? Quando l’avete fatto, soprattutto se siete fan di King, tornate a dirci cosa ne pensate. Ci conto. Ahahahahah! (Dovrebbe suonare come la risata finale di Pennywise).

Trama: Ottobre 1988, nella cittadina di Derry. Il piccolo Georgie esce di casa nella pioggia per far navigare la barchetta di carta preparatagli dal fratello maggiore Billy, costretto a casa dall’influenza. La barchetta scorre per i rivoli lungo i marciapiedi, ma finisce in uno scolo che conduce alla rete fognaria. Georgie, contrariato, si china a guardare nella feritoia e incontra lo sguardo del bizzarro clown che abita nelle fogne, Pennywise.

:: L’americano tranquillo, di Graham Greene (Mondadori, 1992) a cura di Giulietta Iannone

22 giugno 2016

cop

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Innanzitutto è bene precisare che L’americano tranquillo (The Quiet American, 1955) non è un saggio di geopolitica. Lo stesso Greene nell’introduzione al romanzo, dedicandolo a René e Phuong, due suoi carissimi amici, dice che non ci sono alcune controparti reali ai suoi personaggi, e che anche i fatti storici sono in parte rimaneggiati, insomma questo è un racconto non un libro di storia.
Ciò non toglie che un racconto di personaggi immaginari possa fare trasparire in filigrana personali convinzioni dell’autore, ovvero molto spesso scherzando si dice la verità, ma appunto distinguere fantasia e realtà in un romanzo non è un’impresa così facile e soprattutto priva di rischi. Si potrebbe iniziare a leggere tutti gli articoli che Greene scrisse come corrispondente di guerra per “The Sunday Times” e “Le Figaro” durante la guerra d’Indocina, facendo raffronti e comparazioni, o le sue lettere private, quasi con l’entusiasmo di un entomologo, ma ne vale davvero la pena? Non che non lo si possa fare naturalmente, ma lasciamo agli storici questo compito, noi accontentiamoci di trascorrere una delle tante sere afose di Saigon.
Un’altra questione che vorrei affrontare, non certo con leggerezza, riguarda le polemiche e le accuse di antiamericanismo, misoginia, e irresponsabilità che gli furono fatte da più parti all’uscita del romanzo (fu pubblicato per la prima volta in Gran Bretagna nel 1955 da William Heinemann Ltd. e solo l’anno dopo negli Stati Uniti da Viking Press). Polemiche sicuramente virulente negli anni ’50, in piena caccia alle streghe, che oggi hanno perso parte dello slancio lasciando in tutti, critici e lettori, la convinzione che Un americano tranquillo è una riuscita opera letteraria, meritevole di apprezzamento appunto per il suo valore artistico. Affermazione quest’ultima forse non del tutto veritiera se si pensa che l’uscita del film di Noyce del 2002, molto fedele al libro (sicuramente più del film di Joseph L. Mankiewicz del 1958) fu ritardata per i fatti dell’ 11 settembre del 2001. Insomma il libro, e i film da esso tratti, hanno ancora oggi una componente di tale portata da essere giudicati pericolosi, o destabilizzanti. Potere della letteratura.
Per avvicinare i lettori a questo libro credo sia comunque necessario inquadrare il romanzo nel periodo storico in cui fu scritto, giusto per ricordare chi furono i Viet Minh, chi fu Ho Chi Minh, in che regioni si estendeva l’Indocina, cosa portò alla battaglia di Dien Bien Phu. Giusto una traccia e uno spunto, insomma, per chi vorrà in futuro documentarsi.
Che nel romanzo si parli di colonialismo francese, comunismo, imperialismo americano, antimilitarismo, terrorismo è indubbio, i temi etici e politici sono senz’altro parte dell’intreccio, anzi ne costituiscono il tema portante, ma non dimentichiamoci che il libro si può anche benissimo leggere senza conoscere niente della situazione del Sud-est asiatico degli anni ’50, che portò se vogliamo alla guerra del Vietnam, e Greene sembra vedere le chiare premesse (sottolinea più volte il concetto di Terza forza) di questa deriva descrivendo le imprese coperte già in atto nel paese, e forse proprio il suo doppio ruolo di giornalista e di spia gli dava se vogliamo una posizione privilegiata per analizzare e interpretare i fatti. Solo molto più tardi, anche in America, si sviluppò un certo spirito critico se non un aperto dissenso verso il coinvolgimento americano nel Sud-est asiatico, disinnescando in un certo senso la portata delle tesi di Greene. E allora le sue parole acquisteranno sì solo più una sorta di preveggenza o per lo meno di attenta lungimiranza.
Ma potrei dire di più, una certa universalità, slegata ai fatti contingenti della guerra del Vietnam, proprio un certo atteggiamento di critica verso la condotta etica e morale, collegabile al kipliniano fardello dell’uomo bianco, di autoinvestitura dell’America come esportatrice di diritto e democrazia, e di cibi energetici, coca cola e armi (come ironizza Greene) ci riporta alla più stretta attualità. L’ America come gendarme del mondo dunque, ruolo che tutt’ oggi ha conseguenze tutt’altro che trascurabili nelle vicissitudini del nostro tormentato pianeta. Detto questo, si può leggere comunque il romanzo anche come una storia d’amore, come un giallo poliziesco, come un romanzo di formazione, un esotico libro di viaggi. Insomma le letture sono molteplici e tutte legittime. Ogni lettore trovi la sua strada interpretativa.
Ma tornando al mio piccolo quadro riassuntivo del periodo storico, innanzitutto partirei col dire che l’ Indocina del 1950 assimilava gli odierni stati della Cambogia, del Laos, della Thailandia, della Birmania, della Malesia e del Vientnam. La parte orientale dell’Indocina, comprendente a vario titolo Vietnam, Laos e Cambogia, rientrava dall’ottobre del 1887 nelle dinamiche colonialiste francesi, dinamiche di sfruttamento economico, sudditanza commerciale e culturale, che Greene certo non approfondisce, ma a cui velatamente accenna. Dopo alterne vicende nel 1946 la Francia riprese il controllo dell’Indocina ma già Ho Chi Minh, a capo di un movimento comunista e indipendentista – nazionalista noto come Viet Minh, pone le basi per la guerra d’Indocina, combattuta dal 1946 al 1955, che portò dopo la battaglia di Dien Bien Phu, alla totale disfatta francese, e alla fine del suo sistema coloniale. Francia e patrioti (o ribelli) vietnamiti, a secondo dei punti di vista, furono i soldati sul campo, ma la vera guerra tra alleanze, aiuti, e balletti della diplomazia, fu combattuta tra Stati Uniti, e Unione sovietica e Cina. Tutti stati seduti allo stesso tavolo della conferenza di pace di Ginevra del 1954. Trattato di pace che lasciando tutti scontenti portò quasi senza logica di discontinuità alla guerra del Vietnam, combattuta dal 1955 al 1975.
Un americano tranquillo uscì nel 1955, dopo una gestazione di alcuni anni, proprio all’inizio di quella guerra che leggendo il libro sembra inevitabile. Tre sono i personaggi principali: Thomas Fowler, cinico e disilluso reporter inglese di stanza a Saigon, voce narrante della storia; Alden Pyle, agente della CIA sotto copertura (ufficialmente lavora per una fantomatica Missione per gli aiuti economici), in Vietnam per creare proprio quei presupposti che avrebbero portato ad un intervento diretto americano; e Phuong, giovane vietnamita amante prima di Fowler, e poi di Pyle, che promette di sposarla e garantirle una vita sicura e onorevole in America.
Il romanzo inizia con la notizia della morte di Pyle, e grazie a una serie di flashback che ci riportano a un passato filtrato dagli occhi di Fowler, ricostruisce pian piano le motivazioni che portarono a questo delitto, scoprendo se Fowler (e in quale misura) fosse coinvolto. Uno schema classico, classico almeno per Greene che già nel Terzo uomo lo presentò: un’amicizia tradita, una donna contesa, un contesto politico difficile. Pyle comunque ha ben poco dell’antagonista Harry Lime, la Vienna occupata, ben poco della Saigon colonialista, ma nonostante tutto lo spirito sembra il medesimo, Greene sembra continuare un discorso precedentemente iniziato, almeno a livello artistico.
Fowler non è un eroe, può in un certo senso richiamare una proiezione dell’autore stesso, forse più che altro per alcuni atteggiamenti, ma resta un personaggio di fantasia, una creazione strumentale all’intreccio, utile alla narrazione e se anche non ci fidassimo delle premesse dell’autore, lo scopriremo durante la lettura, quando il suo doppio e triplo animo si dipana durante la storia, creando un meccanismo perfetto di suspense e dissimulazione, godibile per il lettore, anche il più smaliziato, e ammirevole da un mero punto di vista narrativo.
L’ambiente giornalistico intorno al Continental è sicuramente realistico, nato dai ricordi di Greene, da quel mood cinico e senza illusioni di una comunità di espatriati, riuniti al capezzale di una guerra che sono pagati per documentare con i loro articoli mandati per telegramma, depurati dalla censura, portati sui campi di battaglia come chiassose classi di studenti in gita, assistendo a conferenze stampa pilotate, dove ottenere vere notizie o anche solo disvelamenti è una cosa più unica che rara.
Tutti recitano un ruolo, lo stesso ruolo di Fowler, l’uomo senza opinioni, l’uomo che non si lascia coinvolgere, l’ateo convinto, mosso solo dal suo personale egoismo visto come un’unica ancora di salvezza giustificata dalla disperazione e dalla solitudine.
Il suo stesso amore per Phuong quasi non si spiega. Come lei ce ne sono molte, donne vietnamite disponibili a intrattenere rapporti con gli occidentali. Phuong infondo è una donna senza apparenti particolari qualità a parte la giovinezza e la bellezza. Il suo mistero resta inaccessibile, lo stesso Fowler si stanca presto di cercare di penetrare i suoi pensieri, di vedere cosa si agita nella sua mente. Phuong a tratti può sembrare quasi un contenitore vuoto, che colleziona sciarpe colorate, che ammira la famiglia reale inglese, di cui sfoglia in continuazione riviste e libri illustrati, che lascia un uomo per mettersi con un altro senza drammi, concedendo il suo corpo con indifferenza, preparando le pipe d’oppio priva di morali resistenze. Fondamentalmente ignorante, in questo simile a Pyle, anche se Fowler sembra giudicare l’ignoranza un effetto condizionato della giovinezza, calcolatrice, attenta più che altro al suo benessere materiale, a tratti insensibile, anche se Fowler raccomanda a Pyle di non trattarla come un bel oggetto, di non farla soffrire, perché anche lei ha sentimenti, emozioni, anche se la compostezza tutta orientale che l’anima sembra negarlo.
L’accusa di misoginia potrebbe essere sensata, se non si percepisse, anche distintamente, in questa quasi totale snaturalizzazione del personaggio, il riflesso di un’idea. Phuong non è una donna, ma lo spirito stesso del Vietnam, occupato, colonizzato, sfruttato, diviso. Un paese che cerca di sopravvivere, e si adatta a risorgere dalle sue ceneri. In questo la metafora della Fenice, non sembra limitarsi al significato letterale del nome o alla piacevolezza del suo suono o alla facilità di pronunciarlo per un occidentale come sembra sostenere Greene. Il Vietnam è destinato a risorgere sembra al contrario dirci l’autore, dopo anni di sfruttamento coloniale, alle soglie di una guerra ancora più devastante di quella già in atto, che nessuno può evitare, o forse manco ci si prova.
L’antimilitarismo di Greene è radicale, la guerra è il pianto di un uomo nel buio, potente raffigurazione che colpisce nel profondo il lettore più che la descrizione di corpi dilaniati, cadaveri ingrigiti, e innocenti sanguinanti. Forse più ancora della madre che nasconde con il cappello il cadavere del figlio dopo l’attentato nella piazza di Saigon. Odio la guerra, Greene fa dire con disperazione a Fowler, dopo l’attacco al piccolo sampan, sgretolando definitivamente la sua apparente indifferenza e il suo cinismo. Quando il capitano Trouin ci parla dei bombardamenti al napalm, (Si vede la foresta che va a fuoco. Sa Dio cosa si vedrebbe stando a terra. Quei poveri diavoli bruciano vivi, le fiamme gli arrivano addosso come una marea. Annegano nel fuoco) passano nella mente inevitabilmente i fotogrammi del film Apocalypse Now ponendo fine a ogni riflessione sul concetto di guerra giusta.
Il personaggio di Pyle, a cui Fowler, pur dichiarandosi suo amico e nutrendo del vero affetto, non evita una battuta di vendicativo scherno (mi immaginavo i suoi occhi molli e un po’ canini. Avrebbero dovuto chiamarlo Fido, non Alden) con tutte le sue valenze simboliche e metaforiche, si discosta grandemente dal villain classico. E’ un ragazzone americano giovane, con le gambe dinoccolate, i capelli tagliati a spazzola, e lo sguardo aperto, da studente universitario, (…) incapace di fare del male. E’ serio, corretto, idealista, coraggioso (salva la vita a Fowler a rischio della propria), quando se ne innamora vuole proteggere Phuong, lontano anni luce da molti suoi simili che vedono nelle donne vietnamite meri oggetti di piacere. Ma è tragicamente ingenuo e colpevolmente innocente. Tutto quello che sa dell’Estremo Oriente l’ha imparato dai libri (anche quello che sa del sesso e forse dell’amore l’ha unicamente imparato dai libri). E’ imbottito di concetti astratti sui dilemmi della Democrazia e le responsabilità dell’Occidente, concetti presi di sana pianta dai libri di York Harding (scrittore inesistente, naturalmente inventato da Greene) che racchiude in sé i tanti commentatori politici, apertamente anticomunisti, veicoli di propaganda, più che di convinzioni profonde. E solo l’ingenuo Pyle può considerare York Harding (se cercate un colpevole Vigot, è lui l’assassino di Pyle) un profeta, detentore delle più salde e incrollabili verità. Pyle è totalmente privo di spirito critico, ed è questa fondamentalmente l’accusa che Fowler gli rivolge, la sua assurda innocenza (chi può dirsi innocente a quel punto della guerra), la sua certezza di essere nel giusto, (anche quando donne e bambini cadono sul campo) il suo giustificare la propria inettitudine (doveva controllare che la parata fosse stata rimandata). Nel definirlo un americano tranquillo, (la prima è Phuong a farlo) Greene paradossalmente accentua l’ironia amara che stigmatizza chi fa danni suo malgrado, anzi con le migliori intenzioni, e lo stesso Vigot, della Suretè francese, lo definisce così alludendo al fatto che è freddo e rigido nella sala mortuaria.
E poi c’è il Vietnam che inevitabilmente Greene ama, di un amore capace di far provare nostalgia quando ancora vi ci vive (pur sapendo che molto presto sarà altrove). Il suo clima afoso, le zanzare, le pipe d’oppio, le ragazze in bicicletta con i pantaloni di seta bianca e le lunghe vesti attillate a fiori, le vecchie in pantaloni neri intente a spettegolare, le risaie, il tè servito a ogni ora come forma di ospitalità, le parate variopinte dei caodaisti, i guidatori di risciò, i tavolini all’aperto dei bar, tutto l’esotico scenario già presente nelle sue cronache giornalistiche, che qui riporta fedelmente con lo stesso rispetto e dignità e un velato senso di colpa, (noi inglesi siamo colonialisti di vecchia data tanto quanto i francesi).
Chiudo dicendo che se vi avvicinate a Greene per la prima volta, L’ americano tranquillo, può essere il libro che vi farà innamorare perdutamente di questo autore, con le sue contraddizioni, la sua fede tormentata, la sua lucidità integra e onesta, e la sua capacità di trovare le parole giuste in ogni circostanza, a cui ci si avvicina con una certa invidia, la stessa di Vigot quando cerca le parole sul piano della scrivania, parole capaci di esprimere i suoi pensieri con la mia stessa precisione.
Nuova traduzione di Alessandro Carrera ripresa dalla prima edizione I Meridiani del giugno 2000, pubblicata a partire dalla terza ristampa, condotta sul testo autorizzato della Collected Edition, la serie di volumi che Heinemann e Bodley Head pubblicarono tra il 1970 e il 1982 con l’imprimatur dell’autore.

Greene Graham (Berkhamsted, Inghilterra, 1904 – Vevey, Svizzera, 1991), convertitosi al cattolicesimo intorno al 1926, è tra i narratori inglesi novecenteschi più popolari. Giornalista e inviato speciale, ma anche autore di teatro e sceneggiatore per il cinema, Graham Greene è famoso soprattutto per i suoi romanzi, come Il potere e la gloria (1940), Il terzo uomo (1950), Il nostro agente all’Avana (1958) e Il console onorario (1973). Tutte le sue opere principali sono pubblicate negli Oscar Mondadori.

Source: acquisto personale.

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