Archive for the ‘Visioni di cinema’ Category

:: Dal 7 al 12 novembre a Roma IL FASCISMO, UN VENTENNIO DI IMMAGINI

3 novembre 2022

Sesta edizione per il Progetto e le forme di un cinema politico, la manifestazione ideata e organizzata dalla Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico e dalla Fondazione Gramsci, che quest’anno volge il suo sguardo sul centenario della marcia su Roma attraverso una serie di appuntamenti culturali che mirano ad approfondire l’eco e gli effetti di un segmento della storia italiana del Novecento – la presa di potere da parte di Mussolini e il delinearsi della categoria politica di fascismo – sul resto dell’Europa e del mondo. In particolare, ad essere investigata sarà la sfera cinematografica nella sua dimensione politica di un uso propagandistico in cui il regime fascista si distinse, alimentando un’industria che pose alcune premesse per la successiva affermazione del cinema italiano e che generò un immaginario collettivo che investì non solo il cinema ma tutte le arti.

Oggetto della manifestazione Il Fascismo: un ventennio di immagini, in programma dal 7 al 12 novembre a Roma in diversi luoghi – Casa del Cinema, Università Roma Tre (Dams), Sapienza Università di Roma e Libreria Spazio Sette –  non sarà solo la documentazione audiovisiva della marcia su Roma e il cinema, di propaganda e non, prodotto sotto il regime fascista, ma anche il cinema, non necessariamente italiano, che si è interrogato sui caratteri del fascismo o ha proposto, fino ai nostri giorni, riusi originali delle immagini del periodo fascista, alimentando la rielaborazione della sua memoria storica e del suo immaginario.

Il programma vuole prendere altresì in considerazione le teorie del cinema e le estetiche dell’immagine che hanno trovato nell’ideologia fascista un referente ideale o polemico, ma anche quelle teorie ed estetiche che hanno incrociato l’emergere di un’industria cinematografica italiana negli anni del regime (esempio ne sono gli scritti di Rudolf Arnheim nel suo soggiorno in Italia) e quelle che invece hanno tentato un’interpretazione del posto occupato dal fascismo nell’immaginario novecentesco e contemporaneo.

Ad integrazione della classica formula espressa nelle precedenti edizioni – una cospicua rassegna cinematografica introdotta da esperti e una giornata di studi, con la presentazione di un nuovo volume sull’argomento, saranno organizzati, in sedi universitarie, lezioni seminariali di approfondimento, con proiezioni di documenti dell’epoca, tratti sia dal cinema documentario che da quello di finzione. Un’occasione, dunque, per offrire a un pubblico multigenerazionale – ed in particolar modo ai giovani – una conoscenza trasversale tra storia, ideologia e arte cinematografica, del Fascismo sotto la duplice macchina da presa realistica e di finzione. L’ingresso ai film e agli incontri è libero a tutti.

L’iniziativa, realizzata grazie al sostegno del MIC Divisione Cinema e Audiovisivo, è in collaborazione con il CSC – Cineteca Nazionale, Istituto Luce Cinecittà, la Casa del Cinema, l’Università degli Studi Roma Tre, Sapienza Università di Roma e Libreria Spazio Sette. Media partner: “Il Manifesto” e Radio Radicale.

Il gruppo di studio e lavoro del progetto è composto da: Dario Cecchi, Damiano Garofalo, Maria Chiara Giorgi, Marco Maria Gazzano (in memoria), Alma Mileto, Pietro Montani, Claudio Olivieri, Ivelise Perniola, Giacomo Ravesi, Paola Scarnati (coordinamento), Giovanni Spagnoletti, Ermanno Taviani, Vincenzo Vita (presidente AAMOD), Maurizio Zinni. 

Scarica il programma completo qui.

:: Dal libro al cinema: La Marie del porto di Georges Simenon a cura di Giulietta Iannone

29 ottobre 2022

“Acqua cheta scardina i ponti” è un detto popolare che ben definisce il personaggio enigmatico e sfuggente di Marie, protagonista del romanzo La Marie del porto di Georges Simenon, romanzo del 1938, che nel 1950 Marcel Carnè trasformò in un’opera cinematografica con al centro una star di prima grandezza come Jean Gabin (bisognerà aspettare il 1958 per vederlo nella sua prima interpretazione di Maigret ne “Maigret tend un piege” di Jean Dellanoy) e una giovanissima (e forse troppo bella) Nicol Courcel, forse al primo impegno importante, nel ruolo di Marie. Del cast facevano anche parte Blanchette Brunoy, Claude Romain, Louis Seigner, René Blancard, Charles Mahieu, Robert Vattier, Louise Fouquet, e Olivier Hussenot più comparse assortite che animavano il piccolo villaggio portuale (Port-en-Bessin) dove vive Marie e la cittadina più grande a pochi chilometri di Cherbourg. Avendo da poco letto il libro e visto in francese su Youtube il film (libero da diritti) ho colto l’occasione per parlarne nella mia rubrica Dal libro al cinema. Premesso che il mio francese non è così buono, e che dunque qualcosa forse ho perso dei dialoghi, tuttavia le immagini sono così espressive, che mi hanno concesso di fare le mie valutazioni. Innanzitutto è un film in bianco e nero, uscito in Italia con il titolo La vergine scaltra, Gabin ruba la scena e prima che ve lo chiediate aveva superato il visto della censura, Marie ha 18 anni, è maggiorenne, (sebbene ne dimostri meno) e sebbene il lui della storia, almeno nel film, (nel libro ha poco più che trent’anni), sia di mezza età e quindi la differenza di età alla sensibilità moderna possa fare un po’ storcere il naso, è una storia che può rientrare nei canoni del lecito.

Insomma Marie non è una bambina, e non ne ha la psicologia, è una giovane donna piuttosto scaltra se vogliamo, consapevole delle sue scelte, emancipata, e tipicamente francese oltre che proveniente da una classe sociale (è la figlia di un pescatore della zona) che sebbene goda di una certa agiatezza (ha una casa, una barca di proprietà etc…) conosce il significato della fatica, e del lavoro. Rimasta orfana ha due strade: finire sul marciapiede, o trovarsi un lavoro, sceglie di farsi assumere come cameriera nell’unico Caffè del porto. Nè Simenon né Carnè si fanno illusioni, questa è la realtà, la vita è un gioco duro sia nella Francia del 1938 che in quella del 1950 (la prostituta “sfortunata” seduta al tavolo del locale di Chatelard a cui offre dei soldi è un buon memento). Premesso che bisognerebbe scrivere un saggio per questo film comparato al libro e questo breve mio testo non ha nessuna pretesa di essere esaustivo, devo dire che anche se diverso per alcune sfumature (Marie si reca nel film a Cherbourg, nella tana di Henri Chatelard, perchè preoccupata per Marcel e non per la trappola, come nel libro, un po’ “vigliaccamente” ordita da Chatelard, con la complicità di Odile) anche il film è un piccolo capolavoro della svolta naturalista di Carnè. Il tono del film è più leggero che nel libro, Marie è più bella della ragazzina smunta e pallida descritta da Simenon, Odile nel film ha il bellissimo sorriso e l’eleganza di Blanchette Brunoy, ed è meno “oca” dell’ Odile simenoniana, insomma a volerci vedere differenze ce ne sono, e sostanziali, anche se lo spirito del libro è stato rispettato. L’uomo di affari (a Cherbourg ha un’elegante brasserie, e un cinema che gli rendono sicuramente bene) un po’ sbruffone e la povera cameriera di un caffè del porto insomma non potrebbero essere più diversi.

Nulla li lega, lui conosce le regole del mondo e le adatta ai suoi comodi, ha un’amante, sorride a ogni donna che si trova sulla sua strada, ha un’attività legale ma insomma permette alle prostitute di adescare clienti nel suo locale, insomma il clima di corruzione e disonestà poteva essere reso più sordidamente ma un po’ sfumato c’è. Chatelard per quanto simpatico non è uno stinco di santo, almeno per la morale dell’epoca, ma ha un cuore, come quando investe Marcel e lo porta da lui e lo fa visitare da un medico o dà i soldi alla prostituta che non riesce ad adescare nessuno, o già nella scena iniziale accompagna anche solo Odile al funerale del padre, o porta a Odile la colazione a letto (molto joyciana come scena) e soprattutto non usa la violenza per costringere Marie a subire le sue avance (nella scena clou del romanzo, come del film) e a sottomettersi al suo capriccio, capriccio che per lui non è, se ne accorge quando credendola in pericolo corre dietro alla corriera. Lei è modesta, povera, una cameriera senza futuro, fidanzata a Marcel, un giovane garzone di un barbiere che indubbiamente non ama, tutta la parte del tribunale per l’emancipazione è stata saltata, e dell’importanza data ai fratellini non se ne fa cenno, vanno via coi parenti senza drammi, ma nonostante questo è indipendente, si mantiene da sé, porta una piccola croce al collo, è una ragazza seria, di una purezza antica, che non è tentata di seguire le orme della sorella sognando Parigi, sorride poco, e solo quando pensa o vede Chatelard. Più che fare la sostenuta per calcolo mantiene la sua individualità senza compromessi. E la sua scaltrezza sta, pur anche nella sua giovane età, nel capire il fondo di bontà che c’è in Chatelard, molto migliore da come appare. Marie è un bel personaggio, forse il migliore personaggio femminile di Simenon, che Carnè valorizza in un film decisamente solare e luminoso ricco di pathos, e dolcezza. Ai dialoghi partecipò (non accreditato) Jacques Prévert.

:: SOLARIS, UN PIANETA DAI TRE VOLTI – Gli adattamenti cinematografici del più famoso romanzo di Stanislaw Lem a cura di Michele Tetro

12 novembre 2021

Il primissimo adattamento del romanzo di Stanislaw Lem Solaris si ebbe nel 1968, l’anno di uscita di 2001: odissea nello spazio, a firma dei registi Boris Nirenburg e Lydya Ishimbayeva, un film per la televisione in due parti realizzato dalla Central Television Production sovietica, in bianco e nero. Questa versione è del tutto fedelissima al libro originale (quindi rimandiamo al capitolo 6 per la trama), non offre varianti alla materia trattata né rilevanti cambiamenti di trama. E’ Solaris esattamente come concepito da Lem, che si mostrò poco convinto, quando non addirittura polemico, sia della versione successiva di Tarkovskij sia di quella americana. La messa in scena è di tipo teatrale, con totale mancanza di effetti speciali, virtuosismi scenografici, decorazioni tecnologiche o futuristiche. Gli ambienti della stazione orbitante sull’oceano pensante di Solaris sembrano le quinte di un moderno teatro, con corridoi curvilinei immersi nell’ombra, stanze che ricordano le camere di alberghi d’infima categoria, scale di metallo su alte e vuote pareti. L’unica concessione alla tecnologia è data da una postazione di controllo sull’astronave Prometheus con due tecnici, simile a un’antiquata redazione televisiva, un quadro di comando presso l’hangar di ricezione, due televisori a circuito chiuso visibili durante gli incontri video dei tre scienziati, qualche apparato di scena non meglio identificabile. I costumi sono anonimi, lo scafandro di Kelvin assomiglia a tutto tranne che una tuta spaziale, il casco più simile a un collare ortopedico d’ospedale. Il massimo della spettacolarità è dato da immagini di repertorio di pochi secondi, con missili e capsule spaziali americane sgranate in video degli anni Sessanta, che ricostruiscono l’invio di Kelvin dalla Prometheus alla stazione e la liberazione dalla prima copia di Harey. Come nei remakes seguenti, anche qui (data l’impossibilità produttiva di ottenere determinati effetti) sono assolutamente mancanti le colossali “creazioni” plastiche sulla superficie di Solaris, che rappresentavano la parte più visionaria del romanzo, e il pianeta stesso risulta sempre fuori scena, anche se la sua “azione” immobile si percepisce costantemente (basta un’occhiata sbigottita di Kelvin verso una delle finestre sempre semi-chiuse della stazione, particolare ripreso poi nel successivo film di Tarkovskij, che invece ci concede diversi campi lunghi sul fluido oceano colloidale).

Le riprese sono incentrate prevalentemente sui primi piani degli attori, tutti calati nei loro ruoli e credibili, la storia è raccontata più a parole che a immagini, come nella miglior tradizione teatrale. Tutt’altro che noiosa, la produzione coinvolge e tiene desta l’attenzione dello spettatore, assorbito profondamente in questo dramma scientifico dalle implicazioni sconvolgenti.

Le cose cambiano invece nella versione del regista Andrej Tarkovskij del 1972, che per altro ottenne gran riscontro di critica e pubblico nel mondo occidentale. Pur rispettando ed evidenziando i punti cardine del romanzo di Lem (soprattutto il tema del contatto con l’entità aliena di Solaris), mantenendosi perciò fedele al testo scritto nelle parti estrapolate da esso per l’adattamento, il cineasta russo siringa in apertura, svolgimento e finale della pellicola elementi profondamente peculiari del proprio spirito e del tutto assenti in Lem. Facendo ovviamente riferimento alla pellicola originale sottotitolata e non allo scempio vergognoso che il film subì nel doppiaggio e nella riduzione italiana (in cui addirittura nel personaggio di Kris Kelvin si fondono due atteggiamenti del tutto contrastanti tra loro, il suo e quello dell’astronauta Berton, figura completamente eliminata dal film con un incomprensibile taglio di montaggio), Tarkovskij rende perno centrale della vicenda il problema del mancato equilibrio, nell’animo umano, tra la linea di sviluppo materiale esterna (il progresso, la tecnologia, la scienza) e quella spirituale interna (la coscienza, l’etica e la morale), con la seconda non in grado di bilanciarsi con la prima, poiché ancora “immatura” e quindi pericolosamente incline a innescare la crisi esistenziale.

Nell’inizio ambientato sulla Terra (mancante nel romanzo e pesantemente tagliato nella versione italiana del film) Kelvin, che pure è sensibile, come ogni anima russa, all’abbandono della propria patria per il viaggio di 16 mesi su Solaris e cerca un’ultima e intima comunione con la natura attorno alla dacia paterna, è però del tutto refrattario ad ascoltare i consigli di un ex astronauta che ha vissuto un’esperienza terribile sull’oceano pensante e si prodiga per avvisarlo di non intraprendere azioni distruttive nei confronti dell’ignoto, solo perché tale al cospetto umano. Kelvin sconterà amaramente la sua leggerezza, dovendo affrontare il penoso e doloroso rimosso della sua coscienza (la moglie suicida) incarnato dall’oceano, così come i suoi dogmatici e razionali colleghi scienziati, di classe tecnocratica, propensi ad attaccare ciò che non comprendono (la diversa intelligenza del pianeta), devono fronteggiare la loro statura morale quantificatasi in ospiti mostruosi, ripugnanti e insopportabili, il riflesso del loro volto interiore, reso reale dal magma oceanico. E solo la vergogna, qui sentimento nobile, è la chiave della salvezza per l’uomo, la pulsione che gli consente di uscire da un punto morto, prendendo coscienza dell’imperfezione del proprio apparato cognitivo, del non sapere ancora nulla di se stessi. Tarkovskij, lirico e malinconicamente elegiaco, evita intenzionalmente ogni lusinga tecnologica tipica dei film di fantascienza spaziale americani (la risposta sovietica a 2001: odissea nello spazio pubblicizzata dai cartelloni cinematografici è tale solo se considerata antipodicamente), riducendo al minimo l’impatto scenografico della sua pellicola (ed eliminando virtualmente ogni effetto speciale): la stazione orbitale è piena di oggetti del tutto inammissibili in un contesto del genere e di forte valenza simbolica (statue greche classiche, busti di Platone e di Beethoven, icone religiose russe, dipinti di Brueghel il Vecchio, fotografie di cavalli, corni da caccia ottocenteschi, vetrate policrome di una chiesa, immagini di cavalli, servizi da te in ceramica, candelabri e lampadari di cristallo), che rimandano prepotentemente alla Terra, all’anima contadina russa (Kelvin si porta con sé in volo una scatoletta di alluminio con una piantina della sua dacia), al legame col passato, la memoria, gli affetti familiari. Il regista sembra rispecchiare una sorta di adesione ai precetti del Cosmismo russo (le apparizioni della moglie defunta di Kelvin in qualche modo alludono alla resurrezione degli antenati defunti della fase fedoroviana cosmista, una promessa d’immortalità, l’integrità morale che si dovrebbe coltivare adeguatamente per assorbire il gap tecnologico-coscienziale era conditio sine qua non per l’emigrazione cosmica della perfezionata razza umana prevista da Fedorov e Ciolkovskij).

Praticamente, pur a fronte della forte spinta verso la conquista dello spazio, l’uomo sembra incapace di lasciare indietro la Terra e tende a portarsela con sé. Parafrasando il suo omologo letterario, il malinconico personaggio di Snaut del film, figura molto umana, esclama:

In questa situazione la mediocrità e il genio sono ugualmente inutili! Noi non vogliamo affatto conquistare il cosmo. Noi vogliamo allargare la terra alle sue dimensioni. Non abbiamo bisogno di altri mondi: abbiamo bisogno di uno specchio. Ci affanniamo per ottenere un contatto e non lo troveremo mai. Ci troviamo nella sciocca posizione di chi anela una meta di cui ha paura e di cui non ha bisogno. L’uomo ha bisogno solo dell’uomo!”

La figura del padre, che intuisce le problematiche che dovrà affrontare Kelvin nello spazio, conscio della sua “impreparazione” morale, rimanda a un trascorso tarkovskiano che non avrebbe modo di essere nel testo di Lem, la sua è un’odissea nella coscienza più che nello spazio, che attraverso il pianeta Solaris si pone come “territorio proibito” all’uomo. Se Lem è del tutto pessimista sulla possibilità di un reale contatto con l’oceano, Tarkowskij crede invece nei miracoli e conclude il film in modo splendidamente ambiguo: Kelvin, figliol prodigo dell’era spaziale, torna alla dacia del padre, che lo abbraccia riaccogliendolo nell’alveo del solo universo alla sua portata, quello del trascorso esistenziale, ma il piccolo villino è in realtà posto su un’isola circondata dall’immenso oceano di Solaris. Forse l’imperscrutabile entità aliena ha saputo leggere nella mente dell’uomo, individuando il più riposto dei suoi desideri, più forte del senso di colpa relativo al rimorso per la perdita della moglie, e cioè la sua struggente ansia del ritorno alla terra rimpianta, ai veri valori della vita? O forse si tratta solo di un’immagine simbolica di quanto piccola sia l’isoletta di placida ignoranza in cui è confinato il genere umano, circondata dai mari dell’infinito, dalla quale non è previsto che ci possa allontanare troppo, come rimarcato da Lovecraft in un celebre incipit del racconto Il richiamo di Cthulhu? Ad ogni modo, l’approccio del regista al romanzo di Lem, con la messa a fuoco sul problema morale e le leggi del progredire della ragione umana, impreziosisce un dramma scientifico di nuove valenze, creando le premesse di ulteriori riflessioni e approfondimenti.

Il terzo adattamento di Solaris, realizzato nel 2002 da Steven Soderbergh, sceglie un via del tutto differente: non è più il tema del contatto al cuore del film, né tantomeno la riflessione coscienziale tarkovskiana, bensì l’approfondimento del rapporto di coppia tra i due protagonisti, il recupero del loro passato traumatico in virtù della “seconda occasione” offerta per riparare gli errori commessi, la redenzione dei peccati da parte di un’entità superiore, che però concede tale dono non ai veri Kris e Rheyna, bensì alle loro repliche, che sopravvivono a entrambi (questa è la novità concettuale del rifacimento, gli “ospiti” sono così umani da volersi sostituire ai loro originali). In realtà il pianeta Solaris è del tutto marginale al film, una presenza tenuta sullo sfondo, non indagata, e l’intera l’attenzione è rivolta alla vicenda emotiva che s’instaura tra marito e moglie, al punto da indurre Stanislaw Lem a rimarcare: “Ci sarà stato un motivo per cui ho intitolato il libro Solaris e non Love Story!” Obiettivamente, la pellicola, che pure offre alcune sequenze spaziali degne di nota e un’intrigante colonna sonora, non sfugge a quella tipica monotonia di un film americano che cerca di scimmiottare stilemi europei, risultando il più delle volte irrisolto, se non addirittura irritante.

Tratto dal volume “Spazio – Il vuoto davanti”, di Michele Tetro, Odoya 2021, per gentile concessione dell’autore.

:: Baptiste, seconda stagione serie della BBC diretta da Thomas Napper e Hong Khaou

18 settembre 2021

Baptiste, serie della BBC scritta da Harry e Jack Williams ritorna con la sua seconda e ultima stagione ambientata tra la Francia e l’Ungheria. Ero molto curiosa di vedere come si sarebbe conclusa la serie e devo dire che ho trovato il finale perfetto, avendo temuto fino all’ultimo un finale ben diverso. Non voglio spoilerare troppo, anche se su Wikipedia c’è un breve risssunto di tutti e sei gli episodi, e preferisco focalizzare l’attenzione su due cose: primo il fatto che Fiona Shaw (che ricordavo nell’interpretazione di Lydia in Anna Karenina diretta da Bernard Rose) è strepitosa nel personaggio di Emma Chambers, ambasciatrice britannica, quasi più brava di Tchéky Karyo nel personaggio principale dell’investigatore in pensione Julien Baptiste, ma se la giocano. Poi ho apprezzato come nella serie precedente i salti temporali tra passato (14 mesi prima) e presente che accrescono la suspense. Questa volta la storia è piuttosto complessa e si dirama in due filoni: quello professionale e quello personale, soprattutto del protagonista che dopo un grave lutto familiare si lascia andare all’alcolismo, si abbrutisce, la moglie lo lascia, insomma inizia una parabola discendente che però non gli impedisce di continuare a indagare sulla scomparsa del marito e dei due figli adolescenti di Emma Chambers, in vacanza sulle montagne ungheresi. Tutta l’indagine verte su queste sparizioni e naturalmente la bravura e l’intuito di Julien Baptiste fanno la differenza. Per non parlare dell’elefantino azzurro di peluche che compare come allucinazione del protagonista nei posti più impensati simbolo del suo senso di colpa per non essere riuscito ad arrivare in tempo. Ma c’è un altro peluche che compare nelle scene finali, la volpe di tessuto dellla prima serie di The Missing, a simbolizzare il superamento di questo trauma. Dopo aver spiegato la funzione dei peluche torniamo alla trama, e non volendo sempre troppo spoilerare posso dire che la bellissima città di Budapest fa da sfondo a una storia altamente drammatica in cui il destino sembra accanirsi su Emma Chambers: le capita insomma di tutto, fino a rimanere paralizzata su una sedia a rotelle durante un attentato in quartiere ad altra concentrazioni di immigrati, come a ricordarci che non c’è solo il terrorismo di matrice islamica a minacciare l’Europa. Interessante il personaggio di Zsofia Arslan, interpretato da Dorka Gryllus, prima poliziotta poi guardia giurata in un centro commerciale, figlia di un immigrato turco, generoso, e simpatico, che ha passato tutta la vita ad aiutare gli altri vittima continua di aggressioni da parte di chi non tollera la presenza di immigrati. Una bella serie europea che dimostra che non solo gli americani sanno fare questo genere di sceneggiati, e che l’Europa è uno scenario ricco di possibilità e teatro ideale di nuove storie da raccontare.

Source: acquisto personale.

:: Baptiste, prima stagione serie della BBC diretta da Börkur Sigþórsson e Jan Matthys

28 dicembre 2020

Spin-off di The Missing, Baptiste è una serie della BBC prodotta da Two Brothers Pictures, scritta da Harry e Jack Williams e diretta da Börkur Sigþórsson e Jan Matthys con al centro il personaggio del poliziotto in pensione Julien Baptiste (interpretato da Tchéky Karyo), specializzato nel trovare persone (e cose) scomparse. Sei episodi girati tra l’Olanda e il Belgio (ci sarà anche una seconda stagione ambientata in Ungheria) con un taglio e una visione molto europea, interessanti sia per la trama ad incastro che per i dialoghi (in più lingue dall’olandese, al romeno, al francese, al naturalmente inglese). L’Europa multietnica sembra emergere con le sue luci e le sue ombre, portandoci nei meandri di una lotta alla criminalità sempre più aggressiva e ipertecnologica. La scomparsa di una prostituta dà l’inizio a una caccia dove nulla è come sembra, tra depistaggi, false certezze e inseguimenti dove il talento investigativo del protagonista è messo a dura prova. Non voglio dire troppo della trama ma è interessante il ruolo che via via i personaggi assumono che si discosta dalle solite narrazioni. Colpi di scena ce ne sono parecchi, e sicuramente questo riesce a tenere desta l’attenzione dello spettatore che non sa bene cosa aspettarsi. Tanti i personaggi, tante le storie narrate e le sottotrame. Bello il personaggio di Kim (Talisa Garcia), che nasconde un segreto capace di sgretolare la sua vita, o quello di Edward, l’uomo d’affari inglese cacciatosi in un guaio più grande di lui, interpretato da un ottimo Tom Hollander dall’aria debitamente stranita. Poi mi ha colpito soprattutto Alec Secăreanu (nella serie Costantin) un villain molto realistico e senza cuore per cui la violenza è solo business. Ma in fondo sono tutti bravi e in parte. Amsterdam (in realtà Antwerp) gioca un ruolo non secondario con i suoi canali, i suoi ritrovi per turisti e il suo caratteristico quartiere a luci rosse. Una bella serie europea di cui non vedo l’ora di vedere la seconda stagione. Consigliata. 

Source: acquisto personale.         

:: Anna di Luc Besson

30 marzo 2020

Anna

Ambientato tra il 1985 e il 1990, prima della caduta del Muro di Berlino, Anna è una rivisitazione bessoniana di una classica spy story della Guerra Fredda, che vede sovietici e americani contrapporsi senza esclusioni di colpi.
Ricordo quando cadde il Muro molti si preoccuparono che le spy story non sarebbero state più le stesse, ma a quanto pare non preventivarono il terreno fertile delle rivisitazioni, che per quanto accurate possono essere prevedono schemi mentali e riflessioni post guerra fredda, insomma anche Anna non è immune da questa logica.
Ma una premessa è indispensabile: Anna resta un film d’azione non idoneo a dibattiti retrospettivi oltre una certa misura.
Tema centrale, come spesso accade nei film (scritti e diretti) da questo regista, è la riconquista della libertà. Tutte le sue eroine in fondo aspirano a questo, ed escogitano mille astuzie e stratagemmi per riuscirci. Infatti per tutto il film assistiamo a una lunga e movimentata partita a scacchi in cui la nostra protagonista mira a dare scacco matto sia ai sovietici che agli americani, in questo gioco di spie sullo stesso piano ideale, insomma una velata critica storica la possiamo pure leggere ma appunto molto velata.
Sebbene il film ha un chiaro legame per molti versi al precedente Nikita, c’è da dire che oltre alle scene che ne evidenziano un omaggio se non un tributo, Anna somiglia più a Eva Kant, bellissima e letale compagna di Diabolik, che a Nikita, di cui difetta tutto l’approfondimento psicologico (faccio solo un esempio, Anna ammazza con una disinvoltura che Nikita non aveva, e anche i sentimenti in Nikita erano reali, qui non si sa quanto strumentali alla mera sopravvivenza della protagonista, forse solo lo strano legame madre-figlia che si insatura tra Anna e Olga può dirsi veramente tale).
Come spy story comunque è molto efficace, sebbene la ricostruzione storica sicuramente non è fedele anzi è palesemente forzata specie nell’uso di tecnologie più avveniristiche di quelle usate nel periodo, sulla falsa riga di molti James Bond.
Ma torniamo alla storia: il film si apre nel 1985, quando un’ intera cellula americana a Mosca viene neutralizzata in un solo giorno con tanto di testa mozzata inviata a Lenny Miller come gentile cadeau. Premessa che ha una certa funzionalità nella storia ed evidenzia una sorta di fine di duello tra gentiluomini tra i servizi degli opposti schieramenti, voluto da un capo del KGB particolarmente ostile. Qui si inserisce la storia di Anna una bellissima ragazza russa, orfana, finita nel baratro della droga e della disperazione. Fatina buona della situazione (si fa per dire), Alex Tchenkov, che si presenta a casa sua e le propone un patto: cinque anni della sua vita in cambio della successiva libertà. Anna ingenuamente accetta e inizia l’addestramento, che la porterà a diventare una killer impegnata in missioni sempre più rischiose.
Ma facciamo un passo indietro, dopo l’addestramento a decidere se verrà utilizzata in missioni sul campo è Olga (una strepitosa Helen Mirren) anche lei con un piano in testa, che pian piano prenderà forma.
Interessante l’utilizzo di flashback e flashforward, il tempo si arrotola e si dispiega svelando i vari colpi di scena come tante matrioske una dentro l’altra. La scena finale poi è grandiosa anche se resta un po’ di malinconia e ci si chiede come farà a sopravvivere Anna al suo passato e ai tanti suoi demoni.

:: Dal libro al cinema: Il medico di corte di Per Olov Enquist a cura di Giulietta Iannone

18 febbraio 2020

Il medico di corteEra alquanto difficoltoso trasformare un romanzo celebrale come Il medico di corte di Per Olov Enquist in un film.
Un romanzo di idee (e di sentimenti), forse più ancora che di personaggi, capace di evocare profonde emozioni nel lettore, rattristato per il terribile destino del re danese Cristiano VII (è una storia vera perlopiù ricavata da fonti e documenti storici, e sicuramente realistica da un punto di vista psicologico in cui gioca molto l’interiorità dell’autore, Per Olov Enquist, che mette molto di sè), e per l’atroce fine del vero protagonista del romanzo, il medico d’Altona Johann Friedrich Struensee, decapitato e letteralmente squartato sulla pubblica piazza per ragioni che approfondiremo nel proseguo della mia analisi.
Insomma si potevano scegliere due strade antitetiche per certi versi: farne un grande e sontuoso affresco storico con maniacale attenzione per musiche, costumi, ambienti, di viscontiana memoria, o scegliere un approccio più intimistico e rarefatto, capace di evocare sensazioni più che di narrare fatti, accadimenti, circostanze.
Royal Affair (En kongelig affære) del regista danese Nikolaj Arcel sceglie un approccio ibrido, puntando molto sul carisma e sulla bravura degli attori, in primis Mikkel Boe Følsgaard, al suo debutto sul grande schermo, capace di rendere umanissimo e simpatico un personaggio scomodo che solo troppo approssimativamente si potrebbe bollare e stigmatizzare come “pazzo”; Trine Dyrholm l’algida Regina Madre Giuliana Maria; Mads Mikkelsen credibile nei panni di Johann Friedrich Struensee appassionato innovatore della società danese, ateo e illuminista, e innamorato della giovane regina Carolina Matilde di Hannover, sottovalutata da tutti forse per il suo aspetto poco appariscente (nella realtà) ma in definitiva una donna dalla tempra d’acciaio, interpretata da una brava Alicia Vikander, forse troppo bella per il ruolo ma capace di dare una certa durezza e un velato distacco al personaggio di per sé luminoso e protofemminista.
Insomma un film riuscito, a me è piaciuto molto e mi ha spinto a leggere il libro da cui è stato tratto. Insomma per una volta il cinema aiuta la letteratura e non la saccheggia, come alcuni ritengono a torto.
Film e libro, a parte superficiali discrepanze (faccio un esempio: nel romanzo la scena del contadino torturato sul cavalletto vede protagonista Struensee e il re Cristiano VII, nel libro invece c’è sempre Struensee ma invece del re la regina Carolina Matilde) mantengono lo stesso spirito e lo stesso ideale di fondo.
Certo il libro permette un maggiore approfondimento di alcune tematiche che nel film sono solo accennate, importante su tutte credo la contrapposizione tra le luminose verità Illuministe (trionfo delle libertà individuali, della giustizia sociale e dell’equità) e l’oscurantismo del pietismo religioso di stampo protestante erede di un’ epoca buia e antiprogressista in cui vigeva la tortura più brutale e le disumane condizioni di servitù dei contadini.
La “Rivoluzione Illuminista Danese” del 1768-1772 o meglio detta l’era di Struensee, che anticipa di qualche decennio la più cruenta Rivoluzione Francese, poi è sicuramente un periodo poco noto all’esterno dei confini della Danimarca, e merito di questo romanzo, e del successivo film, è sicuramente stato quello di farlo conoscere all’opinione pubblica contemporanea.
Paradossale che lo stesso Per Olov Enquist descriva il suo romanzo come una semplice storia d’amore (le venature erotiche e sensuali sono sicuramente più marcate nel romanzo) ma sicuramente questa unica dimensione è riduttiva: è un romanzo che contiene una forte carica morale e una severa critica dei sistemi educativi coercitivi (il povero Cristiano è un esempio dei danni devastanti che ciò provoca), è un inno alla libertà religiosa, sentimentale, etica, è un inno alla solidarietà umana e alla forza necessaria per difendere i propri ideali anche quando il proprio sforzo non è riconosciuto (dai contemporanei perlomeno).
L’ingenuità di Johann Friedrich Struensee, così alieno al grande gioco politico delle alleanze e della “scelta” dei nemici, ne fa certo un personaggio tragico, (seppure incredibilmente moderno, fu uno dei primi per esempio a usare il dentifricio, particolare minimo ma vi dà un idea di quanto fosse estraneo nel suo tempo) sconfitto dalla storia, un vinto se vogliamo che esce di scena nel più barbaro dei modi, pur tuttavia la sua impazienza (quasi avesse saputo del poco tempo che aveva a disposizione) nello sfornare decreti che rivoluzionarono nel concreto l’immobile società danese del tempo, dalla libertà di stampa, al vaccino contro il vaiolo per tutti, agli aiuti per i figli illegittimi, gettano un germe di cambiamento, rendono reale l’utopia e il desiderio di cambiare (in meglio) il mondo. Traduzione di Carmen Giorgetti Cima.

Per Olov Enquist nato nel Nord della Svezia nel 1934, è una delle grandi “coscienze critiche” della società scandinava. Al gusto per l’indagine storica e al desiderio di essere testimone del proprio tempo, aggiunge una capacità di scrittura che gli ha fruttato premi e riconoscimenti in tutto il mondo. Il libro delle parabole è il suo ultimo romanzo pubblicato da Iperborea, dopo il successo de Il medico di Corte (Premio Super Flaiano e Premio Mondello) e de Il libro di Blanche e Marie (Premio Napoli 2007).

Source: libro inviato dall’editore al recensore. Ringraziamo Francesca dell’ufficio stampa Iperborea.

:: Dal libro al cinema: Il Grande Sonno di Raymond Chandler a cura di Giulietta Iannone

26 novembre 2018

grande sonnoQuesto articolo uscì per la prima volta su Il Giorno degli Zombi come guest post, e la mia amica Lucia, che è un tesoro, mi ha dato il permesso di postarlo anche sul mio blog. Buona lettura!

It was about eleven o’clock in the morning, mid October, with the sun not shining and a look of hard wet rain in the clearness of the foothills. I was wearing my powder-blue suit, with dark blue shirt, tie and display handkerchief, black brogues, black wool socks with dark little clocks on them. I was neat, clean, shaved and sober, and I didn’t care who knew it. I was everything the well-dressed private detective ought to be. I was calling on four million dollars.

Erano quasi le undici di una mattina di mezzo ottobre, senza sole e con una minaccia di pioggia torrenziale nell’ aria troppo tersa sopra le colline. Portavo un completo azzurro polvere, con cravatta e fazzolettino blu scuro, scarpe nere e calze nere di lana, con un disegno a orologi blu scuro. Ero ordinato, pulito, ben raso e sobrio, e non me ne importava che la gente se ne accorgesse. Sembravo il figurino dell’ investigatore privato elegante. Andavo a far visita a un milione di dollari.

Parto dall’assunto che tutti abbiate letto o visto al cinema (forse più corretto dire in tv o dvd) Il grande sonno. Mi è estremamente difficile pensare che ci sia qualcuno che non l’abbia fatto e possa dirsi amante del cinema e della letteratura (non solo hardboiled). Raymond Chandler è un maestro indiscusso, assieme a Hammet ha contribuito a dettare i canoni del genere, le sfumature dello stile, i temi, la stilizzazione dei personaggi, l’ambiente, l’atmosfera, sin dai tempi in cui scriveva racconti per Black Mask con un nutrito manipolo di autori pulp, alcuni dei quali ormai colpevolmente dimenticati.
Ciò che mi accingo a fare è un azzardo, ne sono consapevole. Dire cose nuove su Il grande sonno (libro o film) è praticamente impossibile, si rischia di ribadire l’ovvio, di dire cose trite e risapute. Di scarso interesse per chiunque abbia anche solo una minima cultura cinematografica e letteraria.
Cosa mi spinge allora a imbastire questo articolo? Il grande (forse folle) amore che ho per Chandler, per Philip Marlowe, e per Humphrey Bogart (a mio avviso il miglior Marlowe di sempre).
Ci sono due approcci che potrei utilizzare: uno più documentaristico, se vogliamo nozionistico, darvi informazioni minuziose su autore, film, libro e periodo; uno più sentimentale, parlarvi di cosa ho amato di più, di cosa mi ha divertito o sorpreso.
Essendo ospite di Lucia, non essendo a casa mia, cercherò di stare in bilico tra i due estremi, sempre premettendo che come critica cinematografica non sono un granché, ma mi intendo di scrittura, anche cinematografica, amo leggere e studiare anche le sceneggiature (secondo me una nobilissima forma letteraria che andrebbe studiata come la narrativa). Quindi spero che l’articolo sia di interesse anche per gli specialisti, per coloro che hanno studiato questo film in parallelo al libro.

Dunque lettori dò per scontato che conosciate la trama, anche se qualche buco narrativo non manca, tipo chi ha ucciso l’autista di Sternwood: narra Craig Brown, editorialista del Daily Mail e di Vanity Fair, di quando durante le riprese de Il Grande sonno a film quasi ultimato Bogart e Howard Hawks furono intenti a discutere piuttosto animatamente su come fosse morto Owen Taylor, l’autista inabissato nella limousine di casa Sternwood. Humphrey Bogart propendeva per il suicidio, forse non potendone più. Hawks non convinto alla fine si decise e mandò un telegramma a Chandler (sarà rimproverato per quei 70 cent), e lui candido e serafico rispose che non ne aveva la più pallida idea o forse l’aveva dimenticato tra una sbronza e l’altra.
Il film di Hawks soffre dal punto di vista della consequenzialità della trama e della comprensione da parte dello spettatore, che fatica in effetti a collegare alcuni punti nodali, a causa di alcuni tagli della versione originale girata nel 1945, funzionali a rendere la lunghezza della pellicola gestibile dopo l’aggiunta di altre scene più leggere (i dialoghi buffi e i battibecchi tra Bogart e Bacall) che, secondo le intenzioni dei dirigenti, avrebbero divertito il pubblico.
Sta di fatto che, per molti versi, la trama (perlomeno del film) risulta incomprensibile. Sarebbe interessante sapere se si può risalire alle scene tagliate per un eventuale rimontaggio, ma per questo mi devo rimettere a Lucia.

La bellezza di questa storia non sta in una somma di perfezioni, ma proprio nel suo contrario. È un equilibrio di stridenti contrasti dove ambientazione, atmosfera e personaggi (e pungente ironia) prevalgono sul plot e sull’epilogo, e sulla logica classica del chi ha ucciso chi.
Neanche a Chandler questi temi interessavano più di tanto. Più la trama è complicata, più il lettore, come i personaggi, si perde in un labirinto, più la complessità del reale è bene espressa e rispecchia la vita, la vita vera dell’uomo comune, non solo dei villain che popolano lo squallido sottobosco criminale dell’epoca.
Partiamo dal titolo: Il grande sonno, the Big Sleep, nel gergo della mala è la morte. Il sonno da cui non c’è risveglio. Il sonno che azzera tutto, sogni, pensieri, aspirazioni, colpe, vizi. L’argine e il baricentro di questa storia nera e senza redenzione che vede solo nel protagonista un certo punto di equilibrio, una dimensione etica e morale, che non conforta, ma dà spazio a una sorta di respiro universale in cui rettitudine e disincanto, hanno una forma, una dimensione. Una dignità.
Se Philip Marlowe è immerso nel pantano della Los Angeles degli anni ‘30 tra contrabbandieri, biscazzieri, cialtroni di varia caratura, ricattatori, assassini senza coscienza e figlie viziate di miliardari prossimi alla morte, questo non toglie che una sorta di purezza emani da lui, un’aura, un’autenticità, una rettitudine che maschera con sferzanti battute ironiche di un’amarezza accecante e struggente.
Il tema della morte è ricorrente e si respira sin dall’odore di decomposizione già presente nella serra dove il generale Sternwood accoglie Marlowe, una sorta di antro infernale, (la camicia e il volto sudato di Bogart ben rappresentano questo disagio, perlomeno fisico) fino al letto di morte (dettaglio presente nel romanzo) in cui il vecchio attende con le mani esangui intrecciate al lenzuolo.

Philp Marlowe è un uomo comune, normale, squattrinato, alle prese con il male, di una società, di un mondo che non comprende e disprezza. La corruzione, la bassezza, l’avidità che percepisce, (e nel film come nel libro è tutto giocato nei dialoghi di una profondità psicologica e precisione devastanti), lo lambiscono senza entragli dentro, lui resta sempre una spanna sopra questo stagno di vizi e turpitudini. La violenza non fa parte del suo DNA, la conooce, la utilizza accidentalmente (uccide anche, se è il caso) ma lui è altro, è altrove, è l’eroe medioevale, cinico e disincantato, ma pur sempre in armatura e cavallo bianco, seppure dalla realtà venga rappresentato come un alcolizzato fallito.
Philip Marlowe resta un punto fermo, il solo vivo tra una palude di morti, e proprio per questo noi lo amiamo e tifiamo per lui. Dall’ inizio alla fine della storia. Senza ripensamenti. E vogliamo che la sua storia con Vivian sia a lieto fine, vogliamo dargli un premio per la sua rettitudine non sopraffatta da un mondo marcio e decadente. Anche se sappiamo che il lieto fine (almeno nel libro) non fa parte del pacchetto, che ad attenderlo c’è solo nuova solitudine o al massimo un paio di doppi whiskey bevuti in qualche scalcinato bar dai vetri rigati di pioggia. E forse a fargli compagnia il rimpianto e la malinconia della mancanza e di qualcosa che non è stato.

Il Grande Sonno, a cui seguì Addio mia amata, uscì in America nel 1939 per Alfred A. Knopf, ed è il romanzo con cui Chandler debuttò, con cui per la prima volta ufficialmente entrò nel panorama letterario Philip Marlowe (a dire il vero già apparso nei suoi racconti perlomeno in abbozzo), a far da spartiacque tra un prima e un dopo. Dopo Marlowe nulla fu più come prima, sebbene nacque più come una trovata stilistica che come personaggio autonomo, come lo stesso autore spiegò in un’ intervista a Irving Wallace del 1945.
Il Grande Sonno fu scritto nel 1938, alle soglie di una guerra che avrebbe devastato il mondo. Chandler saccheggiò letteralmente due suoi racconti lunghi già editi, Killer in the Rain (Black Mask, 1935) e The Curtain (Black Mask, 1936), oltre a tracce di Finger Man e creò il suo capolavoro. Come fece? Solo lui lo sa. Ciò non toglie che sapere come operò tecnicamente non sminuisce di una virgola il valore dell’opera.
Chandler fu un romantico, la sua prosa è lirica e letteraria, al servizio di storie dure e crude, decadenti se vogliamo, vivificate da un umorismo al vetriolo, che in parte fu stemperato nelle versioni cinematografiche più attente ai canoni che imponeva la rigida morale dell’epoca.  Chandler picchiava sotto la cintura: la sua analisi della società californiana, della ricchezza e del potere criminale è lucida e spietata, forse troppo per i suoi tempi e ancora attuale oggi.
Chandler era sicuramente un moralista, anche se non un moralizzatore, e questo non disturba perché si sente puzza di autenticità e di etica, l’etica di un ex oil executive caduto in disgrazia per il suo alcolismo, che si guadagnava da vivere scrivendo racconti per le riviste pulp, quelle che si trovavano nelle rastrelliere semi arrugginite dei drugstore o delle stazioni di servizio perse nel cuore della polverosa America degli anni ‘30. Scritte su carta da pochi cent, usa e getta si potrebbe dire oggi. E intanto leggeva i classici e studiava latino e greco.

Il Grande Sonno rappresenta la fine di un sogno, del sogno americano (c’è mai davvero stato?) trattato da tanta letteratura alta, tutto tramite gli archetipi e i canoni del romanzo poliziesco nero, dell’hardboiled più irregolare e di grana grossa. Che di fatto divenne vera letteratura, con piena dignità e diritto di esistere anche oggi assieme ai classici.
Il film diretto da Howard Hawks uscì nel 1946, poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale (Ci sarà anche un remake del 1978, dal titolo italiano Marlowe indaga, con Robert Mitchum, e la particolarità di spostare l’ambientazione da Los Angeles all’Inghilterra degli anni ’70); vede al centro due star di prima grandezza, Humphrey Bogart e Lauren Bacall, la cui alchimia e tensione è esplosiva sotto uno smalto di algida freddezza e regalità. L’effetto è sconcertante e straniante. E se vogliamo il segreto della bellezza e unicità di questo film iconico.
Faulkner scrisse la sceneggiatura assieme a Leigh Brackett, e Jules Furthman, ma i dialoghi fulminanti sono di Faulkner e rispecchiano ed echeggiano perfettamente quelli di Chandler (nella scarna semplicità di una sceneggiatura), e la cosa è singolare, dato che non potrebbero esistere due scrittori più diversi.
Nessun tempo morto, battute veloci come fuochi d’artificio, ironia, sarcasmo, giocati con eleganza e spregiudicatezza.
Uno scontro di ingegni tra Faulkner e Chandler, e di penne che è un piacere osservare in azione. Qui potete leggere la sceneggiatura originale.
Dialoghi e gioco di sguardi, tutto il film si gioca su questo, restando Marlowe /Bogart con il suo tranch spiegazzato al centro della scena seguito dalla macchina da presa a lui incollata. Pioggia, ombre, chiari scuri. E la sensualità felina di Lauren Bacall l’unica fonte di calore del film, ma anche Martha Vickers non scherza (e a essere sincera tutte le donne del film sono perfette: da Agnes, alle guardarobiere, alla moglie di Eddie Mars, più un cameo di Dorothy Malone, la libraia che scherza con Marlowe su edizioni rare e refusi). Un capolavoro, anzi due. Per una volta difficile decidere se sia meglio film o libro. Sono due opere d’arte distinte. Buona lettura e buona visione.

:: Nikita di Luc Besson

8 luglio 2018

NikitaHey Nikita is it cold
In your little corner of the world
You could roll around the globe
And never find a warmer soul to know

Tutto iniziò con una canzone, Nikita, cantata da Elton John, e scritta da Bernie Taupin. Era la metà degli anni ’80, il Muro di Berlino era ancora in piedi, e tra il Blocco Sovietico e gli Stati Uniti la guerra fredda continuava. Ma molti giovani sognavano un mondo nuovo, senza più guerre, senza più la minaccia nucleare, senza più divisioni. Questa canzone raccontava la storia di una ragazza tedesca, guardia di frontiera, e del suo impossibile amore per uno straniero. E’ una canzone molto romantica, apparentemente pop, che nasconde tuttavia profondi ideali che noi ragazzi cresciuti in quegli anni condividemmo.

Luc Besson si ispirò proprio a questa canzone per realizzare il suo film forse più famoso, Nikita, con protagonista l’allora sua moglie Annie Parillaud, bellissima e perfetta nel ruolo di una ragazza costretta dagli eventi a diventare una spietata killer.

Se vogliamo questo film è molto più che un thriller d’azione, seppure con l’elemento innovativo di un’ eroina al centro della storia. Forse Besson fu il primo a iniziare questo filone cinematografico, che poi sarà ampliato negli anni successivi, sempre con grandi difficoltà, fino a opere come Wonder Woman interpretata da Gal Gadot.

E’ un film profondamente femminista, visionario, precorritore dei tempi e incide nell’ immaginario come forse pochi altri film hanno fatto. Uscì nel 1990, un anno dopo la caduta del Muro di Berlino, quasi contemporaneamente a un’ altra canzone cult di quegli anni, Wind of Change della mitica band tedesca degli “Scorpions”, che anche essa parlava di cambiamento e libertà.

Se vogliamo questo film è anche una parabola morale, che ci ricorda l’importanza del quinto comandamento: non uccidere. Nikita uccide durante una rapina in una farmacia un poliziotto, e da questo atto forse involontario, condotto sotto l’effetto di droghe, ne scaturisce una condanna, prima giudiziaria, poi ancora più crudele, quando viene reclutata dai servizi segreti francesi.

Tuttavia la nostra eroina è una donna forte, determinata, anche sensibile, ama riamata il suo Marco, un ragazzo normale che incontra in un supermercato, e nonostante si trovi in una situazione in cui non vede via di uscita, riuscirà alla fine con il suo coraggio e la sua determinazione a riguadagnarsi la sua libertà, pagando però un prezzo altissimo: la perdita del suo amore.

Ambiguo il rapporto con l’ufficiale dei Servizi che l’arruola, nel film interpretato da un affascinante quanto crudele Tcheky Karyo, che somiglia molto al poliziotto che ha ucciso. Anche Bob tuttavia vittima di un sistema spietato, in cui i sentimenti hanno poco spazio, sacrificati a un bene superiore, deciso dallo Stato.

La scena del bacio tra Nikita e Bob, al termine della prima missione- prova, è una delle più struggenti della storia del cinema a mio parere e ci dimostra quanto sia più forte lei di lui. Quanto i sentimenti siano più forti di ordini e disciplina, e quanto siano in realtà fragili le persone che non li hanno mai provati.

Dicevo che è un film femminista soprattutto perché la protagonista grazie alla sua forza emerge da un passato di droga e violenza, conquista a caro prezzo una certa normalità, (un appartamento, un lavoro, un amore, etc…) e quando la spirale di violenza sta per travolgerla (drammatica l’ultima sua missione all’ambasciata in compagnia dell’ Eliminatore) spezza ogni legame sia con il mentore che con il suo innamorato, e dopo una notte di dubbio e tristezza, fugge verso la sua libertà.

C’è dunque un lieto fine, un po’ amaro, ma incredibilmente catartico che racchiude lo spirito di quegli anni, dove tutto era in continuo cambiamento, i ruoli si sovrapponevano, e l’importanza della libertà emergeva con forza.

Dire che questo film è bello è forse limitativo, ha incarnato perfettamente lo spirito di quegli anni, e ancora oggi che lo guardiamo forse con occhi diversi, più segnati da crisi economiche, delusioni e ideali infranti, non può che lasciarci ammirati e un po’ sgomenti.

:: Garage Olimpo di Mario Bechis a cura di Giulietta Iannone

31 Maggio 2018

Garage Olimpo

Il cinema di impegno civile e sociale ha mille facce e mille voci, e se anche prosegue con produzioni perlopiù indipendenti (poco distribuite, poco finanziate) a volte trova strade sue proprie e raggiunge una notevole notorietà come è successo per il film Garage Olimpo del regista italocileno Mario Bechis, che racconta in immagini una vicenda parzialmente autobiografica (anche se la storia non rispecchia unicamente sue vicende personali) che è difficile non tocchi nel profondo lo spettatore.
Di cosa parla Garage Olimpo? Il film narra la storia di una ragazza di 19 anni, durante la dittatura militare argentina di Videla (tra il 1976 e il 1983).
Ambientato a Buenos Aires (in un certo senso inevitabile il confronto con altre pellicole, mi viene in mente la più recente che ho visto Chiamatemi Francesco – Il Papa della gente di Daniele Luchetti), il film tratta il tema dei desaparecidos, persone che furono arrestate per motivi politici, e scomparvero nel nulla, moltissimi sepolti in mare, i cui resti probabilmente non saranno mai più ritrovati.
Affrontare un tema simile, specialmente da chi è stato toccato da quei fatti, non deve essere stato una cosa facile. Ma il film emana una grande forza e una certa pacatezza, una sorta di superamento del dolore, che si fa immagine di denuncia, e di condivisione di un’ esperienza che acquista echi universali e ci parla di oppressione, dell’uso sistematico della violenza per ottenere informazioni, o il controllo antidemocratico della popolazione. Ci spiega il lato inumano di una dittatura e ci racconta le storie anche degli “entusiasti” esecutori di questo sistema repressivo che vedeva nelle incarcerazioni arbitrarie, nella tortura, nella soppressione delle persone (avversari politici o no) il suo modus operandi. Metodi ampiamente utilizzati dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, e mutuati da varie dittature del Sudamerica, per strane corrispondenze.
Il film ha una grande calma compositiva, nessun eccesso, tutto è controllato, anche le scene più forti non lasciano mai mostrare esagerazioni truculente o splatter.
Mario Bechis visse sempre bendato, i sette giorni in cui fu “ospite” di uno di questi centri di detenzione, per cui ricorda solo i suoni della sua prigionia. Con questo film ha dato a quei suoni le immagini, e questa autenticità di intenti e di memoria, non può che rendere lo spettatore consapevole che ciò che sta guardando non è uno spettacolo di intrattenimento.
Cosa mi ha colpito di più di questo film? La sua scelta di porre al centro della vicenda una storia d’”amore” tra carceriere e prigioniera. Questo “espediente” rende immediato il rapporto difficile e misterioso che lega fatti così drammatici alla memoria. E probabilmente rende il tutto più sopportabile allo spettatore.
E’ un film politico? Certamente, lo è nella misura in cui ci presenta gli oppositori politici di una dittatura (di destra) all’opera (si organizzarono in associazioni di resistenza, preparano bombe, le piazzano nelle case dei militari), insomma fanno opposizione attiva.
Le torture per ottenere informazioni (sui movimenti e le attività di questi oppositori politici) sono mezzi utilizzati senza derive sadiche o sanguinarie, e proprio questo le rende più inumane e aberranti. L’uso scientifico della dose sopportabile di scariche elettriche su un corpo (i torturatori non erano autorizzati a uccidere le vittime, questo avveniva in un secondo tempo con iniezione letale) ha un che di folle e nello stesso tempo sistematico e implacabile.
A che età fare vedere questo film? Difficile dirlo, dipende dalla maturità personale dei ragazzi, ma sicuramente gli studenti liceali possono assistere alla visione se supportati da insegnanti consapevoli e equilibrati. Quello che so è che quando lo vidi per la prima volta ero molto più giovane e mi ricordo fu un’esperienza più angosciante. Da adulta, con il mio bagaglio personale di esperienze, ho valutato altri fattori e ne ho percepito più la sua portata universale e non solo legata ai fatti argentini.
Insomma quando uno stato sospende i diritti civili dei suoi cittadini e impone arbitrariamente l’uso della violenza, che sia motivata o meno, commette un crimine. E le sue conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.

:: Wajib – Invito al matrimonio di Annemarie Jacir a cura di Giulietta Iannone

27 Maggio 2018

Wajib

Un padre e un figlio si incontrano e si confrontano nel nuovo film di Annemarie Jacir, Wajib – Invito al matrimonio, primo suo film in programmazione nelle sale italiane. Due generazioni, due percorsi di vita, due mondi se vogliamo differenti e anche conflittuali, che trovano nei sentimenti e nell’amore che lega padre e figlio l’unico terreno in cui ciò che divide si appiana, scompare quasi. La scena finale è molto catartica e piena di pace e di speranza, la stessa che sembra consegnarci questo film interamente ambientato a Nazareth, ai giorni nostri.
Un film palestinese, una produzione palestinese e internazionale, vincitore di numerosi premi, e sebbene non eravamo in molti nella sala, terminata la proiezione, ho sentito solo voci di apprezzamento.
Ma andiamo con ordine. Protagonisti di questa pellicola sono il padre Abu Shadi (Mohammad Bakri) e il figlio Shadi (Saleh Bakri), padre e figlio anche nella vita, due uomini che si trovano uniti da una tradizione antica e radicata nei territori palestinesi, consegnare personalmente di casa in casa gli inviti al matrimonio (tradizionale) di Amal (Maria Zreik), rispettivamente figlia e sorella dei protagonisti.
A bordo di una vecchia Volvo percorrono in lungo e in largo una Nazareth ben poco turistica o agiografica (immondizia non raccolta, teli di plastica variopinti e di poco prezzo per nascondere ciò che gli ospiti non devono vedere, due soldati israeliani (e due soldatesse armate) a accennare (molto discretamente) il clima di occupazione militare presente).
Il Natale è vicino, si percepisce anche solo velatamente. Cristiani e musulmani convivono in pace, intrecciano relazioni di amicizia e di buon vicinato, si accolgono nelle loro case, non lussuose ma dignitose e accoglienti. Le strade sono antiche e moderne, caotiche e silenziose, i contrasti sono sfumati e ci portano in questa antichissima città da spettatori (ospiti). Non ci sono segni visibili di bombardamenti o rovine, l’oppressione e solo accennata, sfumata nei discorsi, che padre e figlio intrecciano sul cammino.
Solo quando il padre vuole invitare al matrimonio un israeliano, (percepito dal figlio come un pericolo), i toni si alzano e lo scontro verbale, ma sempre educato e rispettoso, ci porta alla consapevolezza di una sorta di frattura tra i due.
Il padre rappresenta il passato: è un vecchio professore, colto e nello stesso tempo convenzionale (anche nella scelta della musica da suonare al matrimonio), non immune da un certo fatalismo, e coraggio, e resistenza. Ha scelto di restare, di confrontarsi con una realtà che non accetta completamente, ma sopporta.
Il figlio è una proiezione del nuovo: ritorna dall’ estero, vive in Italia, presumibilmente a Roma dove fa l’architetto, (la diaspora palestinese è un tema importante del film amaramente sottolineato dalle parole di un personaggio che dice che per tornare a Nazareth serve un passaporto europeo), ha una relazione non regolamentata (non vuole rovinare l’amore con il matrimonio), conquista la libertà di portare i capelli lunghi raccolti in uno chignon e di vestirsi con pantaloni rossi e una camicia rosa.
A unirli un abbandono, quello della moglie e madre dei protagonisti, fuggita negli Stati Uniti con un uomo poi diventato il suo nuovo marito (la cui malattia mette in forse la partecipazione di questa donna al matrimonio).
Ecco in breve i tratti salienti di questo film dotato di una sceneggiatura calibrata nei dialoghi. E’ quasi tutto parlato, la lunga conversazione tra padre e figlio è l’ossatura della trama. Gli incontri sono fuggevoli e non danno adito a ritorni, sono tappe, di una sorta di pellegrinaggio che ci porta nel cuore di una città bene o male normale. Le crisi esistenziali dei personaggi non scadono mai in toni eccessivamente drammatici. L’umorismo è sfumato, i toni da commedia controllati. Si sorride, anche se in alcuni punti amaramente.
Wajib – Invito al matrimonio di Annemarie Jacir è un film molto bello, che consiglio, nella misura in cui volete vedere l’altro, con occhi imparziali, il suo spessore umano, le sue fragilità, la sua forza. Un matrimonio è un’ occasione di pace e di felicità, una pausa nello scorrere caotico e noioso della quotidianità. In questo film è un’ occasione di incontro tra più generazioni. Si discute, magari si resta arroccati nelle proprie posizioni e nei propri punti di vista, ma alla fine c’è tempo per sedersi in terrazza e sorseggiare un caffè o fumarsi una sigaretta. Uniti dalla consapevolezza che ci sono cose più importanti che avere torto o ragione.

:: Recensione di Il ragazzo senza storia di Ross Macdonald (Polillo Editore – collana I Mastini, 2012) a cura di Giulietta Iannone

15 dicembre 2012

Il ragazzo senzaIl ragazzo senza storia (The Galton Case, 1959) di Ross Macdonald, traduzione di Giovanni Viganò, è l’ ottavo libro della serie dedicata all’investigatore privato Lew Archer, personaggio che compare in altri diciassette romanzi e nella raccolta di racconti Il mio nome è Archer (The Name is Archer, 1955) pubblicata nel 1978 nella collana Oscar del Giallo Mondadori con il numero 29 e tradotta da Lia Volpatti.
L’investigatore privato Lew Archer viene assunto dall’ avvocato Gordon Sable per mettersi alla ricerca di Anthony Galton, l’erede di una grande fortuna ancora nelle mani della madre Maria Galton, una vecchia signora un po’ eccentrica tormentata dai sensi di colpa per aver scacciato il figlio tanti anni prima per avere sposato una donna di bassa estrazione, giudicata un’ arrampicatrice, dalla quale aspettava un figlio. Prima di morire la donna vuole fare pace con il suo passato così proprio lei incarica il suo avvocato Gordon Sable di assumere Archer, ostinatamente convinta che il figlio sia ancora vivo.
Archer pur convinto che sia un caso senza speranza e che dopo tutti quegli anni Galton sia probabilmente morto o nella migliore delle ipotesi non voglia farsi trovare, accetta e interrogando Cassie Hildreth, una lontana parente e dama di compagnia dell’anziana signora Galton, un tempo innamorata di Anthony Galton, scopre delle tracce che lo conducono a San Francisco dove l’uomo viveva con la moglie e il figlio a Luna Bay. Qui ad attenderlo un mucchio di ossa di uno scheletro decapitato e un ragazzo che afferma di essere il figlio di Anthony Galton.
La somiglianza straordinaria con Galton padre, la testimonianza del medico che l’ha fatto nascere, il certificato di nascita, tutto conferma che il ragazzo sia davvero il nipote ed erede di Maria Galton, ma se fosse un impostore? se ci fossero implicati nel raggiro degli autentici criminali? questi sono i dubbi che assillano Archer quando consegna il ragazzo alla vecchia signora, che lo accoglie con grande calore pronta a cambiare il testamento in suo favore.
Così quando il Dr. August Howell, medico di famiglia di casa Galton e curatore testamentario del patrimonio, vedendo la figlia Sheila infatuata del ragazzo, e giudicandolo senza dubbio un impostore, gli propone di smascherarlo Archer accetta e prosegue le indagini che lo porteranno ad accorgersi di essersi sbagliato, che la verità è ben più assurda e contorta di qualsiasi ipotesi formulata dalla sua intuizione investigativa.
Considerato da Macdonald stesso il suo romanzo migliore, Il ragazzo senza storia, gìà pubblicato in Italia nel 1960 con il titolo A un passo dalla sedia nella collana Il Giallo Mondadori con il numero 581, è senza dubbio uno dei grandi capolavori della letteratura hardboiled, che trae ispirazione da Sofocle, come lo stesso autore afferma e alcuni critici hanno rilevato, vedendo la tragedia di Edipo come nucleo centrale di molte sue opere. Anche in Il ragazzo senza storia troviamo un ragazzo alla ricerca della propria identità e coinvolto, non del tutto innocente, in una storia in cui il passato sembra deciso a non restare sepolto per sempre, e gli atti, i crimini commessi anche parecchio tempo prima si ripercuotono sul presente.
A mio avviso non solo Sofocle ha influenzato Macdonald ma anche Shakespeare, soprattutto se consideriamo i parallelismi tra l’Amleto e questo romanzo in cui la componente psicologica determina un gioco di specchi e un ribaltamento dei ruoli dove quasi nessuno è chi si crede che sia, per lo meno non solo il presunto impostore John Brown / Theo Fredericks, ma anche l’avvocato Sable e sua moglie Alice, o l’ex-moglie di Peter Culligan, il cameriere dalla faccia patibolare di Sable, trovato ucciso quasi all’inizio del romanzo e la cui morte si collega strettamente con la vicenda principale.
La complessità della trama non deve spaventare perché la storia fluisce del tutto logicamente, non essendo intenzione dell’autore ingannare il lettore, ma semplicemente dimostrare che spesso i personaggi apparentemente innocui nascondono un volto oscuro ben peggiore dei delinquenti dichiarati, come possono essere i fratelli Roy e Tommy Lemberg.
Una curiosità, il romanzo diventerà presto un film, avendone la Warner Bross acquistato i diritti cinematografici  e avendone affidato la sceneggiatura a Peter Landesman. Dopo Detective’s Story (Harper del 1966) e Detective Harper: acqua alla gola (The Drowning Pool del 1975) in cui un spiegazzato e ironico Paul Newman portò Lew Archer per la prima volta sullo schermo, avremo così modo di vedere ricostruita la California dei tardi anni 50. Spero che la regia l’affidino a Curtis Hanson, con LA Confidential fece un buon servizio al romanzo di James Ellroy.

Ross Macdonald (1915-1983), pseudonimo di Kenneth Millar, nacque a Los Gatos, in California, ma crebbe in Canada. Dopo la laurea e il servizio in marina durante la guerra, nel 1944 esordì nella narrativa gialla con The Dark Tunnel (Il tunnel), il primo di quattro romanzi firmati col suo vero nome. Quando si rese conto che i suoi libri potevano essere confusi con quelli della moglie Margaret Millar, a sua volta giallista in ascesa, prese uno pseudonimo. Nel quinto mystery, The Moving Target (Bersaglio mobile), introdusse il detective Lew Archer che, tranne in due casi, comparirà in tutto il resto della sua produzione e sarà impersonato sullo schermo da Paul Newman in Detective’s Story e in Detective Harper: acqua alla gola. Oltre a The Galton Case (1959, Il ragazzo senza storia), il cui film è in lavorazione da Warner Bros., i suoi romanzi più celebri sono The Drowning Pool (1950, Il vortice), The Chill (1964, Il delitto non invecchia), The Far Side of the Dollar (1964, Il passato si sconta sempre – I Mastini n. 4), vincitore del premio della Crime Writers’ Association per il miglior libro, e The Blue Hammer (1976, Lew Archer e il brivido blu), l’ultimo. Pur richiamandosi alla lezione di Chandler e Hammett, i due grandi maestri dell’hardboiled, Macdonald è considerato superiore a entrambi da una parte della critica per aver dato al romanzo poliziesco, come scrisse lui stesso, “una serietà e una complessità di stile e di trama che in passato non aveva”.