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:: Un’intervista con il Gen. Livio Ciancarella a cura di Giulietta Iannone

16 novembre 2025

Buonasera Gen. Livio Ciancarella, grazie di avere accettato la nostra intervista. Inizierei con una domanda di rito: si presenti ai nostri lettori, studi, pubblicazioni, attività anche non legate alla scrittura.

Buonasera dott.sa Iannone, sono un militare in pensione, ho partecipato a sei missioni all’estero in varie aree delle quali ho approfondito la cultura e le usanze, mi piace la storia e ho pubblicato un primo libro (Sotto un cielo senza confini – storia di un bisnonno fedele all’Austria) nel 2016 che ha vinto il premio Sandomenichino, poi Intrigo in Afghanistan nel 2024 (un giallo poco giallo e molto autobiografico) e infine questo ultimo saggio nel 2025. Insegno gratuitamente Geopolitica e Storia dell’Islam e sono apicoltore, dove imparo molto da questi piccoli esserini.

È l’autore del saggio I primi caduti della Comunità europea – Parlano i sopravvissuti di Podrute – Novi Marof. Un testo molto ben documentato che raccoglie interviste, lettere, atti processuali, foto, mappe. Perché ha sentito la necessità di scrivere questo libro?

Grazie. Ho constatato che nessuno aveva mai sentito i diretti testimoni di un fatto cruento del 1992, i parenti delle vittime, i sopravvissuti e persino la parte che ha aggredito. Inoltre c’era molta incertezza sui dettagli dell’evento.

E come ha raccolto le fonti? Quanti anni ci ha messo?

Un paio di anni. Le interviste sono state un lavoro faticoso perché doveva essere personalizzato e mi interessava coinvolgere più persone possibile. Le fonti principali sono stati gli atti processuali dei tre gradi di giudizio di un evento che ha fatto giurisprudenza nel diritto internazionale, poi le testimonianze dirette, poi i documenti disponibili online comprese le dichiarazioni fatte ai media serbi, infine alcuni dettagli tecnici e cronologici ricostruiti con il confronto delle fonti.

Nell’introduzione scrive che per un soldato peggio della morte è la perdita della memoria, che i fatti siano distorti, occultati o dimenticati. Pensa che sia un sentimento diffuso tra i militari?

Non lo penso, ne sono certo. Questo deriva da anni della mia vita dedicati a svolgere missioni militari all’estero e dal confronto con le memorie di altri veterani in altri contesti. Vede, perdere la vita non è nulla in confronto all’abisso di essere considerati inutili dopo mille sforzi profusi.

Il libro riapre una pagina dolorosa, l’abbattimento dell’elicottero della Comunità economia Europea (diventerà UE solo il 7 novembre 1993 a Maastricht) del 1992. Cosa successe davvero il 7 gennaio del 1992?

Nel 1991 venne avviata la ECMM (European Commission Monitor Mission), una missione disarmata accettata dalle parti che doveva monitorare i tentativi di comporre il conflitto appena scoppiato in Jugoslavia. In quella data un nostro elicottero completamente bianco venne intercettato e abbattuto da un MiG 21 federale (jugoslavo) causando la morte di cinque osservatori, quattro italiani e un francese.

Una storia poco conosciuta se vogliamo, cosa hanno cercato di nascondere? Un incidente o un atto deliberato di Belgrado?

I mandanti sono stati sottoposti a giudizio in contumacia e giudicati colpevoli di strage e crimini di guerra in Italia e in Croazia, non c’è dubbio sulla intenzione deliberata. Più controverso è capire i motivi per cui questo sia stato fatto: inizialmente si era cercato di far ricadere la colpa sui Croati, poi che si fosse trattato di un tragico errore. Esistono molte teorie sui motivi, ma nessuna ha messo la parola fine a questa storia. Forse succederà in futuro, forse no, io ho fatto le mie considerazioni raffrontando il clima e gli eventi contestuali.

È in fondo anche una storia di memoria negata, verso le vittime e l’opinione pubblica. Che conseguenze avrebbe potuto avere?

Viviamo in un mondo di ipocrisie, esaltiamo l’integrazione, ma non sappiamo rendere merito a chi si è speso per questo. Beninteso le medaglie nazionali ci sono state, ma manca ancora un riconoscimento dalla UE per i suoi primi caduti, quasi che una malcelata e incomprensibile real politik impedisca di farlo. Mi ha poi amareggiato constatare la differenza di trattamento per i figli dei caduti in Francia e in Italia, due pesi e due misure indegni di un continente che si dice unito. I conti con la storia possono venire tardi, ma vengono sempre.

E per quale ragione fino a oggi i testimoni, o chi partecipò all’abbattimento dell’elicottero con gli osservatori della Comunità Europea fanno ancora così fatica a parlare e raccontare la verità? Come se lo spiega?

Per i Serbi questo evento costituisce un grande imbarazzo: da un lato si vorrebbero lasciare alle spalle gli orrori ed errori della guerra, dall’altro il partito dei veterani costituisce ancora una forza elettorale influente. Nonostante due tentativi con amici storici non ho da loro avuto risposta alle mie domande che ho comunque pubblicato, con riscontri dai media, in attesa di una futura edizione partecipata. Per i colleghi italiani la ritrosia è meno nettamente spiegabile: vi sono casi rispettabili di rifiuto a riaccendere il dolore e vi sono stati casi di pubblicazione negata a intervista conclusa, come se non si dovesse parlare di certe cose. In parte è una ritrosia tipica di chi ha visto la morte, in parte è timore di conseguenze, quali poi non sono riuscito a capirlo.

Grazie della disponibilità, e se le posso chiedere ha nuovi progetti di scrittura in corso?

Credo che prossimamente lavorerò a un romanzo semiautobiografico ambientato in Libano, una storia d’amore e guerra intrecciata coi luoghi dove il tempo è ciclico (aion), “Il cielo del Libano”. Che gliene pare? Grazie a voi e buon lavoro.

:: Un’intervista con Marina Visentin, autrice di A mani nude, a cura di Giulietta Iannone

1 novembre 2025

Bentornata, Marina, su Liberi di scrivere e grazie di averci concesso questa nuova intervista. Dopo Aurora, sei tornata a un tuo personaggio seriale, Giulia Ferro, di cui hai già pubblicato Cuore di rabbia e Gli occhi della notte, con SEM. A mani nude è il terzo episodio della serie che esce con Laurana editore, nella collana Calibro 9. Come è cresciuto il personaggio di Giulia? Sta facendo pace con il passato e con la figura del padre? C’è meno rabbia in lei, un’apertura verso una riconciliazione?

Sì, il personaggio di Giulia è certamente cresciuto, è cambiato, pur mantenendo ovviamente i tratti fondamentali della sua personalità. Ha cominciato a fare i conti col proprio passato e a esplorare, in qualche misura, la possibilità del perdono, nei riguardi degli altri – di chi le ha fatto del male – e soprattutto di se stessa.

Un percorso, un cambiamento che io avevo in mente fin dall’inizio. Perché Cuore di rabbia, Gli occhi della notte e adesso questo terzo episodio, A mani nude, nella mia testa sono nati tutti insieme alcuni anni fa. Poi ognuno di questi libri ha avuto bisogno del suo tempo di incubazione, naturalmente, e ognuno racconta una storia specifica, che ha un suo inizio, un suo svolgimento e una conclusione. Però ogni nuova indagine per Giulia Ferro vuol dire in qualche modo indagare anche su se stessa, sul proprio passato, sulla propria vita, sul senso da dare alle cose. Quindi, al di là dei singoli delitti su cui di volta in volta si appunta l’attenzione della nostra vicequestora e quindi del lettore, quello che viene raccontato nei tre libri è anche la storia di Giulia Ferro: una donna segnata da un passato molto complicato, che l’ha resa da una parte estremamente forte, abile nel suo lavoro, molto rispettata, forse anche un pizzico cinica, e dall’altra un’anima ferita che non riesce a trovare pace perché le ferite, i dolori, le sofferenze che hanno costellato la sua vita fin dalla prima infanzia sono ancora impressi nella sua carne, nel suo animo, come cicatrici che non si lasciano semplicemente cancellare con un colpo di spugna.

Gli anni di piombo, la lotta armata rivoluzionaria, il periodo delle stragi, sono una ferita ancora aperta della storia italiana, con cui forse non si è ancora venuti a patti. C’è stato come una sorta di oblio, quasi si facesse fatica a metabolizzare quel periodo. Perché hai scelto di parlarne nei tuoi libri e hai scelto un passato così ingombrante per la tua protagonista? Questo conflitto generazionale ti serviva anche per raccontare una pagina così tragica della nostra storia con più partecipazione emotiva?

Gli anni di piombo erano già presenti nel primo romanzo della serie, anche se là si trattava soltanto di un accenno. Quando ho immaginato la mia protagonista, ho avuto bisogno di immaginarla tutta intera, con tutte le caratteristiche, gli elementi, i dettagli della sua vita, anche quelli che nel primo romanzo non sarei riuscita a sviluppare. Però io avevo bisogno di averli già in mente tutti, di avere in mente tutta la sua storia, il suo passato, la storia della sua famiglia. Una storia pesante, proprio perché figlia di quell’epoca, dei drammi, delle ombre, delle contraddizioni di quel periodo storico. Un passato ingombrante, certo, e la protagonista ha bisogno di rielaborarlo, di affrontarlo e può farlo solo riprendendo i contatti con suo padre, affrontando quel conflitto che per molti anni è rimasto sepolto come fuoco sotto la cenere.  Posso aggiungere che questi argomenti non sono emersi casualmente in questi miei ultimi libri: sono temi per me importanti e sono anni che ci dedico tempo, leggendo e approfondendo. Si tratta di pagine drammatiche della nostra storia, come tu giustamente dici, ed è qualcosa di cui bisogna continuare a parlare. Perché noi tutti siamo in qualche modo figli di quell’epoca, di quel sogno rivoluzionario spesso tragicamente scivolato nell’incubo degli anni di piombo.

Ci sono spunti autobiografici, o storie che hai sentito raccontare che ti hanno influenzata?

No, di spunti autobiografici non ce ne sono in questo romanzo, e non ho nemmeno ricostruito casi o vicende particolari di quegli anni, però ho studiato in modo approfondito quel periodo storico e, per chi lo conosce, non sarà difficile ritrovare tutta una serie di dettagli storici specifici, dal rapimento di Carlo Saronio alla sparatoria alla cascina Spiotta durante il sequestro Gancia, giusto per fare due esempi concreti. Come dicevo, è un tema che da un punto di vista soprattutto etico mi interpella molto, quello della lotta armata, sono anni che ci dedico letture e riflessioni.

C’era chi ci credeva, e chi ha cavalcato l’onda per motivi che esulavano dagli ideali, e dalla fede politica. Senza entrare troppo nei dettagli della trama, come hai affrontato questo divario?

Mettendo in scena personaggi diversi, che hanno seguito a volte traiettorie esistenziali radicalmente diverse, pur avendo magari iniziato da giovani nello stesso identico modo. Anche qui non ho ricostruito specifiche parabole esistenziali, ma ho pescato qua e là elementi veri, storie reali e le ho cucite insieme immaginando personaggi che potessero rappresentare le diverse sfumature della cosiddetta militanza. Sfumature a volte anche radicalmente opposte, tra afflato ideale e mero opportunismo, assoluta onesta morale e bieca malafede.

Quanto c’è di Milano reale e quanto di immaginario nella rappresentazione dei suoi quartieri? Come hai scoperto l’utilizzo delle vie d’acqua per portare i marmi con cui è stato costruito il Duomo? Come scegli i dettagli storici da inserire senza appesantire la narrazione?

La Milano che racconto nei miei libri è assolutamente reale, sia la Milano di oggi sia la Milano del passato. Quindi la storia di Milano, l’utilizzo delle vie d’acqua per portare i marmi con cui è stato costruito il Duomo, è una notizia storica, come lo sono tutti gli altri dettagli che ho inserito dentro la narrazione, sia parlando dei navigli, sia parlando del cimitero monumentale, sia descrivendo altri scorci, altri quartieri, altre vie, piazze e palazzi di Milano. Io amo molto descrivere Milano e cerco di essere sempre molto precisa e documentata. Poi è chiaro che qualche libertà bisogna a volte prendersela. Faccio un esempio: al cimitero monumentale tutto quello che ci ho messo dentro, che trovate nelle pagine del mio libro, è assolutamente vero, reale, non ho inventato nulla. Però ho giocato un po’ con la topografia, spostando alcune tombe, collocandole più vicine di quello che sono nella realtà, semplicemente per riuscire a dare un’idea dell’atmosfera con un rapido colpo d’occhio, in modo che anche il lettore che non conosce il cimitero monumentale di Milano, perché non ci ha mai messo piede, sia in grado di cogliere le caratteristiche essenziali di questo museo a cielo aperto che in qualche modo si presenta come una città nella città. In generale, tutti i dettagli storici che si trovano nei miei libri e che riguardano Milano sono assolutamente realistici e autentici. Ma la scelta di utilizzare un’immagine invece che un’altra, di raccontare uno specifico aneddoto, di mettere in primo piano un dettaglio e magari un po’ in ombra un altro, non ha a che fare con il realismo ma con precise scelte narrative. Sono scelte chiaramente funzionali al racconto, al fatto di esaltare un certo tipo di atmosfera invece che un’altra. Insomma, come sempre nei miei romanzi, anche in questa terza avventura di Giulia Ferro la realtà si mescola con l’immaginazione.

Sei un’esperta di cinema, ci sono film che ti hanno influenzata nella stesura di questo romanzo? Sarebbe bello anche un parallelo tra la tua Milano e la Milano scerbanenchiana di Venere Privata (penso al film del 1970 diretto da Yves Boisset).

Sì, mi occupo di cinema da tanti anni e sicuramente la mia abitudine a consumare immagini in movimento influenza il mio modo di scrivere, e quindi ha influenzato questo romanzo come tutti gli altri romanzi e racconti che ho scritto nella mia vita. In specifico, devo dire che no, per quanto io apprezzi tantissimo i romanzi di Scerbanenco, non mi riconosco tanto in quel tipo di immaginario. Piuttosto, proprio nel periodo in cui stavo più o meno completando la stesura di A mani nude, ho riletto i romanzi di un altro autore milanese, che amo molto: Renato Olivieri. E ho deciso di rendergli omaggio ambientando una parte del mio romanzo esattamente in quella Milano borghese e sorniona tra via Bianca di Savoia, via Anelli e via Beatrice d’Este che fa da sfondo a Maledetto Ferragosto, un romanzo del 1980 che vede protagonista il commissario Ambrosio (portato al cinema da Ugo Tognazzi ne I giorni del commissario Ambrosio di Sergio Corbucci).

Tra tutti i personaggi secondari, c’è qualcuno che ti ha emozionato o divertito particolarmente mentre scrivevi? A me è piaciuto molto Vitalo (ma anche la sua ex, madre di suo figlio) e Alfio Russo.

Alfio Russo ormai non lo definirei più neanche un personaggio secondario. Certo, viene dopo rispetto alla protagonista, Giulia Ferro, ma è talmente presente da essere indispensabile.  E sì, parlare di Alfio Russo, immaginare i dialoghi fra lui e Giulia Ferro è sempre emozionante, sempre molto divertente. Parlando in specifico di A mani nude, forse è il personaggio di Vitalo quello che più mi ha coinvolto. Vitalo è un vecchio amico del padre di Giulia Ferro e, come Rino Ferro, ha avuto un passato nella lotta armata, anche se non ha ucciso nessuno, però ha creduto, almeno in quel particolare periodo della sua vita, che attraverso la violenza sarebbe stato possibile un cambiamento della società, un cambiamento positivo. Ha creduto nella possibilità di una rivoluzione in grado di eliminare le tante intollerabili ingiustizie che allora, come oggi, contraddistinguono la realtà che ci circonda. Vitalo è una persona che ha fatto tanti errori nella sua vita, ma è sempre rimasto un idealista, una persona estremamente buona, incapace di voltarsi dall’altra parte quando vede un’ingiustizia. Una caratteristica che finisce col metterlo nei guai, per l’ennesima volta della sua vita. Proprio questa ambiguità, questa doppia valenza – intenzioni buonissime che però possono dare adito a errori dalle conseguenze tragiche – era quello che mi interessava raccontare quando ho deciso di mettere in scena il personaggio di Vitalo.

Pensi che il noir possa essere uno strumento efficace per raccontare la memoria storica?

Sì, certo, il noir è uno strumento estremamente efficace per descrivere il mondo, la realtà che oggi ci circonda, ma anche il mondo da cui veniamo, la storia da cui proveniamo. Un delitto è in qualche modo una lente di ingrandimento che ci permette di vedere meglio tutto ciò che c’è intorno. Per questo un’indagine è sempre anche un modo per scavare nelle ombre, esplorare gli angoli non immediatamente visibili, scoprire ciò che a un primo sguardo può non essere evidente. E questo vale a maggior ragione se parliamo del passato, e quindi della memoria storica. Io credo tantissimo nell’importanza di coltivare la memoria, preservarla, rispettarla. Tenendo conto che senza memoria, sia come singoli individui, sia come società, rischiamo di perdere la nostra identità.

Quanto lavoro richiede la costruzione dei dettagli investigativi e procedurali nel romanzo? Ti sei avvalsa della consulenza di veri vicequestori, giudici, semplici poliziotti?

Sì, io cerco sempre di documentarmi il più possibile, ogni volta che scrivo un libro, anche “interrogando” amici poliziotti, giudici e avvocati. Però è vero che – e questo me lo ha detto un amico scrittore, ex poliziotto ormai in pensione – se tu metti in un libro un’indagine esattamente così com’è nella realtà, il rischio è che sia noiosissima. Nel momento in cui un’indagine la descrivi in un romanzo, devi per forza reinventarla, rimontarla, raccontarla tradendo in qualche modo la realtà. Però questo non deve voler dire tradire la fiducia del lettore. Insomma, se da una parte è giusto e sacrosanto prendersi delle libertà, perché sennò probabilmente il risultato sarebbe veramente indigesto per chi legge, al tempo stesso non si può neanche prendere in giro il lettore. Io non amo particolarmente, neanche da lettrice, le descrizioni dettagliate di autopsie e in generale vedere l’indagine dal punto di vista della polizia scientifica, quindi questo è un tipo di dettaglio che nei miei romanzi c’è abbastanza poco. Preferisco ragionare sui moventi dei personaggi, approfondire le psicologie, piuttosto che occuparmi di intercettazioni, impronte, balistica o esami del DNA. Tuttavia, se ho bisogno di inserire dettagli di questo genere, naturalmente faccio in modo che siano il più possibile realistici. E controllo tutto ricorrendo al parere di qualche esperto, tutte le volte che è necessario.

Hai mai pensato di scrivere un prequel su uno dei personaggi “del passato” degli anni Settanta? Magari proprio una storia incentrata sul padre di Giulia?

Sinceramente, più che a un prequel avrei pensato a uno spin-off, perché una delle cose che ogni tanto mi viene voglia di fare è prendere Alfio Russo e trasformarlo a tutti gli effetti nel protagonista di una storia. Certo, anche un romanzo incentrato sul padre di Giulia potrebbe essere estremamente interessante, però non lo so, sono ancora molto in dubbio. Quando ho iniziato a scrivere Cuore di rabbia avevo già in mente l’intera trilogia, sapevo già dove volevo arrivare, avevo in mente tutto il percorso che avrebbe dovuto fare il mio personaggio. E avevo anche preso in considerazione che questo fosse l’ultimo romanzo e la storia di Giulia Ferro finisse qui. Adesso sono un po’ incerta. In realtà in questo momento non mi sento pronta ad abbandonare questo personaggio e quindi vorrei continuare, esattamente in quale direzione è proprio il dibattito che ferve in questo momento nella mia officina di scrittrice.

:: A mani nude di Marina Visentin (Laurana Editore, 2025) a cura di Giulietta Iannone

26 ottobre 2025

Sono quasi arrivata a casa, nessuno mi aspetta e va bene così. Le otto sono passate da poco e il cielo sembra in fiamme, come se laggiù, sopra i tetti, si fosse aperta una fornace incandescente, rosso vivo. E tutt’intorno un blu profondo che mette quasi paura.
In bilico sul buio, in attesa della notte, la città respira piano. Aspetta la fine dell’inverno.
Io mi godo il vento. È come uno schiaffo in faccia l’aria fredda, ma il rosso del cielo mi tiene compagnia. Come un abbraccio che scalda. Nonostante tutto.

A un anno dall’uscita di Aurora, Marina Visentin torna al noir, questa volta investigativo, con A mani nude. Stesso editore, Laurana, stessa collana, Calibro 9, stessa città: Milano.

Un piacevole ritorno allo stile particolare con cui l’autrice interpreta il noir e trasforma Milano in uno scenario vivido e dolente, coi suoi Navigli, il Cimitero Monumentale, le vie borghesi, i palazzi eleganti, i bar-tabacchi di periferia, i cortili, le case di ringhiera. In questi luoghi scorre e si dipana una storia che intreccia presente e passato: il passato degli anni Settanta, quelli della lotta armata e degli anni di Piombo, che ultimamente sembra vivere una riscoperta dopo anni di oblio.

Protagonista è il vicequestore Giulia Ferro, donna con un passato ingombrante: una madre dedita all’eroina, un padre militante. Carattere difficile, tanto quanto competente e brava nel suo lavoro.

Il caso su cui indaga parte dal ritrovamento di due corpi: un ex terrorista rosso, Chicco Luini, con una fedina penale lunga e accidentata, annegato nei Navigli dopo essere stato pestato da tre ragazzi, di cui uno minorenne; e un appartenente alla Milano bene, Guido Andrea Del Corno, apparentemente morto suicida, impiccato nel Cimitero Monumentale, accanto al mausoleo di famiglia.

Due casi nati già chiusi, anche se il ritrovamento dei corpi avviene a un giorno di distanza l’uno dall’altro. Le vittime appartengono alla stessa generazione, ma sembrano provenire da mondi opposti. Tuttavia, qualcosa non torna: indagando, grazie soprattutto alle informazioni fornite spontaneamente da Vitalo, un amico del padre anche lui ex-militante, Giulia scopre un improbabile e torbido legame tra i due, che la conduce a un vecchio rapimento degli anni Settanta, che costò la vita al rapito, quando i militanti della lotta armata usavano i sequestri — come altri crimini — per finanziare la loro causa rivoluzionaria.

Marina Visentin scrive con precisione e sensibilità, sa unire i fili che legano il passato al presente, caratterizzando ogni personaggio con il suo bagaglio di sofferenza, difetti e pregi, senza calcare la mano sulla nostalgia. Delicato il legame tra la protagonista e il padre, a cui non smette di volere bene nonostante le sue scelte e i suoi errori, aprendo una strada verso la riconciliazione in un tenerissimo finale.

Ma è l’indagine l’ossatura portante della storia: l’interrogatorio dei testimoni, la ricerca degli indizi, i rapporti spesso conflittuali tra i colleghi della procura. L’autrice rende molto bene questa parte, con scrupolo e attenzione ai dettagli. Non è tanto la ricerca di un solo colpevole il punto centrale, quanto il capire cosa successe veramente: come si concatenarono gli eventi che portarono a tante altre vittime collaterali, quale fu la scintilla, come se il male si propagasse a onde e lasciasse dietro di sé una scia di morte.

Il passato non è idealizzato. Giulia è una poliziotta, una servitrice dello Stato — sebbene il termine sia desueto — e ha scelto una parte della barricata, nonostante le scelte del padre. Questo conflitto è una delle parti meglio descritte, con sensibilità e pudore.

A mani nude conferma Marina Visentin come una delle voci più solide e consapevoli del noir italiano contemporaneo. È un romanzo che unisce rigore investigativo e introspezione emotiva, storia collettiva e ferite private, in una scrittura elegante e mai compiaciuta. Non cerca il colpo di scena, ma la verità nascosta nelle pieghe della memoria.

Un noir intimo e civile, nel solco del noir civile di De Cataldo, ma con una delicatezza tutta femminile, attenta ai sentimenti, in cui il passato continua a bussare alle porte del presente e in cui la giustizia — come la vita — si compie solo a mani nude.

Marina Visentin è nata a Novara, da oltre trent’anni vive e lavora a Milano. Giornalista e traduttrice, una laurea in filosofia e un passato da copy-writer, ha collaborato con numerose testate scrivendo di cinema. Ha pubblicato saggi sulla storia del cinema, libri di filosofia e costume (Filosofia Finalmente ho capito!, Vallardi, 2007; Raffasofia, Libreria Pienogiorno, 2021), romanzi gialli e noir (Biancaneve, Todaro Editore, 2010; La donna nella pioggia, Piemme, 2017; Cuore di rabbia, Sem, 2021; Gli occhi della notte, Sem, 2023; Aurora, Laurana Editore, 2024).

Source: libro inviato dalla casa editrice Laurana che ringraziamo, assieme all’autrice.

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:: Un’intervista con Isabella Zani, traduttrice italiana di “La vedova di Hong Kong” di Kristen Loesch, a cura di Giulietta Iannone

26 ottobre 2025

Benvenuta Isabella, e grazie di averci concesso questa intervista che verterà sul suo lavoro di traduzione di un libro molto particolare e per certi versi anche davvero complesso come La vedova di Hong Kong. Mentre lo leggevo mi è venuto spesso in mente di poterle fare delle domande per aiutarmi a comprenderlo e soprattutto a capire meccanismi narrativi che a volte sfuggono alla stessa autrice. Si può dire che anche il traduttore è un medium, parla con gli spiriti, si è sentita così mentre lo traduceva?

Grazie a voi per l’invito e, per cominciare, tra “malati” di libri e di lettura direi di darci del tu.

È senz’altro vero che il traduttore sia un medium, nel senso etimologicamente più stretto di “intermediario” tra una lingua e un’altra. Rispetto a chi pratica lo spiritismo, però, il traduttore di narrativa gode del grande vantaggio di poter guardare dentro un oggetto molto meno misterioso di una sfera di cristallo o di uno specchio oscuro, cioè il libro, o meglio il testo; e di avere a che fare con entità, i personaggi, non sempre trasparenti ma creati per essere leggibili. E questo anche quando ha a che fare con autori che non ci sono più, perché ogni scrittore che valga lascia un’eredità di senso interpretabile nei mondi che ha creato.

Tu credi al soprannaturale, anche non dogmatico? Conoscevi la spiritualità cinese, tutte quelle leggende legate agli spiriti, agli dèi, al mito? Come ti sei documentata mentre traducevi? Ci sono pagine che hai letto per assorbirne il ritmo, la cadenza, il meraviglioso?

Questa non è una domanda, bensì addirittura tre, alle quali proverò a rispondere con ordine e con onestà. Come persona no, non credo al soprannaturale in nessuna versione, quale che sia l’etichetta con cui viene presentato. Come traduttrice però devo credere a tutto, dato che il mio compito non è giudicare le scelte narrative dei miei autori bensì presentarle ai futuri lettori delle mie traduzioni come plausibili, esteticamente ed emotivamente.

Sempre come persona, no, non possiedo una formazione legata alla spiritualità orientale in genere, e traducendo questo romanzo mi sono documentata quand’era necessario come sempre faccio svolgendo il mio lavoro: tramite le fonti reperibili in rete o in biblioteca, e con l’aiuto di colleghi ed esperti nei settori rilevanti. Come traduttrice non solo devo credere a tutto, ma devo anche capire tutto, per poterlo restituire con qualche credibilità; tuttavia accorgersi di non sapere cose, e doverle imparare, è una delle grandi gioie del mestiere.

Infine, se per “letto” si intende “letto ad alta voce”, no, non è una mia abitudine mentre lavoro, perché di norma una scrittura felice è in grado di suonare la propria musica originale stando sulla pagina, e di accompagnare il traduttore alla ricerca di un’equivalente (che non significa identica) musica dell’italiano… o almeno questo è l’intento, poi saranno i lettori a giudicare se riuscito o meno.

Il romanzo attinge profondamente alla spiritualità cinese, al culto degli antenati, alle leggende locali di Hong Kong. Come hai gestito la resa in italiano di questi concetti, così specifici ma anche universali? Hai sentito il bisogno di “spiegare” o hai preferito lasciare una certa aura di mistero?

È un tipo di decisione in cui di norma ci si lascia guidare dal testo. Questo romanzo è ambientato perlopiù in specifici luoghi della Cina e animato da personaggi cinesi, ma è scritto in inglese, quindi in un certo senso anche l’autrice aveva già “tradotto” le vicende – sia pure di fantasia – dalla lingua in cui si sarebbero svolte alla propria, e per questo ha inserito delle spiegazioni nel processo di scrittura dove lo sentiva necessario; in questi casi il mio lavoro può limitarsi alla “normale” resa in italiano. In altri, dov’è l’autrice a decidere di usare dei termini cinesi (o presi da altre lingue) senza tradurli e lasciare al contesto il compito di chiarirli, ho fatto la stessa cosa, in modo che le dosi di mistero presenti nell’originale e nella traduzione si equivalessero. Il lettore desideroso di approfondire un qualunque elemento del testo ha senz’altro a disposizione molti modi rapidi di soddisfare la propria curiosità.

La vedova di Hong Kong è intriso di un’atmosfera sospesa, quasi rarefatta, dove il confine tra reale e sovrannaturale è labile. Com’è stato per te abitare questa soglia durante il lavoro di traduzione? Hai mai avuto la sensazione che le parole ti stessero portando da qualche altra parte, oltre la pagina?

L’ho avuta spesso ma per un motivo totalmente personale, legato alla mia biografia. Avevo una carissima amica che era di genitori europei ma che per un caso del destino era nata e aveva vissuto a lungo a Hong Kong, e conosceva la Cina continentale. Nel corso della nostra amicizia mi ha raccontato molto spesso di quei luoghi, dei loro abitanti e della loro cultura, con cui era cresciuta in contatto strettissimo; ora questa persona è scomparsa da diversi anni, ma per tutto il tempo della stesura e della revisione del romanzo tradotto ho sentito la sua voce e i suoi racconti risuonarmi dentro molto nitidamente, e ho avuto l’impressione di passare dalle pagine a un luogo del cuore dove io e la mia amica siamo ancora insieme. Penso che il romanzo le sarebbe piaciuto molto.

Lo potresti definire un romanzo post-coloniale? È un genere che leggi o frequenti?

La mia esperienza in questo senso si limita alla traduzione, ormai risalente a due decenni fa, di un bel romanzo dell’autore nigeriano Chris Abani. Se vale la definizione per cui è letteratura post-coloniale quella prodotta da autori nati nei paesi che hanno subito la colonizzazione europea, ma scritta nella lingua dei colonizzatori, tenderei a escludere La vedova di Hong Kong, da questo ambito. Semmai lo ascriverei a quello più ampio delle storie di fuga e sradicamento, condizione che nel libro non riguarda solo la protagonista Mei.

Il romanzo può essere definito anche un romanzo gotico con venature horror, benché molto leggere. C’è stata una scena che ti ha fatto veramente paura? O pensi anche tu che più dei fantasmi vendicativi fanno paura la soppressione della memoria, lo sradicamento culturale, la violenza dei vivi?

Più che davanti alle scene sanguinose, le mie personali paure si risvegliano davanti a quelle di separazione forzata e di lutto, perché rievocano sensazioni note contro cui la pagina scritta costituisce una protezione molto fragile. Ma se si esce dalla dimensione individuale, mi sembra innegabile che tutto ciò che gli esseri umani riescono a fare ad altri esseri umani nella realtà senza, a quanto pare, trarre alcun moto di redenzione da millenni di carneficine e delitti efferati, sia molto più spaventoso di qualunque violenza immaginata e narrata.

Il romanzo intreccia con eleganza passato e presente, vivi e morti, spiriti e memorie. Come sei riuscita a fronteggiare le tre linee temporali, a capitoli alternati, con cui è scritto il romanzo? L’hai tradotto consequenzialmente o diviso in blocchi temporali?

Indipendentemente dalla struttura, traduco ogni romanzo da lettrice, per così dire: cercando di saperne il meno possibile prima di cominciare il lavoro e procedendo di pagina in pagina senza salti perché voglio farmi sorprendere, e al limite anche confondere. È sempre possibile tornare indietro e fare delle modifiche se ci si accorge che qualcosa che succede “dopo” influenza la resa di qualcosa che è successo “prima”; come traduttrice mi è già accaduto di tradurre romanzi dalla struttura non lineare, e a rischio di sembrare un disco rotto, ripeto che un buon testo aiuta sempre a riannodare i fili.

La lingua originale, l’inglese dell’autrice, è profondamente influenzata dalla cultura cinese. Come si restituisce questa doppia anima – occidentale nella forma, orientale nel respiro – in una terza lingua, l’italiano?

A me pare che in questo romanzo la cultura cinese influenzi, più che la lingua, le caratteristiche dei personaggi e il modo in cui interagiscono tra loro; la sintassi è senz’altro inglese, benché l’ambientazione sia orientale e l’autrice abbia una formazione da slavista. Semmai la resa in italiano ha dovuto tenere conto di un certo gusto per le metafore legate appunto alla cultura cinese: “la bocca come una prugna salata”, “la faccia rossa e lucida come una busta di Capodanno”. Pochi di noi hanno assaggiato una prugna salata, o visto una busta di Capodanno, ma non sarebbe stato corretto ridurre le similitudini a qualcosa di più familiare, perché fanno parte del mistero di cui si diceva più sopra e sono lontane per noi come lo sono per il lettore di lingua inglese.

Cosa è stato più difficoltoso durante la traduzione del libro? C’è qualche parte che hai affrontato davvero come una sfida? Di cosa sei più soddisfatta?

Affronto ogni traduzione come la sfida di restituire al lettore italiano la stessa esperienza estetica, in senso letterario, che il testo mi porta a immaginare abbia provato il lettore di lingua originale. Nel caso della Vedova di Hong Kong forse una difficoltà è stata quella di fare attenzione a evitare di introdurre nel mio testo elementi estranei all’ambientazione. Per esempio i funghi “orecchio di Giuda” (in inglese cloud ear)sono diventati semplici “funghi orecchio”: in inglese il problema non si poneva, ma in italiano il riferimento evangelico sarebbe risultato incongruo in bocca a un personaggio cinese. In generale direi che sono soddisfatta dell’equilibrio che mi pare di aver trovato tra il lessico e il modo di esprimersi di Mei bambina e quelli di Mei adulta, anche se il merito non è solo mio; non c’è traduttore che non debba ringraziare i suoi revisori, quando sono stati attenti e precisi come nel caso di questo libro.

La scrittura di Kristen Loesch è poetica, quasi musicale. Come hai lavorato per conservarne la musicalità in italiano, evitando l’eccesso di lirismo ma senza tradire la delicatezza dell’originale?

Desolata, ma qui torna il disco rotto: ogni buon testo prende per mano il traduttore, gli dice come vuole essere tradotto, si tratta solo di ascoltarlo. Se non c’è eccesso di lirismo nella mia versione è perché non eccede l’originale; se c’è la giusta delicatezza è perché era già “giusta” prima, e si trattava solo di individuarla e restituirla. Come questo avvenga non è facile da spiegare; c’entrano sicuramente la personale sensibilità per la lingua di partenza, la padronanza della lingua di arrivo, l’esperienza man mano che la si accumula, ma anche un elemento “medianico” di cui in effetti ogni traduttore capace è dotato ma che difficilmente riesce a descrivere a parole, forse anche perché non si manifesta in ciascuno allo stesso modo.

Mei attraversa decenni, guerre, lutti, metamorfosi. Tu che l’hai “accompagnata” parola per parola, come descriveresti il tuo rapporto con questa protagonista? Ti è rimasta dentro, alla fine? O c’è un altro personaggio, anche minore, che ti ha particolarmente colpita e ti ha arricchita mentre traducevi le sue vicende?

Con questa protagonista ho avuto un rapporto ambivalente, nel senso che alcune sue collere e rigidità nei confronti del prossimo, pur essendo giustificate dalle sue molte esperienze tragiche, talvolta mi parevano eccessive; ma con i personaggi ben scritti succede sempre di aver voglia di abbracciarli e di prenderli a scrolloni contemporaneamente, di salvarli dalle circostanze ma anche da sé stessi. Poi devo confessare un affetto particolare nei confronti del personaggio di Madame Volkova, la bottegaia russa, profuga e dolente come Mei, che a quanto sembra non si lascia consumare dalla rabbia e crede fermamente nella possibilità di ritrovare qualche piccola gioia nell’esistenza. Leggerei e tradurrei volentieri il romanzo della sua vita.

Cosa speri che i lettori italiani sentano o scoprano, anche solo tra le righe, grazie al tuo lavoro?

Quello che spero con ogni traduzione: che il mio lavoro gli faccia scoprire una storia che valeva la pena di leggere, che gli faccia compagnia e gli lasci un bel ricordo. A un romanzo non si può chiedere molto di più; non sono tutti destinati a cambiare il mondo o la storia della letteratura, ma se per qualche tempo ci spalancano davanti agli occhi uno scenario diverso da quello di una quotidianità che può essere anche difficile, e ci fanno battere il cuore, hanno già fatto molto.

Dopo aver attraversato questa storia di spiriti, vendette, madri e figlie, è cambiata in qualche modo anche la tua idea di “memoria”? Cosa ci resta davvero, secondo te, quando tutto sembra perduto?

Credo che per ognuno la memoria sia una faccenda molto personale, che va anche protetta con qualche pudore. Se è vero, come ci ha insegnato Shakespeare, che “tutti i nostri ieri” servono solo a illuminare la strada verso la morte, è anche vero che tutto sommato stare al mondo significa accumulare ricordi, belli, ordinari e tremendi; penso sia bene tenerceli stretti perché è di quelli che siamo fatti, e nei momenti in cui tutto sembra perduto credo cha la memoria anche di un solo momento felice possa fare da motore alla speranza che un mondo più giusto esista, e che ciascuno di noi possa darvi un contributo anche solo vivendo una vita sincera.

:: L’orologiaio di Brest di Maurizio de Giovanni (Feltrinelli 2025) a cura di Giulietta Iannone

22 ottobre 2025

Liberamente ispirato a fatti di cronaca realmente accaduti, ma rielaborati in chiave narrativa, L’orologiaio di Brest di Maurizio de Giovanni, edito da Feltrinelli nella collana I Narratori di Noir, è un noir atipico nel panorama letterario italiano, che unisce impegno civile, senso della storia, attenzione ai legami familiari ed esistenziali, e un’analisi accurata, seppure filtrata dal genere, degli anni di Piombo. Periodo storico quasi epurato dal dibattito civile italiano, non solo letterario.

Ancora si fatica a fare pace con un periodo drammatico della storia italiana, in cui la strategia della tensione, le stragi, gli attentati, le verità sepolte, la lotta armata di gruppi terroristici paramilitari imperversavano contro le istituzioni. Motivazioni sociali, ideologiche, politiche erano alla base di questi movimenti, con derivazioni più o meno opache tra servizi deviati e organizzazioni segrete parallele se non antagoniste dello Stato.

Fu una guerra civile, con vittime e carnefici, in cui spesso si era entrambi, e i meri esecutori non erano altro che pedine di mandanti che operavano nell’ombra.

De Giovanni, non senza coraggio, abbandona i canoni classici della sua narrativa, i suoi personaggi seriali tanto amati dal pubblico dei suoi lettori, per attingere a questo materiale incandescente e scrivere un romanzo ibrido tra cronaca e realtà.

L’orologiaio di Brest è un romanzo nuovo, con altri personaggi e altre motivazioni che esulano dal solo intrattenimento. Ricollegandosi alla narrativa civile di autori come Moravia e Pasolini, naturalmente con un altro stile e altre peculiarità, vuole fare riflettere, dare consapevolezza ai suoi lettori e portare all’attenzione dell’opinione pubblica temi come dicevo prima quasi rimossi.

Certo resta un romanzo, non certo un saggio sugli anni di Piombo, ma alcune dinamiche sono analizzate da de Giovanni con grande attenzione e rispetto sia per le vittime, sia per i colpevoli a loro volta vittime. Facendo sì che il romanzo per forza e intento si avvicini ai grandi romanzi di denuncia.

Memoria, perdono, senso di colpa, coraggio si intrecciano evidenziando che ci furono anche colpe precise, responsabilità, personaggi oscuri sorretti solo dall’ambizione o dalla sete di denaro che poco aveva a che fare con le ideologie, e tema controverso, che susciterà anche qualche polemica, presenti anche nelle insospettabili alte sfere ecclesiastiche.

Sto cercando di parlarvi del libro senza spoilerare troppo della trama, perché resta un’indagine, semi ufficiale portata avanti da una giornalista coraggiosa, Vera Coen, il personaggio più riuscito del romanzo, a segnalare quanto de Giovanni dia risalto e importanza ai personaggi femminili, il commissario in pensione Bruno Terenzi, e il professore universitario e ricercatore Andrea Malchiodi. L’indagine verte su un attentato avvenuto negli anni ’80 in cui persero la vita un magistrato e un poliziotto, padre di Vera. Chi furono gli esecutori, chi furono i mandanti, perché nessun gruppo eversivo rivendicò l’attentato? Sono tanti gli interrogativi che si pongono sul loro cammino.

Lo stile è scarno, quasi giornalistico, quanto più c’è di antipoetico, che ben si adatta a una storia tesa, cupa, dolorosa in cui è centrale il tema della memoria privata correlata a quella storica del paese. De Giovanni osa, arriva a fare provare compassione e pietà per il colpevole, perlomeno l’esecutore, descrivendoci anche la sua dimensione intima, la sua capacità di amare o credere negli ideali. Non c’è redenzione invece per i mandanti, spietati, occulti, ombre della storia senza coscienza. Passato e presente si alternano in capitoli senza datazione quindi ci vuole un po’ di pazienza e attenzione per seguire le fila della storia.

Con L’orologiaio di Brest, Maurizio de Giovanni firma un noir civile, asciutto, profondamente contemporaneo, dove i contorni della finzione letteraria si sovrappongono alle ombre della nostra storia recente.

Chi ha amato de Giovanni per la sua sensibilità e la profondità dei suoi personaggi ritroverà anche qui quelle qualità, ma declinate in modo diverso, più ruvido, più politico, più urgente.

“Era l’epoca delle stragi, della lotta armata, della politica sommersa. Un pm e un poliziotto, due caduti tra i tanti. Vittime di guerra, in un certo senso.”

L’orologiaio di Brest non è dunque solo un noir. È un romanzo sulla verità, e su quanto costi cercarla. Un libro che ci interroga, ci mette di fronte alle rimozioni collettive, e ci chiede di ricordare. Anche quando fa male.

Il titolo, simbolico e pregnante, richiama la figura di un artigiano nascosto dietro le quinte della storia, che costruisce meccanismi di morte con la stessa cura con cui si compone un carillon.

Maurizio de Giovanni è uno scrittore, sceneggiatore e drammaturgo italiano. È celebre soprattutto per il personaggio del Commissario Ricciardi, per i bastardi di Pizzofalcone, e per Mina Settembre, protagonisti di molte sue opere da cui sono state tratte serie televisive di successo.

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:: La vedova di Hong Kong di Kristen Loesch (Marsilio 2025) a cura di Giulietta Iannone

20 ottobre 2025

Hong Kong è una città di fantasmi. Spiriti, spettri, presenze inquietanti, leggende, maledizioni fanno parte della sua storia ricca di leggende urbane su case infestate, tram che specie di notte si popolano oltre di passeggeri di ombre di spettri di persone morte tragicamente, di spiriti di annegati, e vendicativi. La stessa cultura cinese ha grande rispetto per i defunti, per gli spiriti degli antenati che vengono celebrati in templi domestici, o anche in grandi feste cicliche come la principale la Qingming Jie (o Festa degli Antenati), durante la quale le famiglie visitano le tombe per pulirle e onorare i defunti con offerte di cibo, fiori e “banconote” finte da bruciare. Poi c’è la Zhongyuan Jie (Festa dei Fantasmi) o altro modo detta La Festa degli spiriti Affamati.

Il confine tra mondo terreno e aldilà è da sempre non solo frutto di superstizione ma legato alla religiosità cinese delle tradizioni taoiste e buddiste. Il sovrannaturale acquista per cui anche una valenza culturale, e identitaria molto radicata.

La vedova di Hong Kong (The Hong Kong Widow, 2025) di Kristen Loesch, tradotto dall’inglese da Isabella Zani, e pubblicato in Italia da Marsilio, pressappoco in concomitanza con la pubblicazione in lingua inglese, è un romanzo in parte ambientato a Hong Kong, che racchiude storie appartenute al patrimonio culturale e alle radici cinesi dell’autrice.

La vedova di Hong Kong è innanzitutto un romanzo misterioso e piuttosto complesso, che per originalità e profondità non assomiglia a nessun altro romanzo da me letto finora. Difficile classificarlo: in parte romanzo storico, in parte gotico e horror con venature di sovrannaturale sia tradizionale cinese che in parte anche occidentale, memoria familiare, thriller investigativo, romanzo psicologico con elaborazione del lutto, e anche romanzo di formazione, – Mei la protagonista cresce e si evolve e noi l’accompagniamo da bambina fino ad anziana- e tutte queste componenti si amalgamano, senza sovrapporsi, in modo armonico e naturale.

Diciamo che la storia ruota intorno a un mistero, uno delle tante leggende metropolitane hongkonghesi, qui drammatizzata e rivisitata dall’autrice: cosa successe realmente nel settembre del 1953 in una sontuosa villa coloniale di Hong Kong chiamata Maidenhair House di proprietà di George Maidenhair, personaggio centrale del romanzo? Il tema della casa infestata non è certo nuovo nel romanzo gotico, con venature horror, ma qui non mira a fare paura, piuttosto a inquietare il lettore per approfondire temi come l’elaborazione del lutto, i traumi bellici, il desiderio di vendetta, l’amore tra madri e figlie.

La struttura narrativa è a capitoli alternati con indicativamente tre linee temporali: Shanghai negli anni 30 e 40, Hong Kong nel settembre del 1953, e Hong Kong nel 2015. All’inizio si fa un po’ fatica a seguire le direttive temporali, ma poi tutti i nodi vengono al pettine.

Poi si parla di vendetta di Mei la protagonista e per tutto il romanzo non si capisce di cosa si debba vendicare, per quello è anche misterioso, poi in un capitolo sul finale lo dice ed è uno dei principali colpi di scena. Ma ce ne sono altri che non vi anticipo. 

La scrittura è poetica, aulica, ci riporta alle antiche saghe e leggende cinese, alle storie di spiriti, maledizioni e miti ancestrali. Mi sono piaciuti tutti i personaggi: Mei, soprattutto, Jamie, Susanna, Max, Holly Zhang, la vedova russa Volkova, anche George, più una figura paterna, un insegnante, che un amante di Mei, e questo equivoco forse rende anche complesso il loro rapporto.

In conclusione, La vedova di Hong Kong è un romanzo originale, raffinato e inquietante al punto giusto, che si distingue per la capacità di fondere mito, storia e introspezione in una narrazione che affascina e coinvolge fino all’ultima pagina. Un’opera che cattura, e quasi imprigiona nelle pagine e lascia un’eco profonda nel lettore, come solo le storie più autentiche sanno fare.

Kristen Loesch è cresciuta a San Francisco. Laureata in Storia, ha poi conseguito un master in Studi slavistici all’Università di Cambridge.  La bambola di porcellana  è il suo romanzo d’esordio, da cui verrà anche tratta una serie tv. Vive sulla costa ovest degli Stati Uniti con il marito e i tre figli.

:: Un’intervista con Lorenzo Mazzoni, autore di 81280JL, a cura di Giulietta Iannone

16 ottobre 2025

Benvenuto Lorenzo, e grazie di averci concesso questa nuova intervista. Il tuo nuovo libro, edito da Edizioni Spartaco è un romanzo impegnativo, forse il tuo più complesso: l’affresco, seppure alternativo, di un’epoca, una controstoria underground, sotto acido si può dire. Ma non solo, un ritratto corale, con tanti e tanti personaggi, i più disparati. È difficile definire il tuo nuovo romanzo, o imbrigliarlo in una categoria o in un genere, soprattutto guardando alla letteratura italiana, pochi osano tanto. Da dove nasce l’idea? C’è stato un momento preciso che ha fatto scattare la scintilla?

Grazie a voi per l’ospitalità. Dunque, credo che la scintilla sia stato l’ascolto di A day in the life dei Beatles in un pomeriggio di parecchi anni fa, a Ferrara. Ho iniziato a chiedermi: se Mark Chapman non avesse sparato a John Lennon ci sarebbe stata la possibilità di rivedere insieme i Beatles? E se sì, avrebbero realizzato altri capolavori? Da queste domande ho iniziato a cazzeggiare con la mia testa. Cosa realmente mi abbia portato, passo dopo passo, a inserire nella storia così tanti personaggi e così tante situazioni è difficile da spiegare. Un amico scrittore durante una presentazione, anni fa, mi disse che avrebbe tanto voluto conoscere il mio pusher. Non so, se tra le righe, questo possa dipanare la matassa di come funziona il mio cervello. Scherzi a parte: sì, credo che la scintilla sia stata A day in the life… I saw a film today, oh boy/The English Army had just won the war/A crowd of people turned away/But I just had to look/Having read the book/I’d love to turn you on… e via discorrendo.

Partirei dal titolo, un po’ criptico, ma sveliamo subito il mistero: una data, 8 dicembre del 1980. Cosa successe?

Mark David Chapman, “Il più coglione dei coglioni”, come lo ha definito Paul McCartney, si è recato a New York, davanti al Dakota Building, e ha ammazzato John Lennon. Ispirato dalla lettura compulsiva de Il giovane Holden e da omini verdi dentro la sua testa che lo incitavano a compiere l’atto criminoso chiamandolo “signor Presidente”. Personalmente, credo che l’8 dicembre del 1980 sia uno dei giorni più tragici del Novecento.

Hai immaginato una controstoria degli anni ’80: quanto c’è di documentazione storica e quanto di invenzione narrativa in questa ricostruzione alternativa? Il romanzo si muove tra cospirazioni, geopolitica, CIA, droga, controllo mentale, telepatia… Quanto di quello che racconti credi sia vicino alla verità storica?

La documentazione storica è stata importante, fondamentale. È servita per ricamarci sopra la narrazione. La guerra civile libanese, le ingerenze israeliane in Libano, la compravendita di ebrei tra Romania e Israele, i campi di addestramento a Aden, gli ospiti del Chelsea Hotel, l’invasione sovietica dell’Afghanistan, il South Bronx messo a ferro e fuoco: è tutto vero. Ma anche fatti minori, che apparentemente potrebbero risultare di finzione, sono reali. Per esempio, la scena che vede Asher il Depresso fuggire dall’Afghanistan a dorso di un mulo o l’idea di mettersi dentro una cassa per andarsene dall’Asia, sono tratti da un reportage d’annata sulla Via della droga. La CIA ha realmente compiuto esperimenti telepatici e non è un segreto il fatto che i servizi segreti, non solo americani, abbiano usato (e usino) Paesi in via di sviluppo come base per il commercio di droga in Occidente. Insomma, c’è molta realtà storica, seppur i personaggi siano, in parte, inventati.

Quanto tempo hai impiegato a scrivere il romanzo? È stato un percorso lineare o caotico?

Ci ho impiegato circa sette anni. Ho iniziato ad accumulare materiale, a leggere testi inerenti al periodo storico, mi sono fatto lunghe sedute di Beatles e Lennon, ho guardato documentari e film, ho abbozzato diverse scalette. Nel mentre, ho lavorato anche ad altre storie. Diciamo che il percorso è stato inizialmente lineare, poi è diventato caotico nello sviluppo centrale e poi è tornato lineare nell’ultimo anno, quando mi sono concentrato a chiudere tutti i sentieri narrativi che avevo aperto.

Perché hai scelto John Lennon come figura centrale e simbolica di questo romanzo? Che cosa rappresenta per te? E, per il romanzo?

Perché la sua morte ha significato la fine di una speranza: rivedere insieme i Beatles. I Beatles, più che il solo Lennon, rappresentano una parte importante della mia vita. Non sono soltanto la colonna sonora di uno dei periodi storici per me più interessanti, ma sono stati, e sono, la mia colonna sonora. Non mi stancherò mai di ascoltarli perché mi danno continue suggestioni, mi forniscono risposte. Lennon non poteva non essere centrale e simbolico in un romanzo ambientato nel 1980, culminato appunto con il suo assassinio. Tutto ruota intorno a lui e ai Beatles e a quello che rappresentano anche per alcuni protagonisti del libro.

C’è un autore o un’opera in particolare che ti ha ispirato durante la scrittura di questo romanzo? A me viene in mente Burroughs, per esempio e le sue contaminazioni con la fantascienza.

I libri di Robert Fisk sulla guerra civile libanese e sul Medioriente in generale. Magnifici. Bellissimi. Coraggiosi. Le impalcature letterarie di Paco Ignacio Taibo II. I dialoghi taglienti di Elmore Leonard. Il giovane Holden, naturalmente. E poi Robert Stone, Barry Gifford, James Ellroy, John le Carré, Graham Greene, Tom Robbins, Jabbour Douaihy.

Cosa è rimasto secondo te dello spirito degli anni ’60-’70, e cosa invece si è perso per sempre?

Si è perso tutto perché la Storia non permette repliche, o se le permette le toglie di ogni sostanza, è solo apparenza. Oggi stanno tornando di moda i pantaloni a zampa e si vedono in giro giovani con t-shirt dei Pink Floyd e dei Grateful Dead. Forse uno su cento di quei giovani sa chi fossero. Gli piace la maglietta. Gli piace la camicetta hippie. Finisce lì. La mia generazione ha gravi colpe nel non aver lasciato nulla di quello spirito. Noi, da figli di chi ha vissuto gli anni ’60 e ’70 abbiamo beneficiato dei ricordi diretti dei nostri genitori e fratelli maggiori e abbiamo custodito con stupido orgoglio quello spirito per lasciare i nostri figli solo con l’apparenza. La creatività sta morendo, e un mondo senza creatività è un mondo vuoto. Insulso. E la colpa è solo nostra.

Come hai lavorato con Edizioni Spartaco? Il libro ha richiesto un editing lungo? A chi è stato affidato?

Con Edizioni Spartaco si lavora sempre bene. Sono stati molto onesti. Nella versione consegnata in redazione c’era qualcosa che non andava. La storia gli piaceva, ma era lunga se non il doppio, quasi. C’erano troppi riempitivi, il linguaggio, soprattutto gli slang, era estremo, c’erano fili che andavano recisi. L’editing è stato affidato a Tiziana Di Monaco che ha fatto un lavoro da perderci la testa. A tratti ho pensato che stesse facendo qualcosa che andava oltre la razionalità umana. Sarebbe bello mostrare cosa io le ho dato e come lei lo abbia migliorato senza snaturare il perché della mia storia e il mio stile. È stato un editing eccezionale, impegnativo, strepitoso. Gli sono molto grato. E sono molto grato a Edizioni Spartaco perché 81280JL è stato un investimento immane per un editore indipendente, e realizzandolo hanno dimostrato, concretamente, di credere, ancora una volta, in un mio romanzo.

Hai già in mente un prossimo progetto, o hai bisogno di una “disintossicazione” da questo universo?

Un solo progetto è riduttivo. Sto lavorando a una storia di italiani emigrati in America durante la Guerra civile, a una storia che inizia nel 1945 e finisce nel 1969 alla ricerca di un diamante blu, e a diversi inediti di Malatesta. Indagini di uno sbirro anarchico. Ma sto facendo tutto con molta calma. Già pronti, usciranno l’anno prossimo, una sorta di metaromanzo che verrà pubblicato da Cafféorchidea, e un testo molto particolare dedicato alle figure dei più celebri dittatori contemporanei che verrà pubblicato dai tipi di Prospero Editore.

:: Di fronte al fuoco di Aleksej Nikitin (Voland, 2025) a cura di Giulietta Iannone

16 ottobre 2025

Feliksa uscì dall’ufficio del comando militare amareggiata e scontenta di sè. Non era riuscita a spiegare a quel tenente che sulla scomparsa di Il’ja bisognava indagare immediatamente. Una persona non poteva sparire in città senza lasciare traccia, nel nulla, tanto più se si trattava di Il’ja, che a Kiev conoscevano in molti. Non è scomparso in una foresta o in una palude sperduta. Lui è stato qui ed è andato da Terent’eva, il che significa che anche altre persone potrebbero averlo visto, significa che devono cercarlo subito, al più presto, prima che i pochi che ancora sono qui si disperdano.

Dal 2014 in poi, l’Ucraina ha vissuto un vero e proprio risveglio culturale: festival letterari, editoria indipendente, rinascita della lingua ucraina nelle scuole e nei media, valorizzazione e studio della storia nazionale. La cultura, il patrimonio culturale e identitario ucraino sono diventati necessari: un bene vitale da difendere, da preservare.

Dopo l’invasione russa del 2022, ancora di più la cultura è diventata parte attiva della resistenza, nella difesa dell’integrità del Paese. Artisti, scrittori, insegnanti, registi hanno continuato a creare, documentare, educare, nonostante gli ostacoli, le privazioni, le limitazioni della guerra, nello sforzo tenacemente eroico di preservare qualcosa di sacro: lo spirito di un popolo, con dignità, coraggio e forza morale.

Lo scrittore ucraino Aleksej Nikitin è uno di questi artisti: ha scelto la penna per testimoniare la resilienza e la forza di un popolo che non si arrende, che difende la sua identità, che mostra al mondo quanto l’onestà intellettuale sia necessaria in vista di un futuro reale processo di pace, pur nella complessità.

È appena uscito in Italia un suo libro: Di fronte al fuoco, edito da Voland e tradotto dal russo da Laura Pagliara, che firma anche alcune interessanti note sulla traduzione, utili a contestualizzare il romanzo. Un’opera impegnativa, complessa, imponente per lunghezza — ben 630 pagine — ma scritta in una lingua così viva, composita, lirica, che si legge molto velocemente.

Narra la storia di un pugile ebreo-ucraino, Il’ja Gol’dinov, agente segreto dell’NKVD, che durante l’estate del 1941, dopo aver avuto successo nello sport (secondo posto nel campionato sovietico), sceglie di unirsi ai partigiani contro l’invasione nazista. Poi viene arruolato nell’esercito regolare, finisce catturato, deportato in un lager, riappare per un breve periodo nella Kiev occupata, nel febbraio 1942, quindi scompare nuovamente, lasciando dietro di sé una scia di mistero. La moglie, Feliksa, intraprende una lunga e dolorosa indagine per scoprire cosa gli sia successo.

Scritto in russo, non come adesione a Mosca ma per scelta stilistica e identitaria, e come strumento narrativo capace di restituire tutte le sfumature di un’epoca, il romanzo nasce da un’approfondita ricerca storica, basata su materiale documentario desecretato dopo il 2011, per ricostruire gli eventi dell’epoca. Intreccia al racconto elementi personali, familiari e culturali, tra tradizioni yiddish, propaganda sovietica, legami di lealtà, amore e perdita.

Ne emerge un’idea viva dell’Ucraina multi-etnica di quegli anni, con tutte le tensioni e le contraddizioni tra tradizioni ebraiche, propaganda sovietica e regime nazista, pur conservando una grande tolleranza nella convivenza tra culture.

Soprattutto, è il ruolo della memoria a rendere Di fronte al fuoco capace di parlare non solo a un pubblico interessato alla storia, ma a chiunque voglia riflettere sul rapporto tra individuo e potere, sul destino umano in situazioni estreme.

Tuttavia, è nell’uso della storia per parlare del presente che Di fronte al fuoco diventa profondamente — e dolorosamente — ucraino, consegnandoci questo affresco storico del Novecento che, da particolare, diventa universale. Perché, nonostante la nazionalità, i confini geografici e politici, l’umanità è una sola, identica a Kiev come a Mosca: capace di amare, soffrire, sperare e perdonare.

Un grande romanzo ucraino, epico come un romanzo di Tolstoj.

Aleksej Nikitin Scrittore di lingua russa nato a Kiev (Ucraina) nel 1967, è laureato in fisica e ha collaborato al progetto del sarcofago destinato a mettere in sicurezza la centrale di Černobyl’. Il romanzo Victory Park (2014) ha vinto il Russkaja Premija ed è entrato nella short list del premio National Besteller (‘Nacbest’) in Russia quando era ancora in forma di manoscritto. L’infermiere di via Institutskaja (2016), romanzo dedicato alle recenti proteste di Euromajdan, è stata la prima opera di Nikitin a essere pubblicata in Ucraina. I suoi precedenti romanzi sono Istemi (Voland 2013) e Mahjong (2012).

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:: 81280JL Lennon, l’Iik e i topi salterini di Lorenzo Mazzoni (Edizioni Spartaco, 2025) a cura di Giulietta Iannone

14 ottobre 2025

Instant Karma’s gonna get you/ Gonna knock you right on the head/ You better get yourself together/ Pretty soon you’re gonna be dead.

John Lennon

81280JL Lennon, l’Iik e i topi salterini di Lorenzo Mazzoni, pubblicato da Edizioni Spartaco, è un romanzo che non passerà inosservato, e non certo per le 456 pagine, o perché l’autore ci ha abituato ad opere provocatorie, surreali, buffe, satiriche e nello stesso tempo tragiche come sono i nostri tempi. Forse con questo romanzo l’autore ha spostato un altro po’ l’asticella consegnandoci un romanzo visionario, provocatorio e incapace di lasciare indifferenti.

Al netto delle provocazioni e dell’eccesso – che non è mai fine a sè stesso -, un ritratto generazionale post Woodstock lisergico e contemplativo, pazzo e visionario, tenero e nostalgico. Un romanzo che davvero ci porta a fare un viaggio, in un mondo imperfetto, tragico, ma tuttavia meraviglioso, e lo fa con una forza immaginifica che si nutre tanto della storia quanto dell’utopia, tanto della cultura pop quanto del pensiero politico radicale.

Non aspettatevi una lettura facile, i personaggi sono tanti, complessi con diramazioni e legami tra loro, le strade narrative impervie, la ricostruzione storica degli anni ’80 alternativa, ma ne vale la pena. Vale la pena immergersi in questa ricostruzione lisergica dove la droga, più del petrolio, finanzia guerre, destabilizza i giovani, propaga il caos. La teoria è affascinante e nello stesso tempo agghiacciante e ci conduce a Mark Chapman: inventore dell’Iik, una cannabis geneticamente modificata (che tanto richiama al Fentanyl), prigioniero a Teheran, omicida di Lennon.

Cospirazioni, operazioni coperte, agenti della CIA, rivoluzionari, militanti, guru, teppisti, malavitosi, telepati, l’affresco è composito, la fantasia a Mazzoni non manca, ma pure con l’inquietudine che quello che dice non sono fesserie, le sue ricostruzioni, sebbene romanzate, hanno un fondo di verità, sono ricostruzioni sensate, anche coerenti per quanto pazzesche, estreme, incredibili.

E questa inquietudine alimenta la nostra curiosità di lettori, e ci sgomenta, pur facendoci anche sorridere, piangere o allarmare. E qui torniamo al titolo, quell’8 dicembre del 1980, in cui davanti al Dakota Building Lennon fu ucciso. Non da un pazzo, non un gesto isolato di un esagitato, ma qualcosa di ancora più inquietante, e oscuro, che Mazzoni costruisce ribaltando responsabilità, e non dico altro per non togliervi il piacere della lettura, ma davvero quello fu un punto di svolta, e Lennon era una spina nel fianco per troppe persone, il suo pacifismo, la sua anarchia, il suo talento visionario che entrava nel cuore di tanti giovani.

Mazzoni scrive un romanzo che è insieme un’inchiesta paranoica, un manifesto underground, un viaggio psicotropo nella psiche collettiva. Ogni pagina vibra di riferimenti pop: dischi, fanzine, canzoni, visioni, deliri, complotti, sogni infranti. La narrativa si fonde con il delirio percettivo: il ritmo accelera come un vinile graffiato, la realtà si scompone in frames da videoclip post-moderno.

E allora si torna lì, al cuore della questione: dopo Woodstock, la rivoluzione non è fallita. È stata neutralizzata, assorbita, corrotta. Gli ideali di pace e amore si sono dissolti in una polvere bianca, e gli anni Ottanta – con la loro estetica sgargiante e la loro oscurità sistemica – sono diventati il teatro perfetto per questa deriva.

Un romanzo necessario, scomodo, che farà discutere, ripeto. Ma soprattutto un romanzo vivo, come lo sono le idee che prova a raccontare. Per chi ha amato Lennon, per chi ha creduto in qualcosa di diverso, per chi ancora oggi si chiede: e se fosse andata diversamente?    

Illustrazione di copertina di Giancarlo Covino

Lorenzo Mazzoni, nato a Ferrara nel 1974, ha abitato a Londra, Istanbul, Parigi, Sana’a e Hurghada. Scrittore e reporter, ha pubblicato numerosi romanzi, tra cui per Edizioni Spartaco, Quando le chitarre facevano l’amore(2015), con cui ha vinto il Liberi di Scrivere Award, Il muggito di Sarajevo (2017) e 81280JL. Lennon, l’Iik e i topi salterini (2025). È docente di scrittura creativa di Corsi Corsari e consulente per diverse case editrici. Collabora con Il Fatto Quotidiano.

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:: L’uomo perplesso: Viaggio negli abissi di Emil Cioran di Nicola Vacca (Edizioni Qed, 2025) a cura di Giulietta Iannone

10 ottobre 2025

Tornare a Cioran per Nicola Vacca, critico e poeta sensibile e di notevole caratura etica e morale, dopo Lettere a Cioran del 2017 edito da Galaad Edizioni, è un impegno concreto alla ricerca di una nuova chiave interpretativa che aggiunga nuove prospettive, e criteri di analisi, su un filosofo e scrittore criptico come Emil Cioran, oggi quasi ormai se non proprio dimenticato, sicuramente colpevolmente trascurato dalla critica filosofica più paludata.

Cioran dobbiamo ammetterlo e un intellettuale scomodo, di difficile comprensione e collocazione, non solo per gli studiosi accademici più ferrati, e dotati di strumenti scientifici di indagine e di conoscenza diretta dei suoi testi, ma anche soprattutto per i lettori curiosi che forse si avvicinano a Cioran per la prima volta, spaventati forse anche dall’aura nichilista che lo circonda.

Vacca in L’uomo perplesso: Viaggio negli abissi di Emil Cioran, pubblicato da Edizioni Qed, (Collana Hyle), un testo originale filosofico e nello stesso tempo letterario, torna con un secondo libro su di lui, dopo otto anni, con spirito battagliero e alla ricerca di nuove strade interpretative, come dicevo all’inizio, per proseguire un discorso iniziato con il precedente libro, già notevole e compiuto. Vacca ne sente l’urgenza, e la necessità, ci sarà riuscito? Lo scopriremo nella lettura del testo.  

Cioran è l’uomo perplesso del titolo che con le sue intuizioni ha fatto saltare il banco con una scorrettezza del pensiero che non ha eguali nella storia della letteratura. Parole definitive, deflagranti, che non ammettono compromessi, che Vacca utilizza per accompagnarci, novello Virgilio laico, alla scoperta di questo autore romeno ancora così necessario in un mondo contemporaneo che si nutre di false certezze e rassicuranti autoinganni.

Un altro tema toccato da Vacca, fin dall’inizio, è la libertà, per affrontare Cioran bisogna essere uomini liberi e non avere paura del proprio pensiero.

Libertà e verità si intrecciano contrapposte alla paura che limita il pensiero e l’azione degli uomini e li tiene in ostaggio, depotenziando tutto quello che di positivo ancora esiste e per cui vale la pena lottare anche a rischio di perdite personali. Questo ci insegna Cioran e questa lezione è chiara per Vacca che ce la consegna come un tesoro prezioso da difendere e custodire.

Da quarant’anni Vacca si confronta con Cioran, da quarant’anni ne studia il pensiero tramite la lettura dei suoi testi, delle sue lettere, dei suoi appunti sparsi, delle sue interviste, con l’obbiettivo di imparare, di crescere di affermarsi come essere umano consapevole e avveduto.

E lo studio dei suoi testi è centrale nella sua analisi, cerca le fonti dirette, si abbevera del testo originario scevro da filtri interpretativi esterni, a volte distorti. E questa caratteristica certo lo distingue.

È una lettura sofferta, si parla di sangue, di insonnia dello spirito e della carne, di abissi da colmare e padroneggiare con gli strumenti limitati dell’umano, ma consapevoli, e a prezzo del proprio tormento.

Come in un colloquio diretto, (almeno nella prima parte in cui si rivolge a un caro Emil) epistolare e intimo, Vacca si rivolge confidenzialmente a Cioran lamentando quanto sia assente il pensiero critico nelle devastanti barbarie del pensiero unico, o dando ragione a Citati quando scrive che i suoi pensieri sdegnano di essere pensieri, sono frammenti, schegge, una musica dello spirito.

Più che una frattura, un cambio di passo da Lettere a Cioran, è una continuazione, una prosecuzione con altri strumenti e una maggiore confidenzialità di chi ha fatto propri e introiettato il pensiero quasi in una dimensione amicale, se non fraterna. Poi riprende una parte più analitica abbandonando il tu, per una analisi più oggettiva, anche se sempre partecipata, e calda.

L’ammirazione è evidente, senza cadere nella palude retorica dell’agiografia, ma più che altro come una comunione di spiriti affini, un delirio di naufraghi nemici di ogni ortodossia.

Oltre a questo, si percepisce un’estraneità con il mondo coevo a Cioran, da cui trasuda tutta l’incomprensione con cui è stato sempre, e continua ad essere, accolto. Vacca la percepisce e ci soffre come si soffre per un amico il cui dolore è il proprio. Non che Vacca non citi e non conosca tutta la letteratura derivativa su Cioran, come il bel saggio di Seravalle Cioran verso la parola inzuppata di verità, ma ne inframezza le citazioni con pudore e consequenzialità, senza eccedere.

Resta perciò un’opera originale e necessaria, piuttosto inconsueta nel panorama letterario filosofico italiano, un testo breve, solo un’ottantina di pagine, come appendice di Lettere a Cioran, o meglio proseguimento di un discorso iniziato con il precedente libro che qui trova completezza.  

Abbondante ed esaustiva la bibliografia finale, anche per uno studio comparato a livello accademico, o di semplice approfondimento. Prefazione di Vincenzo Fiore, postafazione di Alessandro Seravalle. Da segnalare il ritratto di Emil Cioran di Alfredo Vacca, come contributo iconografico.

Nicola Vacca è nato a Gioia del Colle nel 1963, laureato in giurisprudenza. È scrittore, opinionista, critico letterario, collabora alle pagine culturali di quotidiani e riviste. Svolge, inoltre, un’intensa attività di operatore culturale, organizzando presentazioni ed eventi legati al mondo della poesia contemporanea. Dirige la rivista blog Zona di disagio. Ha pubblicato: Nel bene e nel male (Schena, 1994), Frutto della passione (Manni 2000), La grazia di un pensiero (prefazione di Paolo Ruffilli, Pellicani, 2002), Serena musica segreta (Manni, 2003), Civiltà delle anime (Book editore, 2004), Incursioni nell’apparenza (prefazione di Sergio Zavoli Manni 2006), Ti ho dato tutte le stagioni (prefazione di Antonio Debenedetti, Manni 2007) Frecce e pugnali (prefazione di Giordano Bruno Guerri, Edizioni Il Foglio 2008) Esperienza degli affanni (Edizioni il Foglio 2009), con Carlo Gambescia il pamphlet A destra per caso (Edizioni Il Foglio 2010), Serena felicità nell’istante (prefazione di Paolo Ruffilli, Edizioni Il Foglio 2010), Almeno un grammo di salvezza (Edizioni Il Foglio, 2011), Mattanza dell’incanto (prefazione di Gian Ruggero Manzoni Marco Saya edizioni 2013), Sguardi dal Novecento (Galaad edizioni 2014) Luce nera (Marco Saya edizioni 2015, Premio Camaiore 2016), Vite colme di versi (Galaad edizioni 2016), Commedia Ubriaca (Marco Saya 2017), Lettere a Cioran (Galaad edizioni 2017), Tutti i nomi di un padre (L’ArgoLibro editore 2019), Non dare la corda ai giocattoli (Marco Saya edizioni 2019), Arrivano parole dal jazz (Oltre edizioni 2020), Muse nascoste (Galaad edizioni 2021), Un caffè in due (A&B editrice 2022), Libro delle bestemmie (Marco Saya edizioni 2023), Mi manca il Novecento (Galaad edizioni 2024).

Source: libro inviato dalla casa editrice.

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:: L’onesta bugiarda di Tove Jansson (Iperborea 2025) a cura di Giulietta Iannone

4 ottobre 2025

Profondo Nord: un villaggio innevato da fiaba, e l’amicizia ambigua e inquietante tra due donne profondamente diverse, ma forse complementari, (forse addirittura entrambe specchio e riflesso dell’autrice) sono al centro di L’onesta bugiarda (titolo originale Den ärliga bedragaren, 1982), di Tove Jansson, autrice finlandese, della minoranza che scrive in lingua svedese. Edito in Italia questo ottobre in una nuova edizione da Iperborea e tradotto da Carmen Giorgetti Cima, L’onesta bugiarda è un romanzo psicologico e introspettivo, dalle insolite cadenze del thriller, che scava nelle dinamiche misteriose che legano i due personaggi principali, due donne, una anziana, e una giovane: Anna Aemelin, una sensibile illustratrice di libri per bambini che passa il suo tempo a dipingere con gli acquarelli boschi e conigli, ricevendo tante lettere dai suoi piccoli fan, e Katri Kling, una giovane donna enigmatica e scontrosa, caratterizzata da inquietanti occhi gialli da strega, nota per la sua intransigenza morale e la sua eccessiva e provocatoria sincerità, (non mente mai nemmeno per convenzioni sociali), che vive con un fratello disabile e un pastore tedesco senza nome. Anna Aemelin abita da sola in una grande casa, simile a un coniglio, che attira subito l’interesse di Katri che vorrebbe viverci con il fratello e inizia così a coltivare questa strana amicizia che Anna ricambia incapace di dire no alle persone. Anna vive ancora legata all’infanzia, ai suoi genitori, al suo mondo interiore fantastico e immerso nelle atmosfere fiabesche dei suoi disegni. Katri è invece razionale, pratica, forse anche calcolatrice, legata ai soldi e alla materialità del vivere. Due mondi psicologicamente in antitesi che si incontrano per vincere la grande solitudine che le accomuna. Abbandonata la letteratura per l’infanzia, celebre il suo mondo incantato dei Mumin, Tove Jansson ci presenta un romanzo per lettori adulti, caratterizzato da una lingua evocativa, elegante, e intrisa di sentimenti contrastanti, ma capace di suscitare interrogativi profondi sull’esistenza, sull’ambivalenza dei gesti quotidiani, sulla capacità di ferire la sensibilità altrui anche quando non lo si vorrebbe. Ma chi è l’onesta bugiarda del titolo? Forse lo sono entrambe le protagoniste in una profonda riflessione su cosa sia la verità, sempre mutevole e mai definitiva, e quanto la sincerità a tutti i costi non sia sempre un valore positivo, ma possa ferire appunto o diventare uno strumento di controllo, di manipolazione e di dominio. È una lettura lenta, sinuosa, cadenzata, priva di reali scossoni o colpi di scena, ma ricca di dettagli minimi, di impalpabile ricchezza espositiva che riflette un mondo interiore in perenne mutamento. Anche la descrizione della natura arricchisce di bellezza la narrazione con i suoi boschi oscuri e misteriosi e la sua neve perenne che congela un mondo di sentimenti inespressi, in cui le parole non sempre servono a comunicare, e di vulnerabilità. Anche fuori dalla letteratura per l’infanzia, Tove Jansson sa far sentire la sua voce, netta, precisa, autentica, forse più parlandoci di sé stessa che dei suoi personaggi. Molto amato da Ursula K. Le Guin. Da riscoprire. Postfazione di: Arianna Giorgia Bonazzi, immagine di copertina di Dee Nickerson.

Padre scultore e madre illustratrice, Tove Jansson (1914-2001) cresce tra una vivace casa-atelier di Helsinki e un solitario e avventuroso isolotto dell’arcipelago finlandese. Il mondo d’arte e fantasia dell’infanzia nutre la sua vocazione di pittrice, vignettista e scrittrice e le ispira la serie di libri sui Mumin, oggi un classico di culto noto e amato in tutto il mondo. Con lo stesso spirito, ironico e poetico, acuto e dissacrante, si è rivolta anche agli adulti. Iperborea ha pubblicato La barca e io, Viaggio con bagaglio leggero, Fair Play, Campo di pietra e il best-seller Il libro dell’estate. È inoltre in corso di pubblicazione per Iperborea l’intera serie delle strisce dei Mumin e una collana speciale di albi illustrati tratti dalle loro storie più celebri.

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:: Prima e dopo la stagione delle piogge di Kafu Nagai (Marsilio 2025) a cura di Giulietta Iannone

27 settembre 2025

Prima e dopo la stagione delle piogge (Tsuyu no atosaki, 1931) dello scrittore giapponese Nagai Kafū, edito in Italia da Marsilio a cura di Alberto Zanonato, racconta la storia di una ragazza, Kimie, scappata di casa dalla campagna per evitare il matrimonio con un campagnolo e giunta a Tokyo dall’amica geisha Kyōko che l’inizia alla prostituzione non per avidità di denaro ma per una forma di ricerca esistenziale e trasgressiva, espressione di una società in transizione, e anche segno della decadenza delle vecchie tradizioni dove ormai è comune da geisha diventare cameriera o viceversa. E le celebri accompagnatrici, dedite all’arte dell’intrattenimento colto, frequentano abitualmente le case di appuntamento e spesso poco le differenziano dalle semplici prostitute, anche non di rado facendolo abusivamente senza autorizzazzione. Kimie è diversa dalle altre ragazze, ha un talento innato per sedurre e affascinare gli uomini, e non cerca il grande amore, ma solo esperienze molteplici che la facciano sentire viva. Trova poi lavoro come cameriera nel caffè Don Juan a Ginza, luogo che le da l’opportunità di conoscere i diversi uomini con cui si intrattiene. Ma la sua libertà di costumi attira anche maldicenze e molestie tanto che all’inizio del romanzo si reca da un indovino per sapere chi possa essere ma la sua reticenza nel fare domande le da un responso alquanto generico che perde di importanza. Il romanzo, sensuale e crudele, esplora i temi della modernizzazione e di quanto l’Occidente abbia adulterato le vecchie tradizioni. Nagai Kafū (1879-1959), considerato un importante scrittore della letteratura moderna giapponese, apprezzato da Tanizaki, è un autore che si accosta al naturalismo francese, alla Zolà per intenderci, e lo filtra con il gusto tutto giapponese per l’amore della natura e della bellezza. Kimie e le sue esperienze nei quartieri di piacere diventano il filtro con cui l’autore guarda i danni che la modernizzazione ha portato nel paese più a livello spirituale che materiale. La solitudine, la vacuità di queste vite si intersecano con l’apprezzamento per le vecchie tradizioni, il rispetto e l’amore per la cultura e l’erudizione. Il personaggio soprattutto di Tsuruko, moglie del romanziere Kiyo’oka Susumu, un amante di Kimie, incarna tutta la positività dei valori tradizionali, la sobrietà, il buon garbo, la buona educazione. Kimie invece incarna un personaggio femminile decisamente moderno e indipendente, visto con occhio indulgente e caratterizzato con grande attenzione ai dettagli dell’abbigliamento, del trucco, del modo di porgersi e offrirsi senza reticenze o pudore. E che la sua troppa libertà sia un rischio e un pericolo subito si fa evidente e gela un po’ la sua eccessiva spontaneità. Ma in fondo Kimie è una ragazza di buon cuore, che prova compassione per il vecchio protettore dell’amica Kyoko, e gli dà gli ultimi attimi di gioia in un finale amaro e melanconico specchio di un mondo decadente in lenta dissoluzione. La traduzione è a cura di Alberto Zanonato che scrive anche un’interessante introduzione. Luisa Bienati cura La vita e le opere.

Kafu Nagai Poeta del passato, interprete di una tradizione messa in crisi dai valori della modernizzazione, Nagai Kafu- (1879-1959) è uno dei grandi nomi della letteratura giapponese moderna. Sensibile al fascino della cultura occidentale, si avvicina al naturalismo francese negli anni giovanili, ma della lezione di Zola gli resteranno solo la precisione per il dettaglio e un amore per la descrizione che diventa esercizio di raffinata e colta letteratura. In risposta al veloce avvicendarsi degli eventi e alla frenesia dei tempi, trova rifugio estetico nelle emozioni e nelle atmosfere dei quartieri di piacere, ultimo riverbero della cultura tradizionale. Il passato è rivissuto nel presente, ricercato negli antichi quartieri della sua Tokyo, e riproposto come modello di una nuova creatività: il passato come la sola «luce che può illuminare l’incerto cammino del presente…

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