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Alla scoperta de “L’officina delle anime rotte” (Liberilibri), con Anna Maria Tamburri A cura di Viviana Filippini

7 aprile 2022

 “L’officina delle anime rotte” è il nuovo libro di Anna Maria Tamburri edito da Liberilibri. La raccolta ha in sé un insieme di racconti davvero originali, nel senso che quando li si legge si ha la netta sensazione di entrare in contatto con un mondo altro, popolato da figure leggendarie, ataviche e misteriose. Una dimensione lontana ma, allo stesso tempo, vicina nella quale è possibile ritrovare poi pezzi del mondo dove si vive. Ne abbiamo parlato con l’autrice, ex insegnante alle scuole medie e superiori che ha scritto libri di poesie, fiabe e uno studio storico. Tra i suoi lavori: “Parola cantadora”; “I racconti di Nanna”; “S.Illuminato Confessore”. Un mistero dal passato. È autrice per Liberilibri dei versi che accompagnano le incisioni di Giuseppe Mainini in “Echi” (2006).

Come è nato “L’officina delle anime rotte”?

In due tempi con un intervallo di anni. Io scrivo si può dire da sempre. Purtroppo, per una mia attitudine allo stupore e alla curiosità, elaboro di continuo relazioni, echi, immagini, interessi che confluiscono in versi e storie che inizio, poi sospendo, come è accaduto a questi racconti. L’origine è in una splendida stretta valletta delle Dolomiti, in un’estate molto lontana. Qui è nata Aridela, ma qui è rimasta ancora vergine fino a circa tre anni fa, quando, come dono a un amico malato, grande lettore, ho scritto “Alzheimer”. Gli è molto piaciuto, l’ha fatto conoscere ad altri amici; così sono stata incoraggiata a riprendere vecchi spunti e render loro la dignità di storie. Uno sprone necessario, o perché, come ha sempre sostenuto il mio amico, sono pigra o, come sostengo io, essendo donna in una casa di maschi, dovevo ritagliarmi con unghie e denti lo spazio per scrivere e per realizzarmi. Pecco inoltre di un difetto gravissimo per una donna che ha qualcosa da dire: non riesco a stimarmi. Ma qui non siamo in analisi.

Come è stato per lei muoversi tra sogno e realtà, tra mondo onirico e dimensione concreta?

In fondo semplice. Piano piano nella mia vita, attraverso eventi apparentemente comuni, si sono venute a formare interferenze, connessioni tra i due mondi, il visibile e l’invisibile, che preferisco chiamare l’Altrove, come Carlo Ginzburg chiama l’aldilà, ma con una accezione più ampia del “il mondo dei morti”. Onirico non è la parola esatta, perché non è una mia elaborazione, ma esiste di per sé e a volte è fluito e fluisce spontaneamente nella mia quotidianità, attraverso umili segnali che riesco a cogliere al di là della mia volontà. Forse una parte di me è sempre rimasta nell’Altrove, ne ha nostalgia (come diceva Eliade); mi è facile quindi ripescarlo qua e là in questo mondo, che pure amo in tutta la sua bellezza, vitalità e sacralità. Dice Calasso che lo sprazzo, il lampo improvviso, appare l’unico modo che la verità ha di esprimersi, di lasciarsi intuire. Se sostituiamo “l’Altrove” alla “verità” (e forse sono la stessa cosa) e aggiungiamo un suono, uno sfiorare, un fugace apparire, anche un sogno siamo nel mio vissuto.

Quanto ha ripescato da antiche tradizioni e da racconti di un mondo atavico e lontano nel tempo?

Indubbiamente molto. Mitologia, religioni, antropologia e simili sono argomenti da sempre in primo piano nelle mie letture e nella mia ricerca di quel qualcosa che, come dicevo, fa parte della mia nostalgia. Soprattutto mi affascinano le testimonianze più arcaiche. Credo infatti che lì si trovino i germi della spiritualità (nostra e di tutte le creature), preservati come nell’ambra, e lì si debbano indirizzare le indagini moderne per riscoprire il primo contatto con chi ci ha creato. Leggo molto, nei limiti di un approccio autodidattico, anche di astrofisica, che oggi offre meravigliosi incontri col mistero dello spazio-tempo.

Molti dei racconti sono come ammantati da un’atmosfera grottesca, cupa, ma per i personaggi protagonisti, uomini e donne di diverse età, c’è la speranza di un riscatto o di una ritrovata serenità?

Premetto che sono credente e cerco di essere cristiana. La difficile semplicità dei Vangeli, così presente nelle parole di papa Francesco, è la via più santa e percorribile rivelata alla nostra umanità così fragile per corrispondere al richiamo divino della misericordia. Ma nel mondo ci sono state e ci sono altre vie per le quali ho il massimo rispetto e interesse. La mia crescita interiore è soprattutto verso la misericordia, ma non sono ancora capace di reprimere in certe occasioni un amaro sentimento di condanna, anche se ritengo che il giudizio degli uomini sul bene e sul male sia ancora “infantile” rispetto alle vicende degli universi. Nelle mie storie c’è in modi diversi la serenità di un ritrovare le connessioni con l’Altrove, che non è solo o affatto un luogo, ma uno stato d’animo, una dimensione che travalica la Storia e dalla quale ci arriva l’intuizione di un Continuum che ci assiste, ci perdona, ci ama. Tuttavia non a tutti concedo un riscatto senza condizioni e in tempo breve. Ad esempio, quando tratto della colpa contro l’innocenza e l’amore, che per me corrisponde al peccato contro lo Spirito del Vangelo (v. La città de la lepra, Buco di verme, La sirena). Questa colpa va rilavata fino all’ eliminazione di ogni scoria, fino a ridiventare “candidi come la neve o come le ali della colomba”. Un piccolo ulteriore esempio: la morte di bambini nelle guerre è contro natura; ma ancor più lo è farne dei martiri non per la pace ma per sentimenti di odio e di vendetta. Li si uccide due volte, come dico in questi versi:

                           Per tutti gli Handala del mondo

Quando arrivammo stanchi

trascinando

gli ultimi brandelli dei nostri corpi offesi

– ci seguivano, ratti di fogna,

  i vostri necrologi rancidi d’odio

  finché tra sangue e feci rotolarono

  dritti nell’inferno –

per la via della croce

poche stazioni senza bande festoni

o bandiere agitate:

la Luna ci soffiò gemiti di penombra

Venere chinò gli occhi accovacciata

sui corpi dei suoi cuccioli sventrati

e la Stella del Nord ci gelò in cuore

l’ultima rabbia l’ultimo dolore;

quando arrivammo

non c’erano né onori o paradisi

né tavole opulente

né musiche o carole;

solo il Vecchio la Vecchia

dallo sguardo tenero dolente,

la pietà degli antichi consolati,

una terra da sudare in pace

nuova

senza muri o confini.

E fummo santi

per la nostra innocenza violentata

per la vita strappata ad esaltare

l’infamia delle vostre bocche.

E voi foste dannati.

Quale è il racconto al quale è più affezionata e perché?

“Aridela”: perché è il primo racconto che allora avevo intitolato “La creatura d’acqua”; perché è un’immersione nel mitico, nell’épos sulle origini del male/bene e un omaggio alla natura, all’innocenza, alla sacralità femminile e alla speranza precristiana.  Sicuramente sarà il meno letto e capito per vari motivi.  

Racconti che sembrano provenire da mondi lontani, primordiali, ma quando di essi è nel nostro presente?

Oso dire che il nostro presente sta annacquando la Storia; come dice Calasso è un’epoca “né empia né devota”, io aggiungerei di grande viltà. Rare sono le voci veramente profetiche (non da gossip) e poco spazio gli è lasciato. Quindi sempre più difficili sono le piccole rivelazioni che ci mettono in contatto con l’invisibile e che possono guidarci a riconquistarci il futuro, a salvare la Terra. Nei miei racconti, a volte ispirati dal mio vissuto a volte rielaborazioni di atmosfere in cui mi sono immersa leggendo, sono queste rivelazioni il filo conduttore, una specie di cura, di riparazione per le anime che si sono infrante, isterilite. La Natura fin dai tempi primordiali ci chiama, ci chiamano i colori, i suoni, le luci e le ombre, gli odori, il miracolo di ogni vita, i ricordi, gli affetti, le tenerezze; ci chiama anche il dolore, ma quello pulito che non sa di violenza e ferocia. Noi rispondiamo con la guerra, con la devastazione del clima e le sue tremende conseguenze e soprattutto con l’indifferenza e la cattiva volontà. Siamo governati da folli, da asserviti, da incapaci e siamo stati noi ad eleggerli. Eppure non cesso di scrivere, pregare, sperare in un risveglio di anime coraggiose, sensibili, sante. Ha detto Bonhoeffer che un giorno Dio ci stupirà ed io, che ho imparato a vivere nello stupore e nell’affidamento, voglio crederci.

Cosa rappresenta per lei la scrittura?

Scrivo da sempre. Scrivere è qualcosa che mi urge dentro. In alcuni periodi difficili è stato un rifugio, un’autoterapia (per questo sono stata per moltissimi anni restia a pubblicare). Ma quando, dopo una lunga parentesi in cui mi sono immersa nel concreto quotidiano come mamma, insegnante, crocerossina, donna nelle varie sfaccettature, ho ripreso a scrivere, ho capito che era qualcosa di cui non potevo fare a meno, perché tutto intorno a me mandava messaggi, storie. Così, mentre si affinava la mia capacità di afferrarli, sempre più si faceva forte l’esigenza di scrivere per trasmettere come anche in una realtà angusta come è la città in cui vivo ci si possa aprire all’infinito; non per niente sono conterranea di Leopardi. Come ho accennato all’inizio ho tanti scritti incompleti che tali rimarranno data il poco tempo che ho davanti. Mi spiace per loro, sono un po’ le mie creature. Ma niente è per caso e niente senza senso.

Septem Verba, Romano Ferrari Zumbini (Liberilibri, 2021) A cura di Viviana Filippini

10 novembre 2021

“Septem Verba”, è il romanzo di Romano Ferrari Zumbini edito da Liberilibri. La storia ha per protagonisti dei giovani studenti di un collegio gesuitico posto sul lato austriaco del lago di Costanza. Le vicende si sviluppano nel secolo scorso, tra il 1963 e il 1964, e quello che l’autore fa è narrare al lettore la vita di alcuni degli alunni dell’istituto, mettendo però una maggiore attenzione su due di loro: Arno e Aron. All’inizio i due ragazzi sono rivali, ma man mano il tempo passa, i due diventano sempre più amici e solidali tra loro anche nell’affrontare il rapporto con i loro docenti, delle figure importanti per la loro formazione che, a volte, incutono a tutti profondo timore. Quello che i protagonisti vivono nel romanzo di Zumbini non è un semplice percorso formativo scolastico fatto di arte, musica, storia, filosofia, ma è un cammino di formazione umana che porterà tutti quanti ad un percorso di trasformazione del sé e del mondo circostante. Il libro è infatti suddiviso in tre parti: primo trimestre, secondo trimestre e Venerdì. Il primo e il secondo trimestre scorrono in modo tranquillo, con i ragazzi impegnati nella loro vita scolastica dove partecipano in modo attivo e coinvolto alla lezioni, facendo domande ed esponendo le proprie riflessioni sui temi trattati e spiegati. Accanto a questa formazione scolastica i giovani hanno tempo anche per la loro vita sociale e per superare i dissidi e le incomprensione tra coetanei. Tutto scorre liscio, ogni certezza che i giovani hanno c’è e per loro resta, poi però la mutazione è dietro l’angolo e loro non lo sanno.  O meglio, il cambiamento scatta il Venerdì Santo, quando la tradizionale allocuzione pasquale non viene fatta dal rettore (indisposto all’ultimo momento), ma dal bibliotecario, un benedettino (l’unico) della comunità. Lui, così umile e taciturno, preso da uno slancio di coraggio parlerà, e le sue parole, pronunciate con un crescendo emotivo costante, scateneranno un qualcosa di inaspettato e imprevisto. Il romanzo di Zumbini può essere visto come un romanzo di formazione dove i giovani protagonisti vivono in una dimensione definita, quasi protetta, ed è come se il loro mondo scolastico fosse un universo a sé, nel quale ogni certezza è data dagli studi che svolgono grazie alle lezioni di matematica, logica, greco, chronologia e teologia, dalle quali cercano di apprendere nozioni per la vita. Poi, però, con il discorso di dom Clemente, ogni tradizione e principio appreso saranno un po’ messi in crisi e i protagonisti saranno portati a compiere un’accurata e attenta riflessione sulla società europea del XXI secolo e, di conseguenza, sul loro vissuto. “Septem Verba” di Romano Ferrari Zumbini, è un libro che fa pensare, riflettere, perché accanto alla storia dei giovani protagonisti ci sono pagine con eventi storici accaduti nel corso dei secoli che hanno segnato importanti cambiamenti e trasformazioni per il mondo dell’Occidente. La grande Storia, unita quindi alle vicende dei ragazzi nati dalla penna di Zumbini crea una dimensione narrativa nella quale, ad un certo punto, noi lettori siamo quasi portati a sentirci un po’ come Arno, Aron e compagni, ossia spinti ad un’attenta riflessione sul mondo nel quale stiamo vivendo e su quello in cui abbiamo sempre creduto.

Romano Ferrari Zumbini Insegna Storia del diritto e Storia costituzionale presso l’Università Luiss (Guido Carli) di Roma.Di Romano Ferrari Zumbini, Liberilibri ha pubblicato, nella collana «Narrativa», Septem Verba (2021).

Source: richiesto all’editore. Grazie all’ufficio stampa di Liberlibri.

Dispassione, Maria Laura Rosati (LiberiLibri, 2021)A cura di Viviana Filippini

8 aprile 2021

“Mi chiamo Fiamma, e sono cattiva. Non sono stata sempre così, credo, ogni tanto la mia mente ha strani ricordi, tenerezze, turbamenti, lacrime. Forse. Non ne sono sicura. Magari l’ho solo sognato. Una volta, molto tempo fa, avevo un’altra vita, poi è arrivato il vuoto”. Questa è la voce di Fiamma la protagonista di “Dispassione” il romanzo di Maria Laura Rosati edito da LiberiLibri. Fiamma ci appare da subito come una donna scontrosa, cupa, che si rivolge direttamente a noi lettori facendoci capire che lei è davvero il peggio del peggio. Fiamma è e vuole restare sola, accetta solo Valeria, un’amica che sopporta comunque a fatica, mentre Paola e la piccola Claudia sono per lei un fastidio ogni volta che si fanno sentire. Quello che stupisce della donna è che oltre a non voler contatti con il prossimo, vive una vita fatta da mille ossessioni e non a caso mangia solo alcuni cibi e cucinati in un certo modo, odia la polvere e la sporcizia e teme i parassiti. Fiamma è una donna complessa e difficile, ma ha nel suo io profondo un qualcosa che la tormenta e che le impedisce di ricordare. La protagonista ha perso la memoria da tempo e non c’è verso di recuperarla, così sembra. Fiamma è affetta da dispassione (da dispassion in inglese, visto che nel vocabolario italiano non c’è), ossia distacco, e non a caso la protagonista prende le distanze da tutto e da tutti per timore, paura, per rabbia verso qualcosa o qualcuno che nemmeno lei conosce, o forse lo sa, ma non riesce a ricordarlo. Poi, un giorno, durante un viaggio che Fiamma non ha compreso perché ha fatto, la convinzione di aver perso di vista la figlia scatena in lei qualcosa. Fiamma comincia un cammino, anzi una fuga del tutto personale per cercare di capire che fine ha fatto la sua amata bambina. A complicare il tutto nella mente della protagonista arrivano ricordi improvvisi e imprecisi che la portano in un passato del quale non ricorda nulla, se non frammenti confusi e poco confortanti. Una gita in montagna con il marito e la figlia. La bimba (Pia) abile danzatrice che chiede ai genitori di andare a sciare con l’amichetto appena conosciuto. Il sì del babbo, i dubbi della mamma che parte sugli sci per cercare la figlia prima che si faccia male. Un gran caos emotivo, di ricordi e frammenti assedia la fragile Fiamma e il suo bisogno di trovare la pace la porta – e lei non sa perchè- a Parma. Qui Fiamma passa giornate intere a guardare il ritratto di una fanciulla ritratta da Leonardo, a non rispondere al telefono e a evitare lo strano uomo con il cane che incontra al parco deve lei va a cercare un po’ di pace. Il romanzo della Rosati è un grande puzzle nel quale Fiamma – e anche noi lettori- passo dopo passo, evento dopo evento, prende nuova coscienza di sé rimettendo assieme i tasselli di un passato oscuro che forse non le ha lasciato ferite nel corpo, ma le ha di certo creato un abissale vuoto nelle mente. “Dispassione” di Maria Laura Rosati è una storia travolgente, dal ritmo incalzante, con dialoghi che ti trascinano dentro alla trama facendoti sentire parte del vissuto di Fiamma. “Dispassione” compie una fine e acuta indagine nella mente e nell’animo umano e la Rosati, che è medico oltre che scrittrice, conduce il lettore dentro alle fragilità umane ed emotive di una donna che ha subìto un trauma profondo che le ha rotto qualcosa dentro e l’ha gettata nella paura e nella completa disperazione, impedendole di capire che l’amore, quello costante e vero, salva. Il romanzo è tra i finalisti del Premio Campiello del 2021.

Maria Laura Rosati è medico e scrittrice.  “Dispassione” è il suo secondo romanzo dopo “Passaggi”, uscito nel 2016. Nel 2017 ha ideato il collettivo di scrittura Scriviperbene, di cui fanno parte numerosi autori italiani, con il quale ha pubblicato e curato il ro­manzo “La giusta luce” e la raccolta di racconti “Acqua”.

Source: richiesto dal recensore. Grazie all’ufficio stampa di LiberiLibri.

“Eccetera. Una commedia profetica”, Rose Macaulay (Liberilibri, 2020) A cura di Viviana Filippini

18 febbraio 2021

“Eccetera. Una commedia profetica” di Rose Macaulay, potrebbe far pensare ad un testo teatrale. Invece non lo è, perché questo romanzo della scrittrice nata a Rugby è un vero e proprio esempio di romanzo distopico, uscito nel Regno Unito nel 1918 e finito nel dimenticatoio. Già, perché il volume venne ritirato in modo immediato dalle librerie inglesi, in quanto si riteneva che in esso ci fossero dei passaggi sovversivi. Pubblicato l’anno successivo il testo non venne preso in considerazione dalla critica e tantomeno dal pubblico e non a caso finì di nuovo nel limbo dei libri scordati. Da noi, “Eccetera” è giunto grazie all’editore Liberilibri. La trama prende il via in una Londra dopo la Prima guerra mondiale e l’atmosfera che si presenta nella città è a tratti surreale, nel senso che si ha la sensazione che i protagonisti si trovino in un mondo le cui certezze sono andate in frantumi a causa delle guerra e quella pace raggiunta è come lì lì pronta a saltare da un momento all’altro. In una città ammantata da un’atmosfera di pericolo incombente il lettore scopre che tutto è controllato dal Ministero dei Cervelli, creato per favorire il progresso e strutturato in diverse sezioni con funzioni specifiche che controllanno ogni singolo cittadino. Kitty Grammont è la protagonista del romanzo. La donna lavora come funzionaria del Ministero dei Cervelli, è molto intelligente – fin troppo per la società dove vive- tanto è vero che lei rientra nei cittadini di categoria mentale A, ma, allo stesso tempo, comincia a capire che qualcosa non va nel mondo dove vive. C’è troppo controllo, troppa volontà di fare dei cittadini esseri perfetti e di bloccare quello che non è conforme ai principi di Stato. Kitty è sposata e il suo matrimonio con Nicholas Chester Ministro dei Cervelli deve restare segreto, perché lui è di una categoria inferiore e quindi non adatto (o meglio) certificato a sposarla. Un unione tra ordini differenti che rappresenta una vera e propria sovversione del sistema e una miccia che potrebbe fomentare una rivolta popolare. Il romanzo della Macauly è una storia avvincente, distopica, che ha al centro della narrazione la tematica della manipolazione delle menti umane e della società al fine di sottomettere e controllare in modo completo le persone. “Eccetera. Una commedia profetica”, scritto nel 1918, anticipò per i certi aspetti trattati il film “Metropolis” di fritz Lang del 1927, ma anche romanzi diventati pilastri della letteratura mondiale come “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley del 1932 e “1984” di George Orwell del 1949. A dire il vero, però “Eccetera. Una commedia profetica” di Rose Macaulay è attuale oggi come ieri, perché non è difficile riscontrare nella società immaginata dall’autrice nel 1918 alcuni aspetti sociali  molto simili a quelli del nostro vivere di oggi. Traduzione Irene Canovari.

Rose Macaulay, nata a Rugby nel 1881 in una famiglia di accademici, trascor­se l’infanzia in Italia, studiò a Oxford e lavorò alla Sezione Propaganda durante la Grande Guerra. Spirito ribelle e femminista, ebbe una vita molto attiva e riuscì a guadagnarsi da vivere grazie alla sua scrittura, cosa rara per una donna a quei tempi. Compì innumerevoli viaggi, frequentò circoli letterari, femministi, religiosi e pacifisti, e partecipò ai programmi radiofonici della BBC. Non si sposò mai, reputando la vita domestica una minaccia alla creatività femminile, ma visse una lunga relazione d’amore con lo scrittore irlandese Ge­rald O’Donovan, ex-prete sposato e padre di tre figli. Poco prima di morire (si spense a Londra nel 1958), venne insignita del titolo di Dama Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico.

Source: richiesto all’editore. Grazie all’ufficio stampa di Liberilibri.

Intervista a Silvia Maria Busetti su John Law. Vita funambolesca e temeraria di un genio della finanza (Liberilibri, 2020)A cura di Viviana Filippini

21 dicembre 2020

John Law era un economista e finanziere scozzese che amava il gioco d’azzardo, protagonista oggi di “John Law. Vita funambolesca e temeraria di un genio della finanza” (Liberilibri, 2020) di Silvia Maria Busetti. L’autrice prende il lettore per mano e lo accompagna nell’avventurosa vita di Law, l’inventore del Sistema di Law e forte sostenitore dell’introduzione della moneta cartacea in sostituzione di quella di metallo, vissuto il XVII e il XVIII secolo. La biografia scritti dalla Busetti mette in evidenza non solo le competenze che Law aveva in ambito economico, ma anche la sua capacità di intrecciare quelle relazioni che lo portarono a viaggiare per mezza Europa anche se non sempre riuscì a trovare la giusta comprensione per quelle sue idee a tratti troppo innovative per i suoi tempi. Prefazione di Giuseppe Scaraffia.

Come è nata l’idea di scrivere un libro biografico su John Law, economista scozzese vissuto tra il XVII e il XVIII secolo? L’idea è nata alcuni anni fa, quando avevo appena pubblicato una raccolta di poesie. Era un progetto che ero riuscita a realizzare dopo molti anni, utilizzando le poesie scritte fin da bambina. Il mio sogno nel cassetto si era avverato. Ma una volta chiuso questo capitolo, era rimasto un senso di vuoto e il forte desiderio di colmarlo con una nuova “creatura”. Parlai per caso di questo con un amico, Giuseppe Scaraffia, professore universitario ed esperto di letteratura francese, il quale dopo pochissimi giorni mi propose questo soggetto davvero straordinario. L’idea mi piacque subito moltissimo. Non avevo mai sentito parlare di John Law e ne rimasi immediatamente folgorata. Scrivere questo libro è stato elettrizzante: da un certo punto di vista una sfida, perché tratta temi di economia molto complessi, ma è stato anche un continuo infatuarsi del suo incredibile protagonista.

Come ha svolto la ricerca? Mi sono prima documentata sulle fonti e sugli studi su John Law e il suo Sistema per capire meglio l’uomo, le sue idee ed il contesto storico. Poi ho cercato di capire che cosa mancasse nel panorama di questi studi e come avrei potuto io contribuire ad una maggiore conoscenza di questa figura così fuori dal comune. Quasi naturalmente ho individuato il mio modo di raccontare John Law, comunicando ad un pubblico non necessariamente accademico il contesto storico ma soprattutto la giusta sequenza cronologica degli eventi che non mi sembrava fossero fino ad allora stati chiariti veramente. La fase di ricerca infatti è stata lunga e difficile perché è vero che in molti hanno scritto di John Law, ma è altrettanto vero che le informazioni disponibili erano quasi sempre lacunose e cronologicamente inesatte. Gli eventi che caratterizzarono la vita di John Law furono innumerevoli e studiando questo personaggio sentivo fortemente l’esigenza di capirne esattamente la loro giusta collocazione storica e culturale.

Ha scoperto qualche particolarità o novità rispetto a quanto già noto, sulla figura di John Law? Non sono riuscita a scoprire documenti inediti ma spero di essere riuscita a gettare nuova luce sull’epoca, e spero si averlo fatto inserendo le questioni specificamente economiche all’interno del contesto storico. Un evento della vita di John Law riportato in pochissimi testi è quello della sua avventura galante con l’elettrice di Baviera, nota come Cunegonda, talmente infatuata dello scozzese che lasciò il suo paese e seguì Law fino a Venezia.

Law era un giocatore d’azzardo e aveva fiuto per gli affari, cosa lo spinse a creare la regola monetaria nota come “Sistema di Law”? Quanto essa fu rivoluzionaria per i suoi tempi? John Law era uno straordinario osservatore. Aveva una mente geniale, sempre attenta a ciò che lo circondava ed avida di conoscenza. Aveva avuto la possibilità di viaggiare attraverso l’Europa per anni e in tutti i paesi che visitò ebbe modo di osservare il modo in cui i diversi governi affrontavano politicamente le crisi economiche. Law era un giocatore d’azzardo e la disponibilità di moneta per lui era un nodo realmente fondamentale per vivere. John Law aveva capito che la produzione di moneta era un fattore fondamentale per lo sviluppo economico. Aveva capito che c’era bisogno di una Banca Centrale e di politiche monetarie che iniettassero sufficiente credito nell’economia. Ma, come ha chiarito il professore Giuseppe Moscarini della Yale Universitiy, in occasione di un recente dibattito organizzato online proprio sul mio libro, questi meccanismi economici sono ancora oggi parzialmente oscuri. L’idea di Law era rivoluzionaria: ci sono voluti centinaia di anni per capire che qualsiasi moneta fondata su un bene finisce solo per frenare lo sviluppo economico. Ma i tempi non erano maturi e “beau John” non venne capito.

Il sistema di Law non ebbe il successo sperato in Francia e finì nel dimenticatoio, perché?  La Francia, grazie a John Law, aveva potuto cancellare il proprio debito pubblico. Un debito dalle proporzioni incredibili. Ma lo shock subito dalla popolazione, che grazie al Sistema si era rapidamente arricchita ma poi altrettanto rapidamente impoverita fu tale, da far dimenticare tutte le riforme che John Law aveva apportato allo Stato francese. Non da ultima l’abolizione di innumerevoli balzelli e un importante abbattimento delle imposte. Il Parlamento lo aveva da sempre osteggiato per invidia e il Reggente, con il suo carattere debole e volubile, presto gli voltò le spalle. Il clima sociale che si era creato al momento della fuga di Law dalla Francia era quindi talmente violento nei suoi confronti che la figura dello Scozzese subì una vera e propria damnatio memoriae. Secondo me ingiustificata. Law fu un incredibile economista, la sua figura dovrebbe essere riabilitata.

Nel libro Law comprò opere di importanti artisti italiani di Venezia. Questo suo fare può permettere di identificare Law come precursore del concetto di “investire sull’arte oggi per avere maggiori guadagni domani”? Certamente sì. Fu proprio grazie alle opere d’arte acquistate negli anni giovanili che lo scozzese riuscì a sbarcare il lunario durante gli anni dell’esilio. Credo fosse perfettamente consapevole del loro valore monetario. Ma in generale era un amante del bello quindi amava l’arte anche in quanto portatrice di bellezza. Lui stesso si fece ritrarre varie volte nella vita.

Agli occhi di quello che lai ha potuto scoprire sulla figura di John Law, secondo lei che opinione avrebbe dello stato dell’attuale economia italiane e mondiale? In questo momento ci vorrebbe veramente un John Law che prendesse in mano le redini di questo mondo disastrato. Un uomo dalle visioni ampie, che abbia a cuore – proprio come John Law – la diffusione del credito e lo sviluppo reale di un Paese. Quando lui arrivò in Francia, il Paese era allo stremo, dilaniato da guerre, pestilenze e da una povertà forse mai vista prima. Law risollevò in poco tempo le sorti della Francia e lo fece con politiche monetarie azzeccate. Che poi il Sistema abbia fallito, fu dovuto a meccanismi allora ancora ignoti e quindi all’ingenuità di questo scozzese temerario. Non posso dire con certezza cosa farebbe il mio eroe se oggi fosse qui, ma considerando il suo modo di operare, penso proprio che non cercherebbe di far fronte alla crisi economica con politiche fiscali, attraverso agevolazioni che peraltro riguardano il futuro, ma attraverso politiche monetarie, con iniezioni di moneta sonante, tenendo sotto controllo un moderato aumento inflazionistico.

Silvia Maria Busetti (Roma 1972). Ha studiato socio­lo­gia alla Sapienza Università di Roma e ha scritto per «Affari e Finanza», «Business Insider», «The Boston Globe», «Dallas Morning News».

Source: richiesto dal recensore all’editore. Grazie all’ufficio stampa di Liberilibri.

Per sempre Romantici, Cesare Catà, (Liberilibri 2020), a cura di Viviana Filippini

14 settembre 2020

“Per sempre Romantici. Florilegio della poesia inglese e tedesca ad uso dei spiriti ribelli” è il libro di Cesare Catà edito da Liberilibri, dove l’autore porta il lettore alla scoperta delle caratteristiche emotive e sensoriali della poeseia romantica inglese e tedesca in un volume con poesie presenti in lingua orginale e tradotte dall’autore stesso. Ne abbiamo parlato con Cesarà Catà.

Cosa le ha ispirato il volume “Per sempre romantici”? Anzitutto, l’idea che il Romanticismo sia più di una categoria storiografica, essendo piuttosto una forma mentis universale, presente da sempre nella storia dell’uomo, persino nella nostra era tecnologica, digitale ed economicista. Poi, certamente, un amore profondo per alcuni autori inglesi e tedeschi che, fin dai primi anni della mia giovinezza, mi ha accompagnato, affascinandomi in modo radicale; ho dunque pensato che fosse un’operazione interessante condividere questi pensieri e questo amore, attraverso traduzioni inedite e un percorso originale tra i versi di tali autori. 

In base a che principi o temi ha scelto i poeti inglesi e tedeschi da mettere nella raccolta? Non solo per un amore e un gusto personale, ma anche perché, pur nella profonda eterogeneità di stili, biografie, credo, formazione, ho ritenuto che questi poeti avessero in comune l’aver incarnato aspetti emblematici, direi archetipici, di quello che nel libro è definito “Tipo romantico”, avendo dato vita a opere poetiche incentrate tutte, mutatis mutandis, attorno ai principi del Romanticismo universale. 

Il suo volume ha come sottotitolo “Florilegio della poesia inglese e tedesca ad uso dei spiriti ribelli”, quale è il suo senso per il lettore? Si tratta di poesie che saranno amate da lettori che sono a loro volta romantici, e dunque ribelli. In alcuni casi, questi versi potrebbero anche far scoprire la parte romantica dell’animo di un lettore. 

Secondo lei nella letteratura di oggi, c’è ancora qualche frammento del Romanticismo del passato? Certamente. Come dicevo prima, lo Spirito Romantico pervade la storia tutta dell’umanità, definendo un tipo psicologico. In questo senso, abbiamo chiari esempi storico-letterari: si pensi a come il Romanticismo si trasformò e si inverò in tre distinte esperienze: nei Preraffaelliti, in Inghilterra; nel Crepuscolo Celtico di Yeats e Lady Gregory, in Irlanda; o nel Trascendentalismo americano di Thoreau e Emerson. Ma, al di là di tali esempi, certamente vi è sempre una “corrente romantica”, o un aspetto romantico nelle letterature di ogni tempo. 

Chi è e come è il vero autore romantico? Colui che, confondendo vita e poesia, arte ed esistenza, segue un principio magico che ritiene preminente rispetto alle norme civiche e metafisiche imposte al soggetto umano. Il romantico è un cavaliere dell’assoluto che, invece della spada, usa la parola. 

Che relazione è quella tra poeta romantico e Natura? Una relazione essenziale. Il Romantico è colui che riconosce un valore sacrale, mistico alla Natura e al paesaggio. Questo lo possiamo riscontrare, in diverse forme, in tutti gli autori presenti nel florilegio; e quella celebrazione ieratica della Natura offerta dai poeti non è diversa, in ultima analisi, dalla commozione che qualcuno di noi prova nel vivere alcuni paesaggi o alcuni aspetti del mondo naturale. 

Per quale ragione ha deciso di fare una nuova traduzione dei testi scelti? Sono traduzioni molto libere. A tratti, quasi delle riscritture. Traduzioni romantiche, se vogliamo. Ma sono convinto che fosse necessario offrire in modo soggettivo una versione di questi testi, per dare forma al percorso che avevo in mente. Ferma restando la preziosa intraducibilità del verbo poetico, si tratta di versioni che tendono a uscire dalla lettera in cerca dello spirito di quei versi. Se ci sia riuscito o meno, ovviamente, nessuno può dirlo, salvo i lettori. 

Cesare Catà (1981) è filosofo e performer teatrale. Dottore di ricerca in Filosofia del Rinascimento, è autore di saggi, drammi, traduzioni e del libro di racconti Efemeridi. Storie, amori e ossessioni di 27 grandi scrittori. Ha creato il format teatrale Magical Afternoon, lezioni-spettacolo dedicate a Shakespeare e altri classici della letteratura.Per Liberilibri ha curato “libertini libertine. Avventure e filosofie del libero amore da Lord Byron a George Best” (2018); “La sapienza segreta delle api”, di Pamela L. Travers (2019); e “per sempre romantici. Florilegio della poesia inglese e tedesca ad uso di spiriti ribelli” (2020).

Source: richiesto dal recensore all’editore. Grazie all’ufficio stampa LiberiLibri.

Il mio nome è Mostro, Katie Hale, (Liberilibri 2020) a cura di Viviana Filippini

12 luglio 2020

Katie Hale ha pubblicato questo suo romanzo d’esordio “Il mio nome è mostro”, nel 2019. Il libro è arrivato da noi in Italia nel 2020, grazie all’editore Liberilibri, e quello che stupisce è che la trama rientra a pieno nella tipologia del romanzo distopico nel quale la protagonista è, almeno così sembra, l’unica sopravvissuta di una pandemia. Già, di una “Malattia”, perché è così che viene chiamato l’antagonista nella trama della Hale. Un invisibile nemico che ha sterminato il genere umano. Pandemia, malattia, virus, sono termini diventati per noi oggi, ai tempi del Covid-19, vera e propria quotidinità nella quale il mondo è stato catapultato a inizio anno, ma la britannica Hale, già li aveva messi nel suo testo un anno fa, anticipando quella che sarebbe stata l’atmosfera dei nostri giorni. La protagonista è sola in un mondo reso deserto dalla malattia che ha seminato panico e morte. Il luogo dove lei si aggira non ha un’identità precisa, ci sono elementi che fanno pensare alle terre nordiche, ma potrebbe essere ovunque, come qualunque potrebbe essere il tempo nel quale la narrazione si svolge. Chi ci racconta, lo fa dal suo punto di vista, non solo portando a noi lettori la desolazione, solitudine, stato di abbandono di un pianeta che sembra essere uscito da un devastante conflitto bellico. La narratrice-protagonista espone i suoi sentimenti, la sofferenza per avere perso la sua famiglia, il dolore fisico delle ferite infette, la stanchezza del viaggio di ritorno a casa controbilanciati dalla forza, dal coraggio, dalla volontà di farcela a tutti i costi. Elementi che le permettono di procedere in quella che è la sua impresa: tornare alla vita in un mondo tutto da ricostruire. Durante la lettura si intuisce come la giovane stia facendo una lunga traversata dal suo rifugio nelle Svalbard, dove aveva trovato riparo, fino alla casa natia, ma tutto attorno a lei è morte, desolazione e distruzione. Certo è che per la protagonista c’è una inaspettata sorpresa quando trova una ragazzina sola, abbandonata e tremendamente impaurita che lei decide di soprannominare “Mostro”, lo stesso nomignolo che il padre le aveva dato da piccola. Il romanzo dalla Hale è diviso in due sezioni, ed è proprio nella seconda parte che si innesta la narrazione dal punto di vita della seconda sopravvissuta, anche lei alla ricerca di una nuova speranza in un mondo a tratti primordiale, dove i saccheggi hanno svuotato le case dei tanti umani uccisi dalla “Malattia” e lasciato una sensazione di decomposizione costante. Il romanzo di Katie Hale è potente per la sua capacità di aver raccontato una stato di panico, di terrore e di messa in crisi di ogni certezza che noi abbiamo incontrato in modo reale in questo 2020 con lo scoppio del Coronavirus. Il lavoro letterario della Hale è ancora una volta la dimostrazione di quanto il confine tra letteratura, finzione e realtà sia sottile, anzi, a volte la narrativa riesce ad anticipare quello che accade nella vera esistenza del mondo. Quello che mi ha colpito di più è la convinzione della prima sopravvissuta che la solitudine nella quale si trova sia l’unica via di salvezza da ciò che potrebbe annientarla. Una certezza che comincia a traballare un po’ con la scoperta che esiste qualcun altro. Le due ragazze, così diverse per carattere e atteggiamento nei confronti della vita, si rimboccheranno le maniche per un nuovo domani tutto da costruire, anche se non hanno ben chiaro come. Certo è che quelle giovani e la nuova vita che sta crescendo in una di loro, dal mio punto di vista, potrebbe essere vista come la rappresentazione dei due progenitori/progenitrici di una nuova umanità. Traduzione di Carla Maggiori.

Katie Hale (1990), britannica, si è laureata in Letteratura inglese alla University of London nel 2012 e in Scrittura creativa nel 2013 alla University of St Andrews. Nel 2019 ha ricevuto la prestigiosa MacDowell Fellowship.

Source: richiesto dal recensore all’editore. Grazie a Maria Stefania Gelsomini dell’uffcio stampa Liberilibri.

La sapienza segreta delle api, Pamela Lyndon Travers, (Liberilibri 2019) A cura di Viviana Filippini

30 gennaio 2020

La sapienza segreta delle api verdeAlmeno una volta nella vita, abbiamo visto il film “Mary Poppins” con Julie Andrews. La fata bambinaia che arriva a Londra volando con l’ombrellino è ben nota, ma la sua autrice Pamela Lyndon Travers, nata in Australia da genitori di origine irlandese, scrisse altri libri, tra i quali “La sapienza segreta delle api”, edito in Italia da Liberilibri. Il volume non è un romanzo, ma un saggio contente diversi testi tratti da conferenze e articoli che l’autrice pubblicò su diverse riviste e giornali tra la seconda metà degli anni Sessanta e  Ottanta del 1900. La Travers la conosciamo appunto perché scrisse “Mary Poppins”, trasformato poi in film da Walt Disney e, pensate, che il produttore di cartoni animati impiegò davvero parecchio tempo (anni) per avere dall’autrice i diritti per la produzione. Di certo, da questo volume uscito nel 2019 capiamo che la Travers aveva un carattere forte, deciso. Era una donna colta, con precisa volontà di indipendenza e con ben chiaro quello che i suoi scritti dovevano comunicare. Non a caso, le sue lacrime alla prima del film di Disney, come riportano i bene informati, non furono di gioia, ma di disperazione per come il vero senso della sua vicenda di Mary Poppins venne modificato in funzione di un esagerato buonismo. Il volume pubblicato da Liberilibri ha in sé diverse tematiche approfondite in modo peculiare della scrittrice che amava leggere, scrivere, riflettere, bevendo tè, rum, punch e anche del whiskey. Nel volume si trovano pagine dedicate al valore segreto e nascosto delle api, a quel loro essere simbolo della vita e animale sacro in varie tradizioni,  ritenuto portatore e custode di una conoscenza segreta nella quale ci sarebbero miti, simboli, leggende, fiabe, rituali e tradizioni. Non solo, la scrittrice si concentra sul ruolo fondamentale sulla connessione che l’uomo ha con ciò che lo circonda e lo vede come qualcosa di importante per comprendere i legami che l’io del presente possiede con il contesto dove vive e con le tradizioni che in esso sono presenti. Da questo tema il passo al Mito è breve e la Travers porta noi lettori alla scoperta della sua indagine dove esso è un fattore culturale che si tramanda nel corso del tempo, che è verisimile alla realtà, ma ha delle peculiarità che lo rendono anche diverso da essa. L’autrice evidenzia come il Mito e quegli elementi archetipi che lo determinano ritornano nelle tante storie scritte e narrate. Non a caso l’autrice ci espone la sua idea sulle fiabe, su quelle categorie universali, veri e propri elementi codificati (eroe, antagonista, l’aiutante, l’evento scatenante) che tornano sempre in esse e che diventano degli standard fondamentali per costruire una buona storia nel momento in cui viene messa per iscritta. La Travers fa anche notare che le fiabe, storie per bambini e adulti, in molte occasioni sono state caratterizzate da un buonismo e da un lieto fine costruito ad hoc, che ha però preso le distanze dalle loro versioni originarie. Questo modificare per dare solo e sempre messaggi postivi non è molto apprezzato dalla scrittrice, perché è vero che le fiabe sono opere di fantasia, ma esse affondano le radici nella realtà vera e, se ci pensiamo bene, essa non sempre è bella. “La sapienza segreta delle api” della Travers è un viaggio nella mente e nelle parole dell’autrice, nelle sue indagini culturali, folcloriche, negli incontri con i grandi letterati irlandesi e in quel suo voler approfondire sempre il significato nascosto e segreto delle cose. Testo curato da Cesare Catà.

Pamela L. Travers (Maryborough, Australia, 1899- Londra 1996). Nome d’arte di Helen Lyndon Goff, nacque in Australia da genitori irlandesi. È universalmente nota per la serie di romanzi fantastici con protagonista Mary Poppins. Folklorista e studiosa di mitografia comparata, s’interessò inoltre al bud­dismo zen e studiò sul campo le tradizioni degli indiani d’America. Fu allieva di Gurdjieff e subì l’influenza di W.B.Yeats e G.W.Russell, che la introdussero nei circoli letterari irlandesi e inter­nazionali. Morì nubile nella capitale britannica, all’età di 97 anni.

Source richiesto all’editore. Grazie a Maria Stefani Gelsomini dell’ufficio stampa Liberilibri.

“Lettere a Hawthorne”, Herman Melville, a cura di Giuseppe Nori (LiberiLibri 2019) a cura di Viviana Filippini

5 ottobre 2019

lettere H.Lo scorso agosto sono stati i 200 anni dalla nascita di Melville, l’autore di Moby Dick e l’editore LiberiLibri per l’importante anniversario ha ripubblicato (seconda edizione riveduta e ampliata rispetto al 1994) “Le lettere a Hawthorne” di Herman Melville, il carteggio tra lui e Hawthorne, due figure magistrali della letteratura americana. Le pagine scritte da Melville permettono a noi lettori di entrare dentro una parte della sua vita, tra il 1851 e il 1852, per conoscerlo nel suo vissuto lavorativo, ma anche in quello privato. Ed è la mescolanza tra queste due dimensioni che ci aiuta ad avere un’immagine più nitida dello scrittore, che in quel biennio visse sulla propria pelle uno dei momenti più intensi della sua evoluzione come autore e della sua produzione letteraria. Quello che emerge da questi testi è la personalità complessa, piena di dubbi, timori emozioni e paure che attanagliavano Melville: uno scrittore dalla creatività in costante fermento. Melville aveva viaggiato molto nella sua esistenza e proprio grazie a questo suo continuo spostarsi, lui era riuscito a trovare lo spunto per molti  scritti proprio dal contatto con la realtà vissuta in prima persona e da quello con popolazioni differenti per usi e costumi da quella americana. Molti degli appunti presi dall’autore sono diventati romanzi a tutti gli effetti o rimasti delle bozze da sviluppare. L’autore di “Moby Dick” scrive a Hawthorne, manifestando il suo bisogno di incontrare lui e la sua famiglia, come per avere un contatto diretto con un collega che a tratti sembra essere il migliore amico mentre, in altri momenti, Hawthorne sembra essere non il nemico, ma quel tipo di autore, perfetto, di successo, con una famiglia da cartolina ed equilibrato che Melville avrebbe voluto essere, e che non divenne mai. Quello che emerge da queste pagine è il ritratto di un uomo tormentato, consapevole della sua capacità di scrittura ma, allo stesso tempo, convinto di venir ricordato dai posteri non per i propri romanzi, ma come l’individuo che viveva con i cannibali e che amava scrivere libri con protagonisti dei selvaggi. Nelle lettere lo stesso Melville si concentra su alcuni suoi testi: “Moby Dick” che, in quel periodo, era in revisione e che lo sfiancò psicologicamente ; poi ci sono riferimenti a “Pierre” e alle sue aspirazioni di letterarie e la storia di Agatha, unita agli spunti della vita vissuta che ispirarono Herman alla stesura del soggetto. “Lettere a Hawthorne è un vero e proprio viaggio nella vita letteraria e civile di Herman Melville, un uomo e un genio della scrittura dalla personalità complessa e in evoluzione, che nel corso del tempo è diventato  uno dei pilastri e dei classici della letteratura romantica americana e mondiale e che è riuscito a trasformare in eroi del quotidiano, gli umili protagonisti delle sue storie. Traduzione di Giuseppe Nori.

Herman Melville (New York, 1819-1891) A ventisei anni, dopo un’infanzia sofferta e una prima giovinezza «sregolata e avventurosa» di marinaio (nelle note parole di Hawthorne), Melville inizia la sua carriera letteraria. Scrive sette romanzi in sette anni, alternando successi a insuccessi, fino ad alienarsi definitivamente il favore e la stima del pubblico con i suoi capolavori, “Moby-Dick” (1851) e “Pierre” (1852), due opere audaci, tanto incomprensibili quanto dissacratorie per i suoi contemporanei. Sull’orlo del disastro letterario ed economico, continua la sua attività narrativa fino al 1857, per poi abbandonare la carriera pubblica di scrittore di prosa e dedicarsi a una lunga e oscura attività di poeta. Muore quasi del tutto dimenticato, lasciando fra le sue carte il manoscritto di “Billy Budd”, il suo ultimo capolavoro narrativo. Di Melville, Liberilibri ha pubblicato “Lettere ad Hawthorne” (1994).

Giuseppe Nori è professore di Lingue e letterature anglo-americane presso l’Università di Macerata. Si è dedicato principalmente ai classici dell’Ottocento: Melville, Hawthorne, Emerson, Bancroft, Whitman e Stephen Crane. Si è inoltre occupato di letteratura e religione nel Seicento e di narrativa e poesia moderniste. Per Liberilibri ha curato”Lettere ad Hawthorne” di Melville (1994) e “Cartismo” di Thomas Carlyle (1994). 

Source: richiesto dal recensore all’editore. Grazie all’ufficio stampa e a Maria Grazia Gelsomini.