Archivio dell'autore

:: Giochi d’infanzia di Tanizaki Jun’ichiro, a cura di Luisa Bienati (Marsilio, 2024) a cura di Giulietta Iannone

25 ottobre 2024

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento il Giappone, aprendosi all’Occidente, iniziò un profondo processo culturale, politico e sociale teso alla modernizzazione e industrializzazione del paese. Questo rinnovamento, sempre nel rispetto delle radici culturali tradizionali, portò a una revisione dei processi educativi e della formazione di genere che di per sè avrebbe dovuto formare ed educare una nuova società di cittadini consapevoli e integrati in una struttura sociale complessa e variegata come era la società giapponese. L’importanza dei sistemi educativi, il maestro portava in classe ancora verghe di vimini e l’educazione si basava su meccanismi di premi e punizioni, è dunque ben evidenziata dalla diffusione di un genere letterario che ha per tema l’infanzia e l’adolescenza, i cosiddetti shonen momo (storie per bambini). In questo genere letterario specifico si colloca “Giochi di infanzia” di Tanizaki Jun’ichiro, edito nella collana Letteratura universale di Marsilio. Il testo comprende due racconti di Tanizaki: Shōnen (Adolescenti, 1911) e Chiisana ōkoku (Il piccolo regno, 1918) e un’interessante e corposa prefazione di Luisa Bienati, che ne ha curato anche la traduzione dal giapponse, oltre a un capitolo specifico sulla vita e le opere di Tanizaki, e un glossario finale. C’è da aggiungere che il testo è stato sottoposto a un comitato scientifico. Tanizaki è considerato uno dei più autorevoli e importanti scrittori della letteratura giapponese moderna, famoso per opere come La chiave, Diario di un vecchio pazzo, La croce buddista, tutte opere giunte in Occidente con grande clamore, data soprattutto la modernità, e la libertà con cui Tanizaki ha preservato la sua identità culturale in un contesto di rapidi cambiamenti della società giapponese del XX secolo. Il piccolo regno narra la vicenda umana ed educativa di un maestro elementare alle prese con una classe dominata da un alunno Numakura Shokichi, un ragazzo corpulento, le spalle grosse e rotonde, il viso quadrato dal colorito scuro, la nuca grossa, lo sguardo malinconico, una figura carismatica, dalla forte vocazione di leader, capace di contendere l’autorità anche al maestro coinvolto nei loro giochi infantili per l’affermazione di sè. Profondo lo scavo psicologico e lo studio della dinamica di interazione tra i personaggi a cui si alternano descrizioni della natura poetiche e affascinanti. Sempre di giochi infantili tratta Adolescenti, il secondo racconto, in cui la figura di Mitsuko sovrasta la narrazione e sovverte le regole tradizionali patriarcali in cui era la figura femminile in posizione di sudditanza e inferiorità, qui prende il sopravvento sui compagni di gioco maschi e alla fine ne fa i suoi schiavi. Non senza tracce di crudeltà i giochi infantili non riflettono un mondo di innocenza gentilezza, ma anzi di sopraffazione e lotta per ottenere l’ubbidienza e il dominio. Tanizaki spesso presenta, come in quest’opera, personaggi femminili forti che sfidano le aspettative di genere e affermano la loro identità oltre ai confini imposti dal patriarcato. Questi personaggi utilizzano il gioco e la finzione per affermare il loro potere e riscrivendo le dinamiche tradizionali che legano i rapporti tra uomini e donne mettono in discussione le strutture di potere esistenti in una sorta di protofemminismo del tutto originale e anomalo per la società del tempo. Oltre al valore letterario intrinseco questi racconti sono indubbiamente interessanti come testimonianza e forma di riscatto.

Junichiro Tanizaki, nato a Tokyo nel 1886 e morto nella città di Yugawara (prefettura di Kanagawa) nel 1965, si formò come scrittore a cavallo tra Ottocento e Novecento. Sconvolse il pubblico, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, per via della modernità dei suoi romanzi.
Tra le sue opere: L’amore di uno sciocco (1924 / Bompiani 2000), Vita segreta del signore di Bushu (1932 / Bompiani 2000), Libro d’ombra (1933 / Bompiani 2000), Neve sottile (1948 / Guanda 2009), Diario di un vecchio pazzo (1962 / Bompiani 2009), Morbose fantasie (Einaudi 2003), Nostalgia della madre (Einaudi 2004), Il demone (Einaudi 2010), Sulla maestria (Adelphi 2014).

:: Note di lettura di Patrizia Baglione: “La passeggiata” di Robert Walser

24 ottobre 2024

“La passeggiata” di Robert Walser è una celebrazione della vita attraverso il semplice atto di camminare. L’autore utilizza questo gesto quotidiano per esaminare la sua relazione con l’ambiente e con se stesso. Le descrizioni vivide dei luoghi, dai parchi alle strade cittadine, creano un’atmosfera immersiva. 

Walser riesce a catturare la bellezza nei dettagli più piccoli, come il fruscio delle foglie o il sorriso di un passante. Questi momenti di osservazione attenta offrono pause riflessive dalla frenesia della vita contemporanea. Inoltre, la passeggiata diventa una metafora del viaggio interiore, un modo per esplorare emozioni e pensieri che spesso vengono trascurati. 

Il libro può anche essere visto come un invito a rallentare e a connettersi con il mondo che ci circonda, sottolineando l’importanza della mindfulness e dell’apprezzamento per il momento presente. Attraverso la sua prosa poetica, Walser ci ricorda che ogni passo può portare a nuove scoperte e che la vita è piena di bellezza, anche nei luoghi più ordinari.

:: Un’intervista con Marina Visentin, autrice di Aurora a cura di Giulietta Iannone

24 ottobre 2024

Benvenuta Marina su Liberi di scrivere e grazie di avere accettato questa intervista. Giornalista, traduttrice, scrittrice, parlaci di te, dei tuoi studi, del tuo lavoro.

Non è semplice da sintetizzare la mia vita lavorativa. Ho studiato da filosofa e quello volevo fare da grande, invece mi sono ritrovata a fare la copy-writer in un’agenzia di pubblicità, non mi piaceva e mi sono messa a fare la giornalista. La cronaca mi stava stretta, ho pensato bene di lanciarmi nel mare tempestoso della critica cinematografica. Le parole mi sono sempre piaciute e quindi ogni tanto mi sono anche divertita a tradurle da una lingua all’altra. I romanzi sono venuti alla fine, dopo una lunga strada lastricata di saggistica, tra cinema e filosofia, ma mi hanno dato tra l’altro la possibilità di far rivivere il vecchio e mai dimenticato amore per le sfumature nere della cronaca e della storia.

Hai da poco pubblicato Aurora, un ottimo noir nella collana Calibro 9 di Laurana Editore. Ce ne vuoi parlare? Come è nata l’idea di scriverlo?

La prima idea è nata da uno spunto autobiografico: uno spavento che davvero ho provato alcuni anni fa. D’improvviso, senza alcuna ragione, avevo scoperto che qualcuno mi stava seguendo, prendeva informazioni su di me, mi sorvegliava. Per alcune settimane mi ero sentita vulnerabile, inspiegabilmente sottoposta a un controllo misterioso e inquietante. Come era iniziata, in modo altrettanto repentino, questa esperienza è finita. Non ho mai saputo a cosa fosse dovuta, probabilmente a uno scambio di persona. Da questa sensazione di minaccia, tanto inafferrabile quanto allarmante, è nato il primo nucleo di Aurora, che si è poi arricchito della mia passione per l’arte contemporanea e del mio desiderio di scrivere. Per raccontare delle storie, certo, ma anche e soprattutto per dare voce alle donne, alle loro paure, ai loro desideri, alle loro fragilità, alla loro forza, nonostante tutto.

Partiamo dall’ambientazione, una Milano invernale, grigia, fredda, con puntate al lago e a Venezia. Uno scenario malinconico, triste, come hai definito i contorni nelle cose, degli ambienti?

La vera protagonista di Aurora è l’acqua: acqua che ti avvolge, acqua che ti sommerge, acqua di cui avere paura. Acqua trasparente e al tempo stesso torbida. L’acqua di cui Gemma, la protagonista del romanzo, ha paura. Per un motivo ben preciso, che si ricollega al suo passato, a un evento traumatico che ha tentato di seppellire nel profondo della sua coscienza, ma che ogni notte ritorna sotto forma di incubo. Il lago Maggiore e Venezia sono i due scenari che ho scelto proprio per raccontare l’acqua nella sua dimensione calma – il lago, la laguna – e al tempo stesso minacciosa. E poi c’è Milano, ancora e sempre, la mia città, amata e detestata. E ho scelto di raccontarla in inverno, nelle giornate più corte dell’anno, perché proprio il buio è la dimensione che più di altre può descrivere la paura, il disagio, la vulnerabilità.

Gemma è la protagonista, una donna apparentemente forte, realizzata, anche benestante ma con un segreto che teme che tutti possano scoprire. Come hai costruito questo grumo nero di male, nel cuore di un personaggio per certi versi solare?

In qualche modo ho fatto appello all’ambivalenza che abita tante donne: forti, fortissime, capaci di affrontare a testa alta prove di ogni genere e però intimamente fragili, bisognose di sostegno, incapaci di emanciparsi davvero da una profonda sensazione di inadeguatezza. L’idea del segreto da nascondere nasce proprio da questa esperienza condivisa da tante donne: un senso di colpa che nasce prima di tutto dalla sensazione di essere deboli, dalla paura di non essere veramente all’altezza.

La protagonista è una donna forte, razionale, ma nei sogni torna al passato, alla fobia per l’acqua, a un senso di colpa che non l’abbandona. Molto freudiano non trovi? Quanto incide la psicanalisi nel tuo narrato?

Grazie di avermi fatto questa domanda! La dimensione psicologica per me è fondamentale. Più dell’intreccio mi interessano i personaggi, la verità delle relazioni che intrattengono con gli altri, con il mondo circostante. Gemma, la protagonista del mio romanzo, rivive ogni notte – negli incubi che turbano il suo sonno – un evento traumatico che ha segnato la sua vita, che ha costruito la sua personalità all’insegna della paura. Paura che si è cristallizzata in una sorta di corazza che serve a tenere a distanza il mondo, oltre che nel tentativo di rimuovere dalla coscienza tutto ciò che può infastidire e mettere in crisi. Quindi, sì, per rispondere alla tua domanda, direi che la psicoanalisi e in generale gli studi di psicologia hanno – hanno sempre avuto – un notevole influsso sulle mie riflessioni e quindi sulla mia scrittura.

Per un malinteso, non sto a spiegare cosa succede, incontra Vittorio. Ci vuoi parlare di questo personaggio?

Non vorrei parlarne troppo, perché non vorrei svelare troppo della trama a chi ci legge. Però mi sembra importante dire che Vittorio è un personaggio tridimensionale. Può sembrare semplicemente un “cattivo”, perché inizialmente è questa la sua funzione – diciamo così – all’interno dell’intreccio, ma in realtà è un personaggio pieno di sfaccettature. Il suo ruolo può rivelarsi negativo, ma forse più che altro è destabilizzante, rispetto all’iniziale equilibrio della protagonista. Forse incarna solo e semplicemente un’immagine di amore tossico, ma a me sembra importante parlarne, non smettere mai di interrogarci sui motivi che possono rendere un uomo come Vittorio tanto seducente.

Quali autori e opere d’arte ti hanno influenzato nella stesura del tuo libro?

Sicuramente una delle immagini iniziali da cui prende le mosse l’intero romanzo è Ophelia di John Everett Millais, un quadro celeberrimo, simbolo del movimento preraffaelita e perfetta rappresentazione di come bellezza e disfacimento, giovinezza e morte possono sovrapporsi in tanti modi, sotto il segno del fascino e dell’inquietudine. Se devo citare un libro, mi viene in mente Acqua nera di Joyce Carol Oates, che guarda caso, nella vecchia edizione che possiedo da tanti anni, ha in copertina proprio questo quadro che per tanti anni mi ha ossessionato.

Ci sono derivazioni cinematografiche? Film o telefilm che ti hanno dato ispirazione?

Tantissimi, naturalmente. Il mio immaginario si nutre di immagini in movimento da una vita intera. Però, per citare un solo titolo, ti direi Il segno del comando, uno sceneggiato degli anni Settanta che ho rivisto per caso proprio mentre stavo cominciando a scrivere questo romanzo, e a cui voluto in qualche modo rendere omaggio. Non tanto alla storia, quanto alla sua atmosfera – sospesa, inquieta, misteriosa.

Immaginati che una casa di produzione cinematografica ne compri i diritti. Hai carta bianca. Chi immagini potrebbe essere il regista e quali attori vedresti nelle parti principali?

Davvero difficile come domanda, soprattutto a voler tenere i piedi per terra. Allora forse meglio sognare: Roman Polanski come regista, Cate Blanchett come attrice protagonista.

Grazie della disponibilità, nel salutarti mi piacerebbe sapere quali sono i tuoi progetti futuri.

Sto lavorando al terzo romanzo della serie di Giulia Ferro, la mia poliziotta milanese, alle prese con un nuovo caso e con la voragine rappresentata dai complicatissimi rapporti con la sua famiglia. Spero di riuscire a vederlo pubblicato il prossimo anno.

E grazie a te!

:: Loro. Il primo caso del tenente Ludivina Vancker di Maxime Chattam (Salani 2024) a cura di Massimo Ricciuti

24 ottobre 2024

Alexis Timée, appartenente alla Sezione Ricerche della Gendarmeria di Parigi, si reca in un villaggio montano con la speranza d’incontrare Richard Mikelis, famoso criminologo in pensione. In Francia sono all’opera due efferati serial killer, che uccidono contemporaneamente. Uno è soprannominato la Bestia, l’altro il Fantasma e firmano i loro omicidi con lo stesso simbolo: *e, che incidono sulla carne delle proprie vittime. Alexis chiede aiuto a Mikelis, ma quest’ultimo rifiuta perché vuole godersi la famiglia, invece di rimettersi a caccia di criminali. Al gendarme non resta che tornare a Parigi e riprendere le ricerche insieme agli altri due componenti della ristrettissima squadra, Segnon Dabo e Ludivine Vancker. Non trascorre molto tempo quando, in una stazione ferroviaria di provincia, un ragazzo getta sotto un treno alcune persone, per poi fare la stessa cosa con sé. Poco prima aveva dipinto su una parete l’ormai noto simbolo. I gendarmi capiscono di trovarsi di fronte a qualcosa di enorme, ben più grande di due serial killer, anche perché gli avvistamenti del simbolo si moltiplicano. A sorpresa Mikelis si presenta a Parigi e decide di aiutarli: lui è un vero e proprio cacciatore di predatori, capace di immedesimarsi in Loro. Gli efferati omicidi continuano, intanto, diffondendosi anche nel resto d’Europa e la squadra stessa viene colpita al cuore. Ormai è chiaro che l’epidemia di violenza non si fermerà e l’unica possibilità è andare a monte e cercare di comprendere i motivi di tale follia.

Criminologo e psicologo forense, Maxime Chattam torna nelle librerie nostrane dopo una prolungata assenza. La sua scrittura è caratterizzata da descrizioni molto cruente, come ben sanno i lettori e come accade anche in questo romanzo, che risale al 2013 e viene ora pubblicato dalla casa editrice Salani. Il Male, di cui l’autore si è sempre occupato, è qui rappresentato da un insieme di persone, prive di sentimenti e di emozioni, che compiono omicidi di massa a livello mondiale. Dai primi due serial killer la caccia si allarga a macchia d’olio e serve qualcuno in grado di prevenire le loro mosse. Per questo è centrale il personaggio di Mikelis, così come, per diversi motivi, sono utili alle indagini tutti gli altri protagonisti. A cominciare da Ludivine Vancker, citata nel sottotitolo del romanzo e dunque, si spera, presente anche in altre opere di Chattam.

Maxime Chattam è nato a Herblay nel 1976. Da ragazzo ha vissuto a lungo negli Stati Uniti. Ha studiato Criminologia e Psicologia forense. In Francia ha un enorme successo di pubblico e di critica ed è considerato il maestro di tutti i più importanti scrittori noir. La stampa internazionale lo ha accostato ad autori come Stephen King, Michael Connelly, Joël Dicker.

:: Portami a casa di Sebastian Fitzek (Fazi, 2024) a cura di Massimo Ricciuti

22 ottobre 2024

Jules Tannberg è un uomo che ha trascorso tanti anni a rispondere alle chiamate telefoniche urgenti dei berlinesi. Dopo un drammatico evento che l’ha colpito personalmente, Jules ha deciso di lasciare quel lavoro. Un sabato sera, però, accetta di sostituire un amico che si occupa di una linea telefonica dedicata alle donne che tornano a casa di notte e vogliono essere sicure di arrivare a destinazione sane e salve. Mentre ascolta alla televisione le ultime notizie riguardanti il cosiddetto killer del calendario, Jules riceve la telefonata di Klara, una donna che afferma di aver chiamato per sbaglio. Dall’alto della sua esperienza, l’uomo capisce come la realtà delle cose sia ben diversa e chiede in tutti i modi a Klara di non riagganciare. Inizia così una lunga notte per entrambi, anche perché lei sembra proprio essere la prossima vittima del killer del calendario.

Portami a casa segna l’attesissimo ritorno nelle librerie italiane di Sebastian Fitzek. Nella premessa l’autore spiega di come, in Germania, una donna su quattro subisca violenza dal partner almeno una volta nella vita. In particolare, le donne vittime di violenza domestica durante l’infanzia hanno più del doppio delle possibilità di subire violenza anche da parte del partner in età adulta. Da questi dati Fitzek trae lo spunto per regalarci un intenso thriller. Nel corso della lettura assistiamo a colpi di scena e ribaltamenti dei ruoli, orchestrati dall’autore con la solita maestria. Chi dà la caccia a chi? Questo è solo uno dei tanti interrogativi che si dipanano lungo una trama cui bisogna prestare molta attenzione. Tutti i personaggi mentono e hanno qualcosa da nascondere, ma perché? Quando il lettore pensa di aver finalmente capito, la situazione si ribalta come in un gioco di specchi. Chi conosce il modo di scrivere dell’autore dovrebbe esserci abituato, eppure Fitzek riesce a sorprendere sempre, disseminando tracce e indizi. Sta a noi comprendere se siano veri o falsi.

Considerato uno dei principali esponenti del thriller psicologico, lo scrittore tedesco ci consegna un’altra, imperdibile lettura. Ciò accresce il rammarico per i titoli non ancora tradotti in italiano, con la speranza che la casa editrice Fazi continui nell’opera di “recupero” iniziata con Portami a casa.

Traduzione di Elisa Ronchi.

Sebastian Fitzek, nato a Berlino nel 1971, ha studiato Giurisprudenza ma non ha mai esercitato la professione, preferendo seguire una strada più creativa. Il suo esordio letterario risale al 2006, anno di pubblicazione in Germania di La terapia: il romanzo è stato accolto con grandissimo entusiasmo dai lettori, tanto da contendere al Codice da Vinci il primo posto nelle classifiche di vendita. In seguito ha pubblicato altri ventisette romanzi, che lo hanno confermato come esponente di punta del thriller psicologico. Da Portami a casa verrà presto tratta una versione cinematografica per Amazon International.

:: Quattro delitti prima di mezzanotte di Alexandra Benedict (Newton Compton, 2024) di Patrizia Debicke

21 ottobre 2024

Una storia ambientata sotto Natale tra aperitivi e rompicapo del mistero, tradotta da Beatrice Mesineo e Alessandra Cherchi, destinata ai fan dei puzzle e dei gialli intelligenti ma che rappresenta anche anche un piacevole omaggio al poliziesco classico.
Edie O’Sullivan, il 19 dicembre, dopo aver sentito suonare alla sua porta, va ad aprire e trova un pacco regalo appoggiato sulla soglia di casa. Ottant’anni, ex docente ora in pensione , Edie è una vecchia e stravagante signora che cura con successo una rubrica di cruciverba su una famosa rivista. Nonostante l’età, ancora dotata di mente acutissima e perfettamente in gamba, pur essendo ben nota al pubblico per le sue o capacità, nel privato è burbera e solitaria al limite dello scostante, sempre restia a fare conoscenza e passa le sue giornate solo tra tè e puzzle. Unico vero sincero affetto familiare il pronipote Sean da poco sposato e con il marito vicino all’adozione e unica amica ed eccezione Riga, la sua vicina di casa, un’arzilla e lucida novantenne che non intende arrendersi all’età che avanza ed è un’ appassionata e dotta erborista.
Per compiutezza della storia dobbiamo aggiungere che Edie non sopporta il Natale e tutti i relativi orpelli celebrativi e festeggiamenti perché proprio quel giorno, e ohimè più di una volta, le sono capitate le peggiori disgrazie della sua vita.
Un pacco natalizio, un regalo? Storcendo il naso, lo scarta subito, scoprendo una scatola con dentro sei tessere di un puzzle. Accompagnate da un biglietto con il crudele messaggio:
“Sei nota come solutrice di cruciverba, ma sapresti utilizzare le tue facoltà per scoprire un assassino? Quattro persone, forse di più, moriranno entro la mezzanotte della Vigilia di Natale, a meno che tu non riesca a incastrare i pezzi e a fermarmi. Cerca di fare tutto come si deve, non sei mai stata brava a barare e a mentire.” Firmato: Riposa in Pezzi . Risolvere i cruciverba fa parte del suo quotidiano ma…
Sulle tessere si possono distinguere: piastrelle bianche e nere macchiate di sangue e parte di una sagoma delineata con il gesso. Potrebbe essere la scena di un crimine?
Edie, prozia e madre adottiva dell’ispettore Sean, un trentenne che si divide tra il lavoro e la famiglia, lo contatta immediatamente, cercando di trovare una possibile chiave a quei pochi indizi. Ma non lo faranno ohimè abbastanza in fretta perché appena verrà rinvenuto un uomo in fin di vita con un tassello del puzzle in mano Sean dovrà convincersi che le minacce del biglietto rispondono a verità e che il killer, insomma il mittente del biglietto, ha già colpito. A quel punto, nel timore che Edie, la sua prozia, possa essere in grave pericolo, Sean la esclude dall’indagine. Ma la sua decisione non servirà a fermare la mano del killer già pronta a colpire ancora e con ferocia. E neppure fermerà l’invio di nuovi pacchi a casa di Edie O’Sullivan.
E lei però che non intende certo starsene ferma a sorbire Campari per aperitivo, sollecita la consulenza della vecchia amica Riga mettendo sul tavolo una tessera che contiene la lettera : “o” e che pare la seconda visibile su un cartello stradale.
Non resterà loro intanto che scervellarsi e cominciare a cercare per esempio sulle mappe della città.
Ma con i giorni che passano, i pacchi continuano ad arrivare e il numero di morti aumenta , Edie si convince, insieme al lettore, pur fuorviata da idee sbagliate, di dover fare anche un viaggio nel passato quando insegnava matematica alla scuola di St.Mary… Possibile che l’assassino abbia un conto in sospeso proprio con lei? Ma per poterci riuscire si rende conto, di dover mettere in campo tutte le sue abilità, perché apparentemente la polizia brancola nel buio e lei sospetta di essere l’unica ad avere in mano la capacità necessaria per completare e risolvere il puzzle omicida. Solo assemblando tutti i pezzi potrebbe fermare la mano assassina?
Con Quattro delitti prima di mezzanotte Alexandra Benedict ha creato un personaggio intrigante . Edie O’Sullivan, vivace, astuta e brillante. Solido e tenero il suo materno e protettivo affetto per Sean. Bene costruita poi la sua vecchia amicizia con Riga e divertenti e indovinate le continue battute che scambiano tra loro.
L’indagine vera, la caccia al Killer, rappresenta un classico e ben riuscito romanzo in stile età dell’oro. L’uso di enigmi come indizi è intrigante e ci ha permesso di provare a decifrare il caso al fianco della protagonista . Purtroppo però il fatto di conoscere prima le vittime non ci aiuta perché non esiste mai un chiaro collegamento tra loro. Anzi l’autrice impiega un sacco di depistaggi per tenere l’assassino nascosto, aumentando vertiginosamente il senso del ritmo e i pericoli mentre ci avviciniamo alla resa dei conti. Insomma ci confonde maliziosamente le idee mentre la povera Edie si arrabatta e cerca ogni mezzo per smascherare chi ha ucciso. Alcuni capitoli addirittura offrirebbero una prospettiva in terza persona sui motivi e le azioni dei delitti, ma il fondamentale motivo insomma il “perché” salterà fuori solo al momento giusto.
Una storia indovinata e dal ritmo incalzante sullo sfondo un paese della provincia inglese che si appresta a festeggiare il Natale. E qualcosa da dimenticare.

Alexandra Benedict è stata compositrice, cantautrice, attrice e docente di narrativa poliziesca, ed è ora una premiata scrittrice di romanzi, racconti e sceneggiature. Come AK Benedict, scrive romanzi ad alto concetto, racconti speculativi e sceneggiature. Il suo primo romanzo, acclamato dalla critica, è stato candidato all’eDunnit Award; i suoi racconti sono apparsi in numerose antologie; e il suo audiodramma è stato selezionato per numerosi premi, tra cui il BBC Audio Drama Award 2020 e, due volte, per lo Scribe Award, vincendolo nel 2019. Come Alexandra Benedict, scrive libri contemporanei e certa narrativa poliziesca legata alla Golden Age.

:: La porta di Georges Simenon (Adelphi, 2024) a cura di Valerio Calzolaio

21 ottobre 2024

Parigi, intorno a place des Vosges. Luglio 1959. Il 42enne Bernard Foy vive da venti anni con la moglie 38enne Nelly in un appartamento al quarto piano di rue de Tourenne (III), all’angolo di rue des Minimes. Nel 1940 gli furono amputate entrambe le mani; era di pattuglia in un bosco tra la linea Maginot e la linea Siegfried; strisciava nella neve quando pare abbia toccato una mina, subito esplosa; si è risvegliato in un ospedale militare, già operato. Prima lavorava come meccanico in un garage delle Halles, durante il servizio militare a Épinal aveva conosciuto Nelly, che faceva la giovanissima maschera in un cinema; si erano sposati a inizio 1939 e stabiliti lì, a due passi dal place des Vosges (fra III e IV Arroindessement), dove lui era nato e dove sua madre, a quell’epoca, faceva ancora la portinaia (IV); Nelly aveva smesso di lavorare. Dopo il trauma è stata dura, col tempo hanno individuato le protesi artigianali adatte (da togliere ogni sera); lui si è vista riconosciuta una modesta stabile pensione da invalido di guerra; lei ha intrapreso la vita di magazziniera presso la ditta Delangle&Abouet in place des Vistoires (tra I e II), la più importante passamaneria di Francia, da poco pure promossa caporeparto. Bernard passa le giornate a osservare gli altri dalla finestra (spia ogni movimento), ad ascoltare i rumori (suo malgrado) dei vicini e della strada, a fare spesa e cucinare. Pensa di non essere più un vero uomo ed è convinto che lei possa e debba aver bisogno di altri (in certo modo giustamente). Si amano, fanno sesso volentieri e spesso, si confidano. Eppure, il tarlo ossessivo agisce sia in lui che, indirettamente, in lei, prodromo di tragedie forse, soprattutto da quando al primo piano si è trasferito il giovane fratello della collega, un illustratore poliomielitico su sedia a rotelle, ogni giorno assistito da un’infermiera. Nelly deve fargli commissioni, si ferma là per qualche minuto.

Il romanzo è molto bello. Di Simenon sappiamo quasi tutto (1903 – 1989, origine bretone, belga di nascita, francese d’adozione, non solo parigino d’elezione, quasi trecento romanzi, uno degli autori più letti al mondo) e la grande casa editrice milanese Adelphi sta ottimamente progressivamente garantendo la pubblicazione integrale dei suoi scritti. Questa lunga ansiogena novella originariamente del 1962, né noir né rosa, ma certo di ineluttabile amore, era inedita in italiano. La porta del titolo è quella brutta, con un colore spento e il pomolo di maiolica bianca, dell’allegro sereno 28enne vignettista Pierre Mazeron, il fratello dell’invadente opportunista Giséle, trasferitosi al primo piano dell’edificio in cui vivono marito e moglie. Probabilmente è noto quante volte vi è entrata attraverso Nelly, ma conta soprattutto quante volte Bernard avrebbe voluto aprirla! La narrazione è in terza fissa al passato su di lui, pur se i protagonisti sono anche la moglie, leale e semplice, sempre più bella e ormai pure un poco rotondetta, e soprattutto la dinamica di coppia che (come spesso accade) assume vita propria. Sullo sfondo i due medici (uno diabetico) che si interessano al caso clinico e umano, donne e uomini vicini e dirimpettai, negozianti e clienti delle botteghe consuete. L’ambiente è perlopiù quello dell’appartamento in cui la coppia abita e delle passeggiate che fanno insieme a braccetto (più o meno) per le strade della città; i dialoghi sono i loro, il detto e il non detto, significativo tanto quel che si esprime quanto quel che si pensa; la relazione si è adattata ed è evoluta in forme affettuose per due decenni; ora lui vive una crisi di gelosia, è contrariato e ossessionato, pensa alla morte; lei era una donna “vissuta” quando si sono conosciuti e non può che prenderne atto via via, a proprio modo. Una qualche garbata tragedia incombe, anche se l’autore è bravissimo a rendere plausibili molti finali dalle stesse premesse. Vario ordinario vino accompagna spesso i pasti. Si ballano le canzoni d’epoca, talora in giro e in piazza, difficile non entusiasmarsi.

:: Note di lettura di Patrizia Baglione: “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery

21 ottobre 2024

“L’eleganza del riccio” approfondisce la vita di Renée, una donna di mezza età che lavora come portinaia in un edificio di lusso. Nonostante la sua posizione sociale umile, Renée è una persona colta e appassionata di arte e filosofia. Nasconde la sua intelligenza e profondità dietro un’apparenza modesta, convinta che il mondo esterno non possa apprezzare la sua vera natura. Dall’altra parte, troviamo Paloma, una ragazza prodigio che si sente alienata dalla superficialità della sua famiglia benestante. Paloma ha una visione pessimistica della vita e pianifica di suicidarsi il giorno del suo tredicesimo compleanno, convinta che non ci sia nulla di significativo nel mondo degli adulti. 

Tuttavia, la sua curiosità e intelligenza la spingono a esplorare la vita in modo più profondo. Le vite di Renée e Paloma si intrecciano quando un nuovo inquilino, il misterioso e affascinante Kakuro Ozu, si trasferisce nell’edificio. Kakuro, un uomo di origini giapponesi, riconosce la bellezza e l’intelligenza in entrambe le donne e avvia un rapporto significativo con loro. Attraverso le sue interazioni con Kakuro, sia Renée che Paloma iniziano a mettere in discussione le loro convinzioni e ad esplorare la bellezza della vita. 

Il romanzo è costellato di riflessioni filosofiche e citazioni di pensatori come Tolstoj e Kierkegaard, invitando il lettore a considerare la propria esistenza e il significato della bellezza. La narrazione è caratterizzata da uno stile lirico e profondo, che riesce a trasmettere emozioni e pensieri complessi. Alla fine, la storia porta a una rivelazione toccante sul valore delle relazioni umane e sull’importanza di vedere oltre le apparenze.

:: Visioni di cinema: Memorie di una Geisha di Rob Marshall

20 ottobre 2024

Il mondo delle geishe è un mondo piuttosto misterioso, fatto di segretezza ed evanescenza, anche di fragilità se vogliamo, per cui aveva fatto un certo scalpore prima il libro di Arthur Golden, Memorie di una Geisha, e poi l’omonimo film di Rob Marshall del 2005, ispirato al libro. Sembra che il libro avesse travisato molto dei racconti e delle testimonianze della vera geisha, Mineko Iwasaki, da cui fu in parte tratta la storia, rendendo pubblico il suo nome (violando le clausole di riservatezza) e costringendo la donna a scrivere una contro-memoria per chiarire i malintesi (“Geisha: A Life” di Mineko Iwasaki, per chi fosse interessato). Credo che ne seguì pure una causa in tribunale, per dire quanto la questione divenne seria. Ho visto comunque il film di Marshall e da occidentale che viene ammessa in una cultura altra, e soprattutto considera l’opera, un’opera d’arte dove molto gioca la fantasia e quindi non un documentario, mi è piaciuto molto, tutto ricreato in studio certamente ma l’effetto è molto artistico e sontuoso.

Due attrici cinesi recitano due delle parti principali, certo per un richiamo anche internazionale che la produzione voleva, poi c’è Michelle Yeoh che anche lei giapponese non è, credo sia malese di origine cinese, ma insomma dato che in Occidente non si capisce la differenza, orientali sono e va bene così sebbene la questione dell’appropriazione culturale sia seria e dibattuta e ci ritorneremo. Nel film c’è anche una storia d’amore, che forse in realtà è la cosa più proibita di tutta la storia, ma le attrici sono bravissime soprattutto Zhang Ziyi di straordinaria lievità ed eleganza, ma anche Gong Li, cattivissima nella parte di Hatsumomo, e Michelle Yeoh, materna e protettiva nella parte di Mameha. Pensato per il mercato internazionale il film di Marshall c’è da dire ha alcuni grandi meriti, a prescindere dal valore artistico intrinseco del film o dagli errori culturali eventualmente commessi: avvicinare Occidente e Oriente, presentando un lato della cultura giapponese che ha sempre affascinato noi occidentali, e sfatare una volta per tutte il preconcetto, tutto occidentale, che le geishe fossero prostitute, erano artiste e intrattenitrici, che si dedicavano a varie forme di arte, come la musica, la danza e la conversazione, dotate di doti e capacità non comuni e molto considerate e rispettate a livello sociale, che acquisivano il titolo onorifico di geishe dopo un apprendistato che durava anni. Tradizionalmente il loro ruolo principale era dunque quello di intrattenere gli ospiti nelle teahouse e durante eventi sociali, piuttosto che offrire servizi sessuali.

Le prostitute naturalmente esistevano e il termine per definirle era oiran e avevano legali licenze per esercitare la propria professione. E in una società rigidamente strutturata come era quella giapponese questa distinzione era molto importante e denota mancanza di sensibilità e rispetto il fraintendimento. Un’altra cosa che ha creato un certo sconcerto e scalpore è la pratica denominata “mizuage” assimilabile al nostro cosiddetto ius primae noctis pratica a quanto pare sulla cui storicità ci sono molti dubbi e perplessità. Fatta la precedente distinzione tra geisha e oiran, era illegale per una geisha vendere la propria verginità, e la casa a cui apparteneva poteva perdere la licenza se scoperta a praticare questo, non che non succedesse date soprattutto le alte spese sostenute per gli studi e l’apprendistato o anche solo l’acquisto dei kimono, i cui costi potevano essere esorbitanti. E una geisha a inizio carriera, non ancora affermata, poteva averne necessità, per cui questo rito di passaggio poteva essere mercificato ma non era una pratica comune, come invece sembra trasparire dal film, nè onorevole.

La bellezza del film oltre allo splendore e la ricercatezza dei costumi, all’eleganza che traspare da gesti e movenze, al ripetere riti millenari come la crerimonia del tè, sta sicuramente nel descrivere un mondo rarefatto di donne tra cui le rivalità, l’invidia, le piccole vendette si alternano a gesti di grande generosità, di complicità, d’affetto. Un mondo lontano, forse scomparso per sempre, che racchiude in sè tutto il fascino che l’Antico Giappone ancora possiede. Certo un film girato da un occidentale, pensato per un pubblico globale, che apprezza però immergersi in un mondo altro con rispetto e curiosità.

Il film, pur essendo dunque una storia di finzione, ha il merito di offrire uno sguardo rispettoso e onesto sulla vita delle geishe mostrando le loro capacità e la loro importanza nel mantenere vive tradizioni secolari di estrema importanza per preservare la cultura giapponese. C’è anche da fare un’altra riflessione, il mondo delle geishe si ammanta di segretezza, ci sono codici morali e di comportamento custoditi da generazione in generazione che determinano anche parte del loro fascino, esporli senza reticenze può essere stato un motivo valido per suscitare critiche e scontento, o spingere anche solo Mineko Iwasaki a riscrivere la sua storia. Consola il fatto di sapere che ancora molto resta nascosto e celato allo sguardo non solo di noi occidentali, ma anche degli stessi giapponesi, tra cui la sofferenza, la severità, le piccole e grandi crudeltà che queste artiste dell’effimero sapevano trasformare e sublimare in pura bellezza. Fatte queste premesse è un film da vedere, grandioso nella messa in scena, e interessante nel seguire l’evoluzione di una bambina, che diventa ragazza e poi donna affrontando le mille difficoltà della vita sorretta da un unico grande amore per il Direttore Generale Iwamura. Perchè oltre la maschera, dietro il trucco perfetto, la bellezza algida e remota le geishe erano (e sono) donne con una propria individualità e sensibilità, capaci di amare e di perseguire con determinazione le proprie aspirazioni e la propria felicità.

:: Recensione della silloge poetica “Con Effe” di Nicola Manicardi (Edizioni QED, 2024) a cura di Giulietta Iannone

19 ottobre 2024

Effe
il tuo fermacapelli è qui
sul tavolo bianco.
Dove si è appoggiata l’estate
dove l’imbrunire è luce di prima
dove il tuo capello è un foglio
di un fermacarte.
È qui
che nel tacere del canto del grillo
il silenzio ha la sua voce.

Premettendo che la fruizione di un testo poetico è un’esperienza sensoriale intima e personale ci sono alcuni elementi oggettivi che caratterizzano la poesia autentica che “Con Effe” di Nicola Manicardi, primo volume della collana stèresis di Qed edizioni, possiede accostandolo per sensibilità, tematiche e capacità evocative a poeti classici della nostra narrativa come Montale, Ungaretti, Saba e Merini. Sebbene la grande fiducia che mi sia accordata, di cui ringrazio l’autore e l’editore, temo di non avere le competenze necessarie per giudicare un testo poetico di tale complessità e ricchezza espositiva. La poesia mi mette sempre soggezione, mi intimidisce pensare che la mia sensibilità, piuttosto grezza e ineducata, non sia sufficiente a capire i passaggi più significativi e pregnanti che ad altri lettori, più avvezzi a leggere testi poetici, sicuramente non sfuggono. Pur tuttavia proverò con i miei ridotti mezzi critici di fare un’analisi tecnica di questo testo, che a una lettura profana e puramente sensoriale ha evocato in me echi profondi per cui ritengo che Manicardi abbia la stoffa del poeta, del poeta della vita quotidiana che sporca la sua poesia con i grandi temi dell’esistenza dalla felicità, all’amore, dalla lontananza, alla morte. Il lungo preambolo non è per mettere le mani avanti, o scusare la mia inscusabile ignoranza, ma ho troppo rispetto per la poesia, e per i mezzi tecnici necessari a scriverla per non capire le difficoltà che sussistono nell’analizzare un testo poetico. Insomma una poesia non è un semplice scarabocchio estemporaneo su un foglio, a prescindere dalla musicalità, dalle emozioni profonde che evoca, dalla sensibilità e responsabilità del poeta. Inoltre la poesia è sempre un atto politico, una presa di posizione nei confronti del mondo e di coloro che leggeranno i nostri versi. Manicardi ha uno stile personale, una voce poetica fluida con cui intesse i suoi versi in una foresta di simboli, sinestesie e assonanze. La musicalità del verso è un’altra caratteristica da tenere presente, come le pause, le allitterazioni, i silenzi, e tutto ciò come in un gioco di prestigio si trasforma in versi brevi di grande semplicità e immediatezza. All’apparenza sembra una silloge che racchiude canti d’amore dedicati a una donna, che nomina con la sola iniziale del suo nome, ma a volte l’autore si rivolge direttamente alla poesia, facendomi riflettere che amore e poesia siano un tutt’uno in un cortocircuito temporale che dilata l’attimo e lo rende eterno. Ogni verso è carico di significato e di ricordi che l’autore condivide con il lettore facendolo diventare parte del suo mondo in cui quotidianità e poesia si fondono in un’unica voce capace di generare echi profondi nel fruitore ultimo dei versi, in una fratellanza di naufraghi che accomuna l’intera umanità. Toccante la sincerità e l’autenticità che traspare da questi versi che possono essere interpretati a tutti gli effetti come un invito alla vita, all’amore, alla felicità.

Nicola Manicardi è nato a Modena dove risiede e lavora in ambito sanitario. Appassionato di letteratura in particolare modo di poesia ha pubblicato nel 2015, per la casa editrice Rupe Mutevole di Parma diretta da Enrico Nascimbeni, il suo primo volume intitolato Periplo. Successivamente alcuni suoi testi sono stati inseriti in una antologia dedicata al mito di Marilyn Monroe intitolata Umana troppo umana, curata da Alessandro Fo e Fabrizio Cavallaro ed edita da Aragno nel 2016. Nel 2018 ha pubblicato il suo secondo volume di poesia intitolato Non so, per la casa editrice I Quaderni del Bardo di Stefano Donno collana Zeta diretta da Nicola Vacca. Alcune sue poesie sono state tradotte in greco, spagnolo, rumeno, russo e francese e inserite in alcune riviste nazionali e internazionali. Nel giugno 2020 esce una nuova raccolta di poesie dal titolo Umiltà degli Scarti Collana Agorà diretta da Nicola Vacca per l’Argolibro editore. Il 25 settembre del 2021 riceve una Menzione Speciale al XXXIII “Premio Letterario Camaiore Francesco Belluomini” L’ultimo lavoro è una raccolta di poesie e racconti intitolato Carne e Sangue per la casa editrice Oltre. Dal 2022 collabora con la Piccola Accademia di Poesia di Milano diretta da Elena Mearini.

:: L’età dell’oro di Wang Xiaobo (Carbonio Editore, 2024) a cura di Giulietta Iannone

19 ottobre 2024

L’età dell’oro“, (Huangjin shidai 黄金时代), è il primo volume della “Triologia dell’età”, che comprende anche L’età dell’argento (Baiyin shidai 白银时代) e L’età del rame (Qingtong shidai 青铜时代) quest’ultimi ancora disponibili unicamente in lingua cinese. Il romanzo fu scritto dallo scrittore cinese pluripremiato Wang Xiaobo, morto prematuramente nel 1997, a soli 45 anni, per arresto cardiaco. Pubblicato per la prima volta a Taiwan nel 1991, e poi in Cina solo nel 1994, e ora finalmente disponibile anche in lingua italiana grazie alla Carbonio Editore, in un’edizione filologicamente rigorosa curata da due affermate sinologhe: Alessandra Pezza per la traduzione e Patrizia Liberati per la cura editoriale, “L’età dell’oro” è un’opera innovativa rispetto alle narrazioni coeve intrise di patetismo che narrano storie perlopiù legate a esperienze autobiografiche drammatiche accadute durante la Rivoluzione Culturale.

La Rivoluzione Culturale in Cina, per chi volesse approfondire, fu un fenomeno sociale e politico avviato nel 1966, e ufficialmente considerato concluso nel 1976, con la morte di Mao Zedong, avvenuta il 9 settembre 1976. Fu un periodo della storia cinese recente importante per comprendere gli sviluppi della storia cinese attuale, e il ruolo degli studenti denominati Guardie rosse; per chi fosse interessato a ulteriori approfondimenti ci sono numerosi testi ben documentati come Mao Zedong. Il Grande Timoniere che guidò la Cina dalla rivoluzione al socialismo del professore Guido Samarani, o Stella rossa sulla Cina. Storia della rivoluzione cinese di Edgar Show.

Testo fondamentale di introspezione, auto-analisi e critica sociale nel panorama della letteratura cinese contemporanea, L’età dell’oro sancisce la consacrazione letteraria di Wang Xiaobo, autore di culto sia in Cina che all’estero, dopo una gestazione di circa vent’anni di scritture e riscritture. L’autore, con la sua prosa caratteristica incisiva e il suo sguardo acuto e disincantato, riesce a catturare l’essenza di un’epoca segnata da contraddizioni e repressioni, offrendo al lettore un viaggio privilegiato attraverso le complessità dell’animo umano in un contesto politico in cui la libertà individuale viene sacrificata sull’altare dell’interesse comune e di partito.

Utilizzando un mix esplosivo e originalissimo di umorismo, critica sociale, riflessioni sulla libertà e l’amore non solo spirituale ma anche nella sua dirompente carica erotica, l’autore ci presenta un’opera di sicuro valore non solo letterario ma anche umano. Molte sono le scene di sesso esplicito utilizzate per esplorare temi più ampi come la libertà personale, l’intimità e la ribellione contro le restrizioni sociali, in opposizione a un puritanesimo di regime che vede il sesso come un fenomeno perturbante e contrario agli interessi dello Stato. Esempio se vogliamo esplicativo la castrazione dei bufali perchè pensino solo a mangiare e lavorare. Wang Xiaobo utilizza dunque la sessualità come un mezzo per esprimere la ricerca di autenticità e comunione umana in un contesto di oppressione e divisione.

Tuttavia, è importante notare che queste descrizioni, affatto pornografiche, sono integrate nella narrazione e non sono fini a se stesse, ma piuttosto parte di un discorso più ampio sulla condizione umana e le relazioni interpersonali complesse e anche conflittuali. Il sesso, come l’umorismo anche triviale, che l’autore spesso utlizza, diventano strumenti di resistenza all’interno di una società oppressiva che tenta di piegare e omologare gli individui tramite un costante e martellante indottrinamento ideologico.

L’età dell’oro” di Wang Xiaobo può essere perciò considerato di fondamentale importanza anche da un punto di vista morale e di denuncia. In questo senso, “L’età dell’oro” non è solo un’opera letteraria seminale, ma anche un importante manifesto morale che invita alla riflessione e alla denuncia delle ingiustizie, rendendolo un testo significativo sia in Cina che nel resto del mondo. La penna di Wang Xiaobo si rivela dunque un’arma potente contro l’ingiustizia e l’oppressione, rendendo questa opera un capolavoro della letteratura cinese. La sua capacità di affrontare temi complessi con una prosa incisiva e una profonda umanità lo colloca di diritto tra i grandi autori del XX secolo, e “L’età dell’oro” rimane un’opera imprescindibile per chiunque desideri accostarsi alla letteratura cinese contemporanea e comprendere le sfide dell’individuo in un mondo apparentemente disumanizzato e statico, ma in realtà in continua e perenne evoluzione.

Wang Xiaobo (1952-1997) è stato tra i maggiori scrittori cinesi del Novecento. Nato a Pechino da una famiglia di intellettuali, come molti giovani istruiti della sua generazione a sedici anni fu costretto a trascorrere un periodo di ‘rieducazione’ nella provincia rurale dello Yunnan. Trasferitosi negli Stati Uniti, conseguì una laurea presso l’università di Pittsburgh. Tornato in Cina, insegnò all’Università del Popolo e all’Università di Pechino e nel 1992 diede le dimissioni per dedicarsi interamente alla letteratura come scrittore indipendente. Morì d’infarto a 45 anni. Due volte vincitore del prestigioso United Daily News Award for Novel, della sua vasta produzione letteraria ricordiamo la “Trilogia delle età”, di cui fa parte L’età dell’oro, e le raccolte di saggi A Maverick Pig e The Silent Majority.

Source: libro inviato dall’editore. Ringraziamo Costanza dell’Ufficio Stampa Carbonio Editore.

:: Il predatore di Marco Niro (Bottega Errante Edizioni 2024) a cura di Federica Belleri

18 ottobre 2024

Ho acquistato questo romanzo in occasione di una sua presentazione e mi ha subito colpito il titolo, “Il Predatore”.

Perché un titolo di questo tipo? Cosa nasconde, cosa vuole comunicarci?

Innanzitutto è un romanzo d’esordio per Marco Niro, che ha fatto parte per diverso tempo del collettivo di scrittura Tersite Rossi.

Perciò la mia curiosità si è trasformata in ansia da lettura (presto, subito).

Detto, fatto.

Il Predatore è ambientato a Cimalta, un borgo di montagna. Apparentemente tranquillo, dove ogni giorno sembra simile a quello che lo ha preceduto. Se non fosse per il turista che, in base al trascorrere delle stagioni, è attirato sempre più dalla presenza dell’orso. Chi vorrebbe scattarsi un selfie, chi farebbe carte false per incrociarlo sul sentiero, chi desidererebbe addirittura fermarsi per guardarlo negli occhi.

E come potrebbe reagire un paese a tutto questo clamore?

Ed è solo l’inizio …

Proseguendo la lettura ho poi capito quanto amore ha dimostrato l’autore per il territorio, per la diversità in generale, per le specie da proteggere. Quanta voglia abbia di giustizia, di fare in modo che ogni evento raccontato, seppur di fantasia ma verosimile, trovi la giusta collocazione e la corretta soluzione.

Ma, perché un ma esiste, le persone raccontate in questa storia sembrano impedirglielo. Perché? Perché sono predatori, perché sono irrisolti, perché sono terrorizzati dalle loro azioni. Perché probabilmente non sanno più come riemergere dal fango nel quale sguazzano. E pure bene per giunta.

Altre riflessioni mi sono arrivate alla pancia (questa è la forza dei libri belli). Quando un “cattivo” riesce a trasformarsi in “buono”? Quando si può superare un dolore? Quando si è pronti a morire per seguire un obiettivo?

E ancora, quanto coraggio ci vuole per mantenere il punto nonostante tutto e tutti remino al contrario?

Quanti argomenti è riuscito a trattare Marco Niro in questo noir, perché di noir si tratta. Non esistono sconti o scappatoie, non ci sono grandi spiragli di luce, i personaggi sono costruiti così bene da risultare respingenti (non tutti).

Perciò, e concludo, un noir di questa portata và letto con molta attenzione e pazienza. Vi garantisco che nulla vi sfuggirà, così come alle montagne di Cimalta non è sfuggita questa storia. Nel silenzio hanno osservato tutto, hanno ascoltato i lamenti e le urla. Hanno visto l’ingiusto e l’illegale. Ma non hanno potuto fare nulla, se non accogliere la sofferenza e affrontare l’evidenza. Come hanno fatto alcuni personaggi.

Il Predatore, un ottimo noir. Un ottimo invito alla lettura.

Marco Niro (1978), fondatore insieme a Mattia Maistri del collettivo di scrittura Tersite Rossi, è giornalista e scrittore. Laureato in Scienze della comunicazione, ha collaborato con varie testate giornalistiche e oggi si occupa di comunicazione ambientale. Ha all’attivo un saggio (Verità e informazione. Critica del giornalismo contemporaneo, Dedalo 2005), un libro per ragazzi (L’avventura di Energino, Erickson 2022) e, con Tersite Rossi, quattro romanzi (È già sera, tutto è finito, Pendragon 2010; Sinistri, e/o 2012; I Signori della Cenere, Pendragon 2016; Gleba, Pendragon 2019) e due raccolte di racconti (Chroma. Storie degeneri, Les Flâneurs 2022; Pornocidio, Mincione 2023). Il predatore (Bottega Errante 2024) è il suo romanzo d’esordio.