Posts Tagged ‘saggistica’

:: Le vie delle guerre di Andrea Santangelo (Il Mulino Bologna, 2025) a cura di Valerio Calzolaio

30 ottobre 2025

Europa. Dal principio e ancora in corso. L’Europa ha una storia piena di guerre e conflitti che ne hanno plasmato non solo le vicende istituzionali e sociali, ma anche i rapporti con il mondo; non solo la politica e l’economia, ma anche l’arte, la letteratura, la filosofia, l’urbanistica. Molte nazioni europee hanno, inoltre, un passato coloniale e imperiale che le ha viste esportare armi e violenza in ogni angolo del pianeta. La guerra è stata “fedele compagna” degli europei per millenni. Dalla nascita delle fonti scritte, cioè più o meno da 5.500 (cinquemilacinquecento anni), si calcolano circa 14.700 guerre. E tutti gli abitanti del Vecchio Continente, nelle varie epoche, l’hanno vissuta sulla propria pelle, sin dalla più tenera età. Non esiste frazione, villaggio, vico o borgo europeo che nella sua storia non conti almeno un fatto d’armi e martiri da piangere. Non c’è città o centro urbano, insediamento produttivo, convento o luogo di culto che per cause belliche non sia stato distrutto o danneggiato, poi ricostruito, almeno una volta. Gli scontri sul suolo europeo tra eserciti contrapposti (talvolta con la presenza di, o contro, individui e fazioni di civili armati) tendono a ripetersi con una sconcertante regolarità in ecosistemi strategicamente importanti, che spesso sono conosciuti anche come posti ospitali e paesaggisticamente molto belli, devastati da innumerevoli invasori aggressivi o da forze militari, certo da quando abbiamo memorie scritte e, ancor prima, da quanto attestano le fonti archeologiche: la Francia del Nord (comprensiva dell’attuale Belgio), la valle del Po in Italia, le pianure della Germania centro-meridionale … pure gli agglomerati urbani come per esempio Catania, Lubiana, Famagosta, Helsinki … quasi ovunque esistono molteplici tracce stratificate (non in pace) di popoli e civiltà successive (stili architettonici, toponomastica, odonomastica) ed esistono, dunque, tantissime vie delle guerre nella nostra Europa (da cui il titolo).

L’archeologo e storico militare Andrea Santangelo (Torino, 1970) è stato a lungo docente universitario di letteratura angloamericana e da decenni è un grande storico della letteratura di viaggio. Questo colto documentato testo fa parte di una bella fortunata collana editoriale (Ritrovare l’Europa), che esamina alcune vie europee indispensabili a conoscerci meglio, dalle monete alle capitali gotiche, dalle città romane ora alle guerre: strade e ponti, mura e fortificazioni, castelli e valli. Dopo l’introduzione sull’identità e sulla preistoria del Vecchio Continente, l’autore ci guida attraverso sette itinerari (capitoli, ciascuno di decine di pagine) in un percorso storico e cronologico: Dalla Scozia al Mar Nero, sulle tracce del limes romano (spesso montano); Da al Andalus a Balarmuth, le vie delle guerre arabe (pure in Spagna e Sicilia); Con la “fortificazione alla moderna” l’Italia conquista l’Europa (armi da fuoco a Sassocorvaro, Anversa, Ancona, Villefranche-sur-Meuse, Acaya, Terra del Sole, Palmanova, Pavia, Malta e via sparando); Nord sud ovest est, le vie delle guerre europee del XVIII secolo (fra l’altro Narva, Bonn, Guastalla); Da Valmy a Waterloo, le vie delle guerre di Napoleone (e della sua Grande Armata); Da Ypres all’Isonzo, le vie della Prima guerra mondiale; Urbicidi premeditati, le vie della Seconda guerra mondiale (fra l’altro Varsavia, Belgrado, Londra, Coventry, Lubecca, Amburgo, Dresda, Rimini). Nessuno, una decina di anni fa, avrebbe scommesso un centesimo sul ritorno al combattimento nelle trincee come invece sta accadendo sul fronte russo-ucraino. La brace (militare) sta aspettando il suo momento per ardere ancora. Purtroppo. Tutte queste “vie” hanno allora forse un futuro e sono in parte, ormai e comunque, anche attrazioni turistiche. In fondo troviamo una pertinente breve nota bibliografica, ma non un indice di nomi e luoghi.

:: L’uomo perplesso: Viaggio negli abissi di Emil Cioran di Nicola Vacca (Edizioni Qed, 2025) a cura di Giulietta Iannone

10 ottobre 2025

Tornare a Cioran per Nicola Vacca, critico e poeta sensibile e di notevole caratura etica e morale, dopo Lettere a Cioran del 2017 edito da Galaad Edizioni, è un impegno concreto alla ricerca di una nuova chiave interpretativa che aggiunga nuove prospettive, e criteri di analisi, su un filosofo e scrittore criptico come Emil Cioran, oggi quasi ormai se non proprio dimenticato, sicuramente colpevolmente trascurato dalla critica filosofica più paludata.

Cioran dobbiamo ammetterlo e un intellettuale scomodo, di difficile comprensione e collocazione, non solo per gli studiosi accademici più ferrati, e dotati di strumenti scientifici di indagine e di conoscenza diretta dei suoi testi, ma anche soprattutto per i lettori curiosi che forse si avvicinano a Cioran per la prima volta, spaventati forse anche dall’aura nichilista che lo circonda.

Vacca in L’uomo perplesso: Viaggio negli abissi di Emil Cioran, pubblicato da Edizioni Qed, (Collana Hyle), un testo originale filosofico e nello stesso tempo letterario, torna con un secondo libro su di lui, dopo otto anni, con spirito battagliero e alla ricerca di nuove strade interpretative, come dicevo all’inizio, per proseguire un discorso iniziato con il precedente libro, già notevole e compiuto. Vacca ne sente l’urgenza, e la necessità, ci sarà riuscito? Lo scopriremo nella lettura del testo.  

Cioran è l’uomo perplesso del titolo che con le sue intuizioni ha fatto saltare il banco con una scorrettezza del pensiero che non ha eguali nella storia della letteratura. Parole definitive, deflagranti, che non ammettono compromessi, che Vacca utilizza per accompagnarci, novello Virgilio laico, alla scoperta di questo autore romeno ancora così necessario in un mondo contemporaneo che si nutre di false certezze e rassicuranti autoinganni.

Un altro tema toccato da Vacca, fin dall’inizio, è la libertà, per affrontare Cioran bisogna essere uomini liberi e non avere paura del proprio pensiero.

Libertà e verità si intrecciano contrapposte alla paura che limita il pensiero e l’azione degli uomini e li tiene in ostaggio, depotenziando tutto quello che di positivo ancora esiste e per cui vale la pena lottare anche a rischio di perdite personali. Questo ci insegna Cioran e questa lezione è chiara per Vacca che ce la consegna come un tesoro prezioso da difendere e custodire.

Da quarant’anni Vacca si confronta con Cioran, da quarant’anni ne studia il pensiero tramite la lettura dei suoi testi, delle sue lettere, dei suoi appunti sparsi, delle sue interviste, con l’obbiettivo di imparare, di crescere di affermarsi come essere umano consapevole e avveduto.

E lo studio dei suoi testi è centrale nella sua analisi, cerca le fonti dirette, si abbevera del testo originario scevro da filtri interpretativi esterni, a volte distorti. E questa caratteristica certo lo distingue.

È una lettura sofferta, si parla di sangue, di insonnia dello spirito e della carne, di abissi da colmare e padroneggiare con gli strumenti limitati dell’umano, ma consapevoli, e a prezzo del proprio tormento.

Come in un colloquio diretto, (almeno nella prima parte in cui si rivolge a un caro Emil) epistolare e intimo, Vacca si rivolge confidenzialmente a Cioran lamentando quanto sia assente il pensiero critico nelle devastanti barbarie del pensiero unico, o dando ragione a Citati quando scrive che i suoi pensieri sdegnano di essere pensieri, sono frammenti, schegge, una musica dello spirito.

Più che una frattura, un cambio di passo da Lettere a Cioran, è una continuazione, una prosecuzione con altri strumenti e una maggiore confidenzialità di chi ha fatto propri e introiettato il pensiero quasi in una dimensione amicale, se non fraterna. Poi riprende una parte più analitica abbandonando il tu, per una analisi più oggettiva, anche se sempre partecipata, e calda.

L’ammirazione è evidente, senza cadere nella palude retorica dell’agiografia, ma più che altro come una comunione di spiriti affini, un delirio di naufraghi nemici di ogni ortodossia.

Oltre a questo, si percepisce un’estraneità con il mondo coevo a Cioran, da cui trasuda tutta l’incomprensione con cui è stato sempre, e continua ad essere, accolto. Vacca la percepisce e ci soffre come si soffre per un amico il cui dolore è il proprio. Non che Vacca non citi e non conosca tutta la letteratura derivativa su Cioran, come il bel saggio di Seravalle Cioran verso la parola inzuppata di verità, ma ne inframezza le citazioni con pudore e consequenzialità, senza eccedere.

Resta perciò un’opera originale e necessaria, piuttosto inconsueta nel panorama letterario filosofico italiano, un testo breve, solo un’ottantina di pagine, come appendice di Lettere a Cioran, o meglio proseguimento di un discorso iniziato con il precedente libro che qui trova completezza.  

Abbondante ed esaustiva la bibliografia finale, anche per uno studio comparato a livello accademico, o di semplice approfondimento. Prefazione di Vincenzo Fiore, postafazione di Alessandro Seravalle. Da segnalare il ritratto di Emil Cioran di Alfredo Vacca, come contributo iconografico.

Nicola Vacca è nato a Gioia del Colle nel 1963, laureato in giurisprudenza. È scrittore, opinionista, critico letterario, collabora alle pagine culturali di quotidiani e riviste. Svolge, inoltre, un’intensa attività di operatore culturale, organizzando presentazioni ed eventi legati al mondo della poesia contemporanea. Dirige la rivista blog Zona di disagio. Ha pubblicato: Nel bene e nel male (Schena, 1994), Frutto della passione (Manni 2000), La grazia di un pensiero (prefazione di Paolo Ruffilli, Pellicani, 2002), Serena musica segreta (Manni, 2003), Civiltà delle anime (Book editore, 2004), Incursioni nell’apparenza (prefazione di Sergio Zavoli Manni 2006), Ti ho dato tutte le stagioni (prefazione di Antonio Debenedetti, Manni 2007) Frecce e pugnali (prefazione di Giordano Bruno Guerri, Edizioni Il Foglio 2008) Esperienza degli affanni (Edizioni il Foglio 2009), con Carlo Gambescia il pamphlet A destra per caso (Edizioni Il Foglio 2010), Serena felicità nell’istante (prefazione di Paolo Ruffilli, Edizioni Il Foglio 2010), Almeno un grammo di salvezza (Edizioni Il Foglio, 2011), Mattanza dell’incanto (prefazione di Gian Ruggero Manzoni Marco Saya edizioni 2013), Sguardi dal Novecento (Galaad edizioni 2014) Luce nera (Marco Saya edizioni 2015, Premio Camaiore 2016), Vite colme di versi (Galaad edizioni 2016), Commedia Ubriaca (Marco Saya 2017), Lettere a Cioran (Galaad edizioni 2017), Tutti i nomi di un padre (L’ArgoLibro editore 2019), Non dare la corda ai giocattoli (Marco Saya edizioni 2019), Arrivano parole dal jazz (Oltre edizioni 2020), Muse nascoste (Galaad edizioni 2021), Un caffè in due (A&B editrice 2022), Libro delle bestemmie (Marco Saya edizioni 2023), Mi manca il Novecento (Galaad edizioni 2024).

Source: libro inviato dalla casa editrice.

Consiglio di acquisto: https://amzn.to/3J3pjRi se comprerai il libro a questo link guadagnerò una piccola commissione. Grazie!

:: Memoria rossa. La Cina dopo la Rivoluzione culturale di Tania Branigan (Iperborea 2025) a cura di Giulietta Iannone

18 settembre 2025

Per capire la Cina contemporanea di Xi Jinping non si può prescindere dal conoscere cosa successe in Cina dal 1966 al 1976, anno della morte di Mao Tse-tung. Un solo decennio in cui si attuò la cosidetta Rivoluzione Culturale, uno spartiacque traumatico e repentino che segnò per sempre un prima e un dopo nella tumultuosa storia cinese. La Cina sopravvisse e pose le basi dell’odierno miracolo economico che tanto impensierisce le nostre sempre più fragili democrazie occidentali da sempre tese a propugnare valori come la libertà, l’indipendenza, la giustizia, il democratico progresso condiviso. Se anche in Occidente abbiamo assistito a diverse rivoluzioni (altrettanto sanguinarie) come la Rivoluzione Francese, la Rivoluzione Inglese o quella Americana, per non parlare di quella Russa se vogliamo per esteso considerare anche la Russia Occidente, la Grande Rivoluzione culturale proletaria cinese ebbe caratteristiche sue proprie che segnarono per sempre nel profondo lo spirito e l’anima cinese. Fu un movimento che spazzò via le vecchie strutture tradizionali culturali, etiche, sociali e pose le basi di una nuova Cina che non ha mai smesso di evolversi e che ora conosciamo come potenza emergente nello scacchiere internazionale e desta grandi timori e un bricciolo di curiosità e forse anche ammirazione da parte nostra. Per fare luce su questo periodo controverso, e per molti versi ancora sconosciuto, della storia cinese, è sicuramente interessante leggere Memoria rossa. La Cina dopo la Rivoluzione culturale della giornalista britannica Tania Branigan per sette anni in Cina come corrispondente di The Guardian. Edito in Italia da Iperborea e tradotto da Silvia Rota Sperti, Memoria Rossa più che un semplice saggio è un vero e proprio reportage che raccoglie le testimonianze dolorose e autentiche di chi partecipò alla Rivoluzione Culturale e ancora oggi ne conserva le cicatrici. Nessuno ne uscì innocente, vittime e carnefici si scambiarono i ruoli, in una lotta per la sopravvivenza in cui non era ben chiaro come si dovesse agire. Unico faro era il pensiero di Mao, che i giovani arruolati nel considetto grande esercito delle Guardie Rosse, seguivano con entusiasmo e autentica partecipazione. Non era facile rompere definitavemente con il passato, con la cultura tradizionale di stampo confuciano che perdurava da millenni. Fu uno spartiacque traumatico, come dicevamo prima, la delazione, la violenza, il sospetto erano diffuse, figli denunciavano i genitori, studenti uccidevano i propri professori, mogli e mariti si denunciavano a vicenda, e i campi di rieducazione erano veri e propri lager dove vigeva la tortura. I vecchi proprietari terrieri venivano assassinati passando a una collettivazione forzata delle terre che almeno nei primi tempi segno fame carestia, miseria diffuse, ma Mao ordinò di andare avanti e così i cinesi fecero verso un luminoso futuro che si intravedeva dalle ceneri e dalle rovine del passato. Si poteva cadere in disgrazia o essere riabilitati, tutto per un capriccio o una fortuita circostanza, gli eroi di ieri potevano diventare le vittime di domani, ma nonostante tutto questo la Cina conservò la sua anima. La Cina di oggi sembra destinata a fare i conti con questo ingombrante passato, sebbene il controllo sociale, oggi potenziato da tecnologia e software, sembra volerlo rimuovere. Ma la Cina di oggi è figlia della Cina di ieri, e il benessere economico ottenuto a caro prezzo da solo non basta a depurare dai fantasmi del passato e dalla necessità di conservare una coscienza, un’identità e valori condivisi in cui riconoscersi. Anche noi in Occidente abbiamo molto da imparare da queste esperienze, ora che per timore di guerre future si vuole fare abbattere il welfare per potenziare le spese belliche. Lo sgretolarsi dei capisaldi democratici è sempre più evidente ed è bene ricordare che fanno parte della nostra identità e della nostra anima, e che perdendoli, andrebbero persi per sempre.

Tania Branigan è una giornalista britannica. Tra le voci più importanti del Guardian per gli esteri, si è occupata a lungo di Cina, paese in cui ha vissuto sette anni come corrispondente. Suoi scritti sono apparsi anche sul Washington Post. Memoria rossa, finalista al Baillie Gifford Prize, è il suo primo libro.

Consiglio di acquisto: https://amzn.to/461Q8g8 se comprerai il libro a questo link guadagnerò una piccola commissione. Grazie!

Leggi l’incipit

:: Scrivere di Marguerite Duras (NN editore, 2025) a cura di Giulietta Iannone

13 settembre 2025

Scrivere – una ragione di vita (Écrire, 1993) edito in Francia all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso da Gallimard, e ora edito in Italia da Enne Enne Editore, Milano, e tradotto da Chiara Manfrinato, che firma anche la postfazione, ovvero le Note della traduttrice, (da segnalare anche la prefazione di Gaia Manzini) è il testamento letterario, intimo, politico e morale di Marguerite Duras. 5 testi, di cui i primi due trascrizioni in forma narrativa di due interviste, in cui Marguerite Duras ci parla di scrittura, di amore, di morte, di politica militante, di arte, bellezza, guerra, solitudine e nostalgia. Dopo Écrire non scriverà, o meglio pubblicherà, più nulla, morirà tre anni dopo, nel marzo del 1996. Da non credente ci parla anche di Dio, molta della sua scrittura è attinente al sacro, a quella purezza che scaturisce dalla verità, eletta a cardine o meglio a lanterna con cui illuminare il suo amore per la vita, la scrittura, l’arte in senso lato. Nel suo rifugio di Neauphle scrive, non dorme molto, ospita gli amici, ascolta il silenzio del crepuscolo e osserva, sè stessa, il suo mondo interiore e ciò che la circonda, il suo giardino, il suo pianoforte, la morte di una mosca, simbolo di tutte le morti di cui è disseminata la sua vita, partendo da quella del fratello Paulo, che nel secondo testo La morte del giovane aviatore inglese, celebra, con il grido di disperazione, lo scandalo della morte di un ragazzo di soli vent’anni. L’inferno delle fabbriche, il sangue del proletariato, tutto sgorga nella sua scrittura militante, capace di indignarsi, commuoversi, protestare, urlare, col silenzio compresso della parola scritta. La Duras ci porta nel suo mondo, e non si capisce se scrive per se stessa o per il lettore, che un giorno leggerà queste pagine cariche di patos e sincera commozione. Nessuna volgarità, nessuna esibizione di bravura fine a se stessa, ma la sua scrittura stessa, con le sue cadenze, il suo ritmo sincopato, la sua capacità di trasmettere emozioni e forza d’animo. Un testo cardine per comprendere il mondo interiore della Duras e cosa per lei fosse la scrittura, l’importanza etica, morale politica che per lei aveva. Da leggere, rileggere e conservare.

Marguerite Duras (Saigon, 1914-Parigi, 1996) ha vissuto in Vietnam fino ai diciotto anni. Rientrata in Francia nel 1932, ha preso parte alla Resistenza e ha militato nel dopoguerra nelle file del Partito Comunista Francese, da cui è stata espulsa come dissidente nel 1950. È autrice di romanzi e sceneggiature, come quella di Hiroshima Mon Amour di Alain Resnais, e ha diretto numerosi film, tra cui India Song (1974) e Les enfants (1984). Con L’amante ha vinto il Premio Goncourt nel 1984.

Source: inviato dll’editore, ringraziamo Francesca dell’Ufficio Stampa Enne Enne Editore.

Consiglio di acquisto: https://amzn.to/4mOSLsQ se comprerai il libro a questo link guadagnerò una piccola commissione. Grazie!

:: “Vuoto, nulla, vacuità. Il buddhismo e il pensiero moderno”, di Marcus Boon, Eric Cazdyn e Timothy Morton (Ubiliber 2024) a cura di Giulietta Iannone

30 agosto 2024

Vuoto, nulla, vacuità Il buddhismo e il pensiero moderno (Nothing. Three Inquiries in Buddhism, 2015) è un’interessante saggio composto da tre saggi di tre dei più profondi e innovativi filosofi contemporanei le cui ricerche stanno ponendo un ponte, mai così necessario come oggi, tra Occidente e Oriente. Tutti con all’attivo numerose e importanti pubblicazioni Marcus Boon, Eric Cazdyn e Timothy Morton analizzano parallelismi, similitudini e affinità tra il vuoto come categoria essenziale del buddhismo e il vuoto della teoria critica occidentale gettando le basi di un serio confronto tra le due scuole di pensiero e soprattutto analizzando il buddhismo come base fondativa per rileggere la dimensione politica dell’Occidente, cosa che non era mai ancora stata fatta e che costituisce il nucleo innovativo di questa opera decisamente originale e necessaria che va così a colmare questa grave lacuna nel dibattuto filosofico conteporaneo.

Il saggio di Marcus Boon si concentra sulla politica ed esplora la politica buddhista del periodo della Guerra fredda.

I dibattiti teorici su buddhismo e il marxismo sono oggi il prodotto di questa scissione ideologica (il cui esito non sono necessariamente due distinte ideologie, ma la scissione stessa come ideologia), in Asia forse quanto in Europa e in America. E, ancora una volta, è proprio nel divario o nella distanza tra queste due visioni apparentemente opposte che si possono inquadrare le nozioni di comunità e il problema del buddhismo politico nei termini in cui li intende Bataille.

Il saggio di Eric Cazdyn compara e compendia la categoria buddhista di “illuminazione”, quella marxista di “rivoluzione” e quella psicoanalitica di “cura” giungendo alla conclusione che hanno una funzione simile.

Il saggio di Morton infine è un’esplorazione del fenomeno che l’autore chiama buddhafobia, una “paura del buddhismo” o meglio del nulla che caratterizza una delle principali ansie generate dalla modernità.

Questo volume è anche corredato poi da un glossario introduttivo dei termini buddhisti, compilato da Claire Villareal che aiuterà chi non ha dimestichezza con questi termini a seguire le argomentazioni e i dibattiti via via svolti. Traduzione di Andrea Libero Carbone.

Marcus Boon è scrittore, giornalista e professore di Inglese alla York University di Toronto. Eric Cazdyn è professore di Estetica e Politica presso la Uni-versity of Toronto; è anche regista e artista. Timothy Morton è titolare della cattedra “Rita Shea Guffey” di Letteratura Inglese alla Rice University di Houston in Texas.

:: Mi manca il Novecento: libri, scrittori e altre divagazioni di Nicola Vacca (Galaad Edizioni 2024) a cura di Giulietta Iannone

26 aprile 2024

Da gennaio 2018 prese il via sul blog letterario “Liberi di scrivere” una nuova rubrica dal titolo provocatoriamente evocativo: Mi manca il Novecento. Curata dal poeta e critico Nicola Vacca, ripercorre il secolo letterario appena trascorso e ci presenta voci e luci del Novecento, libri e autori troppo spesso ingiustamente dimenticati o proprio banditi da editori, critici, studiosi e lettori superficiali. L’idea era infatti di alternare libri di quel grande e irripetibile periodo a profili di scrittori tra i più significativi con un taglio moderno, essenziale che andava al cuore della loro poetica. Un modo per ricordare la grande letteratura e diffonderla tra i giovani e gli adulti che hanno ancora voglia di conoscere e apprezzare la bellezza, come inviti alla lettura ma non solo per mero spirito di divulgazione. Ora Mi manca il Novecento è finalmente un libro vero e proprio grazie all’editore Galaad Edizioni. La domanda che sottende è naturalmente: il Novecento ha ancora da dirci qualcosa? La risposta è un sonoro sì, anzi ritornare alle radici del Novecento è quanto mai vitale in un mondo letterario contemporaneo troppe volte autoreferenziale che ha ben poco da dire di veramente nuovo. Rileggere Tabucchi, Ennio Flaiaino, Albert Camus, Emil Cioran, Pasolini, Moravia, Buzzati, Celine e molti altri è un viaggio nel nostro recente passato sì, ma soprattutto è un viaggio dentro la grande letteratura del secolo breve, dal titolo di un celebre saggio dello storico Eric Hobsbawm pubblicato nel 1994, che divenne un modo per indicare il XX secolo. Un secolo che racchiuse ben due guerre mondiali e la caduta del Muro di Berlino, e nello stesso tempo diede i natali a grandi uomini che fecero della letteratura il loro grimaldello contro la barbarie e la dissoluzione delle coscienze. Che molti abbiano troppa fretta di chiudere i legami con il Novecento è evidente da molti atteggiamenti e da vera e propria ignoranza. Riscoprire il Novecento ha il pregio di dissipare le nebbie di questo grumo nero che oscura le nostre coscienze e ci riporta a scoprire che noi siamo figli e nipoti di quegli uomini, che non è possibile interrompere il ciclo di continuità. Nicola Vacca con il suo solito arguto acume e la sua penna pungente ci accompagna in questo viaggio che acquista coerenza e omogeneità, e tocca corde del profondo di ognuno di noi, corde nascoste che è bene tornino in superficie. Da leggere.

Nicola Vacca è nato a Gioia del Colle, nel 1963, laureato in giurisprudenza. È  scrittore, opinionista, critico letterario,  collabora alle pagine culturali  di quotidiani e riviste. Svolge, inoltre, un’intensa attività di operatore culturale, organizzando presentazioni ed eventi legati al mondo della poesia contemporanea. Dirige la riviata blog Zona di disagio. Ha  pubblicato: Nel bene e nel male (Schena,1994), Frutto della passione (Manni 2000), La grazia di un pensiero (prefazione di Paolo Ruffilli, Pellicani, 2002), Serena musica segreta (Manni, 2003), Civiltà delle anime (Book editore, 2004),  Incursioni nell’apparenza (prefazione di Sergio Zavoli Manni 2006), Ti ho dato tutte le stagioni (prefazione di Antonio Debenedetti, Manni 2007Frecce e pugnali (prefazione di Giordano Bruno Guerri, Edizioni Il Foglio 2008) Esperienza  degli affanni (Edizioni il Foglio 2009), con Carlo Gambescia il pamphlet A destra per caso (Edizioni Il Foglio 2010), Serena felicità nell’istante (prefazione di Paolo Ruffilli, Edizioni Il Foglio 2010),  Almeno un grammo di salvezza (Edizioni Il Foglio, 2011), Mattanza dell’incanto  ( prefazione di Gian Ruggero Manzoni Marco Saya edizioni 2013), Sguardi dal Novecento (Galaad edizioni 2014) Luce nera (Marco Saya edizioni 2015, Premio Camaiore 2016), Vite colme di versi (Galaad edizioni 2016), Commedia Ubriaca (Marco Saya 2017), Lettere a Cioran (Galaad edizioni 2017), Tutti i nomi di un padre (L’ArgoLibro editore 2019), Non dare la corda ai giocattoli (Marco Saya edizioni 2019), Arrivano parole dal jazz (Oltre edizioni 2020).

Source: libro inviato dall’editore.

:: La guerra e il mondo di Luigi Bonanate (Carocci Editore 2023) a cura di Giulietta Iannone

1 marzo 2024

Esisterà mai un mondo nuovo senza più guerre? A questa domanda sembra non ci sia risposta certa sebbene tra il 1985 e il 2005, ovvero tra la caduta del Muro di Berlino e l’attacco alle Torri Gemelle e l’inizio della grande crisi finanziaria questa speranza c’è stata, concreta, la creazione di un mondo nuovo, l’era della pax democratica che avrebbe abolito per sempre le guerre e le risoluzione delle crisi internazionali con l’uso della forza e delle armi. Ma così non fu: di guerre nel mondo ce ne sono numerose e di nuove continuano a scoppiare quasi ininterrottamente dalla recente guerra in Ucraina, scoppiata due anni fa, alla ancora più recente guerra di Gaza in Medio Oriente, che tra guerra, fame e malattie potrebbe uccidere oltre 85 mila palestinesi. La guerra è morte, orrore, distruzione, uccisione indiscriminata di civili, e più contenutamente di militari, non ci sono altre definizioni per definirla ed è un atto barbaro ma razionale e ponderato, una continuazione della politica con altri mezzi, e in questo sta tutto il suo potere deflagrante e non onostante tutto razionale. Che la guerra sia un atto politico, decisa dalla politica, è il fulcro del saggio La guerra e il mondo di Luigi Bonanate, Carocci Editore 2023. Chi pondera un atto di guerra si pone degli obbiettivi da raggiungere, che siano conquiste territoriali o il mero indebolimento del nemico, e li persegue ostinatamente finchè non li ottiene e può dirsi soddisfatto proclamando la sua vittoria. Così era nel passato, così è oggi con armi sempre più tecnologiche fino all’ultima incognita di un conflitto nucleare globale che non porrebbe ne sopravvissuti nè vincitori ma la semplice e definitiva estinzione del genere umano. Dopo due guerre mondiali sanguinose con i suoi milioni di morti la guerra moderna ha raggiunto stadi di evoluzione impensati e sembra non passare mai di moda. Perchè le guerre scoppiano, perchè si combattono, quando si raggiunge lo stato di sospensione del conflitto chiamato proditoriamente pace? Su queste domande si interroga il professore emerito Luigi Bonanate con la saggezza raggiunta dopo una vita impegnata a studiare e analizzare le Relazioni Internazionali nel suo svolgersi e nel suo esplicitarsi. La guerra sembra illuminare il mondo, ovvero sembra delineare i suoi processi di sviluppo a un prezzo altissimo e apparentemente anti economico. La guerra non brucia solo vite umane ma infrastrutture, armi costosissime, impedisce l’accumulo e la produzione di ricchezze e di beni, è insomma fatta per essere breve e risolutiva e invece contrariamente quando una guerra scoppia non si sa mai quando la diplomazia riprenderà il sopravvento e si tornerà a un tavolo delle trattative per la stila del trattato di pace. Le guerre si trascinano per anni, e sia vinti che vincitori alla fine sono più poveri di prima. E allora perchè continua ad essere uno strumento politico utilizzato nel mondo moderno? Non dovremmo aver raggiunto uno stadio di evoluzione, come specie umana, in cui questo mezzo antieconomico e intrinsecatamente immorale fosse definitivamente bandito? Il professore Bonanate studia la guerra e i motivi che la determinano per comprendere se mai questo sarà possibile e pur con tutta la buona volontà e il buon senso conclude che la guerra è politica, anzi è il fallimento della lotta politica. Perchè una sola cosa non è cambiata mai: la morte. La guerra è prova di debolezza, se non addirittura di incapacità e inferiorità. Ultimo progresso del genere umano sarà abolire la guerra, ma finora non c’è ancora stato.

Luigi Bonanate è professore emerito di Relazioni internazionali all’Università di Torino e socio dell’Accademia delle Scienze di Torino. Tra i suoi scritti, Etica e politica internazionale (Einaudi, 1992); I doveri degli stati (Laterza, 1994); Il terrorismo come prospettiva simbolica (Aragno, 2006).

:: Frammenti di storia delle civiltà del grano e del pane nel Mediterraneo e altri saggi sul cibo all’epoca della globalizzazione di Gianfranco Nappi (Infiniti Mondi, Napoli 2023) a cura di Valerio Calzolaio

29 luglio 2023

Le civiltà euromediterranee del grano. Da millenni. Il giornalista, operatore e divulgatore culturale Gianfranco Nappi (San Paolo Belsito, Napoli, 1959) ha avuto per decenni prestigiosi incarichi politici e istituzionali (fra l’altro deputato 1987-1996) e da anni opera per la Città della Scienza, in particolare su questioni alimentari, non solo contingenti. Molto si è occupato di cereali, realizzando ora un interessante colto volume tematico: “Frammenti di storia delle civiltà del grano e del pane nel Mediterraneo”. Si tratta di un bel viaggio nel tempo, nello spazio e nei profili di significato del grano e del pane. Dopo la competente prefazione dello storico Bevilacqua, seguono un lungo denso saggio ricchissimo di informazioni, storie, spunti e curiosità, poi la raccolta di cinque articoli in materia pubblicati fra il 2019 e il 2022 sulla bella rivista bimestrale che Nappi dirige con successo, “Infiniti mondi”. Una ottima occasione di approfondimento per tutti (anche i celiaci).

:: Le mie stelle nere. Da Lucy a Barack Obama di Lilian Thuram (Add Torino 2014) a cura di Valerio Calzolaio

2 febbraio 2023

Pianeta. Da milioni di anni di tante specie e incarnati umani, da decine di migliaia meticcio. Provate a immaginare un bambino bianco che a scuola non abbia mai sentito parlare di scienziate e scienziati bianchi, di re e regine, di rivoluzionari e rivoluzionarie, di filosofe e filosofe, di artisti e artiste, scrittori e scrittrici con la pelle del suo colore. Pensate a un mondo in cui tutto ciò che è bello, profondo, fine, sensibile, originale, puro, buono, acuto e intelligente sia soltanto nero, e dove viva nero anche Dio. Immaginate il turbamento che si scatenerebbe dentro quel bambino, tanto più se è l’unico bianco in una classe di neri e a lezione sente spiegare che i suoi antenati erano schiavi e che i neri potevano essere razzisti. Poi invertite il colore, non bianco ma nero, e sperate che qualcuno abbia fornito lui una chiave per capire la Storia, per rintracciare grandi figure dell’umanità trascurate dai manuali. A quel punto potrebbe essere davvero utile elencare, studiare, comparare alcune di quelle stelle nere, persone che hanno molto combattuto e sofferto per alzare la testa. Eccone quarantacinque: alcune singoli individui dalla non sapiens Lucy (di incarnato scuro come gran parte dei sapiens per la maggior parte della nostra storia di specie) e dal saggio Esopo (VII-VI secolo a.C.) a Mandela, Diarra, Abu-Jamal, Shakur, Obama; alcune gruppi collettivi dai faraoni neri (Taharqa regnò dal 690 al 664 a.C.) ai cacciatori del Manden o ad alcuni “morti per la Francia” senza nazionalità francese nella guerra 1914-1918; passando per gli autori di testi e azioni che lo hanno formato, da Douglass a Garvey, da Césaire a Fanon, da Malcom X a Martin Luther King. Rifulgono di splendore.

Riprendiamo in mano il primo splendido libro del grande atleta francese Lilian Thuram (Guadalupa, 1972), uno dei più straordinari giocatori di calcio degli ultimi decenni (1991-2008), che, appena attaccate le scarpette al chiodo, ha promosso la fondazione Éducation contre le racisme, pour l’égalité, pubblicando quasi subito il suo efficace esordio narrativo no fiction (in Francia nel 2010): la storia di alcuni umani di incarnato scuro la cui conoscenza è imprescindibile per ogni altro umano, specie da questa parte del mondo. Non a caso, nella ricca appendice (oltre che bibliografia, indice dei nomi e brevi riflessioni di uno psichiatra infantile) c’è anche una mappa del pianeta apparentemente “al contrario”, che ha le sue proprie rimarchevoli ragioni geografiche, psicologiche e sociali: “in termini di rappresentazione non esistono scelte neutre. Quando il Sud la smetterà di vedersi in basso, cesseranno anche i pregiudizi”. Utile ribadire che esiste pure un razzismo maschile di altro “genere”. E, se davvero vogliamo cambiare la società e combattere ogni razzismo, non è sulla discriminazione al contrario né sullo spirito di appartenenza a una comunità che possiamo contare. Soltanto il cambiamento dei nostri immaginari può avvicinarci e far cadere le barriere culturali fra un “voi” e un “noi” determinato dal colore della pelle: è tutto il passato del mondo che dobbiamo recuperare, per capire meglio e preparare il futuro di altre generazioni. Ogni “stella” un disegno di Piergiorgio Mantini e un’articolata colta scheda non puramente biografica, mediamente una decina di pagine ciascuna. Ottima prefazione di Emanuela Audisio (“neri si diventa”), che fra l’altro introduce i giusti nessi con i muscoli intelligenti nello sport.

Lilian Thuram, nato in Guadalupa nel 1972, è stato un importante calciatore internazionale, campione del mondo nel 1998 e campione europeo nel 2000, oltre a molti altri riconoscimenti in altre squadre. In Italia ha giocato nel Parma e nella Juventus. Nel 2008 ha creato la Fondation Lilian Thuram, éducation contre le racisme. Il libro ha vinto il Premio Seligmann.

Source: libro del recensore.

:: Istruzioni per il buon governo – Antologia in 360 massime sui principi per il retto governare della Cina antica – introduzione di Tiziana Lippiello, a cura di Ludovica Gallinaro (Marsilio 2022) a cura di Giulietta Iannone

12 dicembre 2022

All’inizio dell’era imperiale Zhenguan, l’imperatore Taizong della dinastia Tang (618-907) decretò che fosse redatta l’opera Qunshu Zhiyao (Istruzioni per il buon governo). Affidò a due ministri della corte il compito di catalogare il materiale storico e storiografico attinente all’arte di governo, scegliendo tra i classici, le compilazioni storiche e le opere di pensatori ogni contenuto che potesse illustrare i principi della coltivazione di sé, della cura della famiglia e del governo dello Stato. Durante la dinastia Song (960-1279) l’opera andò perduta, ma fortunatamente una copia manoscritta a cura dei monaci giapponesi dell’epoca Kamakura (1192-1330) fu conservata in una delle collezioni del Museo Kanazawa. Nel sessantesimo anno (1795) del regno dell’imperatore Qianlong della dinastia Qing (1644-1911) l’opera fu restituita alla Cina.
La raccolta consta di sessantacinque volumi divisi in cinquanta libri e racchiude, attraverso un’esperienza politica plurisecolare, l’essenza della cultura cinese. La versione qui pubblicata è una selezione di 360 aforismi divisi in sei capitoli: Il dao del governante, L’arte del ministro, Valorizzare le virtù, Sull’atto del governare, Avere ligia premura e Comprendere e giudicare.

Metti in pratica la virtù, e il tuo cuore sarà leggero, gratificato giorno dopo giorno. Segui la falsità, e il tuo cuore sarà affaticato, logorato giorno dopo giorno.

(Classico dei documenti, libro II)

Se alcuni monaci giapponesi dell’epoca Kamakura (1192-1330) non avessero copiato questo importante documento e non fosse stato conservato nel Museo Kanazawa, per poi nel 1795 restituirlo alla Cina, i sessanta volumi de “Istruzioni per il buon governo” (Qunshu Zhiyao) sarebbero andati perduti e noi non potremmo fare tesoro di questa sapienza secolare mai tanto utile quanto oggi. La saggezza cinese è in un certo senso un patrimonio dell’intera umanità, e in questa selezione di 360 aforismi troviamo un fulgido esempio di questo sapere antico. L’arte del governo è un’arte difficile, complessa, strettamente legata alla moralità e l’abilità dei governanti. Non si può essere un saggio e capace governanate senza essere un uomo retto, onesto, e lungimirante. Questo volume è splendido e curato, con testo cinese a fronte, e ci porta a conoscere l’essenza del retto governare, forse ancora più importante de L’arte della guerra del già famoso Tzu Sun, l’antico generale cinese, stratega e filosofo che può essere considerato il Machiavelli cinese, a cui è attribuito questo testo. L’arte del buon governo è un’arte pacifica, etica, morale, e tesa al benessere e alla felicità di tutti. Perchè il cuore sarà leggero se si pratica la virtù.

Ludovica Gallinaro ha conseguito le lauree in Filosofia e in Lingua cinese all’Università degli Studi di Padova e all’Università Ca’ Foscari di Venezia, e ha ottenuto un dottorato in Filosofia cinese all’Università Tsinghua di Pechino con una tesi sul pensiero morale di Zhou Dunyi. Ha pubblicato articoli sul pensiero confuciano e neoconfuciano di epoca Song e svolge attività di traduzione di opere della filosofia cinese moderna e contemporanea.

Tiziana Lippiello, è rettrice dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. È autrice di numerosi saggi sul pensiero e le religioni della Cina antica, fra cui Auspicious Omens and Miracles in Ancient China: Han, Three Kingdoms and Six Dynasties (2001) e Il confucianesimo (2009). Ha tradotto e curato i Dialoghi di Confucio (20062). Per Marsilio ha curato La costante pratica del giusto mezzo (2010) ed è nel comitato scientifico della Letteratura universale Marsilio.

:: Guerra e pace al tempo di Putin – Genesi del conflitto ucraino e nuovi equilibri internazionali di Marco Bertolini e Giuseppe Ghini (Edizioni Cantagalli 2022) a cura di Giulietta Iannone

22 ottobre 2022

La guerra in Ucraina necessita di essere compresa mettendo a fuoco la verità di ciò che accade non troppo lontano dalle nostre case, ove viviamo più o meno tranquillamente.

Occorre capire, superando il racconto virtuale, spesso artefatto, che gli accadimenti di questi ultimi tempi racchiudono nella loro concretezza la verità di una guerra fatta e subita. Occorre ripristinare quel legame necessario tra la realtà e la verità, fonte e origine di ogni libertà. Per fare ciò non è sufficiente prestare attenzione solo alle notizie filtrate dai mass-media che inondano di immagini e parole il nostro quotidiano, ma occorre comprendere quali siano state le cause remote e recenti di questo conflitto, i motivi storici, culturali, politici e militari. Occorre comprendere chi sono gli ucraini e i russi e come abbiamo interagito durante il corso della storia; che cosa è accaduto in Russia dopo la fine dell’Impero sovietico; chi è Putin e quali siano gli aspetti positivi e negativi del suo mandato presidenziale; quale sia stato il ruolo della NATO, dell’Europa e degli Stati Uniti. Occorre avere chiaro, per quanto è possibile, il quadro generale, per evitare di banalizzare o male interpretare un evento che grava sulla vita di milioni di persone, soprattutto della povera gente che combatte o subisce questa guerra decisa da altri.

Il generale Marco Bertolini e il professor Giuseppe Ghini, ripercorrendo la storia degli ultimi trent’anni, dalla fine dell’Impero sovietico a oggi, spiegano, dal punto di vista geopolitico/militare e storico/culturale, quali sono le cause che hanno condotto al conflitto ucraino: il ruolo dell’Occidente, della Nato e degli altri principali attori internazionali; il grande cambiamento che ha subito la Russia con l’avvento negli anni ’90 del capitalismo selvaggio; l’ascesa di Putin; lo scontro ideologico tra Ucraina e Russia che ha assunto negli ultimi anni toni provocatori e aggressivi. Un quadro esaustivo e oggettivo, al di sopra degli schieramenti, che restituisce al lettore una visione chiara quanto è accaduto e sta accadendo.

Questo saggio, di estremo interesse per le informazioni contenute, si compone di due saggi separati (anzi quasi tre, comprendendo la breve postfazione del professore Leonardo Allodi pp. 239-267 ): il primo scritto dal Generale di Corpo d’Armata Marco Bertolini, e il secondo dal professore ordinario di Slavistica all’Università di Urbino Giuseppe Ghini. Due stili di scrittura diversi, che trattano temi che completano un quadro a dire il vero piuttosto magmatico, per cercare di capire come siamo potuti arrivare a questo drammatico punto. Il professore Ghini senza mezzi termini, come premessa, pone il fatto che la decisione di Putin di invadere l’Ucraina, nel febbraio del 2022, sia da biasimare (non si può in alcun modo giustificare p.131), il generale Bertolini più pragmaticamente (pur definendola tragedia e questo 2022 terribile) parla di conseguenze forse inevitabili in un’ottica prettamente militare. Ma si sa le guerre le combattono i soldati, e le subiscono i civili, e quando si arriva anche solo a un abborracciato trattato di pace abbiamo sempre alle spalle scenari di macerie, perdite umane insostituibili, distruzione di infrastrutture, fabbriche, abitazioni, ospedali, miliardi e miliardi bruciati in armi ormai distrutte. Senza contare le ripercussioni politiche, sociali, e perfino culturali, identitarie, linguistiche, le crisi economiche e le recessioni innescate, i soldi che devono essere stanziati per la ricostruzione, le scorte distrutte, e gli equilibri anche geopolitici da ricostruire. Specie una guerra come questa nel cuore slavo dell’Europa, in un punto geopolitico delicatissimo, come vedremo più avanti. Certo parlando di guerra convenzionale ed esulando dallo scenario apocalittico atomico. Scenario tuttavia drammaticamente sullo sfondo come remota possibilità. Nessuno è sicuro al 100% che Putin, pur professandosi credente, non faccia partire un’atomica.

Detto questo come premessa analizziamo il saggio di Bertolini, conoscitore di uomini e armi. I segnali del fatto che stavamo scivolando verso questa china erano evidenti, pur tuttavia non furono colti nè dall’opinione pubblica, nè dalle classi politiche di più o meno tutti i paesi ora coinvolti. Gli 8 anni di guerra nel Donbas (definita a bassa intensità, e perciò sottostimata improvvidamente soprattutto in riferimento ai rischi e alle incognite che comportava) era sicuramente un campanello d’allarme che avrebbe dovuto far passare notti insonni a parecchi resposnabili di varie cancellerie, ma tutti erano più o meno sicuri che Putin non avrebbe mai invaso l’Ucraina con un esercito regolare (pur nell’autodefinita operazione speciale), almeno fino agli allarmistici comunicati di Biden, giusto poco prima del tragico febbraio del 2022. Insomma non ci siamo svegliati un mattino ed è tutto precipitato, ma le origini, e la concause scatenanti, sono da ricercare lontano, almeno 30 anni fa (come sostiene anche Ghini e spiega bene nel suo saggio) con la caduta del Muro di Berlino e il crollo dell’Unione sovietica e il ruolo della NATO, organizzazione che invece di sciogliersi ha solo cambiato ruolo e missione, da difensore dell’Europa contro la temuta invasione sovietica del passato ora impiegata come strumento di un mondo in via di globalizzazione per sostenere la bontà del modello occidentale. Proprio l’invasione russa dell’Ucraina, sostiene il Gen. Bertolini, ha fatto tornare l’Alleanza alla sua funzione primigenia, sebbene si sia persa per strada la connotazione “comunista”. Non da meno il ruolo delle religioni, e la percezione del nemico, con il passaggio dalla dicotomia tra sfera cristiana occidentale e mondo musulmano con quella di una dicotomia cattolico-protestante e ortodossa. Insomma secoli di progresso e siamo tornati alle guerre di religione dei secoli bui! Ma naturalmente il Gen Bertolini non fa solo riflessioni sociologiche, morali ed etiche si concentra su questioni militari, difficilmente così ben esplicitate nei dibattiti televisivi. Dalla crisi dei Balcani, all’arrivo di Putin al potere il passo è breve, e così si giunge all’evidenza che la Guerra Fredda non è mai davvero finita e gli USA continuano a vedere nella Russia, e soprattutto in questo nuovo politico decisionista al potere, una reale minaccia. Naturalmente l’analisi è focalizzata sull’Ucraina, e su cosa scatenò davvero la crisi del Majdan (per quanto pilotata, i sospetti sono tanti) che dopo scontri di piazza portò a un cambio di regime. Il Gen. Bartolini sottolinea l’importanza di considerare poi cosa successe nel Caucaso per poi passare alle Primavere arabe e alla Siria, in cui il ruolo proattivo della Russia, in difesa di Assad, ha senz’altro esacerbato gli animi di un Occidente sempre più convinto nell’attribuire a Putin tutte le colpe di quasi ogni conflitto sul globo. Dopo la parentesi Trump, e il ritorno al potere negli Stati Uniti dei democratici, si è ripreso il discorso iniziato da Obama (p.75). Da qui in poi il focus è la crisi in Ucraina anche da un punto di vista militare, capitoli molto interessanti che illustrano cosa sia successo in questi tempi inquieti.

Passando al saggio di Ghini si ha un’altra prospettiva che completa la prima, e integra se vogliamo il discorso fatto dal Gen. Bertolini, e che parte dalla frattura tra Russia e Occidente venutasi a creare negli ultimi 30 anni. Prima analizza la Russia (con una piccola premessa sull’Unione sovietica) e poi si arriva finalmente (p.171) all’Ucraina, dall’uscita dall’URSS in avanti. Capitoli illuminanti e densi di riflessioni e giudizi, anche critici, fino allo scontro (p.189) che è comprensibile solo analizzando le due ideologie contrapposte che sono alla base, ideologie che armano le guerre e che nessuno (colpevolmente) ha badato a disinnescare, anzi le hanno alimentate. Ghini ha una concezione molto nefasta dell’ideologie contrapposte alla storia, che invece analizza la realtà e lo ribadisce in diversi punti del saggio con molta convinzione. Gravi omissioni e responsabilità sono indubbie ed è bene che ognuno si prenda le sue colpe (sia da una parte che dall’altra) perchè dove tace la ragione e risuonano le armi ci sono sempre passi da intraprendere che non sono stati intrapresi. Le ragioni che aiutano a comprendere infine, secondo Ghini, non devono assolutamente giustificare una guerra di per sè irragionevole (p.220). Una neppur troppo velata critica all’uso strumentale dei mass media, col tacere alcuni fatti come la strage di Odessa, o l’uccisione del giornalista italiano freelance Andy Rocchelli (24 maggio 2014), per non parlare delle sofferenze e dei morti tragico bilancio della guerra nel Donbas, ed enfatizzarne altri, rientra anch’esso nelle omissioni e nelle responsabilità e dei passi commessi verso la guerra e non la pace. Passi che, pur nella sua stringatezza, Ghini elenca (pp. 213-116). Pregevole la solidità e la competenza di questo studioso che con pacatezza e molto buon senso (raccontandoci anche episodi di vita vissuta) tenta una disanima scevra da pregiudizi e partiti presi, e ottiene il vantaggio di farsi ascoltare. Merita un commento più approfondito la postfazione del professore Leonardo Allodi che avrebbe meritato un ruolo di coautore del testo. Ma è possibile che escano nuove riedizioni aggiornate di questo testo con un suo intervento più articolato. Anche da leggere la nota introduttiva dell’editore, singolarmente appassionata, e mossa dall’esigenza di far emergere e svelare la verità su questo conflitto, a cui siamo giunti a tappe forzate, su un sentiero incanalato da errori di prospettiva, omissioni, e responsabilità più o meno palesi. Puntuale la bibliografia (pp. 229-237).

Giuseppe Ghini

Professore ordinario di Slavistica all’Università di Urbino. Ha scritto diversi libri e oltre cento articoli scientifici sulla letteratura e cultura russa; di recente ha tradotto per Mondadori il capolavoro di Puškin, Evgenij Onegin. Ha ricevuto borse di studio e di ricerca in Russia, Cecoslovacchia, Finlandia, Stati Uniti, tenuto seminari e conferenze in università russe e statunitensi. Da oltre vent’anni svolge attività giornalistica e ha scritto più di 900 articoli su cultura e società non solo russa. Membro del Nucleo di Valutazione dell’Università di Urbino dal 2007 al 2019, Presidente degli Incontri Internazionali Diego Fabbri dal 1996 al 2003, Consigliere e dal 2017 Presidente della Fondazione Rui.

Marco Bertolini

Generale di Corpo d’Armata, ha comandato il 9° reggimento d’assalto “Col Moschin”, il Centro addestramento di paracadutismo, la Brigata Paracadutisti “Folgore”, il Comando Interforze per le Operazioni delle Forze Speciali e il Comando Operativo di Vertice Interforze dal quale dipendono i contingenti “fuori area” nazionali. Ha partecipato a Operazioni in Libano, Somalia, Balcani e Afghanistan. È Grande Ufficiale al Merito della Repubblica, Ufficiale dell’Ordine Militare d’Italia ed è decorato di Croce al Valor Militare, nonché di Croci d’Oro e d’Argento al Merito dell’Esercito.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo l’Ufficio stampa.

:: Lo spettro del Dio mortale, Hobbes, Schmitt e la sovranità di Etienne Balibar, raccolta a cura di Giada Scotto (Rogas Edizioni 2022) a cura di Giulietta Iannone

16 settembre 2022

L’idea di sovranità è al giorno d’oggi in crisi? Oppure la messa in discussione della sua tradizionale configurazione statale e nazionale offre l’occasione di un suo differente rilancio? Questi gli interrogativi al centro dei saggi di Balibar, proposti per la prima volta in Italia. Lavorando sulla teoria della sovranità di Hobbes e sul pensiero di uno dei suoi massimi interpreti novecenteschi, Carl Schmitt, il filosofo francese porta alla luce le contraddizioni e le aporie interne alla dottrina dello Stato e al contempo l’irrinunciabilità dell’idea eccedente di sovranità per sostenere e alimentare le istanze democratiche.

Lo spettro del Dio mortale, Hobbes, Schmitt e la sovranità è una raccolta di quattro saggi del filosofo francese Etienne Balibar, curata dalla ricercatrice Giada Scotto, tre dei quali qui tradotti per la prima volta in lingua italiana. Il testo contiene: Prolegomeni alla sovranità: la frontiera, lo Stato, il popolo apparso nel 2000 sulla rivista “Le Temps Modernes”; Lo Hobbes di Schmitt, lo Schmitt di Hobbes, nato prima come prefazione poi pubblicato autonomamente nel 2010 all’interno della raccolta di saggi Violence et civiltè; Schmitt una lettura conservatrice di Hobbes? apparso nel 2003 sulla rivista “Droit” e infine Il Dio mortale e i suoi fedeli soggetti: Hobbes, Schmitt e le antonomie della laicità pubblicato nel 2012 sulla rivista “Ethique, politique, religions”. Testi scritti in tempi differenti che concorrono a formare un’unica complessa e articolata discussione sul concetto di sovranità che Balibar ha sviluppato dal confronto con Carl Schmitt, teorico novecentesco della sovranità, e soprattutto dalla interpretazione schmittiana della dottrina della sovranità di Thomas Hobbes.

Partendo dal concetto di crisi della sovranità, estesa e mutuata da una più estesa incertezza delle istituzioni sovranazionali che formano la costruzione europea, Balibar si interroga su quali sono i limiti e le contraddizioni di queste categorie di pensiero in un contesto problematico e in sempre costante evoluzione come quello in cui ci troviamo a vivere per pervenire a interessanti soluzioni non solo filosofiche astratte ma anche applicabili al contesto politico e sociale contemporaneo.

Forse è meglio prima di addentrarci nello studio delle analisi qui contenute fare un passo indietro e gettare un po’ di luce sul pensiero e la formazione di Balibar. Allievo di Louis Althusser, formatosi in un confronto dialettico con Marx e Lenin, Balibar è tra gli intellettuali di sinistra più attivi del secondo Novecento francese. Una militanza politica problematica quella con il Partito comunista francese, in cui militò dal 1961, per poi uscirne drammaticamente nel 1981 in seguito a severe critiche sull’operato del partito di cui denunciò severamente il suo nazionalismo in materia di immigrazione a fronte di episodi violenti verificatesi nelle banlieu parigine. Il crescente emergere in Francia di sentimenti nazionalisti e xenofobi, non solo tra aderenti della destra del Front National di Jean Marie Le Pen, portò Balibar a sentire la necessità e l’urgenza di un ripensamento della questione della sovranità e di una decostruzione della configurazione statale. La democratizzazione della democrazia sembra una delle sue più recenti proposte al vaglio. Tra cittadinanza, cosmopolitismo e lotta contro la clandestinità come fonte di esclusione e ingiustizia, il tema dell’immigrazione ha un ruolo fondamentale nella rielaborazione di concetti come sovranità, nazione, e stato.

Étienne Balibar (1942) è professore emerito di Filosofia politica e morale all’università Paris X-Nanterre e distinguished professor of Humanities alla University of California di Irvine. Allievo e collaboratore di Louis Althusser, è tra i più autorevoli filosofi politici contemporanei. Tra le sue pubblicazioni tradotte più recentemente Cittadinanza (2012), Crisi e fine dell’Europa? (2016), Gli universali. Equivoci, derive e strategie dell’universalismo (2018), Al cuore della crisi (2020).

Giada Scotto (1991) è dottoressa di ricerca in Storia dell’Europa presso l’Università Sapienza di Roma con uno studio sulla teologia politica di Carl Schmitt. La sua ricerca è parte di un più ampio interesse per la filosofia politica e per il dibattito contemporaneo sulla genesi e il funzionamento degli Stati democratici.

Source: libro inviato dall’editore. Ringraziamo Simone Ufficio Stampa Rogas Edizioni.