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:: L’uomo perplesso: Viaggio negli abissi di Emil Cioran di Nicola Vacca (Edizioni Qed, 2025) a cura di Giulietta Iannone

10 ottobre 2025

Tornare a Cioran per Nicola Vacca, critico e poeta sensibile e di notevole caratura etica e morale, dopo Lettere a Cioran del 2017 edito da Galaad Edizioni, è un impegno concreto alla ricerca di una nuova chiave interpretativa che aggiunga nuove prospettive, e criteri di analisi, su un filosofo e scrittore criptico come Emil Cioran, oggi quasi ormai se non proprio dimenticato, sicuramente colpevolmente trascurato dalla critica filosofica più paludata.

Cioran dobbiamo ammetterlo e un intellettuale scomodo, di difficile comprensione e collocazione, non solo per gli studiosi accademici più ferrati, e dotati di strumenti scientifici di indagine e di conoscenza diretta dei suoi testi, ma anche soprattutto per i lettori curiosi che forse si avvicinano a Cioran per la prima volta, spaventati forse anche dall’aura nichilista che lo circonda.

Vacca in L’uomo perplesso: Viaggio negli abissi di Emil Cioran, pubblicato da Edizioni Qed, (Collana Hyle), un testo originale filosofico e nello stesso tempo letterario, torna con un secondo libro su di lui, dopo otto anni, con spirito battagliero e alla ricerca di nuove strade interpretative, come dicevo all’inizio, per proseguire un discorso iniziato con il precedente libro, già notevole e compiuto. Vacca ne sente l’urgenza, e la necessità, ci sarà riuscito? Lo scopriremo nella lettura del testo.  

Cioran è l’uomo perplesso del titolo che con le sue intuizioni ha fatto saltare il banco con una scorrettezza del pensiero che non ha eguali nella storia della letteratura. Parole definitive, deflagranti, che non ammettono compromessi, che Vacca utilizza per accompagnarci, novello Virgilio laico, alla scoperta di questo autore romeno ancora così necessario in un mondo contemporaneo che si nutre di false certezze e rassicuranti autoinganni.

Un altro tema toccato da Vacca, fin dall’inizio, è la libertà, per affrontare Cioran bisogna essere uomini liberi e non avere paura del proprio pensiero.

Libertà e verità si intrecciano contrapposte alla paura che limita il pensiero e l’azione degli uomini e li tiene in ostaggio, depotenziando tutto quello che di positivo ancora esiste e per cui vale la pena lottare anche a rischio di perdite personali. Questo ci insegna Cioran e questa lezione è chiara per Vacca che ce la consegna come un tesoro prezioso da difendere e custodire.

Da quarant’anni Vacca si confronta con Cioran, da quarant’anni ne studia il pensiero tramite la lettura dei suoi testi, delle sue lettere, dei suoi appunti sparsi, delle sue interviste, con l’obbiettivo di imparare, di crescere di affermarsi come essere umano consapevole e avveduto.

E lo studio dei suoi testi è centrale nella sua analisi, cerca le fonti dirette, si abbevera del testo originario scevro da filtri interpretativi esterni, a volte distorti. E questa caratteristica certo lo distingue.

È una lettura sofferta, si parla di sangue, di insonnia dello spirito e della carne, di abissi da colmare e padroneggiare con gli strumenti limitati dell’umano, ma consapevoli, e a prezzo del proprio tormento.

Come in un colloquio diretto, (almeno nella prima parte in cui si rivolge a un caro Emil) epistolare e intimo, Vacca si rivolge confidenzialmente a Cioran lamentando quanto sia assente il pensiero critico nelle devastanti barbarie del pensiero unico, o dando ragione a Citati quando scrive che i suoi pensieri sdegnano di essere pensieri, sono frammenti, schegge, una musica dello spirito.

Più che una frattura, un cambio di passo da Lettere a Cioran, è una continuazione, una prosecuzione con altri strumenti e una maggiore confidenzialità di chi ha fatto propri e introiettato il pensiero quasi in una dimensione amicale, se non fraterna. Poi riprende una parte più analitica abbandonando il tu, per una analisi più oggettiva, anche se sempre partecipata, e calda.

L’ammirazione è evidente, senza cadere nella palude retorica dell’agiografia, ma più che altro come una comunione di spiriti affini, un delirio di naufraghi nemici di ogni ortodossia.

Oltre a questo, si percepisce un’estraneità con il mondo coevo a Cioran, da cui trasuda tutta l’incomprensione con cui è stato sempre, e continua ad essere, accolto. Vacca la percepisce e ci soffre come si soffre per un amico il cui dolore è il proprio. Non che Vacca non citi e non conosca tutta la letteratura derivativa su Cioran, come il bel saggio di Seravalle Cioran verso la parola inzuppata di verità, ma ne inframezza le citazioni con pudore e consequenzialità, senza eccedere.

Resta perciò un’opera originale e necessaria, piuttosto inconsueta nel panorama letterario filosofico italiano, un testo breve, solo un’ottantina di pagine, come appendice di Lettere a Cioran, o meglio proseguimento di un discorso iniziato con il precedente libro che qui trova completezza.  

Abbondante ed esaustiva la bibliografia finale, anche per uno studio comparato a livello accademico, o di semplice approfondimento. Prefazione di Vincenzo Fiore, postafazione di Alessandro Seravalle. Da segnalare il ritratto di Emil Cioran di Alfredo Vacca, come contributo iconografico.

Nicola Vacca è nato a Gioia del Colle nel 1963, laureato in giurisprudenza. È scrittore, opinionista, critico letterario, collabora alle pagine culturali di quotidiani e riviste. Svolge, inoltre, un’intensa attività di operatore culturale, organizzando presentazioni ed eventi legati al mondo della poesia contemporanea. Dirige la rivista blog Zona di disagio. Ha pubblicato: Nel bene e nel male (Schena, 1994), Frutto della passione (Manni 2000), La grazia di un pensiero (prefazione di Paolo Ruffilli, Pellicani, 2002), Serena musica segreta (Manni, 2003), Civiltà delle anime (Book editore, 2004), Incursioni nell’apparenza (prefazione di Sergio Zavoli Manni 2006), Ti ho dato tutte le stagioni (prefazione di Antonio Debenedetti, Manni 2007) Frecce e pugnali (prefazione di Giordano Bruno Guerri, Edizioni Il Foglio 2008) Esperienza degli affanni (Edizioni il Foglio 2009), con Carlo Gambescia il pamphlet A destra per caso (Edizioni Il Foglio 2010), Serena felicità nell’istante (prefazione di Paolo Ruffilli, Edizioni Il Foglio 2010), Almeno un grammo di salvezza (Edizioni Il Foglio, 2011), Mattanza dell’incanto (prefazione di Gian Ruggero Manzoni Marco Saya edizioni 2013), Sguardi dal Novecento (Galaad edizioni 2014) Luce nera (Marco Saya edizioni 2015, Premio Camaiore 2016), Vite colme di versi (Galaad edizioni 2016), Commedia Ubriaca (Marco Saya 2017), Lettere a Cioran (Galaad edizioni 2017), Tutti i nomi di un padre (L’ArgoLibro editore 2019), Non dare la corda ai giocattoli (Marco Saya edizioni 2019), Arrivano parole dal jazz (Oltre edizioni 2020), Muse nascoste (Galaad edizioni 2021), Un caffè in due (A&B editrice 2022), Libro delle bestemmie (Marco Saya edizioni 2023), Mi manca il Novecento (Galaad edizioni 2024).

Source: libro inviato dalla casa editrice.

Consiglio di acquisto: https://amzn.to/3J3pjRi se comprerai il libro a questo link guadagnerò una piccola commissione. Grazie!

:: Abbiamo tutti bisogno di un amico fragile di Nicola Vacca (Edizioni Qed, 2024) a cura di Giulietta Iannone

25 novembre 2024

Ci vuole una grande ostinazione
per essere liberi
nella prigione del mondo.
Perché libertà è amore
nonostante le catene dell’ordine costituito.

Chi ha amato la poesia dolente e sofferta di Fabrizio De Andrè troverà ristoro nella lettura della silloge Abbiamo tutti bisogno di un amico fragile di Nicola Vacca, Edizioni Qed, omaggio al poeta genovese a venticinque anni dalla scomparsa. Nicola Vacca è un poeta fuori dal coro, usa un linguaggio graffiante e incisivo per protestare contro un mondo, una società, in lento avanzato decadimento. Non ha paura di sporcarsi le mani, di usare parole forti, anarchiche, piene di rabbia e di giusto sgomento. Ci vuole coraggio a immergersi nel magma del suo “fare poesia” senza filtri, compiacimento, rassicuranti illusioni. Vacca scoperchia il calderone dell’ipocrisia con tagli netti, chirurgici, che a volte fanno male, e lo fa per guarire, per scuotere le coscienze, per risvegliare le anime di chi da troppo tempo è assonnato o inerte. Leggere le poesie di Nicola Vacca è sempre un’esperienza catartica, rivoluzionaria, che può turbare anche nel profondo. Scrivo queste righe a fatica con la morte nel cuore, è appena morto un amico, e sto cercando di reagire, di andare avanti, di superare l’angoscia che provo, Nicola Vacca mi perdonerà se questo commento sarà breve, ha sempre tanto rispetto e stima da mandarmi ogni suo nuovo libro per sapere il mio parere e non voglio deluderlo neanche questa volta. Oltre alle poesie da leggere in conclusione la postfazione vibrante dedicata a Fabrizio De André Il nostro Faber – La vibrante protesta di Faber il poeta. Da segnalare i disegni di Mauro Trotta.

Nicola Vacca è nato a Gioia del Colle, nel 1963, laureato in giurisprudenza. È  scrittore, opinionista, critico letterario,  collabora alle pagine culturali  di quotidiani e riviste. Svolge, inoltre, un’intensa attività di operatore culturale, organizzando presentazioni ed eventi legati al mondo della poesia contemporanea. Dirige la riviata blog Zona di disagio. Ha  pubblicato: Nel bene e nel male (Schena,1994), Frutto della passione (Manni 2000), La grazia di un pensiero (prefazione di Paolo Ruffilli, Pellicani, 2002), Serena musica segreta (Manni, 2003), Civiltà delle anime (Book editore, 2004),  Incursioni nell’apparenza (prefazione di Sergio Zavoli Manni 2006), Ti ho dato tutte le stagioni (prefazione di Antonio Debenedetti, Manni 2007Frecce e pugnali (prefazione di Giordano Bruno Guerri, Edizioni Il Foglio 2008) Esperienza  degli affanni (Edizioni il Foglio 2009), con Carlo Gambescia il pamphlet A destra per caso (Edizioni Il Foglio 2010), Serena felicità nell’istante (prefazione di Paolo Ruffilli, Edizioni Il Foglio 2010),  Almeno un grammo di salvezza (Edizioni Il Foglio, 2011), Mattanza dell’incanto  ( prefazione di Gian Ruggero Manzoni Marco Saya edizioni 2013), Sguardi dal Novecento (Galaad edizioni 2014) Luce nera (Marco Saya edizioni 2015, Premio Camaiore 2016), Vite colme di versi (Galaad edizioni 2016), Commedia Ubriaca (Marco Saya 2017), Lettere a Cioran (Galaad edizioni 2017), Tutti i nomi di un padre (L’ArgoLibro editore 2019), Non dare la corda ai giocattoli (Marco Saya edizioni 2019), Arrivano parole dal jazz (Oltre edizioni 2020).

Source: libro inviato dall’editore.

:: Woody Allen con Eric Lax – Conversazioni su di me e tutto il resto (La Nave di Teseo, 2024) a cura di Nicola Vacca

4 settembre 2024

Eric Lax, scrittore e autore di biografie dei divi del cinema, ha stretto un legame particolare con Woody Allen.

Per quarant’anni i due si sono incontrati spesso. Da quegli incontri sono venute fuori conversazioni interessanti.

Da La nave di Teseo esce Conversazioni su di me e tutto il resto (traduzione di Carlo Prosperi), un libro di seicento pagine in cui Woody Allen si racconta senza veli su tutto.

I suoi film, il suo modo di fare cinema, la scrittura, il set e la scelta delle location, i suoi rapporti con le donne e il genere umano.

Lax nel suo libro ci mette tutto Allen, proprio così come lo ha conosciuto.

«Woody Allen – scrive Lax nell’introduzione – è l’antitesi del suo personaggio cinematografico, tipicamente frenetico e in crisi».

Interessante, in proposito, il giudizio che lui stesso dà di sé: «Sono una persona seria, un lavoratore disciplinato, mi interessa la scrittura, la letteratura, mi interessano il teatro e il cinema. Non sono un inetto come mi dipingo per raggiungere un effetto comico. So che la mia vita non è una serie di problemi catastrofici talmente assurdi da risultare buffi. La mia è un’esistenza banale».

In queste pagine è ben delineato il ritratto di uno degli artisti più geniali del nostro tempo.

Allen e il suo rapporto con l’umorismo che lui considera un fatto estremamente complicato, perché non è affatto facile proporre verità universali.

Il suo grande amore per la commedia che, come una partita a scacchi o di baseball, si compone di mille dati psicologici, noti e ignoti.

Allen conversando con Lax ci porta sul set dei suoi numerosi film e dettagliatamente ci spiega la genesi, le intuizioni e le idee. Mentre parla dei suoi film a noi lettori ci sembra di stare proprio sul set insieme a lui e ci godiamo la lavorazione.

Dalla scrittura della sceneggiatura, al casting, alle riprese, alla colonna sonora, Woody Allen nelle chiacchierate con Eric Lax conversa davvero su di sé e al lettore non nasconde proprio nulla.

«Quando entrai nel mondo del cinema adoravo Bergman, e tuttora lo ritengo il miglior regista che abbia mai visto. Io invece cos’ero? Un comico da night – club, uno scrittore di gag per Broadway. Non ero un intellettuale, non ero una figura austera e meditabonda».

Eccolo il genio Woody che non avendo paura degli effetti collaterali si cita addosso con intelligente ironia scanzonata, la stessa che troviamo nelle sue commedie esilaranti che il suo pubblico ama tantissimo soprattutto perché Woody non si prende mai troppo sul serio e quello che vuole con ogni suo film è mollare tutti gli ormeggi e far ridere.

Strappare al suo pubblico una risata. E per questo motivo scalerebbe montagne e sprofonderebbe negli abissi.

Leggiamo questo libro e godiamoci pagina dopo pagina l’unicità del grande genio Woody Allen.

Eric Lax è autore delle biografie di successo di Woody Allen, Humphrey Bogart (scritta insieme a A.M. Sperber), Paul Newman. I suoi articoli sono apparsi su importanti testate quali “The New York Times”, “Vanity Fair” e “The Los Angeles Times”.

Woody Allen è uno scrittore, regista e attore. È stato stand-up comedian e autore di diversi libri. Vive nell’Upper East Side di Manhattan con Soon-Yi, sua moglie da ventiquattro anni, e le loro due figlie, Manzie e Bechet. È un grande appassionato di jazz e un tifoso di sport. Come ha detto, si rammarica di non aver mai fatto un grande film, ma ci sta ancora provando. Per La nave di Teseo ha pubblicato A proposito di niente (2020) e nel 2023 le nuove edizioni di Rivincite, Senza piume, Effetti collaterali e Pura anarchia.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo l’Ufficio Stampa.

:: Mi manca il Novecento: libri, scrittori e altre divagazioni di Nicola Vacca (Galaad Edizioni 2024) a cura di Giulietta Iannone

26 aprile 2024

Da gennaio 2018 prese il via sul blog letterario “Liberi di scrivere” una nuova rubrica dal titolo provocatoriamente evocativo: Mi manca il Novecento. Curata dal poeta e critico Nicola Vacca, ripercorre il secolo letterario appena trascorso e ci presenta voci e luci del Novecento, libri e autori troppo spesso ingiustamente dimenticati o proprio banditi da editori, critici, studiosi e lettori superficiali. L’idea era infatti di alternare libri di quel grande e irripetibile periodo a profili di scrittori tra i più significativi con un taglio moderno, essenziale che andava al cuore della loro poetica. Un modo per ricordare la grande letteratura e diffonderla tra i giovani e gli adulti che hanno ancora voglia di conoscere e apprezzare la bellezza, come inviti alla lettura ma non solo per mero spirito di divulgazione. Ora Mi manca il Novecento è finalmente un libro vero e proprio grazie all’editore Galaad Edizioni. La domanda che sottende è naturalmente: il Novecento ha ancora da dirci qualcosa? La risposta è un sonoro sì, anzi ritornare alle radici del Novecento è quanto mai vitale in un mondo letterario contemporaneo troppe volte autoreferenziale che ha ben poco da dire di veramente nuovo. Rileggere Tabucchi, Ennio Flaiaino, Albert Camus, Emil Cioran, Pasolini, Moravia, Buzzati, Celine e molti altri è un viaggio nel nostro recente passato sì, ma soprattutto è un viaggio dentro la grande letteratura del secolo breve, dal titolo di un celebre saggio dello storico Eric Hobsbawm pubblicato nel 1994, che divenne un modo per indicare il XX secolo. Un secolo che racchiuse ben due guerre mondiali e la caduta del Muro di Berlino, e nello stesso tempo diede i natali a grandi uomini che fecero della letteratura il loro grimaldello contro la barbarie e la dissoluzione delle coscienze. Che molti abbiano troppa fretta di chiudere i legami con il Novecento è evidente da molti atteggiamenti e da vera e propria ignoranza. Riscoprire il Novecento ha il pregio di dissipare le nebbie di questo grumo nero che oscura le nostre coscienze e ci riporta a scoprire che noi siamo figli e nipoti di quegli uomini, che non è possibile interrompere il ciclo di continuità. Nicola Vacca con il suo solito arguto acume e la sua penna pungente ci accompagna in questo viaggio che acquista coerenza e omogeneità, e tocca corde del profondo di ognuno di noi, corde nascoste che è bene tornino in superficie. Da leggere.

Nicola Vacca è nato a Gioia del Colle, nel 1963, laureato in giurisprudenza. È  scrittore, opinionista, critico letterario,  collabora alle pagine culturali  di quotidiani e riviste. Svolge, inoltre, un’intensa attività di operatore culturale, organizzando presentazioni ed eventi legati al mondo della poesia contemporanea. Dirige la riviata blog Zona di disagio. Ha  pubblicato: Nel bene e nel male (Schena,1994), Frutto della passione (Manni 2000), La grazia di un pensiero (prefazione di Paolo Ruffilli, Pellicani, 2002), Serena musica segreta (Manni, 2003), Civiltà delle anime (Book editore, 2004),  Incursioni nell’apparenza (prefazione di Sergio Zavoli Manni 2006), Ti ho dato tutte le stagioni (prefazione di Antonio Debenedetti, Manni 2007Frecce e pugnali (prefazione di Giordano Bruno Guerri, Edizioni Il Foglio 2008) Esperienza  degli affanni (Edizioni il Foglio 2009), con Carlo Gambescia il pamphlet A destra per caso (Edizioni Il Foglio 2010), Serena felicità nell’istante (prefazione di Paolo Ruffilli, Edizioni Il Foglio 2010),  Almeno un grammo di salvezza (Edizioni Il Foglio, 2011), Mattanza dell’incanto  ( prefazione di Gian Ruggero Manzoni Marco Saya edizioni 2013), Sguardi dal Novecento (Galaad edizioni 2014) Luce nera (Marco Saya edizioni 2015, Premio Camaiore 2016), Vite colme di versi (Galaad edizioni 2016), Commedia Ubriaca (Marco Saya 2017), Lettere a Cioran (Galaad edizioni 2017), Tutti i nomi di un padre (L’ArgoLibro editore 2019), Non dare la corda ai giocattoli (Marco Saya edizioni 2019), Arrivano parole dal jazz (Oltre edizioni 2020).

Source: libro inviato dall’editore.

:: Il re delle fate d’autunno di Claudio Chiaverotti e Pierluigi Porazzi – Mursia a cura di Nicola Vacca

25 marzo 2024

Dolcezza è un piccolo paese sperduto del Friuli, un puntino quasi dimenticato su qualunque mappa stradale.

Un luogo apparentemente tranquillo dove ha sede la Ekta, una fabbrica che sputa veleni.

Una calma che viene infranta dall’omicidio di Silvia, una diciasettenne dai capelli biondi il cui cadavere viene rinvenuto nei pressi della piazza di Dolcezza.

È il primo omicidio di una serial killer che si fa chiamare il re delle fate d’autunno.

L’indagine è affidata all’ispettore Giulia Foscari, che insieme al suo collega Chiarloni si troverà davanti a un vero e proprio rompicapo.

Chi si nasconde dietro la maschera del re delle fate d’autunno? Perché toglie la vita a giovane ragazze senza usare su di loro violenza? Cosa significa il bigliettino con alcuni versi di una poesia fantasy che fa trovare agli inquirenti in bocca alle sue giovani vittime?

Claudio Chiaverotti e Pierluigi Porazzi con Il re delle fate d’autunno. In fondo alle filastrocche è sempre buio hanno scritto un thriller costruito bene. La storia è un intrigo complicato e mai prevedibile e il personaggio di Giulia Foscari è credibile dall’inizio alla fine della vicenda.

La narrazione è tesa e carica di suspense i due autori si insinuano nelle ombre del nero che si macchia di sangue.

Davanti agli omicidi brutali che scuotono la piccola comunità della cittadina friulana, Giulia Foscari si muova con molta circospezione e si perde in un labirinto suggestivo di situazione fitte di mistero.

Nulla è come sembra. Il personaggio inquietante del re delle fate d’autunno agisce nell’ombra perso nella fitta selva dei boschi, getta nel panico Dolcezza con i suoi delitti efferati.

Giulia Foscari ha fiuto, segue diverse piste e gli enigmi sono tanti: questa figura misteriosa lascia dietro di sé oltre a una scia di sangue un mistero fitto con una serie di problematiche da risolvere.

Chiaverotti e Porazzi sanno coinvolgere il lettore nella storia che già dalle prime pagine si sente recluso dall’atmosfera opprimente che si respira fino alle ultime pagine.

Un’oppressione che è sinonimo di incubo e terrore.

Siamo davanti a una trama in cui si susseguono colpi di scena senza tregua, la narrazione intreccia il giallo e il noir: il risultato è un universo romanzesco che funziona alla perfezione e in cui il lettore si trova intrappolato e coinvolto.

«La vita è un film. Un thriller senza logica, con il finale che crolla in pezzi e si ricompone sulle sue domande. Quando sembra che il colpevole sia stato catturato non è mai così. Quando credi che tutto sia finito, nel bene e nel male, ti trovi tra le caviglie un gap spazio – temporale che prende a calci in culo le poche certezze che credevi di aver raggiunto».

Il re delle fate d’autunno è nascosto nel lato oscuro della coscienza di ogni singolo personaggio di questo romanzo avvincente in cui il macabro e il male scandiscono le ore malvagie di un perenne tempo di uccidere.

Claudio Chiaverotti ha scritto le strisce delle Sturmtruppen, e dal 1989 lavora come sceneggiatore presso la Sergio Bonelli Editore. Ha scritto più di cinquanta storie di Dylan Dog, ha creato il personaggio fantasy Brendon e la serie Morgan Lost, in corso di pubblicazione. Ha diretto il cortometraggio I vampiri sognano le fate d’inverno?, miglior cortometraggio al XXXVII Fantafestival di Roma.

Pierluigi Porazzi ha pubblicato per Marsilio L’ombra del falco, Nemmeno il tempo di sognare e Azrael, premiato come miglior romanzo dell’anno nell’ambito dei Corpi Freddi Awards. Per Pendragon è uscito Una vita per una vita, scritto con il giornalista Massimo Campazzo, e per La Corte Editore La ragazza che chiedeva vendetta, Il lato nascosto, Mente oscura e Ritratti di morte. Ha pubblicato anche molti racconti in varie raccolte e antologie.

:: Libro delle bestemmie di Nicola Vacca (Marco Saya Edizioni 2023) a cura di Giulietta Iannone

19 novembre 2023

O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
ciò che fu manifesto a li occhi miei!

Già Dante nel canto quattordicesimo dell’Inferno, nel terzo girone del VII Cerchio, pone, tra i violenti contro Dio, i bestemmiatori, la cui terribile punizione divina consiste nel giacere nudi su un sabbione infuocato su cui una pioggia eterna di fiocchi arroventatati cade senza posa per accrescere il dolore. Dante vi incontra il superbo Capaneo uno dei leggendari sette re che assediarono Tebe che osò con empie bestemmie offendere Giove. Ma tutti i dannati sono caratterizzati dalla bestemmia, violenta invettiva contro un Dio al quale molto probabilmente tutto al più non si crede o non lo si identifica con le religioni costituite. L’impotente grido verso una divinità crudele di cui non si capiscono né le leggi né il senso. E ogni bestemmia sembra essere un colpo di martello sui chiodi della croce e un dispiacere fatto a colui, il Dio eventuale a cui allude Cesare Pavese citato nell’epigrafe de Libro delle bestemmie la silloge poetica di Nicola Vacca edita da Marco Saya Edizioni. Un Dio che sembra nato dalla paura della morte di un uomo pavido e incoerente che non sapendo cosa ci sarà dopo l’altrove si costruisce un simulacro. Questo è il Dio a cui il poeta si oppone, un feticcio, un idolo, un’illusione a separare l’uomo dal nulla. Il poeta accusa Dio di tacere, l’offende per il suo silenzio, la sua aridità, la crudeltà che si annida nei cuori. Più che a Dio l’offesa del poeta è fatta alla moltitudine grigia dei devoti, accusati di avere paura della libertà, la cui vigliaccheria sembra guidarli verso idoli muti e freddi. Il poeta a differenza non pone in dubbio Dio, né il suo Cristo, a cui dedica versi di sofferta pietà come Eresia del Cristo velato. Si pone domande di bestemmia in bestemmia, ma ogni suo verso più che una bestemmia ci accosta al sacro con sofferta ribellione, la stessa ribellione che constatiamo in Padre David Maria Turoldo quando si accosta ai versi biblici di Giobbe, ribelle per eccellenza. Niente di nuovo sotto il sole dunque, la ribellione a Dio è già stata prevista e accetta perchè davvero la vita coi suoi orrori sembra porre Lui come capro espiatorio e infatti il Cristo sulla croce si è fatto peccato morto di una morte infame per attirare tutti i sui figli a sé. Chiudo questo mio commento con i versi stessi di Turoldo scritti poco prima di morire, lasciati sul comodino dell’ospedale.

“Benedico il Signore

che la mente m’ispira:

per questo immane

soffrire dei giusti,

per questo gioire

tante volte insperato,

per questo sperare di glorie

ogni giorno:

impossibile che sia il Nulla

l’estremo traguardo:

impossibile sarà pensarti

come realmente tu sei,

o mio Signore:

sconosciuto Iddio sei tu

la nostra unica sorte”.

:: Per i cento anni della nascita di Calvino a cura di Nicola Vacca

28 settembre 2023

Italo Calvino (1923 – 1985) è uno di quei grandi scrittori per cui vale la pena sentirsi italiani. Calvino occupa un posto di primo piano nella storia del romanzo e soprattutto nel panorama culturale del Novecento.

A cento anni dalla sua nascita siamo ancora qui a fare i conti con gli infiniti mondi letterari che Calvino ha inventato. Mondi ancora tutti da esplorare e in cui perdersi come in un labirinto di idee in cui si trova sempre una certa idea di letteratura: «La biblioteca ideale a cui tendo è quella che gravita verso il fuori, verso libri «apocrifi», nel senso etimologico della parola, cioè libri «nascosti».

La letteratura è ricerca del libro nascosto lontano, che cambia il valore dei libri noti, è la tensione verso il nuovo testo apocrifo da ritrovare o da inventare». (Italo Calvino, Una pietra sopra, nuova edizione Mondadori, 2023).

Con la sua attività di critico lucido e di consulente editoriale, grazie al suo fiuto, alle sue scelte e ai suoi orientamenti attraverso la collaborazione con la Einaudi ha influenzato positivamente la cultura italiana.

Già dal suo primo romanzo (Il sentiero dei nidi di ragno uscito nel 1947) il progetto letterario di Calvino si presenta come uno dei più importanti della letteratura italiana e europea del secondo Novecento.

La dimensione favolosa e fantastica è la vocazione più autentica dello scrittore. In quel romanzo la resistenza vista attraverso gli occhi di un bambino diventa il modo di prendere le distanze dalla celebrazione agiografica della lotta partigiana. Ma soprattutto Calvino dimostra di avere uno straripante gusto inventivo, una fertilità fantastica e un occhio nuovo il cui sguardo si intreccia con un originale modo di narrare.

Tutto questo si realizzerà nella trilogia I nostri antenati in cui Calvino raccoglie tre storie che ha scritto nel decennio 1950 -60 e che hanno in comune il fatto di essere inverosimili, di svolgersi in epoche lontane e in paesi immaginari.

Calvino intreccia storia e favola invitando i lettori a guardare queste narrazioni come un albero genealogico degli antenati dell’uomo contemporaneo, in cui ogni volto cela qualche tratto delle persone che ci sono intorno

Lo scrittore mantiene sempre l’interesse per la realtà, ma la trascrive, la interpreta attraverso la favola e l’ironia.

Questa di Calvino è un’allegoria dell’uomo contemporaneo. Le storie immaginarie di Italo Calvino si aprono a una vasta gamma di significati legati alla condizione umana e storica.

La trilogia, infatti, immagina l’uomo contemporaneo diviso e irrecuperabile in un mondo si due verità (Il visconte dimezzato), costretto a simulare l’evasione nella natura(Il barone rampante), ridotto a pure finzione esistenziale (Il cavaliere inesistente).

Attraverso un Calvino fantastico emerge un Calvino realista che racconta le vicende della vita di oggi senza mai cedere al disimpegno e alle forme di realismo magico. Il suo estro fantastico avrà sempre radici nel quotidiano. Ne è la dimostrazione un libro come Marcovaldo.

Con le Cosmicomiche, uscito nel 1965, inizia una nuova fase narrativa di Calvino.

Qui la vocazione alla favola si complica. Nasce un’invenzione narrativa legata a prospettive cosmiche, scientifiche e esistenziali che si nutre di acquisizioni derivate dallo strutturalismo, dalla semiologia e si ispirano alle finizioni immaginarie di Borges, scrittore amato da Calvino.

A questa seconda fase, che costituisce un unicum nella narrativa italiana contemporanea, fanno parte romanzi importanti come Le città invisibili, Il castello dei destini incrociati, Se una notte d’inverno un viaggiatore.

Le città invisibili è uno dei libri più belli di Italo Cavino. In questo romanzo la sperimentazione della nuova fase narrativa tocca punti interessanti e estremi.

A proposito di questo libro lo stesso Calvino scriverà: «Negli ultimi tempi ogni cosa che scrivo non mi soddisfa se non mi pone delle enormi difficoltà compositive, dei problemi combinatori al limite del risolvibile».

Le città invisibili è il libro che meglio rappresenta il secondo Calvino, scrittore profondo che scruta natura, memoria e luoghi con l’evidenza di scelte intellettualistiche autentiche che mirano sempre a analizzare in maniera disincantata la condizione dell’uomo con gli strumenti della ragione della sua morale laica.

Immerse nell’invisibile, le città calviniane rappresentano una mappa compilata per intraprendere un viaggio all’interno dei reali rapporti che esistono tra i luoghi e chi li abita. Ma soprattutto è un percorso per interpretare le angosce e i desideri dell’ esistenza nelle realtà urbane.

Come scrive Calvino, ogni uomo porta nella mente una città fatta soltanto di differenze, una città senza figure e senza forma, e le città particolari la riempiono.

Il Marco Polo visionario è il viaggiatore che gira e non ha che dubbi, non riuscendo a distinguere i punti della città, anche i punti che egli tiene distinti nella mente gli si mescolano.

Nelle città invisibili tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura.

Qui non si va in cerca di città riconoscibili. Quello che conta è offrire al lettore problematiche filosofiche, esistenziali e morali sulla vocazione delle città.

Senza alcuna pretesa di trovare un ordine, la realtà perde la sua concretezza e diventa mentale, si realizza nella fantasia dove ognuno trova la maschera che gli si adatta di più.

«Che cos’è oggi la città per noi? Penso di aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa difficile viverle come città».

Ci affidiamo alle sue stesse parole per comprendere l’essenza di questo romanzo straordinario e unico in cui la fervida immaginazione di Calvino istiga la realtà a venire fuori in tutte le sue disumane contraddizioni di cui le città sono le ragnatele che tessono rapporti intricati in cerca di una forma.

A lezione con eredità di Italo Calvino

Lezioni americane è il lascito di Italo Calvino al secolo nuovo che stiamo attraversando.

Le sei proposte per il prossimo millennio, come recita il sottotitolo, corrispondono a una serie di lezioni che lo scrittore aveva preparato in vista di un suo viaggio in America dove era astato invitato dall’Università di Harward per un ciclo di conferenze da tenersi nell’autunno del 1985.

Purtroppo Calvino morì nel settembre dello stesso anno e gli studenti americani furono privati della bellezza di queste conversazioni.

Al momento di partire per gli Stati Uniti Calvino, delle sei lezioni ne aveva scritte cinque. Manca la sesta dedicata alla Consistency, che avrebbe scritto sul posto.

Lezioni americane uscì postumo nel 1988 da Garzanti nell’edizione Saggi blu.

«Siamo nel 1985: – scrive Calvino nel breve prologo – quindici anni appena ci separano dal nuovo millennio. Per ora non mi pare che l’approssimarsi di questa data risvegli alcuna emozione particolare. Comunque non sono qui per parlare di futurologia ma di letteratura».

La fiducia che Italo Calvino riponeva nel futuro della letteratura consisteva nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici.

Così decide di consegnare alla posterità che lui non vedrà alcuni valori o qualità o specificità della letteratura che gli stanno particolarmente a cuore, cercando di collocarle nella prospettiva del nuovo millennio.

Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità. Ecco le cinque conferenze che Calvino non ha mai tenuto ma che noi, cittadini spaesati del nuovo millennio, possiamo leggere.

Lo scrittore ci conduce negli scaffali interiori della sua mente letteraria e ci invita a leggere insieme al la grande biblioteca del mondo dei libri da lui amati per tirare le somme sulla imprescindibile funzione della letteratura.

Lezioni americane è un libro in cui Calvino si sofferma sul valore della letteratura e sul suo universo infinito in cui si aprono altre vie da esplorare. La letteratura come funzione esistenziale, la ricerca della leggerezza al peso di vivere.

La letteratura in cui c’è posto per la rapidità dello stile e del pensiero che vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura, tute qualità che si accordano con una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento all’altro, a perdere il filo cento volte e a ritrovarlo dopo cento giravolte.

La scrittura tramite l’esattezza per un giusto uso del linguaggio che per Calvino significa avvicinarsi con discrezione e attenzione e cautela, col rispetto che le cose (pensanti o assenti) comunicano senza parole.

Tra i valori che allo scrittore stanno a cuore e che si è proposto di raccomandare al prossimo millennio c’è anche la Visibilità. Un valore che ha a che fare con l’immaginario e la fantasia, che per Calvino è un posto in cui ci piove dentro. Qui lo scrittore indaga le problematiche letterarie dell’immaginario e si chiede come si forma l’immaginario di un’epoca in cui la letteratura non si richiama più a un’autorità o a una tradizione come sua origine o come suo fine, ma punta sulla novità, l’originalità, l’invenzione.

Con la lezione dedicata alla Molteplicità Italo Calvino si conferma un grande letterato dotato di intuizioni non comuni quando discute del romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come arte di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo.

Le Lezioni americane, ventitré anni dopo l’inizio del nuovo millennio, ci leggono dentro con la loro lucidità di pensiero e soprattutto ci appartengono. Cosi come avrebbe voluto l’immenso Italo Calvino.

:: Mi manca il Novecento – Milan Kundera, il romanzo e la sua anima – a cura di Nicola Vacca

20 luglio 2023

Con la scomparsa di Milan Kundera si chiude un’epoca. Scrittori come lui non ne nasceranno più.

Un romanziere magistrale, un uomo straordinario e libero che ha rappresentato il suo tempo, quel Novecento con tutte le sue contraddizioni totalitarie di cui Kundera è stato pensatore critico e avversario spietato senza mai scendere a compromessi e soprattutto scontando sulla sua pelle senza mai rinunciare a un senso radicale di rivolta.

Kundera che ha dato al romanzo una nuova sapienza dando nuovamente vitalità a questo genere e alla sua spiccata forma di conoscenza.

Lo scrittore boemo decise di scomparire dalle scene letterarie nel 2013 dopo aver pubblicato La festa dell’insignificanza, che può considerarsi il suo testamento.

Sarà davvero difficile colmare la perdita della sua assenza. Come dicevamo, scrittori come lui non ne nascono più.

A Kundera dobbiamo molto: una nuova lettura dello spirito del romanzo.

Nel 1986 lo scrittore boemo dette alle stampe L’arte del romanzo, un libro che raccoglie sette saggi interessanti sulle sorti del romanzo europeo.

Un saggio che negli anni è diventato un libro di culto, parole imprescindibili per chi quotidianamente si occupa di scrittura.

«Mi diverte pensare che l’arte del romanzo sia venuta al mondo come l’eco della risata di Dio», scrive Kundera divertito nella sua analisi che ci porta a spasso nei capolavori e negli scrittori che hanno reso grande questo genere nella nostra decadente Europa.

Il romanzo è incompatibile con l’universo totalitario, lo spirito del romanzo è lo spirito di continuità: ogni opera è la risposta alle opere che l’hanno preceduta, ogni opera contiene tutta l’esperienza anteriore del romanzo.

L’arte del romanzo si contamina con la pratica del saggio filosofico e ne L’insostenibile leggerezza dell’essere, come in tutti gli altri suoi libri, Kundera riesce a fare speculazione sui moti più remoti dell’esistere, entra in profondità nell’agire umano, politico e sociale del proprio tempo, facendosi interprete inquieto di una contemporaneità dilaniata dalla ricerca del proprio destino.

«Un romanzo non è una confessione dell’autore, ma un’esplorazione di ciò che è la vita umana nella trappola che il mondo è diventato». Così scrive Kundera nel suo capolavoro L’insostenibile leggerezza dell’essere.

«Ogni romanzo, che lo si voglia o no, propone una risposta alla domanda: che cos’è l’esistenza umana, e dove sta la sua poesia?».

Milan Kundera a futura memoria resterà sempre cittadino geniale della patria del romanzo. Un grande spirito universale che possiede un mondo estetico unico. Un grande scrittore che è stato capace di scrutare le possibilità inesplorate che l’arte del romanzo offre. Anche per i tempi a venire.

L’intera opera romanzesca dell’autore boemo è inseparabile dalla sua riflessione sui Tempi Moderni e sul destino dell’Europa. Per rendersi conto di ciò basta leggere le pagine di L’arte del romanzo e Testamenti traditi, i due saggi in cui Kundera si interroga e discute sulle sorti del romanzo, partendo dalla considerazione alta che ha dei suoi maestri.

«Con costanza e fedeltà, il romanzo accompagna l’uomo dall’inizio dei Tempi Moderni. Esso, fin da allora, è pervaso dalla passione del conoscere, che l’ha spinto a scrutare la vita concreta dell’uomo e a proteggerla contro l’oblio dell’essere; che l’ha spinto a tenere il mondo della vita sotto una luce perpetua».

Kundera è stato tra i più geniali innovatori del romanzo del secondo Novecento.

Con lui davvero si chiude un’epoca.

:: Cuori di nebbia di Licia Giaquinto (TerraRossa Edizioni 2022) a cura di Nicola Vacca

13 marzo 2023

Giovanni Turi fondando Terrarossa Edizioni ha portato una bella ventata di aria pulita e nuova nel mondo della narrativa italiana contemporanea. Tra le brillanti intuizioni dell’editore c’è Fondanti, una collana che ripropone opera che hanno segnato un’epoca o hanno rappresentato un tassello fondamentale nel percorso narrativo di autori di talento.

Ultimo arrivato è Cuori di nebbia, il romanzo di Licia Giaquinto. Il libro fu pubblicato da Flaccovio nel 2007 e fu fortemente voluto da Luigi Bernardi, indimenticato direttore editoriale, ma soprattutto scrittore e intellettuale libero e lontano sempre dal mercimonio del mercato editoriale. E soprattutto, in virtù del suo essere sempre corsaro e irriverente, Luigi quando decideva di pubblicare un libro non sbagliava mai un colpo.

Cuori di nebbia è un romanzo nero che al suo interno contiene altrettante storie nere e personaggi oscuri che si muovono nella notte disillusa della pianura emiliana negli anni novanta.

Lungo la via Emilia sembra muoversi l’intera nazione. Infatti nella quarta di copertina il lettore ideale di questo libro è colui che cerca uno spaccato disilluso e vero dell’Italia degli ultimi decenni, chi leggendo vuole costeggiare le tenebre e non ama il lieto fine.

Cuori di nebbia è un noir nelle cui pagine troviamo lo stesso spaesamento che ammiriamo in una fotografia di Luigi Ghirri.

E la nebbia in cui sono immersi tutti i personaggi con le loro storie è una metafora del degrado morale e dello squallore esistenziale che Licia Giaquinto ci mostra con una lingua affilata che sanguina.

Mirella, Filippo, Nicola, Natascia, Mirco, Francesco, Patrizia. Questi sono i personaggi che con i loro demoni attraverso la grande notte e le loro esistenze sono avvolte da una nebbia che è portatrice di dilemmi e drammi.

Tutti danno vita a un puzzle a un romanzo corale in cui fragilità, disincanto e rabbia sono i simboli di vite disilluse che nella località di Bruciata precipitano nei loro personali abissi dove l’inconscio incontra le tenebre e la menzogna è una verità capovolta.

La scena in cui si svolge il romanzo assomiglia molto a una terra desolata. L’autrice prima di immergersi nella vita dannata dei sette personaggi la consegna al lettore con parole spiazzanti.

«Una distesa di campi piatti e sterili, glassati dalla galaverna, e tagliati dalla ferita grande della strada, con la slabbratura degli argini, e dei tanti graffi dei viottoli». Un paesaggio anemico e malinconico in cui il giorno avanza a fatica fa da sfondo a Cuori di nebbia, un romanzo in cui sette persone con le loro storie fanno i conti con i loro lati oscuri fino all’annientamento.

Licia Giaquinto ci conduce in un viaggio al termine della notte: i sette personaggi brancolano nella nebbia, sanno che si sono persi per sempre.

Le loro vite disilluse ci faranno sentire un freddo addosso e anche noi insieme ci perderemo nella nebbia, spaesati con i nostri lati oscuri ci sentiremo coinvolti da una anatomia dell’irrequietezza, che ci porteremo addosso, accorgendoci a lettura ultimata che questo libro ci ha cambiato per sempre.

Licia Giaquinto è nata in Irpinia, dove ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza, ora vive a Bologna. Ha esordito nella narrativa con Fa così anche il lupo (Feltrinelli 1993), a cui sono seguiti È successo così (Theoria 2000), Cuori di nebbia (Dario Flaccovio 2007, ora riproposto da TerraRossa Edizioni), La ianara (Adelphi 2010), La briganta e lo sparviero (Marsilio 2014). Ha scritto anche testi teatrali, l’ultimo è Carmine Crocco e le sue cento spose. È ideatrice e anima dell’associazione Aterrana – Ater Ianua che vuole contrastare il degrado e lo stato di abbandono del borgo storico di Aterrana (Av).

Source: libro inviato dall’Ufficio stampa al recensore.

:: Mi manca il Novecento – La poesia metafisica di Arturo Onofri – a cura di Nicola Vacca

20 gennaio 2023
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Arturo Onofri, compiuti gli studi classici nella città natale, cominciò ancora giovane a lavorare e a scrivere versi.

La sua ispirazione si configura fin dall’inizio come una ricerca di temi e strumenti formai eterogenei: ammiratore e studioso di Corazzini, fu influenzato da esperienze poetiche diverse e distanti tra loro.

Nel 1912 fondò Lirica e entrò in contatto con i Vociani con cui collaborò senza mai abbracciarne le idee.

Studiò con passione e devozione i simbolisti e i parnassiani, fu affascinato da Mallarmé.

Nel 1925 pubblicò il suo manifesto, il Nuovo Rinascimento come Arte dell’Io. Da questo momento in poi la sua produzione letteraria apparirà improntata a una problematica spiritualista, volta alla scoperta di un mondo sovrasensibile attraverso un’indagine introspettiva.

La sua poesia sarà un’investigazione spirituale che dal corpo fisico dell’uomo giunge fino allo spirito puro. Possiamo definirlo un poeta metafisico.

Le prime raccolte di Onofri, Liriche e Poemi tragici, furono pubblicate rispettivamente nel 1907 e nel 1908.

In questi primi anni del Novecento il tributo a D’Annunzio e a Pascoli era inevitabile.

Si avverte anche l’influenza soprattutto nei crepuscolari, di Rimbaud dell’orfismo di Mallarmé.

Onofri, cui non faceva difetto lo spirito critico, mirava a una visione unitaria capace di mettere insieme i vari aspetti della realtà.

Fu determinante per la sua poesia l’incontro con le teorie antropomorfiche di Rudolf Steiner.

Altrettanto importante sul piano estetico l’incontro con Wagner da cui trasse conferma al suo proposito di realizzare la parola – suono e concepire le sue raccolte come veri e propri cicli.

Abbiamo così i cicli wagneriani di Terrestrità del sole (1927), Vincere il drago! (1928).

La critica ha indicato il limite della sua poesia «nello squilibrio tra il contenuto grezzamente scientificizzante ed un linguaggio raramente idoneo a suggellarlo in poesia» (Petrocchi).

La poesia di Onofri costituisce una tappa del linguaggio poetico del Novecento, sia dal punto di vista del lessico che dal punto di vista delle istituzioni poetiche.

La ricerca di una nuova identità al di fuori della tradizione si configura così da un lato nella ribellione e nella protesta all’ortodossia domestica (curiosi a questo riguardo gli aneddoti famigliari della prima comunione, della visita alla zia suora e dello zio moribondo) e dall’altro nella libertà della ricerca filosofica ed esoterica. Soprattutto nelle prime 3 raccolte (Liriche, Poemi tragici, Canti dell’oasi,) la poesia subisce l’influsso di questa situazione umana ed intellettuale rivelando un’ansia di conoscenza ed un desiderio di esplorazione filosofica che romanticamente naufraga nella dimensione notturno/subconscia.

L’iter poetico di Arturo Onofri va dal 1900 al 1928.

Il suo battesimo letterario, inizia con la raccolta Liriche nel 1907 (del resto da lui subito ripudiata), e prosegue con ben altre 8 raccolte poetiche, ispirate da un progressivo e mistico zelo creativo che cesserà solo con la prematura morte del poeta nel 1928 e le ben 4 raccolte pubblicate postume dalla moglie Bice Sinibaldi.

I maggiori critici del periodo individuano in questa produzione lirica tre fasi: la prima crepuscolare e dannunziana che si estende fino alla raccolta Orchestrine del 1917; una seconda o fase mediana di poesia-prosa o del frammento, che va fino a Trombe d’argento del 1924; ed infine, posteriore alla conversione all’antroposofia, ovvero alla filosofia esoterica di Rudolph Steiner, il ciclo poematico della Terrestrità del sole.

All’iter onofriano coincide l’avvento di un nuovo secolo ed un clima di profonda trasformazione in cui possiamo cogliere vari motivi innovatori. All’epoca dei suoi esordi ovvero le raccolte di Liriche (1907), di Poemi tragici (1908) e di Canti delle oasi (1909), la punta più avanzata del nuovo si configura nelle prove, tra il 1903 ed il 1905, di Govoni e Corazzini pervase dal clima crepuscolare; la nascita della rivista “La Voce” nel 1908; ed il primo manifesto futurista del 1909.

Mario Luzi in Discorso naturale parla di Arturo Onofri e della sua particolare originalità poetica.

Per Luzi Onofri è un caso poetico del Novecento italiano, probabilmente ancora da approfondire, da esplorare, da affrontare con circostanziata intelligenza critica.

:: Mi manca il Novecento – Ennio Flaiano e l’azzardo attraverso gli occhiali indiscreti – a cura di Nicola Vacca

22 novembre 2022

Quello che ci manca di Ennio Flaiano a 50 anni dalla sua scomparsa è l’azzardo di osare con le parole.

Lo scrittore pescarese come pochi del suo tempo ha impugnato la penna come un bisturi tagliente per ferire e denunciare. Con i suoi aforismi satirici e i suoi articoli ha raccontato l’Italia e i propri connazionali, la corruzione morale e l’ipocrisia di una Nazione e tutta la retorica di un conformismo divenuto abito mentale.

Anna Longoni scrive che non si stupisca il lettore di oggi se, nel ripercorrere il racconto di un’Italia che appartiene ormai al passato, verrà colto di sorpresa da alcuni dettagli che lo costringeranno a riconoscere, non senza preoccupazione, riflessi inaspettati della nostra contemporaneità.

Nei suoi scritti Flaiano ci ha lasciato il ritratto di un paese incapace di reggere la sfida della libertà e della democrazia, perché il fascismo è il diabete degli italiani, una malattia del sangue, sottile, antica, che colpisce anche le migliori famiglie, destinata a riaffiorare nel tempo.

Flaiano, spinto dalla satira e dall’indignazione, con la sua irriverente inattualità parla ancora ai nostri giorni e le sue analisi calzano a pennello alla palude di oggi in cui il paese è ancora incapace di reggere la sfida della libertà e il fascismo continua a essere il diabete degli italiani.

Flaiano, cronista cinico della società, aforista spietato e pungente che non concede nulla al proprio tempo, satiro annoiato che divaga controcorrente con il suo personale frasario essenziale, mostrandosi senza maschera attraverso le parole come uni intellettuale senza illusioni. Soprattutto nella sua attività giornalistica (da rileggere i suoi articoli su Il Mondo, L’Espresso, Il Corriere della Sera, L’Europeo) la sua penna acuta e intelligente, onesta ha sconfessato i vizi dell’Italietta, scagliandosi contro la cultura del mercimonio, gli interessi e i compromessi degli amici degli amici, la corruzione dei costumi e la malafede del potere.

«Io forse non ero di questa epoca, non sono di questa epoca, forse appartengo a un altro mondo; io mi sento più in armonia quando leggo Giovenale, Marziale, Catullo».

Così si descrive Ennio Flaiano nella pagine finali de La solitudine del satiro, il suo libro più personale e più intimo a cui lo scrittore aveva cominciato a lavorare pochi mesi prima della morte.

Giornalismo, cinema, letteratura, teatro. In tutte queste discipline Flaiano è stato sempre un intellettuale fuori dagli schemi. Con le sue stilettate e invettive ha massacrato e castigato senza alcuna riserva il proprio tempo. Il risultato di questo andare in direzione ostinata e contraria è il disagio di una solitudine senza via di scampo alla quale lui non si è sottratto per non rinunciare a una irregolarità corsara in cui non ha mai smesso di credere fino alla fine.

Ennio Flaiano è stato prima di tutto un libero pensatore, una delle poche coscienze critiche che sopportava male la mediocrità e l’assenza di un’etica in un’Italia che già allora si candidava a diventare un paese di porci e mascalzoni.

Ennio Flaiano disilluso e malinconico con le sue riflessioni profetiche che non hanno perso attualità ancora oggi ci legge dentro.

:: Un caffè in due e altre poesie d’amore di Nicola Vacca (A&B EDITRICE 2022) a cura di Giulietta Iannone

20 novembre 2022

Il segreto dell’amore
è un caffè in due
da bere dalla stessa tazza

Sarà questo il segreto più nascosto dell’amore? Condividere con l’amata i gesti minimi, quotidiani, quasi banali dell’esistenza, gesti che acquistano luce e importanza grazie a un sentimento vero, autentico, maturo, non un amore dell’età acerba ma del tempo compiuto, della vita adulta, dell’autunno incipiente. Ecco questi sono i versi contenuti nella silloge Un caffè in due e altre poesie d’amore del critico e poeta pugliese Nicola Vacca. E’ sempre difficile parlare di amore e di erotismo, un erotismo non funzionale al proprio personale egoismo o piacere, allo sfruttamento dell’altro ma a servizio di un amore autentico di coppia. Un amore forte (come la morte direbbe l’Ecclesiaste), grazie alla conoscenza reciproca, in cui non esiste possesso dell’altro, perchè il possesso è la fine e la tomba dell’amore. L’amore si nutre di libertà, ogni istante, ogni giorno, è un sì ripetuto che non ci si stanca mai di dire. Un sì, atteso.

Ti stringerò in un abbraccio
per dirti sempre grazie
della pazienza che diventa amore.

Un sì che prevede un grazie, perchè l’amore è un miracolo e non è affatto scontato. E tutti gli amori si somigliano e allo stesso tempo sono unici. La frase in esergo ce lo rammenta. Giovanna è la compagna del poeta, la donna amata a cui è dedicata questa silloge che lei condivide con tutti gli spiriti amanti che possono capire queste parole come direbbero i poeti del Dolce Stil Novo. Parole da iniziati, da cospiratori, da complici.

L’amore carnale, aulico, fatto di baci, abbracci, desiderio, letti sfatti, amplessi, estasi condivise si unisce ai gesti minimi della vita quaotidiana, a quel ticchettare sommesso della vita che a volte lasciamo scorrere senza importanza. E invece nella vita tutto è importante, tutto è prezioso.

Il volume è diviso in quattro parti: Lievito madre, L’amore con i piedi per terra, Queste nostre parole più belle e Fuori dall’oblio ritorneranno i baci. Versi liberi, svincolati dalla metrica come vuole la poesia contemporanea, e nello stesso tempo versi antichi, potenti perchè veri. E non c’è nulla come la verità, di un amore, di un vissuto, di un eterno divenire.

Juan Ramón Jiménez, Neruda, il sentire latino del sangue che ribolle nelle vene, la passione che diventa tormento hanno scritto i versi d’amore più appassionati e selvaggi, più traboccanti di verità, e partecipazione, la poesia di Vacca si accosta a questi poeti per intensità e rinnova il sentire con la poetica della quotidianità, della consuetudine, di un desiderio che non conosce sazietà e sempre si rinnova. Ma pur se semplice e quotidiano non è mai routine, noia, ripetitività di gesti e di parole.

Baci che strappano la carne
dalle bocche cucite.

Nonostante la vita, noi continuiamo ad amare, parafrasando Emil Cioran, a cui Vacca è molto legato per sentire e per vicinanza umana. Siamo barche alla deriva in un mare in tempesta, solo l’amore è un filo lieve che ci unisce e ci salva, perchè senza amore saremo davvero tutti perduti.