Posts Tagged ‘letteratura russa’

:: Perché leggere Dostoevskij, Antonio Schlatter Navarro (Graphe.it Edizioni, 2024) A cura di Viviana Filippini

7 febbraio 2025

“Perché leggere Dostoevskij” è un saggio di Antonio Schlatter Navarro, con prefazione di Valerio de Cesaris, rettore dell’Università degli Studi di Perugia, dedicato al grande scrittore russo che ha l’intento di indagare i temi presenti all’interno delle sue opere, i quali sono ancora oggi attuali. Non so se sia vero che tutti leggono o hanno letto Dostoevskij, ma questo saggio che lo analizza in modo dettagliato è la  dimostrazione che i temi affrontati dall’autore russo e che hanno al centro il vivere quotidiano, il rapporto con Dio, la fede, sono ancora radicati nella nostra quotidianità e noi, lettori odierni, possiamo confrontarci ancora con essi e, se non lo abbiamo ancora fatto, provare a leggere i libri di Dostoevskij, senza tanto pensare al numero di pagine, ma ai possibili elementi utili che da esso potremmo trarne. Schlatter Navarro si concentra su alcune opere dello scrittore russo considerando i personaggi protagonisti sui quali Dostoevskij proiettava i sentimenti, le emozioni e le riflessioni che lui stesso visse in prima persona e sulla propria pelle. Tra di essi ci sono il senso di colpa, il giudizio e il pregiudizio, il senso del divino che si manifesta nel quotidiano e nel reale che circonda. Trovano però spazio anche quelle tenebre costanti e perenni, presenti anche con la luce, nelle quali i personaggi si muovono quasi sempre nell’attesa della rivelazione o verità che salva. C’è un senso di libertà che ognuna delle singole creature letterarie  cerca e desidera, ma c’è anche il senso di un insieme di persone che formano il  popolo come forza viva e motrice. Queste sono alcune delle tematiche che Navarro analizza, perché esse erano fondamentali per lo scrittore russo che le metteva nei suoi romanzi e nei diversi personaggi impegnati in un lungo processo di ricerca di redenzione e salvezza. Schlatter Navarro sottolinea ed evidenzia poi altri argomenti costanti per Dostoevskij come la fede in Dio, la figura di Cristo e della sua grande capacita di perdonare tutto, il ricercare i suoi/loro insegnamenti nel quotidiano che lo spingevano  all’analisi e all’indagine della realtà che lo circondava e nel suo animo in rapporto a essa. Altra fonte di ispirazione per Dostoevskij furono le sue visioni, quelle che lo affliggevano e tormentavano quando aveva gli attacchi di epilessia e che lo conducevano in una sorta di mondo altro, tutto da comprendere e decifrare. Questi elementi, uniti alle esperienze drammatiche di vita quotidiana minata dai problemi economici, dolori familiari dovuti alla morte prematura della madre, quelli di alcolismo del padre, la morte della moglie, il secondo matrimonio parecchio lontano dalla felicità, e i suoi problemi con il gioco d’azzardo, affiancati a traumi di diverso genere, colpirono Dostoevskij che poi li esorcizzò (o almeno di provò) mettendoli  nelle sue opere letterarie. Quello che emerge dal saggio di Navarro è che la scrittura, inventare trame e intrecci, dare forma a personaggi dall’animo tormentato e in subbuglio, furono per Dostoevskij una vera e propria valvola di sfogo per analizzare la sua dimensione più profonda, il suo  animo e  i tormenti che lo caratterizzavano. Suoi sì, ma comuni anche a tutti gli altri esseri umani del suo tempo e, come ci dimostra Navarro in queste pagine, del nostro. Interessante alla fine del libro anche un “Epilogo” con le indicazioni dell’ipotetico e ideale ordine di lettura degli scritti di Dostoevskij. Con “Perché leggere Dostoevskij”, tradotto in italiano da Natale Fioretto, Navarro ci prende per mano e ci accompagna alla lettura delle opere di dell’autore di “Delitto e castigo” (per citarne uno), proprio per aiutarci a comprendere i suoi testi che a volte paiono cupi e criptici, quasi difficili da decifrare, ma che nascondo illuminanti verità esistenziali per non avere più timore e affrontare il domani.

Antonio Schlatter Navarro, nato a Siviglia, è un sacerdote della Prelatura dell’Opus Dei. Ha esercitato il ministero in diverse diocesi della Spagna: Murcia, Valencia e Saragozza e attualmente a Cordova. Laureato in Giurisprudenza all’Università di Jaén, dove ha esercitato la professione di avvocato, ha conseguito la laurea in Teologia alla Pontificia Università della Santa Croce in Roma e il dottorato in Filosofia all’Università di Navarra. Tra le sue pubblicazioni : “Mero Catolicismo” (Palabra); “A la mesa con Dios”  e “Trabajo del hombre, trabajo de Dios” (entrambe per Rialp); “Murillo con ojos nuevos” (Eunsa); “Miguel Mañara” (Sinergia). “Por qué leer a Dostoyevski” (Eunsa) è il suo ultimo libro e il primo a essere tradotto in italiano.

Source: grazie all’ufficio stampa 1A Comunicazione.

:: Racconti di Sebastopoli, Lev Tolstoj (Voland 2024), a cura di Viviana Filippini

29 dicembre 2024

Tolstoj visse in prima persona la guerra di Crimea, quella che assediò Sebastopoli nel 1854 e che è diventata protagonista poi dei “Racconti di Sebastopoli”, pubblicati in nuova edizione da Voland, con la traduzione di Leonardo Marcello Pignataro e la prefazione di Alessandro Barbero.  I tre racconti sono come tre quadri di cronaca del tempo,  identificati nei mesi di dicembre, maggio e agosto 1855 e si pongono come un’importante testimonianza su una guerra del passato dove era già in bilico e minato da tensioni l’equilibrio tra Occidente  (Impero Austroungarico) e Oriente  (Impero Russo). Nel primo racconto (dicembre) lo scrittore – che durante l’assedio si trovava sui bastioni di Sebastopoli come soldato d’artiglieria – introduce la vita nella e della città,  passando in rassegna l’assedio per le vie cittadine, con i soldati in essa presenti e pronti (più o meno) a dare la propria vita per la patria. Questi militari si mescolano ai civili, e si dimostrando pronti a combattere anche quando sono feriti, sfidando quel senso di morte e di putrefazione che incombe sulla linea di combattimento. Il secondo momento narrativo (maggio) vede Tolstoj concentrarsi in modo maggiore su alcuni personaggi presenti in guerra, sono più o meno nobili, mandati al fronte con le loro ferite fisiche ed emotive personali che vanno ad unirsi alle sofferenze scatenate dalla guerra.  Chi sono costoro? Eroi  pronti a tutto? Quello che si comprende è che questi personaggi sono uomini, nei  quali il bene e il male – come altre sensazioni contrapposte- convivono, e sono stati mandati lì a combattere al fronte, in certi casi senza nemmeno sapere o capire il perché,  in quanto deciso da altri. Il lettore ascolta i loro discorsi le loro parole e li vede agire, tanto da ritrovarsi immerso in prima linea dove chi combatte, oltre a cercare di sopravvivere si domanda quale sia il senso di tutta questa morte e distruzione. Leggendo i discorsi dei diversi militari si passa dal linguaggio forbito a quello più terra a terra, di coloro che sono analfabeti o hanno basi scolastiche minime, a dimostrazione che la precarietà, senso di morte e distruzione della guerra non fanno differenza tra nessuno. L’ultimo racconto (agosto) narra la città dopo la fine dell’assedio e ciò che di essa e in essa resta. I tre racconti di Sebastopoli furono importanti per Tolstoj, perchè dopo quell’esperienza vissuta sul campo e narrata si convinse sempre più di voler fare lo scrittore. In realtà, questi scritti sono di valore anche per noi lettori, in quanto fondamentale testimonianza di quella che fu la Guerra di Crimea del 1854 e di come veniva fatta la  battaglia nel XIX secolo.  Una vera e propria cronaca del tempo che ci racconta quanto la Sebastopoli del passato e quella del presente siano ancora terra martoriata. I “Racconti di Sebastopoli”  di Lev Tolstoj sono un libro di ieri dove l’autore narra la guerra vista in prima persona mettendo in evidenza quanto essa sia crudele e assurda. Questa non è solo attenzione al dettaglio da parte dell’autore russo, ma è la capacità di restituire ai lettori a lui coevi e a noi di oggi, lo spaccato di un mondo che ormai è passato, o forse c’è ancora, ma cambia la sua forma di presentarsi ai nostri occhi.

Lev Tolstoj è considerato uno dei massimi scrittori di tutti i tempi. La sua profonda volontà di rinnovamento nei confronti della società russa ne fece un audace saggista in campo politico, filosofico e critico. Per il suo agire T. venne scomunicato della Chiesa russa e attacato della censura. Le suo opera sono cariche di forza morale, e i suoi scritti e i suoi insegnamenti filosofici hanno esercitato un enorme influsso su tutta la letteratura russa ed europea dei secoli successivi. Fra le sue opere maggiori ricordiamo “Guerra e pace”, “Anna Karenina”, “La sonata a Kreutzer”, “I racconti di Sebastopoli”, “I cosacchi”, “La morte di Ivan Il’ič”, “Infanzia, adolescenza, giovinezza” e “Resurrezione”.

Source: ufficio stampa Voland.

:: È difficile essere un dio di Arkadij e Boris Strugackij, a cura di Paolo Nori (Marcos y Marcos 2023) recensione a cura di Emilio Patavini

13 gennaio 2024

Uno dei primi esempi di fantascienza russa è l’utopia socialista Stella rossa (1908) di Alexandr Bogdanov, traduttore di Marx e rivoluzionario bolscevico, ma tracciando una breve storia di questo genere letterario possiamo citare anche il romanzo di ambientazione marziana Aelita (1922) del conte Aleksej Tolstoj (lontano parente del più famoso Lev), da cui venne tratto due anni dopo il kolossal diretto da Jakov Protazanov. Anche le opere del “Jules Verne russo” Aleksandr Beljaev rientrano in questo genere, così come Noi (1924) di Evgenij Zamjatin, romanzo fondamentale per il genere distopico, tanto che costituirà una notevole fonte di ispirazione per 1984 (1949) di George Orwell, o ancora, Cuore di cane e Uova fatali (1925), racconti “wellsiani” di Michail Bulgakov, l’autore dell’immortale capolavoro Il maestro e Margherita. Con la sua epopea spaziale La nebulosa di Andromeda (1957), Ivan Efremov è considerato uno dei padri della fantascienza sovietica. Ma sono i fratelli Arkadij (1925-1991) e Boris (1933-2005) Strugackij, attivi soprattutto tra anni ‘50 e ‘60, gli autori più letti e conosciuti della fantascienza russa. Nati a Leningrado e di famiglia ebraica, traduttore dall’inglese e dal giapponese il primo e astronomo e matematico il secondo, i fratelli Strugackij esordirono nel 1959 con La terra delle nubi cremisi e scrissero in coppia indimenticabili romanzi in cui la speculazione metafisica e la satira della burocrazia e del regime sovietico sono sapientemente coniugati. Della loro prolifica produzione è d’obbligo citare Picnic sul ciglio della strada (1972), da cui è stato tratto il celebre film Stalker (1979) diretto da Andrej Tarkovkij e scritto dagli stessi fratelli Strugackij. Nonostante il successo delle loro opere, i fratelli Strugackij non mancarono di scontrarsi con una critica ostile e soprattutto con le forche caudine della censura sovietica, che tagliò ed espurgò senza ritegno le loro opere (raccolte oggi in Russia in ben trentatré volumi) e li costrinse ad apportare «duecento umilianti correzioni» al testo di Picnic sul ciglio della strada o a dover riscrivere La favola della Trojka per poterla pubblicare, come ha ricordato Marco Respinti in un suo recente pezzo uscito su Libero. Anche È difficile essere un dio (Трудно быть богом, 1964) ha avuto una vicenda editoriale piuttosto travagliata, come racconta lo stesso Boris nella postfazione alla nuova traduzione integrale dal russo a cura di Diletta Bacci uscita a luglio per Marcos y Marcos, con prefazione di Paolo Nori.

Il romanzo è ambientato in un futuro in cui una missione di storici russi manda alcuni esploratori in incognito su Arkanar, un pianeta abitato da esseri umani che vivono in un’epoca storica grossomodo corrispondente al medioevo dell’immaginario collettivo: non un medioevo storico, dunque, ma un pastiche in cui gli autori fondono in un unico calderone astorico i moschettieri della Francia di Richelieu, la Santa Inquisizione e le angherie dei bravacci spagnoli dando vita a una società feudale dominata dall’arretratezza culturale, dalla superstizione religiosa, dalla sporcizia e dall’ignoranza. Calato in questa società al contempo aliena e familiare, il nostro protagonista Anton si trova a vestire i panni del nobile don Rumata, ma grazie al cerchio d’oro che porta sulla testa (in realtà una telecamera) può solo osservare e trasmettere le immagini alla Terra affinché siano studiate dagli storici del feudalesimo, ma senza poter intervenire in alcun modo per cambiare le cose. Egli tuttavia è il miglior spadaccino del pianeta e grazie alle sue avanzate conoscenze tecnologiche viene visto dalla popolazione di Arkanar come un dio. Ma di fronte alle ingiustizie sociali che piagano questa società rigidamente stratificata in ceti – con alla base della piramide «i contadini e gli artigiani, sopra di loro la nobiltà, poi il clero e infine il re» (p. 243) –, un uomo proveniente da un pianeta in cui il comunismo è divenuto realtà non può restare indifferente: i poveri sono vessati dall’oppressione dei più forti (i cosiddetti «squadristi grigi»), i nobili vivono nel vizio, gli intellettuali e gli scienziati (chiamati sprezzantemente i «divoratori di libri») vengono barbaramente perseguitati e uccisi – e in quest’ultimo aspetto, sembrano suggerirci i fratelli Strugackij, la vita sul pianeta alieno non sembra differire troppo dalla realtà quotidiana dell’Unione Sovietica. Tuttavia, nonostante sia parte di un esperimento sociale su scala planetaria e nonostante i suoi sforzi per salvare i «divoratori di libri» dal rogo, Anton non può che guardare con pessimismo alle sorti del pianeta: «Non c’è speranza, pensò. Non ci sarà mai forza sufficiente per strapparli dal solito circolo vizioso di inquietudini e idee. Potremmo dargli tutto. Potremmo sistemarli nelle più moderne case spettrosonore e insegnargli le procedure ioniche, e comunque la sera si riunirebbero in cucina, giocherebbero a carte e si sbracherebbero dalle risate per il vicino che viene picchiato dalla moglie. E per loro non ci sarebbe passatempo migliore» (p. 108).

Da un punto di vista stilistico, il romanzo si avvale di una scrittura lirica che indugia spesso in dialoghi filosofeggianti e in lunghi monologhi interiori e riflessivi e di un linguaggio particolarmente evocativo che talvolta rischia di appesantire la narrazione e rallentarne il ritmo, soprattutto nella prima metà del libro, mentre la parte finale è invece più incalzante e ricca di tensione.

È difficile essere un dio nasce come una riscrittura della trilogia di Dumas: un’avventura di moschettieri con intrighi di corte e duelli all’ultimo sangue, ma con l’aggiunta di «piscio e sporcizia medievale» (p. 274), come ricorda Arkadij nella sua postfazione al romanzo. Le cose cambiarono nel dicembre 1962, quando il presidente Chruščëv visitò una mostra d’arte al Maneggio di Mosca, e rimanendo inorridito dall’«astrattismo e il formalismo nell’arte» (p. 277) ordinò una stretta sulla letteratura e sull’arte. L’intelligencija – «tutti questi orribili figli di Stalin e di Berija, con le braccia sporche fino ai gomiti del sangue di vittime innocenti, tutti questi delatori latenti e dichiarati, furbacchioni ideologici e benefattori imbecilli» (p. 277), come li apostrofa Arkadij – si riunì, si scambiò opinioni e dichiarò che l’arte vera era quella impegnata, creata in nome dell’ideologia sovietica. «In breve tempo», ricorda sempre Arkadij, «l’ondata purulenta raggiunse anche la nostra periferia, il nostro tranquillo laboratorio di fantascienza» (p. 279), e la storia «divertente, di moschettieri» che i fratelli Strugackij avevano in mente assunse tinte sempre più cupe, di denuncia al totalitarismo: «Il tempo ‘delle cose leggere’, il tempo ‘delle spade e dei cardinali’ era apparentemente finito. O forse, semplicemente, non era ancora arrivato. Il romanzo di moschettieri doveva necessariamente diventare un romanzo sul destino dell’intelligencija immersa nel crepuscolo del Medioevo» (p. 284). Una volta scritto, il romanzo trovò molti rifiuti da parte degli editori e suscitò critiche negative, ma ottenne un notevole successo di pubblico.

Arkadij e Boris Strugackij sono tra i massimi esponenti della narrativa del fantastico mondiale. Nato nel 1925, Arkadij si è dedicato al lavoro editoriale; Boris, nato nel 1933, alla ricerca astronomica. Insieme, i due grandi scrittori russi hanno raccontato scenari plausibili del futuro prossimo e lontano. Nel 1972 hanno pubblicato per la prima volta, dopo un lungo e tormentato conflitto con la censura istituzionale sovietica, il loro capolavoro, Picnic sul ciglio della strada, che ha ispirato a Tarkovskij uno dei suoi film più belli, Stalker. Anche È difficile essere un dio ha una straordinaria potenza immaginifica e ha ispirato a sua volta ben due film. Un miliardo di anni prima della fine del mondo, sempre pubblicato da Marcos y Marcos nella bella traduzione di Paolo Nori, racconta il pomeriggio di un astrofisico che in pieno agosto tenta invano di concentrarsi sulla sua ricerca, solleticato dalle più allettanti distrazioni. Arkadij è morto a Mosca nel 1991, Boris a San Pietroburgo nel 2012.

Source: inviato dall’editore. Si ringrazia l’Ufficio Stampa Marcos y Marcos.

:: Anna Karenina di Lev Tolstoj (Einaudi, 2016) a cura di Giulietta Iannone

30 Maggio 2021

«Come opera d’arte, Anna Karenina è la perfezione e nulla può esserle paragonato».
Fëdor Dostoevskij

Anna Karenina dello scrittore russo Lev Tolstoj è forse in assoluto il libro che da sempre ho amato di più. Capolavoro universale della letteratura ottocentesca, è un libro che ancora oggi ha molto da dire sulle dinamiche dell’animo umano, sia maschile che femminile, sulle trappole delle convenzioni sociali e la loro velenosa ipocrisia, sulla fede, sull’aspirazione verso la libertà, la realizzazione di sé, e la ricerca dell’amore. Certo ci parla di un mondo scomparso, l’alta società russa della seconda metà dell’Ottocento, considerate solo che il tradimento matrimoniale fu considerato reato penale fino al 1917, ma l’essenza vera dei personaggi è eterna e universale e di questo Lev Tolstoj voleva occuparsi con l’aiuto di sua moglie Sòfja Andrèevna Bers, detta Sonja, che molto contribuì a illuminarlo sull’animo femminile così magistralmente tratteggiato nel personaggio di Anna. Non spaventatevi dalla mole del libro, quando lo si inizia è come se del miele fluisse dalle pagine e non si può che avanzare nella lettura. Certo ci sono pagine più filosofiche e morali, più complesse e per certi versi impegnative, ma in tutta sincerità ho trovato interessanti anche quelle, sia per capire l’autore stesso e il suo tempo, che il suo romanzo. Uscito inizialmente a puntate, come il più classico feuilleton, sul periodico Russkij vestnik a partire dal 1875 fino al 1877 quando la conclusione del romanzo venne pubblicata solo in forma di riassunto. Tolstoj decise in seguito di far pubblicare integralmente l’ultima parte a proprie spese. Di cosa parla Anna Karenina? Se vogliamo la trama è molto semplice: una donna giovane, sensibile, molto bella, intrappolata in un matrimonio di convenienza, come era abitudine tra le classi aristocratiche, con un alto funzionario zarista molto rigido, molto all’antica, molto più anziano di lei all’improvviso incontra l’ufficiale dell’esercito Aleksèj Kirìllovic Vrònskij e scopre l’amore, la passione, il sentimento svincolato da ragioni economiche, pratiche o utilitaristiche. L’effetto è devastante, nella sua vita, nella sua psiche, nella dinamica delle sue relazioni affettive (per lui sarà costretta a separarsi dal figlio, e questa frattura se vogliamo segnerà il suo destino). Se la società accetta relazioni extraconiugali futili, effimere, slegate da reali sentimenti profondi e condivisi, relazioni che appunto non turbino l’ordine sociale e le convenzioni, tanto che il marito credendola tale all’inizio la tollera, la passione di Anna per Vrònskij invece diventa una minaccia, sconveniente dal punto di vista sociale che mai la considererà legittima. Anna è troppo fragile, sensibile, appassionata per sopportare la condanna sociale e la colpa morale di cui si sente tragicamente prigioniera e non potrà che cercare rifugio nella morte. Devo dire che la bravura di Tolstoj è stata innanzitutto quella di non rendere Vrònskij il classico seduttore: è stempiato, forse neanche tanto avvenente, ma è l’occhio di Anna che lo idealizza e lo rende degno del suo amore incondizionato. La mia avversione per Vrònskij, più che per il marito Karenin, si è stemperata con gli anni, e oggi devo ammettere che è un personaggio che merita una riscoperta e una rivalutazione, insomma Vrònskij ama sul serio Anna ma anche lui non può fare niente per difenderla dalle dinamiche sociali di un mondo che per autoconservarsi calpesta sentimenti, aspirazioni e volontà. Specchio di Anna nel romanzo se vogliamo è Konstantìn Dmìtric Levin forse il personaggio che ho amato di più dopo Anna, da molti identificato con Tolstoj stesso. Se Anna ha una parabola discendente, Levin al contrario ottiene alla fine tutto dalla vita: l’amore, il matrimonio, i figli, la realizzazione di sé e la fede. Ma tanti altri sono i personaggi che incontrerete tra la pagine di Anna Karenina, Dolly, Stiva, Kitty, il fratello di Levin, e ognuno di loro sono certa resterà nel vostro cuore. Di cose da dire su questo libro ce ne sono senz’altro molte, ma questo mio scritto si limita ad essere un invito alla lettura, un consiglio per chi magari ha esitato ad affrontarne la lettura fino a oggi. È meraviglioso, non potevo non parlarne nel mio blog.  Traduzione di Claudia Zonghetti. 

Di Lev Nikolaevic Tolstoj (Jasnaia Poljana 1828-Astapovo, Rjazan 1910) Einaudi ha pubblicato: Guerra e pace, Anna Karenina, La sonata a Kreutzer, Carteggio confidenziale con Aleksandra Andrejevna Tolstaja, Resurrezione, Racconti, I quattro libri di lettura, Due ussari, Racconti di Sebastopoli, Quattro romanzi (La felicità familiare, Morte di Ivan Ilic, La sonata a Kreutzer, Padre Sergio).

Nota: Ho segnalato la traduzione della Zonghetti perchè più reperibile, ma io l’ho letto in quella di Leone Ginzburg.

Source: libro del recensore.        

:: Danilov il Violista di Vladimir Orlov (Carbonio Editore 2019) a cura di Davide Mana

27 settembre 2019

DanilovIl Maestro e Margherita, di Michail Bulgakov, è uno dei testi fondamentali della letteratura moderna. La miscela di immaginazione fantastica, satira politica, umorismo e tragedia, riferimenti storici e letterari, lo rende un’opera al di fuori delle gabbie più o meno anguste di generi, filoni, scuole, categorie assortite.
È un romanzo russo, ed è profondamente russo, ma è anche, innegabilmente, universale.
È un romanzo filosofico, ma è anche un’avventura fantastica.
È una satira tagliente di un certo luogo e di un certo tempo, ma è anche un romanzo carico di speranza, e capace di sollevare lo spirito del lettore in un momento di tenebra.
E dentro ci sono il diavolo e un gatto con la pistola, che rendono qualunque valutazione critica assolutamente pleonastica. È un romanzo che prima o poi è indispensabile leggere.
E se da una parte, per tutti i motivi fin qui elencati, l’idea di ispirarsi al romanzo di Bulgakov, per un romanziere russo – ma, davvero, per qualunque romanziere – sembrerebbe assolutamente ovvia, dall’altra presentarsi a un editore con un’opera che da Bulgakov prende le mosse e lo aggiorna, lo trasporta nella contemporaneità e lo remixa, per così dire, è anche un gesto di suprema follia.
E c’è della follia nel romanzo di Vladimir Orlov, pubblicato nel 1980 dopo numerosi rifiuti, e primo di una trilogia, che ora Carbonio Editore propone in edizione integrale (era uscito in Inglese trent’anni or sono, ma tagliato).
Ambientato in una Mosca di epoca sovietica dalla geografia nebulosa, un universo senza mappe popolato di personaggi surreali, il romanzo segue le vicissitudini di Danilov, diavolo part-time e violista in una orchestra, un individuo dall’animo tanto romantico quanto indeciso.
Colpa della sua natura intermedia – parte essere umano, parte demonio – ma soprattutto frutto della natura ambigua della società nella quale si trova a muoversi.
Il mondo degli uomini così come il mondo dei demoni è una burocrazia senza volto sotto le regole ferree della quale si agitano passioni e desideri che portano alla perversione ed alla negazione di quelle stesse regole. La società umana, come quella infernale, è dominata da piccole e grandi invidie, meschini giochi di potere e ripicche infantili, avidità e ingordigia, una fame – reale e metaforica – che trasforma tutti in predatori. C’è un’ossessione per il cibo, nel romanzo, che fa da doppio speculare per l’ossessione per lo status, la posizione, il titolo, che sembra aver contagiato tutti, chi più chi meno, in queste pagine, tranne forse Danilov, che per questo è quasi inconsapevolmente fuori dal sistema.
E tutti noi sappiamo che il sistema non tollera le anomalie.
Danilov, letteralmente un povero diavolo, ma dotato di talento, si trova perciò improvvisamente catapultato in un labirinto kafkiano. L’amore giunge a turbare la sua esistenza, mentre una denuncia da parte di un collega invidioso lo porta all’attenzione dei tribunali infernali.
E qualcuno ruba la sua viola.
Danilov diventa quindi una sorta di strano, improbabile “everyman” sovrannaturale, un pellegrino che vaga per luoghi che il lettore scopre attraverso i suoi occhi sorpresi, i suoi dialoghi sincopati, la sua crescente preoccupazione.
Danilov il Violista è una satira di un sistema, quello sovietico, fotografato nella sua fase di decadenza terminale ed al contempo di estrema distorsione e prepotenza, ma il lettore italiano del ventunesimo secolo potrebbe restare sorpreso nel riconoscersi nel protagonista, e nel vedere nel mondo del romanzo uno specchio fedele di una società che si presume diversa, e opposta, a quella dell’Unione Sovietica.
Burocrazia impazzita, piccoli funzionari indifferentemente crudeli o crudelmente indifferenti per il solo motivo che possono esserlo, regole contraddittorie, invidie ed avidità, colpi bassi e incomprensioni, la corsa ad accaparrarsi degli status symbol tanto vuoti quanto, per loro natura, “diabolici”…
Non si può replicare Il Maestro e Margherita, e sarebbe sciocco cercare un paragone diretto, una gara, una corsa, fra il romanzo di Orlov e quello di Bulgakov.
Al recensore non interessa se Danilov lavi più bianco.
Ciò in cui Vladimir Orlov riesce, e brillantemente, è catturare l’universalità del racconto di Bulgakov, e farla propria, così che un romanzo che è assolutamente del proprio tempo e del proprio luogo diventa senza apparente sforzo una metafora della società umana, qualunque società umana, al suo peggio più ipertrofico, ed al suo più mostruosamente ridicolo.
Danilov il Violista, così come Il Maestro e Margherita, suonerebbe dolorosamente familiare ad un lettore nel terzo secolo dopo Cristo, nella Spagna dell’Inquisizione o nella Parigi del Terrore, nell’Inghilterra Vittoriana o nell’America di Reagan, o di Clinton, o di Trump.
Avventura sovrannaturale, meditazione sul valore dell’arte e della creatività, storia triste ma divertente, storia buffa ma malinconica, Danilov il Violista ha qualcosa per tutti noi, se lo vorremo ascoltare.

Vladimir Orlov (1936-2014) è nato e vissuto a Mosca. Laureatosi alla Facoltà di Giornalismo, ha insegnato per vent’anni all’Istituto Letterario Maksim Gor’kij. Raggiunge la fama nel 1980 con la pubblicazione di Danilov, il violista, a cui seguono altri due romanzi che completano la trilogia “Le storie di Ostankino”, ispirata alla tradizione del realismo fantastico di cui la letteratura russa ci ha dato maestri noti in tutto il mondo: Gogol’, Bulgakov, Sologub. Carbonio Editore pubblica Vladimir Orlov per la prima volta in Italia.

Source: libro inviato dall’editore al recensore, ringraziamo Costanza dell’Ufficio stampa Carbonio Editore.

:: Il colombo d’argento di Andrej Belyj (Fazi 2018) a cura di Viviana Filippini

22 gennaio 2019

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“Il colombo d’argento” di Andrej Belyj, edito da Fazi, è un libro intrigante che catapulta il lettore nel passato ai tempi della Russia pre-rivoluzionaria. La storia si apre con un giovane che sembra camminare senza meta, completamente assorto nei suoi pensieri. Quel ragazzo diretto non si sa bene dove, è Pëtr Dar’jal’skij. Lui, all’apparenza così spaesato, è in realtà molte cose assieme: è studioso, poeta e uno di quei nuovi intellettuali che stava formandosi prima della Rivoluzione. Il suo vagare appare da subito come un cammino di ricerca, perché Dar’jal’skij sta davvero cercando qualcosa di importante: la verità̀ su se stesso e sul mondo. Ad un certo punto il protagonista arriva a Celeebevo, qui conoscerà tutta la comunità composta da un umanità a tratti grottesca e strampalata e i diversi gruppi culturali e religiosi presenti nella località, tutti impegnati a fortificarsi e prepararsi per essere pronti a partecipare alla rivoluzione. Tante sette ci sono nella vecchia Russia narrata e non a caso troviamo quelli della Vecchia Fede, gli Evangelisti, gli Stundisti, i Molokani, i famosi Chlysty – sicilisti nel libro-  nati nel XVII secolo e sostenitori del principio che Cristo fosse già presente spiritualmente in ogni membro della setta durante la sua vita terrena- e i Colombi d’argento. Pëtr Dar’jal’skij entrerà in contatto con molti di loro, ascolterà i loro discorsi e leggerà i loro scritti, ma sarà il gruppo dei Colombi d’argento a travolgerlo con maggiore forza, trascinandolo in un percorso di completa metamorfosi. Pagina dopo pagina, Andrej Belyj narra la storia di queste terre russe nelle quali, a contatto con questi gruppi settari, il protagonista perderà ogni certezza fino a subire un completo cambiamento che lo porterà a compiere azioni per lui impensabili. Tra di esse, per esempio, la rottura del fidanzamento di Dar’jal’skij con Katia, una giovane di buona famiglia con parenti nobili, e con la quale sembra esserci la possibilità di un matrimonio. La relazione andrà a monte, perché il ragazzo si lascerà travolgere dalla passione per la contadina Matrëna Semënovna, serva dell’ambiguo falegname Mitrij Kudejarov, capo della setta dei “colombi”. Sarà proprio questa figura femminile, non particolarmente bella, ma con qualcosa di irresistibile, ad accalappiare il giovane per farlo diventare l’ “uomo nuovo”, che avrà il compito di rinnovare la Russia e dare il via a un Regno di Luce. Il protagonista Dar’jal’skij ad un certo punto finirà in un circolo vizioso dal quale non riuscirà ad uscirne, e questo fa capire al lettore quanto possa essere potente il processo di manipolazione mentale al quale il giovanotto di trova sottoposto. “Il colombo d’argento” di Andrej Belyj è un storia forte, narrata a tratti con una sottile ironia che ci porta dentro alla Russia del passato in un periodo di grande fermento culturale e intellettuale nell’attesa del grande cambiamento. Un mondo di tensioni, di ansie e di investigazione del nuovo che rigenera, che –in teoria- dovrebbe fortificare e che, come accadrà a Pëtr Dar’jal’skij, non sempre corrisponde al raggiungimento della pace e tranquillità. Traduzione di Carmelo Cascone.

Andrej Belyj Pseudonimo di Boris Nikolaevič Bugaev, è stato una figura di assoluto rilievo nel panorama letterario russo. Scrittore, poeta, saggista, critico letterario, filosofo, negli anni dell’adolescenza entrò in contatto con Sergej Solov’ëv, nipote del filosofo Vladimir Solov’ëv, le cui dottrine influenzeranno tutta la sua opera. Esponente di spicco del movimento simbolista russo, a partire dal 1903 ebbe un intenso rapporto epistolare con Aleksandr Blok, che in seguito conobbe personalmente. Fu autore di raccolte di poesie, romanzi (Pietroburgo, definito da Nabokov «uno dei quattro più̀ grandi romanzi del ventesimo secolo»), saggi e libri di memorie che restituiscono in modo brillante la travagliata parabola storico-culturale della Russia d’inizio secolo.

Source: richiesto dal recensore all’ufficio stampa Fazi, grazie a Cristina e a tutto lo staff.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: Memorie di un giovane medico di Michail Bulgakov (Marcos Y Marcos 2017) a cura di Federica Belleri

11 gennaio 2018

Memorie di un giovane medico

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“Io non ho colpa” pensavo, ostinato e tormentato. “Ho una laurea, ho quindici cinque. Avevo avvisato, fin da quando ero nella grande città, che volevo fare l’aiuto medicoNo. Avevo sorriso e avevano detto ‘Si ambienterà’. Eccoti il ‘si ambienterà’. E se mi portano un’ernia? Mi spieghi come mi ci ambiento? E, soprattutto, come si sentirà quello che ha l’ernia sotto le mie mani? Si abituerà all’altro mondo? (qui avevo sentito un brivido alla colonna vertebrale)…”

Per la casa editrice Marcos Y Marcos, Paolo Nori cura e traduce questa piccola antologia di racconti. Sono memorie di Michail Bulgakov nato a Kiev nel 1891 e morto a Mosca nel 1940. Otto racconti ambientati nei primi anni del ‘900 nei dintorni di Mosca. Un giovane medico viene convocato nella periferia sperduta e deve prendere servizio. Ha solo ventitré anni, e tutti lo scambiano per uno studente. Non ha esperienza e per esercitare deve imparare a prendere confidenza con strumenti chirurgici e medicine a lui sconosciuti. Il tutto è condito dalla diffidenza e dall’ignoranza del popolo contadino e dal clima freddo e ostile. Con i suoi manuali da consultare seguirà l’istinto e la coscienza, senza pretendere di fare miracoli. Sarà aiutato in ospedale da un infermiere e due ostetriche, che formeranno con lui una squadra originale. Fra alti e bassi il suo bilancio sarà tutto sommato positivo, anche se con enormi difficoltà. Riscoprirà il piacere delle abitudini e di quattro chiacchiere attorno alla stufa.
Michail Bulgakov, scrittore per caso. Una carriera letteraria durata dieci anni, molti dei quali trascorsi durante il governo Stalin che si mostrava contrario ai suoi scritti.
Buona lettura.

Michail Bulgakov, nato a Kiev nel 1891 e morto a Mosca nel 1940, ha scritto molte cose memorabili, come queste Memorie di un giovane medico (delle quali il critico Vladimir Lakšin ha detto: “Il Bulgakov giovanile è incantevole, irresistibile, è un autore al quale il tempo non ha tolto niente del suo fascino”), o come Il Maestro e Margherita, che quasi tutti conoscono, e altre cose venute così così, come un’opera teatrale che si chiama I figli del Mullah, che Bulgakov ha scritto con Boris Robertovicˇ Boheme, e come l’han fatto lo racconta lo stesso Bulgakov: “L’abbiamo scritta in sette giorni e mezzo, impiegando mezza giornata di più che per la creazione del mondo. Nonostante ciò, ci è riuscita ancora peggio del mondo. Posso dire soltanto che se un giorno ci sarà un concorso per il lavoro teatrale più stupido, insulso e impudente, il nostro otterrà il primo premio”. Bulgakov, qualche anno dopo, nel 1930, scriverà a Iosif Stalin: “Passando in rassegna i miei ritagli di giornale, ho constatato di aver ricevuto dalla stampa sovietica, nei dieci anni della mia attività letteraria, 301 recensioni, di cui 3 favorevoli e 298 ostili e ingiuriose”.

Paolo Nori è nato a Parma, abita a Casalecchio di Reno e ha scritto un mucchio di libri, tra romanzi, fiabe e discorsi. Gli piace leggere ad alta voce, raccontare varie cose sul suo blog (www.paolonori.it), su alcuni giornali e qualche volta in televisione. Con Marcos y Marcos ha pubblicato o ripubblicato: La meravigliosa utilità del filo a piombo, Disastri di Daniil Charms, da lui curato e tradotto, Si chiama Francesca, questo romanzo, Grandi ustionati – anche in versione AudioMarcos – La banda del formaggio, Si sente?Siamo buoni se siamo buoni, La piccola Battaglia portatileManuale pratico di giornalismo disinformato, Tre matti di Gogol’, Dostoevskij, Tolstoj, Tre giusti di Nikolàj Leskóv, Spinoza, Undici treni, Un eroe dei nostri tempi di Michail Lermontov, da lui curato e tradotto, Sei città, un albo illustrato con la collaborazione di Tim Kostin, Memorie di un giovane medico di Michail Bulgakov, da lui curato e tradotto. Ha inoltre curato l’antologia sui confini Ma il mondo non era di tutti?

Source: libro inviato dall’editore al recensore. Ringraziamo Marta Domizi dell’ Ufficio Stampa.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: L’isola di Sachalin – Anton Čechov (Adelphi 2017) a cura di Nicola Vacca

21 settembre 2017

isolaDall’ aprile al dicembre del 1890 Čechov viaggia per le terre estreme della Siberia.
Ha intenzione soprattutto di raccontare quella terribile periferia dell’impero zarista e soprattutto scrivere quello che nessun intellettuale aveva ancora visto: le condizioni di vita nella colonia penale sull’isola di Sachalin.
Egli tornò da quel viaggio con un libro che fu pubblicato per la prima volta in volume nel 1895.
L’ isola di Sachalin esce adesso per Adelphi ( curato da Valentina Parisi)
Lo scrittore sbarcherà ai confini del mondo e sulla sua strada troverà numerosi impedimenti. Ma non si lascia intimidire dai boicottaggi indigeni e in quei mesi porta a termine la sua impresa e scrive pagine dettagliate e precise in cui racconta l’inferno siberiano che si è trovato davanti.
Racconta della terra che si gela e delle strade coperte di fango. Annota ogni cosa della sua avventura siberiana, con precisione descrive le condizioni di vita dei deportati, gli incontri con le anime morte del posto e il tessuto economico e sociale del territorio.
L’isola di Sachalin è un lavoro meticoloso che il suo autore aveva da tempo intenzione di scrivere. Valentina Paraisi nella postfazione scrive che Sachalin aveva fatto la sua comparsa nell’opera di Čechov un paio di anni prima, esattamente nel 1888 nel racconto Fuochi.
Con questo libro il grande scrittore russo riuscirà in maniera convincente a penetrare con una denuncia efficacia nell’orrore concetrazionario del regime zarista, a raccontare la crudeltà dell’uomo che infligge umiliazione e violenza agli altri uomini ponendo soprattutto l’accento sul fallimento di un sistema interessato soprattutto dalla corruzione.
Il resoconto di Anton Čechov è spietato nel raccontare l’inferno nei suoi dettagli più amari. Lui è consapevole di affrontare un’esperienza unica e devastante. Immagina cosa troverà in Siberia e la sua penna è pronta a fare il suo dovere.
«Ho come l’impressione di andare in guerra» aveva confidato una settimana prima di partire a Suvorin.
L’isola di Sachalin occupa un posto a parte nella produzione letteraria di Anton Čechov.
L’avventura siberiana lo segnerà. E lui è riuscito in queste pagine a dare conto di tutto l’inferno che ha dentro di sé l’essere umano.
Queste sue memorie arrivano, come fu per Dostoevskij, da una casa di morti in cui il giovane Čechov abiterà per otto mesi. Lo scrittore confesserà che dall’inferno di quella casa di morti tornerà annichilito e provato. Tra le mani il racconto e la testimonianza di tutto l’orrore che aveva visto e la consapevolezza di non avere una soluzione da offrire al lettore.

Anton Čechov nacque a Taganrog nel 1860, crebbe in una famiglia economicamente disagiata: il nonno era stato servo della gleba. Frequentò il liceo nella città natale.
Nel 1879 Čechov si trasferì a Mosca dove si iscrisse alla facoltà di medicina. Laureatosi nel 1884, esercitò solo saltuariamente, in occasione di epidemie e carestie, la professione, dedicandosi invece esclusivamente all’attività letteraria. Nel 1890 raggiunse attraverso la Siberia la lontana isola di Sachalin, sede di una colonia penale, e sulle disumane condizioni di vita dei forzati scrisse un libro-inchiesta, L’isola di Sachalin (1895). Minato dalla tubercolosi, Čechov passò vari anni nella sua tenuta di Melichovo [Mosca], cercando di migliorare la condizione materiale e morale dei contadini. Nel 1895 conobbe Tolstoj, cui rimase legato da amicizia per tutta la vita. Nel 1900 fu eletto membro onorario dell’Accademia russa delle scienze, ma si dimise due anni dopo per protesta contro l’espulsione di Gor’kij.
Soggiornò varie volte, per curarsi, a Biarritz, Nizza, Jalta [Crimea]. Nel 1901 sposò Olga L. Knipper, attrice del Teatro d’arte di Mosca.
In un estremo tentativo di combattere il male, si recò a Badenweiler, una località della Foresta Nera.
Morì qui, nel 1904, assistito dalla moglie. Aveva 44 anni

Source: libro inviato all’editore al recensore.

:: Vento del sud, Elmar Grin (Marcos Y Marcos, 2016) a cura di Giulietta Iannone

23 dicembre 2016

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Non capita spesso di poter leggere un romanzo di un esponente della cosiddetta “intellighenzia sovietica”, tra censura, epurazioni e difficoltà varie che impedivano oggettivamente ai romanzi sovietici di uscire dai confini della Russia, ne sono giunti a noi molto pochi, e ancora meno sono sopravvissuti all’impietosa corsa del tempo, che tutto appiana e livella, rendendo obsolete e a volte scomode ideologie e concezioni del mondo.
Caso a parte sembra rappresentato da Vento del sud, (Veter s juga, 1946) del russo Elmar Grin, al secolo Aleksandr Vasiljevitš Jakimov, giunto in Italia già nel 1948, tradotto da Pietro Zveteremich, per l’editore Macchia.
A risollevarlo dall’oblio e dalla irreperibilità ci pensa l’editore Marcos Y Marcos, ripubblicandolo quest’anno, sempre nella bella traduzione dal russo di Pietro Zveteremich.
Il modo di scrivere del 1948 certo potrà suonare antiquato ad un lettore contemporaneo, ma sicuramente accresce il fascino di questo libro, soprattutto perché la poesia non passa mai di moda, e il registro poetico utilizzato in questo libro è senz’altro percepibile, una poesia minima, quotidiana, forse elementare, legata alla natura, ai moti dell’animo, alla crescita personale e alla presa di coscienza in questo caso di un contadino finlandese, onesto e operoso, prima schiavo e fedele al suo padrone, poi dopo un’ interiore lotta di classe, sempre povero, ma libero.
La componente ideologica è indubbia, (vinse il Premio Stalin 1947) tuttavia è evidente che l’autore, pur restando nei canoni dell’ortodossia sovietica, devia verso una concezione più spirituale di rinascita e affrancamento, che ne decreta in un certi versi la modernità e universalità, accostandosi alla grande tradizione russa ottocentesca, della rivincita dei vinti e degli oppressi.
Ci vuole un po’ di tempo per abituarsi alla lenta cadenza del narrato, ad acquistare una certa attenzione per i fatti minimi che succedono della vita di Einari, voce narrante del romanzo, e di suo fratello Vilho. Certo la guerra farà da catalizzatore e punto di svolta, ma sono sempre gli episodi minimi, le sfumature, che Elmar Grin illumina con la sua prosa sobria e umile. Nessun stentoreo proclama, nessuna enfatica agiografia spiccia. Resta senz’altro un sapore vintage, anche ideologico, la Russia sovietica non è ancora passata attraverso il revisionismo e la demitizzazione di Stalin, tuttavia come documento di un’ epoca e di una mentalità non priva di derive utopistiche ed eccessivamente ottimistiche, cattura, e affascina. Potere oscuro della vera letteratura.

Elmar Grin è lo pseudonimo di Aleksandr Vasil’evič Jakimov, nato nel 1909 in una famiglia contadina nella campagna russa ai confini con la Finlandia. Poeta e autore di diversi romanzi, ha raggiunto la notorietà con Vento del Sud, vincitore del premio Stalin e tradotto in molte lingue.

Source: libro inviato dall’ editore, ringraziamo Francesca dell’ Ufficio stampa Marcos Y Marcos.

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:: Tre giusti, Nikolaj Leskóv (Marcos Y Marcos, 2016) a cura di Giulietta Iannone

22 aprile 2016

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Nikolàj Semënovicˇ Leskóv nacque a Gorohovo all’inizio del 1831. Sicuramente tra gli autori russi suoi contemporanei non ha mai raggiunto la fama di Tolstoj, Dostoevskij, o anche Čechov sebbene di alcuni anni più giovane, ma se si ha modo di leggere anche solo un suo racconto, si intuisce subito la grandezza e la profondità di questo scrittore, forse in anticipo con i tempi.
Si sa gli innovatori, i visionari, i precorritori dei tempi (e pensare che era considerato un conservatore) non hanno mai avuto vita facile, e se vogliamo forse proprio per questo motivo sebbene se ne intuisse la grandezza, (per lo meno i suoi colleghi illustri la intuirono bene), forse appunto i suoi lettori ideali siamo noi o i nostri figli e nipoti. Così almeno la pensava Tolstoj denominando appunto Leskov lo scrittore del futuro.
Non che naturalmente fosse considerato uno scrittore mediocre dai suoi contemporanei, era ben conosciuto e ammirato, ma non forse quanto avrebbe meritato. Siamo quindi ancora in tempo per tributare giusta fama al suo genio e rendere più noto e familiare il suo nome, da molti ancora ignorato.
Leskov fu un autore singolarmente prolifico, scrisse numerosi romanzi e ancor più racconti pubblicati su riviste, antologie, libri, e alcuni forse ancora oggi esistono solo squisitamente in lingua russa. Ettore Lo Gatto, insigne slavista, ho sicuramente studiato letteratura russa su un suo manuale all’Università, ha curato in lingua italiana Romanzi e racconti (di Leskov), Mursia, 1961, per chi fosse interessato.
Tre giusti, di Nikolaj Leskov, traduzione a cura di Paolo Nori, edito da Marcos Y Marcos è dunque un piccolo dono che troverete in libreria e che vi invito caldamente a leggere. (Se avete un piccolo budget per il libri questo mese, dedicatelo a lui. Non ve ne pentirete).
Ma veniamo a spiegare perché non ve ne dovreste pentire. Innanzitutto Tre giusti raccoglie tre racconti scritti da Leskov in periodi differenti: L’angelo sigillato, il più antico, è del 1873, A proposito della Sonata a Kreutzer, è stato scritto nel 1890 e pubblicato, postumo, nel 1899, e l’ultimo L’uomo di sentinella, è del 1887. Ma che appartengono tutti al periodo della maturità, (ricordiamoci che Leskov morì nel 1895 a 64 anni, e definisce noialtri scrittori anziani, sé stesso quando non aveva ancora compiuto cinquant’anni).
Due riflessioni mi sento di poter fare a proposito di questi racconti e della scrittura di quest’autore in genere. La prima è che indubbio scriveva per essere letto, ad alta voce. Il legame con la fiaba e l’oralità è fortissimo. E non lo dico per dire, ne ho le prove. In questo video Paolo Nori presenta il libro e legge alcune pagine dei vari racconti.  Beh prendono vita, letteralmente acquistano una forza espressiva che mentre li leggevo solo nella mia mente non mi ero manco accorta possedessero, sebbene li avessi trovati tutti e tre notevoli.
Un’altra riflessione, ruota intorno al concetto dei tre giusti. Trovare il giusto nei due ultimi racconti A proposito della Sonata a Kreutzer e L’uomo di sentinella è un gioco da ragazzi, spicca senza esitazione, ma provate a capire chi sia il giusto in L’angelo sigillato. Ho letto diverse recensioni e ogni recensore lo individuava in un personaggio diverso, chi nell’ isografo Sevas’jan, chi nello starec Pamva, chi addirittura in Pimen Ivanov, (non si contano quante specie di miracoli riesce a fare con la sua zoppicante intercessione) o nel narratore del racconto, (il tipo buffo con la barba rossa che crede di aver visto gli angeli).
Insomma ci vuole davvero uno stato di grazia per distinguere i giusti dai peccatori, e questo è senz’altro il messaggio sotteso che Leskov infonde ai racconti che avremo modo di leggere. Quello che è piaciuto più a me è senz’altro il secondo, A proposito della Sonata a Kreutzer, dove è evidente che chi si crede giusto raramente lo è, e proprio la donna che si crede una terribile peccatrice, (tra la Maddalena del Vangelo e l’Anna Karenina di Tolstoj) emerge come un personaggio moralmente titanico, al confronto per esempio del marito, che la società determina come l’offeso. Di questo racconto ho apprezzato l’ironia e il paradosso, la lievità pur trattando temi di per sé pesanti. Un bambino muore di difterite e come viene strappato brutalmente alla madre e sepolto in tutta fretta in una palude, sebbene per motivi igienici, ha un che di orrorifico. Più ancora forse del finale.
Insomma che dire, spero di leggere altro di Leskov, e sono certa che non mi deluderà.

Di Nikolàj Semënovicˇ Leskóv (1831-1895) è stato detto che “I russi riconoscono in Leskóv il più russo degli scrittori russi, e quello che meglio di chiunque altro conosce il popolo russo” (l’ha detto il principe e critico letterario Dmìtrij Petróvicˇ Svjatopólk-Mìrskij – 1890-1939).

Source: libro inviato dall’ editore, ringraziamo Roberta dell’ Ufficio stampa Marcos Y Marcos.

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