Raphaël Krafft è un autore di reportage radiofonici e appassionato di viaggi in bicicletta. Da queste sue esperienze lo scrittore prende spesso ispirazione per scrivere dei libri, l’ultimo dei quali arrivato in Italia, grazie a Keller editore, è “Passeur”. La vicenda narrata nel testo prende forma da quello che Krafft ha visto, vissuto e conosciuto nel 2015, nella zona al confine franco-italiano delle Alpi Marittime, tra Mentone e Ventimiglia. Qui l’autore si era recato per raccogliere il materiale necessario alla realizzazione di un servizio dedicato ai migranti. A coloro che sono bloccati alla frontiera tra Italia e Francia e che sono pronti a tutto (pure ad ingressi clandestini) pur di andare in Francia, fare richiesta di asilo politico e poi continuare il viaggio diretti in altri Paesi dell’Europa, per raggiungere parenti e amici che già in precedenza hanno vissuto esperienze simili. Quello che nota Krafft è la precarietà delle condizioni di questi migranti abbandonati a loro stessi e in fuga da una vita a rischio nel loro paese di origine. In particolare l’autore incontra gente comune, viaggiatori, ex pompieri, insegnanti, politici e religiosi che intrecciano le loro esistenze con quelle di queste persone alla ricerca di un futuro migliore. Ciò che resta impresso nelle pagine dei Krafft è la diversità di trattamento che i migranti subiscono in Italia e poco oltre il confine, in Francia. In territorio italiano, dove c’è il Presidio per questa umanità in fuga, gli ospiti vengono trattati con maggiore attenzione e cura, mentre in Francia, lo scrittore nota una maggiore distanza verso questi migranti, spesso e volentieri abbandonati a loro stessi. Tra la massa di coloro che fuggono, ci sono Satellite e Adeel arrivati in Italia del Sudan. Krafft non esiterà ad aiutarli facendo l’ascesa al Colle di Finestra, seguendo il sentiero che sale da San Giacomo di Entracque, in Italia, e scende nella valle Vésubie, in Francia. Un tragitto, come si scoprirà durante la lettura, fatto da tantissime altre persone che – indipendentemente dal colore della pelle e dalla cultura- si sono mosse, nel presente e nel passato (tanti italiani e molti ebrei durante il Fascismo), alla ricerca di una speranza e di un futuro migliore. Il viaggio a piedi e con mezzi di fortuna sarà per tutti i protagonisti di “Passeur” un’esperienza dal grande valore emotivo e simbolico, perché durante questo percorso il giornalista avrà la possibilità di conoscere direttamente da Satellite e Adeel le loro storie di vita e le drammatiche sofferenze patite non solo nella terra di origine, ma anche nei campi di transizione (in Libia) dove chi è migrante ha un passaggio obbligato. “Passeur” è un libro che narra pezzi di vita vera e vissuta e questo gli ha permesso di diventare anche reportage radiofonico premiato ai NYF’s International Radio Program Awards for The World’s Best Radio Programs nel 2017. Leggere “Passeur” è addentrarsi nel libro di Krafft e compiere un viaggio nel quale sorgono tante domande, perché i temi considerati -la vita, la diversità, la migrazione, l’amicizia, il bisogno di un vita degna e il riscatto sociale- sono valori e bisogni universali che vanno oltre i confini territoriali, culturali e temporali e che hanno al centro l’intera specie umana. Traduzione dal francese di Luisa Sarlo.
Raphaël Krafft è nato nel 1974 e alterna reportage per stazioni radio pubbliche di lingua francese a lunghi viaggi in bicicletta (Nord e Sud America, Vicino Oriente, Francia) da cui trae documentari e libri. È autore di “Captain Teacher” (Buchet Chastel, 2013), racconto sulla creazione di una stazione radio in una remota regione dell’Afghanistan. Passeur è diventato anche un reportage radiofonico dal titolo “Passeur – Comment j’ai fait passer la frontière à des réfugiés” trasmesso da France Culture.
Source: libro del recensore.
“Una questione di tempo” è il romanzo di Alex Capus uscito in Italia per Keller editore. La storia è particolare, perché comincia con una scena della quale capiremo il senso solo addentrandoci nel romanzo dello scrittore nato in Francia. Fin dalle prime pagine assistiamo a quello che accade a Anton Rüder, in fuga dalla savana, finalmente vicino ai binari, così affamato su un pentolone di pappa di avena di soldati inglesi che gli stanno attorno. Poi scappa, di nuovo, con il malloppo per gustarselo in santa pace.
“Stato di emergenza. Viaggi in un mondo inquieto” è l’ultimo lavoro di Navid Kermani, pubblicato da Keller. Le pagine sono un vero e proprio affresco dettagliato del mondo mediorientale che l’autore, con la sua abile capacità di reporter, ha messo nelle pagine di un testo che è un vero e proprio viaggio letterario in quei Paesi del Medioriente dei quali sentiamo parlare alla televisione o leggiamo sui giornali. Kashmir, Agra, Gujarat, Pakistan, Afghanistan (parte prima e parte seconda), Iran, Iraq, Kurdistan, Siria, Palestina, fino a Lampedusa. Il reportage, tradotto da Fabio Cremonesi, permette a chi legge di conoscere quei mondi che sembrano così lontani e diversi da noi. Per esempio parlando del Kashmir, l’autore evidenzia come lo stato sia da tempo al centro dei “desideri” di Pakistan e di India, pronti anche a farsi la guerra pur di averlo. Di esso narra anche le bellezze naturali che non ti aspetti di trovare e la fuga delle popolazioni minacciate dai conflitti. Nel Gujarat, Kermani evidenzia, da una parte, i progressi economici e, dell’altra, la difficile convivenza tra induismo e religione musulmana. Non facile è la vita dei religiosi sufisti in Pakistan, che hanno serie difficoltà a poter vivere in modo completo e libero la propria dimensione mistica e di fede. L’autore ci pone attenzione sulla rivolta a Theran, in Iran, e della forte censura governativa che ha limitato in modo eccessivo la libertà di documentare la realtà e ciò che in essa accade. Stabilità politica molto difficile anche in Iraq dove, dopo la destituzione di Saddam Hussein, sembra che pace, ordina e stabilità sembra non riuscire proprio a radicarsi. Leggendo le pagine del libro di Kermani si nota la sua grande capacità di rendicontare dei mondi, delle culture, usi e tradizioni diversi che l’autore ha conosciuto vivendole in modo concreto. Ci sono inoltre degli elementi comuni che ritornano per ogni terra attraversata e che evidenziano una serie di problematiche condivise. C’è la mancanza di stabilità politica; la assenza di un adeguata stabilità economica che sia accessibile per tutti e non solo per qualcuno. Si percepisce anche un senso di mancanza di libertà di espressione un po’ ovunque; di vite che vorrebbero un po’ di pace e di tranquillità, ma che si trovano a vivere con un senso di precarietà che attanaglia in modo costante e che rende difficile fare progetti per il domani. Pagina dopo pagina “Stato di emergenza. Viaggi in un mondo inquieto” di Kermani mostra la sua profonda e dettagliata conoscenza sia del mondo occidentale, che di quello orientale, elemento che lo rende un vero e proprio punto di riferimento per i lettori interessanti a conoscere e comprendere la situazione del mondo mediorientale dell’oggi, per sapere come muoversi in esso nel prossimo futuro.
Quanti possono dire di sapere cos’è un’okapi? L’ultimo grande mammifero scoperto dall’uomo
“Il nero è un colore” è il romanzo autobiografico di Grisélidis Réal, autrice nata a Losanna nel 1929 e scomparsa a causa del cancro nel 2005. La storia narrata dalla Réal è una vicenda autobiografica che ha al centro la fuga della narratrice con un amante pazzo di origine afroamericana (Bill), che lei è riuscita a far dimettere da una clinica psichiatrica. Con la coppia ci sono i due figli della donna e tutti e quattro si dirigono a Monaco per sfuggire alla miseria, alla fame e alla povertà. Per il quartetto comincerà una vera e propria lotta alla sopravvivenza per poter mangiare qualcosa e per avere un tetto da riparo sulla testa. Pagina dopo pagina ci addentriamo nella vita della scrittrice svizzera che ci trascina nel suo mondo, complicato sì, ma dove l’amore per i figli è quello che domina e che la spinge la Réal a fare il possibile per tenere unita la famiglia. Ed ecco che nelle pagine, al tanto amore materno, si alternano momenti più cupi dove la protagonista conosce da vicino il male, la violenza, lo spaccio per droga, la fame, il carcere e quella sensazione di vita vissuta sempre sul filo del rasoio. Dalla strada, ad un certo punto, la protagonista finirà a lavorare come attrice in piccoli film, come modella per la scuola di pittura e nella Casa Rossa, un bordello gestito da Mamma Shakespeare. Non mancherà nemmeno un altro amante che la trascinerà in un losco giro di traffico di droga e tante altre dure prove che renderanno l’esistenza di Grisélidis una lotta per la sopravvivenza, la sua, per garantire quelle dei suoi bimbi. “Il nero è un colore” è una vicenda autobiografica di forte impatto emotivo, nella quale il sopruso, la violenza, il cinismo umano sono qualcosa di impressionante, perché la protagonista incontra persone con atteggiamenti così meschini, cattivi e brutali da sembrare usciti da un film, mentre in realtà sono la nuda e cruda verità vissuta in prima persona dall’autrice. Chi racconta parla di sé, e lo fa con dolcezza alternata a rabbia e furore, ponendo però al centro di tutto, e sempre, quell’ amore profondo per i figli, un legame così intenso da indurla a vendere il suo copro pur di dare loro un po’ di tranquillità e cibo. Nelle pagine di “Il nero è un colore” si susseguono depravazione e le richieste più assurde di clienti che possiamo mettere tra il sadico e il feticista, ai quali la donna si sottomette per avere qualche spicciolo, ma la Réal ci fa conoscere anche qualcosa di davvero speciale nel suo vissuto: le sue passioni potenti. Oltre ai due figli, Girsélidis ha una profonda e palpitante attrazione per gli uomini dalla pelle color ebano, in particolare per i militari presenti nelle caserme americane in Germania. Quei soldati che attirano la protagonista per la loro prestanza fisica, per quella pelle così liscia e levigata da sembrare scolpita e per le loro automobili luccicanti. Altro elemento importante della vita della Réal sono i suoi amici zingari, quell’etnia che per lei è una vera e propria famiglia, che la ama e accudisce, senza pregiudizi, come se fosse una figlia, anche se figlia loro non lo è. “Il nero è un colore”, Grisélidis Réal è un libro lucido, nel quale l’autrice ripercorre passo dopo passo la sua vita, le sensazioni e le emozioni che l’hanno caratterizzata, in un ritratto chiaro di sé nel quale ogni singola cosa o gesto compiuto è portato avanti, nonostante le difficoltà, dalla forza e dal sentimento dell’amore. Traduzione dal francese Yari Moro.
Al centro della storia di “Il grande amore di mia madre” di Urs Widmer, ci sono Clara e Edwin. Lei appartiene ad un ricca famiglia borghese, lui è uno squattrinato direttore d’orchestra. La ragazza segue il giovane nella sua vita giù e sul palco, dove si cimenta con la musica dei compositori moderni. Lei è innamorata di lui a tal punto da essere certa che Edwin sia l’uomo perfetto e lo segue in giro per l’Europa – Parigi è una delle tappe- dove lui e la sua orchestra vanno a suonare. Poi il destino comincia a girare in modo diverso e mentre Edwin diventa un famoso direttore d’orchestra di fama mondiale, Clara deve affrontare lo sfacelo economico della sua famiglia scatenato dalla crisi del 1929, unito all’amore non ricambiato del ragazzo per lei. Un sentimento non corrisposto che darà il tormento per tutta la vita a Clara. Dopo aver narrato la figura del padre, Urs Widmer, in “Il grande amore di mia madre”, racconta con maestria e delicatezza la figura della madre che si innamorò davvero di uno dei più importanti direttori d’orchestra svizzeri, senza esserne ricambiata. Nel libro, oltre a dove affrontare un sentimento che la porterà pian piano alla totale consunzione ed esaurimento nervoso, Clara si ritroverà senza più un soldo, senza un casa, senza una famiglia (il padre muore e i parenti piemontesi che ha, ad un centro momento, cominciano a tenerla a debita distanza) e senza più nulla che le permetta di avere delle certezze. La giovane descritta da Widmer si rimboccherà le maniche per ritrovare un po’ di stabilità, ma questa rinascita sarà più ardita del previsto, non solo perché per la protagonista sarà difficile trovare un lavoro, ma perché in Europa, sul finire degli anni Venti, si radicheranno sempre più i regimi totalitari. Pagina dopo pagina, Widmer ci fa conoscere una donna che si creò una famiglia anche se del marito non si dice nulla, che ebbe un figlio – l’autore- con nel cuore sempre lui, quell’ Edwin concentrato tutto sulla musica e sulla necessità personale di diventare un figura importante e di successo in ambito musicale e sociale. Il sentimento per il maestro d’orchestra è così intenso da gettare la donna in un profondo male di vivere seguito da ricoveri in istituti di cura con elettroshock e ritorni a casa con l’intenzione di dimenticare il passato coltivando, più che fiori, verdura. Il narratore si pone testimone impotente del processo distruttivo della mamma che, nelle pagine, opera nel tentativo -vano- di dimenticare un uomo che non l’amò mai davvero. Ogni cosa fatta da Clara, come ci racconta la voce narrante con garbo e ironia, viene messa in atto per trovare un pizzico di sana pace e stabilità. “Il grande amore di mia madre” di Urs Widmer, tradotto da Roberta Gado, è il ritratto lucido ed emotivo di una donna che amò in modo sincero e che soffrì molto per questo sentimento non compreso. Allo stesso tempo Widmer, attraverso la figura della madre, affronta un tema universale: la fragilità dell’animo umano. Clara ha sogni, ha delle aspettative, ha dei progetti e dei desideri, ma i fatti narrati, il caso o il fato, la prenderanno di mira mettendo in crisi il coraggio e ogni tentativo della donna nel provare a perseguire i propri obiettivi per ritrovare un pizzico di vera felicità.
Clemens Meyer lo avevamo conosciuto con Eravamo dei grandissimi, il romanzo del 2016 con protagonista la squattrinata combriccola adolescente a Lipsia. Ora il narratore tedesco torna in libreria con un nuovo lavoro letterario che Keller ha pubblicato per noi in Italia. Il silenzio dei satelliti è un raccolta di racconti (12) ambientai in Germania, nei quali la protagonista è una umanità varia, ritratta nelle sue diverse sfaccettature. O meglio, nel libro si trovano nove racconti intervallati da tre momenti (uno-due-tre). Tre sezioni di storie dove l’importanza è quella di mantenere vive le reazioni umane, dove c’è la paura ad accettare e a manifestare i sentimenti che animano il cuore e i desideri umani, uniti al passato che torna per non essere dimenticato. Ogni racconto è poi una storia a sé, dove sono messi in gioco valori esistenziali, ricordi, emozioni, gioie, dolori e paure che rendono le creature letterarie di Meyer tipi narrativi molto simili alle persone reali. Queste diverse tipologie di esseri umani e di storie si muovono in grandi architetture e appartamenti che hanno il ruolo integrante di scenari di ambientazione. Tanti racconti, per tanti individui che danno vita ad un’opera corale della quale Meyer diventa uditore-testimone, che rendiconta a noi lettori queste esistenze frammentate, fatte di sconfitte e di piccole rivincite, diverse e, allo stesso tempo, anche simili alle nostre. C’è allora il poliziotto guardiano che si innamora della ragazzina che vive nel campo profughi. La donna ossessionata dai nocciolini delle ciliegie e la sua amicizia con un’altra anima solitaria come la sua. I due amici che prendono il padre malato di uno di loro e lo portano sulla ruota panoramica. Accanto al trio, il sottoufficiale che torna a casa a trovare la nonna. Con lui, in un’altra storia, il gestore di un chiosco innamorato della fidanzata musulmana del migliore amico e del tutto incapace di accettare tale sentimento. Ci sono fantini che vanno a cavallo e quelli che sognano di gareggiate a St. Moritz e poi arrivano i sopravvissuti ai campi di concentramento, che pensano a quante ne hanno passate e sopportate. La scrittura di Meyer è dinamica, veloce e denota una volontà precisa di mettere in scena alcuni temi attuali come il contrasto fra culture, fra usi e costumi differenti che convivono in uno stesso spazio anche in modo forzato e sulle contrapposizioni generazionali. Non mancano l’amore provato e non ricambiato, la povertà, la sofferenza e la solitudine che annientano alcuni dei protagonisti presenti nella narrazione. Non tutto è perduto, perché poi arriva lei, è non è un persona vera e propria, ma è la Speranza e la ritroviamo in molte delle creature che, nonostante tutte le ammaccature e imprevisti della vita, sono pronte a non mollare mai e a guardare avanti per un domani migliore. Il silenzio dei satelliti di Clemens Meyer, edito da Keller, è una sorta di grande condominio nel quale ogni finestrella illuminata è la storia di vita di ognuno dei personaggi in esso presenti. Frammenti di vissuto che ci vengono incontro, che si raccontano per quello che sono e che chiedono di rivivere grazie alla lettura e all’ascolto. Traduzione, sapiente e ben fatta, di Roberta Gado e Riccardo Cravero.
Sorj Chalandon con La professione del padre, edito da Keller ci porta a conoscere un ragazzino e la sua vita da incubo con un padre troppo concentrato su se stesso e sulle sue ossessioni, per rendersi conto della vera natura della realtà. Il romanzo di Chalandon ha una struttura circolare, nel senso che comincia con il presente recente nel quale il protagonista è adulto, poi parte un lungo flashback nel passato e si torna nell’oggi, dove la storia trova il suo compimento. Nel tempo andato, il lettore si trova nella Francia del 1950, quella di De Gaulle, dove il piccolo Émile (sette anni) è costretto dal padre André Choulans a vivere nel suo mondo di paranoie da adulto che hanno al centro la scena politica della Francia di quel periodo. Il padre manipolatore inculca nella testa del figlio che loro due sono nell’ OAP, un’associazione segreta e di terroristi, pronta a tutto pure di far cadere Charles De Gaulle e liberare l’Algeria dal domino francese. Émile e la madre vivono sotto il controllo totale dal padre/marito padrone/dittatore e la vita della famiglia diventa un incubo, nel senso che quella che per il padre André viene considerata una trasgressione o un errore che rischia di mettere a repentaglio i suoi piani contro il governo, viene punita in mondo brutale. Sì, perché l’uomo non esita a castigare quelli che per lui sono sbagli, e lo fa con tremende punizioni corporali e fisiche, trasformando il focolare domestico in un luogo di estrema violenza fatta di allenamenti estremi, botte ripetute e insulti verso la moglie – vittima consapevole e incapace di reagire-, e il figlio, ancora troppo piccolo per comprendere la natura deviata e mentalmente malata del genitore. Madre e figlio non hanno via di scampo e possono solo assecondare e obbedire al capofamiglia, nascondendo ben bene i lividi agli occhi del mondo esterno. Poi, ad un certo punto Émile cresce e prende le distanze dai genitori, perché ha capito che quell’individuo che doveva proteggerlo e aiutarlo a trovare il suo posto nel mondo, è una minaccia pericolosa per gli altri e per sé. Ne Il mestiere del padre ciò che caratterizza la vita del piccolo protagonista è il peso delle violenze fisiche e piscologiche che lui e la madre subiscono per mano di un uomo insano, contro il quale mai nessuno si schiera o prende posizione. Émile non ha amici, non ha nessuno a cui confidare il dramma che vive a casa, può contare solo sulle sue forze. E saranno esse ad aiutarlo ad andare via, lontano dai genitori, per trovare, da solo, il giusto equilibrio del vivere, diventando restauratore e aggiustando le cose. Sorj Chalandon ne Il mestiere del padre utilizza un linguaggio coinvolgente per portarci in una storia nella quale il piccolo protagonista è succube della mente malata del capofamiglia e delle sue ossessioni maniacali, le stesse che gli di dare il via ad un rapporto sano e costruttivo con il figlio Émile. Interessante e ben fatta è anche la traduzione di Silvia Turato la quale, pagina dopo pagina, riesce a far arrivare ai lettori lo stato di disagio e le fragilità piscologiche presenti in ognuno dei personaggi della storia.
“Dalla parte del bene” è un viaggio nella vita di un uomo, nei suoi ricordi d’infanzia in un piccolo paese al confine con la Polonia. Un località piazzata lì sul valico tra due montagne, dove la vita scorre in modo pacifico, lontana da ogni paura e preoccupazione. Non a caso, per il protagonista e per chi è nato al paesello, fondamentali come indice della crescita sono i passaggi di mezzo a due pedali. Dal triciclo quando si è piccoli piccoli, passando per una Pionýr, nella speranza di avere una Eska, una bicicletta alla quale tutti mirano, perché la si trova in tanti colori e con le marce. In realtà, queste sono le tappe intermedie per l’arrivo all’età adulta, perché il traguardo finale, quello che sancisce l’ingresso nell’età adulta e che in pochi hanno il privilegio di avere è lei: la Favorit. A raccontare la storia c’è un bambino, il figlio del capitano delle squadra di calcio del Kostelec. Pagina dopo pagina, la voce narrate cresce diventando adulta e, nell’arco di tempo che trascorre (circa una ventina di anni), chi narra ci porta nella vita di un uomo (il padre) che ha sperimentato sulla sua propria pelle, esperienze di vita che hanno lasciato segni indelebili. Dall’essere un grande calciatore di successo osannato da tutti, al dover fare i conti con problemi fisici che costringeranno l’uomo ad attaccare gli scarpini da calcio al chiodo e trovare un altro lavoro per mantenere la famiglia. Vita quotidiana, fatta di lavoro, di affetti e anche di piccole incomprensioni familiari sulle quali gravano, nel 1968, le tensioni della Primavera di Praga e, nel 1989, un ulteriore cambiamento: la caduta del muro di Berlino. In “Dalla parte del bene” di Fahrner però l’io narrante, quel bambino che cresce diventando un uomo, espone anche il proprio vissuto personale tra sport amati (la bicicletta) e tenuti a distanza (anche se è figlio di un calciatore il narratore non ama il gioco del calcio). E non solo, perché il figlio dell’ex capitano del Kostelec adora il teatro, lo studia, ci lavora e in barba a tutte le difficoltà fa ogni singola cosa con passione, fino all’incontro con la donna amata. Tra i ricordi, accanto alle imprese del padre ex calciatore, ma sempre eroe, si innestano la nascita dei due figli della voce protagonista e il suo rimettersi in gioco come artigiano con un forno per cuocere ceramiche. In “Dalla parte del bene”, Martin Fahrner, come Ota Pavel, con uno stile ricco di ironia e sentimento si rivela uno dei migliori esponenti della letteratura ceca. Uno scrittore che scava nei meandri della memoria, ripescando i ricordi del e dal passato personale, per intrecciarli con i fatti storici della propria terra d’origine. Il tutto per modellare, pagina dopo pagina, una narrazione nella quale si rendono straordinaria la quotidianità di una famiglia e la sua capacità di non abbattersi mai e di reinventarsi sempre nel corso del tempo. Traduzione dal ceco Laura Angeloni.

Al centro delle trama c’è un rapporto indissolubile, più potente dei legami di sangue, tra il protagonista e l’anziano vicino di casa soprannominato Nonno due. L’uomo è solo, cieco e di lui non si sa nulla, né da dove venga, né cosa abbia fatto nel suo passato. Un individuo misterioso attorno al quale ci sono tante dicerie dalle quali il piccolo protagonista non si lascia influenzare. Il ragazzino si affeziona molto all’anziano e l’empatia tra i due è reciproca, a tal punto che nei primi anni Novanta (siamo nel 1991) Nonno due sacrificherà la sua vita per salvare quella del suo piccolo amico. Il bambino, diventato adulto, inizierà una vera e propria indagine, che non solo lo porterà a viaggiare in lungo e in largo per la terra russa. La sua ricerca gli permetterà di dare sempre più forma al passato di quel vecchio cieco e burbero da lui chiamato Nonno due. Il viaggio compiuto dal protagonista di Lebedev è rivolto sempre più verso il Nord della Russia (Siberia) e addentrandosi nelle pagine si ha come la sensazione di compiere una vera e propria discesa agli inferi in un mondo dove, ad un certo punto, non si riesce più a comprendere chi sia davvero la vittima e chi il carnefice. Il protagonista troverà lettere, incontrerà persone e scoprirà indizi che gli permetteranno di mettere assieme la vera identità di Nonno due. Dati che lo faranno soffrire e riflettere. Nonno due infatti fu per parecchio tempo il capo di un gulag, ebbe una sua famiglia, ma le avversità del Destino e della vita giocarono contro di lui. A fare da sfondo all’indagine c’è il paesaggio siberiano fatto di miniere in disuso, di crepacci naturali pieni di memoria, di caserme un tempo piene di uomini. Luoghi vuoti nel presente, afflitti da un senso di opprimente desolazione sotto la quale ribollono le indicibili violenze che caratterizzarono la vita degli internati e quella dell’anziano. Nel compiere la sua ricostruzione il protagonista del romanzo di Segej Lebedev mette in evidenza la magnifica bellezza delle terre russe, modificate e ferite in modo irreparabile dall’uomo. Allo stesso tempo, la violenza sull’ambiente rispecchia quella che gli esseri umani hanno compiuto verso altri loro simili, con il conseguente annientamento di ogni aspirazione alla libertà del vivere, agire e pensare. “Il confine dell’oblio” di Lebedev è un libro che vuole fare memoria del passato russo, di quell’epoca storica del Novecento dolorosa, già narrata da autori come Aleksandr Solženicyn o Varlam Šalamov. Il tutto per mantenere vivo nel presente il ricordo delle centinaia di migliaia di uomini e donne finiti nei gulag. Traduzione dal russo Rosa Mauro.























