Posts Tagged ‘Keller editore’

Passeur di Raphaël Krafft (Keller 2020) A cura di Viviana Filippini

22 Maggio 2020

PasseurRaphaël Krafft è un autore di reportage radiofonici e appassionato di viaggi in bicicletta. Da queste sue esperienze lo scrittore prende spesso ispirazione per scrivere dei libri, l’ultimo dei quali arrivato in Italia, grazie a Keller editore, è “Passeur”. La vicenda narrata nel testo prende forma da quello che Krafft ha visto, vissuto e conosciuto nel 2015, nella zona al confine franco-italiano delle Alpi Marittime, tra Mentone e Ventimiglia. Qui l’autore si era recato per raccogliere il materiale necessario alla realizzazione di un servizio dedicato ai migranti. A coloro che sono bloccati alla frontiera tra Italia e Francia e che sono pronti a tutto (pure ad ingressi clandestini) pur di andare in Francia, fare richiesta di asilo politico e poi continuare il viaggio diretti in altri Paesi dell’Europa, per raggiungere parenti e amici che già in precedenza hanno vissuto esperienze simili. Quello che nota Krafft è la precarietà delle condizioni di questi migranti abbandonati a loro stessi e in fuga da una vita a rischio nel loro paese di origine. In particolare l’autore incontra gente comune, viaggiatori, ex pompieri, insegnanti, politici e religiosi che intrecciano le loro esistenze con quelle di queste persone alla ricerca di un futuro migliore. Ciò che resta impresso nelle pagine dei Krafft è la diversità di trattamento che i migranti subiscono in Italia e poco oltre il confine, in Francia. In territorio italiano, dove c’è il Presidio per questa umanità in fuga, gli ospiti vengono trattati con maggiore attenzione e cura, mentre in Francia, lo scrittore nota una maggiore distanza verso questi migranti, spesso e volentieri abbandonati a loro stessi. Tra la massa di coloro che fuggono, ci sono Satellite e Adeel arrivati in Italia del Sudan. Krafft non esiterà ad aiutarli facendo l’ascesa al Colle di Finestra, seguendo il sentiero che sale da San Giacomo di Entracque, in Italia, e scende nella valle Vésubie, in Francia. Un tragitto, come si scoprirà durante la lettura, fatto da tantissime altre persone che – indipendentemente dal colore della pelle e dalla cultura- si sono mosse, nel presente e nel passato (tanti italiani e molti ebrei durante il Fascismo), alla ricerca di una speranza e di un futuro migliore. Il viaggio a piedi e con mezzi di fortuna sarà per tutti i protagonisti di “Passeur” un’esperienza dal grande valore emotivo e simbolico, perché durante questo percorso il giornalista avrà la possibilità di conoscere direttamente da Satellite e Adeel le loro storie di vita e le drammatiche sofferenze patite non solo nella terra di origine, ma anche nei campi di transizione (in Libia) dove chi è migrante ha un passaggio obbligato. “Passeur” è un libro che narra pezzi di vita vera e vissuta e questo gli ha permesso di diventare anche reportage radiofonico premiato ai NYF’s International Radio Program Awards for The World’s Best Radio Programs nel 2017. Leggere “Passeur” è addentrarsi nel libro di Krafft e compiere un viaggio nel quale sorgono tante domande, perché i temi considerati -la vita, la diversità, la migrazione, l’amicizia, il bisogno di un vita degna e il riscatto sociale- sono valori e bisogni universali che vanno oltre i confini territoriali, culturali e temporali e che hanno al centro l’intera specie umana. Traduzione dal francese di Luisa Sarlo.

Raphaël Krafft è nato nel 1974  e alterna reportage per stazioni radio pubbliche di lingua francese a lunghi viaggi in bicicletta (Nord e Sud America, Vicino Oriente, Francia) da cui trae documentari e libri. È autore di “Captain Teacher” (Buchet Chastel, 2013), racconto sulla creazione di una stazione radio in una remota regione dell’Afghanistan. Passeur è diventato anche un reportage radiofonico dal titolo “Passeur – Comment j’ai fait passer la frontière à des réfugiés” trasmesso da France Culture.

Source: libro del recensore.

Una questione di tempo, Alex Capus, (Keller editore 2019) A cura di Viviana Filippini

27 febbraio 2020

CapusUna questione di tempo” è il romanzo di Alex Capus uscito in Italia per Keller editore. La storia è particolare, perché comincia con una scena della quale capiremo il senso solo addentrandoci nel romanzo dello scrittore nato in Francia. Fin dalle prime pagine assistiamo a quello che accade a Anton Rüder, in fuga dalla savana, finalmente vicino ai binari, così affamato su un pentolone di pappa di avena di soldati inglesi che gli stanno attorno. Poi scappa, di nuovo, con il malloppo per gustarselo in santa pace. Questo è l’inizio del libro di Capus e dopo questo frangente il lettore viene catapultato nel 1913, nel Mare del Nord, dove ci sono i cantieri navali Meyer. Qui troviamo lo stesso Anton Rüder al lavoro con altri colleghi, mentre sta smontando la nave Götzen in pezzi sempre più piccoli che andranno spediti in Africa, sul Lago Tanganica, dove c’è l’area sotto il controllo dei tedeschi. In realtà anche Rüder si ritroverà in Africa. Nello stesso momento Geoffrey Spicer Simpson, un comandante strambo, anche un po’ sbruffone come si avrà modo di vedere durante la lettura, arriva dal Regno Unito, nella stessa area dove ci stanno i tedeschi (lato opposto) con Mimi e Toutou. Due ragazze? No. Le due sono delle malconce cannoniere spedite sulle acque del Tanganica. È l’epoca del colonialismo e della Prima guerra mondiale che di lì a poco prende il via, tanto che tedeschi e inglesi presenti, da pacifici conviventi si troveranno ad essere all’improvviso nemici. Capus ci porta dentro ad un mondo lontano più di un secolo da noi e lo fa con un romanzo storico dettagliato, nel quale però c’è anche una profonda dimensione umana data dei diversi caratteri dei personaggi presenti nella scena narrativa. Ognuno di loro ha un proprio modo di fare, che li rende unici e inimitabili al mondo. Capus ci narra il senso di spaesamento e destabilizzazione percepito dai militari in guerra, ma lontani dalle trincee europee. Per esempio Rüder, che pensava di dover solo rimontare la nave, ad un certo punto si trova arruolato e lui la guerra nemmeno voleva farla. Ben diverso il tenente colonnello Zimmer, che non è solo la rappresentazione del massimo rigore militare ma, purtroppo, anche l’insensibilità fatta persona. Per quanto riguarda l’inglese Simpson, è un fanfarone e gradasso, però nel momento in cui accetta la missione in Africa, in lui qualcosa cambia, facendo emergere un’immagine che non corrisponde del tutto alla percezione che gli altri hanno di questo comandante. Pagina dopo pagina, ci si accorge che ogni essere umano ha un proprio modo di vedere e interpretare le cose, perché i personaggi creati da Capus non solo hanno una loro veduta sulla guerra, ma hanno anche un personale modo per gestire il rapporto con le popolazioni africane, con le quali ad un certo punto devono convivere. Nel libro non mancano momenti, dove i soldati sfuggono alla rigidità degli ordini militari per relazionarsi alle popolazioni locali, diventando amici dei Masai, andando oltre i pregiudizi e provando a conoscere al meglio la natura africana, poco nota ai protagonisti che hanno sempre vissuto in Europa.  “Una questione di tempo” di Alex Capus è un romanzo storico ispirato a fatti reali (la nave passeggeri Graf von Götzen, è esistita davvero, ed era dedicata ad un politico e esploratore tedesco Gustav Adolf von Götzen) ma, allo stesso tempo, è una narrazione dove ironia e sentimento convivono alla perfezione portando il lettore negli animi e sentimenti di ognuno dei personaggi dove si trovano amore, amicizia, paura e speranza per il futuro. Traduzione dal Tedesco Franco Filice.

Alex Capus è nato nel 1961 in Francia, ha studiato storia, filosofia e antropologia a Basilea e ha lavorato, sia durante che dopo i suoi studi, come giornalista e redattore per diversi giornali. È uno degli autori tedeschi più famosi e amati dal grande pubblico, noto a livello internazionale con il bestseller “Leon e Louise” in Italia edito da Garzanti con il titolo “Ogni istante di te e di me”. Ha pubblicato numerose opere con grande successo di critica e pubblico ed è traduttore, tra gli altri, di John Fante. Tra i numerosi premi che si è aggiudicato: 2013 Publikumspreis des Westschweizer Radio und Fernsehens; 2005 Förderpreis des Kantons Solothurn; 2005 Anerkennungspreis der Stadt Olten; 1998 Werkjahr der Stiftung Pro Helvetia; 1998 Förderpreis des Kulturkreises der deutschen Wirtschaft im BDI; 1996 Werkjahr des Kantons Solothurn; 1995 Literaturpreis Regiobank Solothurn.

Source: libro del recensore.

:: Stato di emergenza. Viaggi in un mondo inquieto di Navid Kermani (Keller 2019) a cura di Viviana Filippini

23 settembre 2019

Stato di emergenzaStato di emergenza. Viaggi in un mondo inquieto” è l’ultimo lavoro di Navid Kermani, pubblicato da Keller. Le pagine sono un vero e proprio affresco dettagliato del mondo mediorientale che l’autore, con la sua abile capacità di reporter, ha messo nelle pagine di un testo che è un vero e proprio viaggio letterario in quei Paesi del Medioriente dei quali sentiamo parlare alla televisione o leggiamo sui giornali. Kashmir, Agra, Gujarat, Pakistan, Afghanistan (parte prima e parte seconda), Iran, Iraq, Kurdistan, Siria, Palestina, fino a Lampedusa. Il reportage, tradotto da Fabio Cremonesi, permette a chi legge di conoscere quei mondi che sembrano così lontani e diversi da noi. Per esempio parlando del Kashmir, l’autore evidenzia come lo stato sia da tempo al centro dei “desideri” di Pakistan e di India, pronti anche a farsi la guerra pur di averlo. Di esso narra anche le bellezze naturali che non ti aspetti di trovare e la fuga delle popolazioni minacciate dai conflitti. Nel Gujarat, Kermani evidenzia, da una parte, i progressi economici e, dell’altra, la difficile convivenza tra induismo e religione musulmana. Non facile è la vita dei religiosi sufisti in Pakistan, che hanno serie difficoltà a poter vivere in modo completo e libero la propria dimensione mistica e di fede. L’autore ci pone attenzione sulla rivolta a Theran, in Iran, e della forte censura governativa che ha limitato in modo eccessivo la libertà di documentare la realtà e ciò che in essa accade. Stabilità politica molto difficile anche in Iraq dove, dopo la destituzione di Saddam Hussein, sembra che pace, ordina e stabilità sembra non riuscire proprio a radicarsi. Leggendo le pagine del libro di Kermani si nota la sua grande capacità di rendicontare dei mondi, delle culture, usi e tradizioni diversi che l’autore ha conosciuto vivendole in modo concreto. Ci sono inoltre degli elementi comuni che ritornano per ogni terra attraversata e che evidenziano una serie di problematiche condivise. C’è la mancanza di stabilità politica; la assenza di un adeguata stabilità economica che sia accessibile per tutti e non solo per qualcuno. Si percepisce anche un senso di mancanza di libertà di espressione un po’ ovunque; di vite che vorrebbero un po’ di pace e di tranquillità, ma che si trovano a vivere con un senso di precarietà che attanaglia in modo costante e che rende difficile fare progetti per il domani. Pagina dopo pagina “Stato di emergenza. Viaggi in un mondo inquieto” di Kermani mostra la sua profonda e dettagliata conoscenza sia del mondo occidentale, che di quello orientale, elemento che lo rende un vero e proprio punto di riferimento per i lettori interessanti a conoscere e comprendere la situazione del mondo mediorientale dell’oggi, per sapere come muoversi in esso nel prossimo futuro.

Navid Kermani è nato da genitori iraniani nella città tedesca di Siegen, il 27 novembre 1967. Già all’età di 15 anni, ha iniziato a scrivere per il giornale locale «Westfälische Rundschau». Dal 2000 al 2003, Kermani è stato Long Term Fellow al prestigioso Wissenschaftskolleg di Berlino. Oltre alla sua attività letteraria, Kermani ha pubblicato reportage giornalistici e articoli di fondo per i quotidiani tedeschi e la rivista «Spiegel». Dal 2006 al 2009, ha partecipato alla prima Conferenza islamica tedesca ed è stato il primo rappresentante della seconda generazione di immigrati in Germania a diventare membro dell’Accademia tedesca per la lingua e la poesia. Nel 2008, è stato fellow a Villa Massimo di Roma. Nel 2010 Kermani ha tenuto un ciclo delle prestigiose Lezioni di Francoforte sulla poetica. Quindi è stato visiting professor di Studi islamici presso l’Università di Francoforte (2013) e visiting professor di Letteratura tedesca al Dartmouth College (USA, 2014).  La sua ricerca accademica si concentra sulla mistica islamica e il Corano ma i campi di interesse e professionali di Kermani si allargano al reportage dedicati a regioni in guerra e in crisi. Le sue conferenze pubbliche affrontano spesso il rapporto tra la fede religiosa, la cultura e la società, così come il rapporto tra Oriente e Occidente. Dal 1988 vive a Colonia.

Source: richiesto dal recensore all’editore. Grazie all’ufficio stampa Keller.

:: Quel che si vede da qui di Mariana Leky (Keller, 2019) a cura di Eva Dei

28 luglio 2019

quel che si vede da quiQuanti possono dire di sapere cos’è un’okapi? L’ultimo grande mammifero scoperto dall’uomo

un animale assurdo, molto più assurdo della morte, e sembra del tutto sconnesso con le sue zampe da zebra, i fianchi da tapiro, il corpo da giraffa color ruggine, gli occhi da capriolo e le orecchie da topo.

Sembra davvero un animale inverosimile, ancora di più quando si materializza davanti a un’anziana signora del Westerwald, in Germania. Selma lo incontra nei suoi sogni sempre nei prati dell’Uhlheck, quell’insieme di campi e prati dove la conduce la sua passeggiata pomeridiana. I due si stagliano immobili nella piana, fino a quando i loro sguardi si incrociano; solo a quel punto, come tutte le volte, il sogno sfuma, Selma si sveglia e capisce che qualcosa di brutto accadrà a breve. Tre volte ha sognato un okapi e nelle ore successive è sempre morto qualcuno all’interno della sua piccola comunità.
Una nonna che prevede la morte è solo uno degli strani componenti della famiglia di Luise: un padre dottore alla ricerca di una cura per il proprio dolore, una madre cronicamente incapace di essere presente, un ottico, amico di famiglia, segretamente innamorato di sua nonna. Questi sono solo alcuni degli strani personaggi che prendono vita dalla penna di Mariana Leky.
Quel che si vede da qui è un romanzo di formazione, la storia inizia quando Luise ha dieci anni: i giochi, la scuola, l’amicizia con Martin, il mondo filtrato dagli occhi dell’infanzia. Con la seconda parte compiamo un salto temporale e ritroviamo Luise che ha già ventidue anni, alle prese con un apprendistato in libreria e con Frederik, un giovane monaco buddista che vive in Giappone e che dal loro primo incontro le ha “ribaltato la vita”. Fa da spartiacque della storia, un evento tragico, una morte annunciata proprio dall’astruso sogno della nonna Selma.
Ma questo libro è pieno di avvenimenti e personaggi bizzarri, una realtà al limite dell’onirico, pervasa da momenti delicati ma anche divertenti. Nel romanzo ritroviamo tanti temi importanti: la crescita, l’amore, la ricerca di sé, la perdita e la morte, l’amicizia e il senso di comunità; forse, però, ciò che maggiormente lo differenzia da altri libri di questo genere è la componente del “meraviglioso” che la Leky decide di far entrare in scena. Ricorrendo a situazioni assurde e inverosimili, a credenze e personaggi immaginari, l’autrice coglie l’essenza di situazioni e sensazioni più che reali; cosa rievoca meglio il dolore per una perdita se non la sensazione di portare su di noi un peso in ogni momento, per i giorni a venire? E quale è il nostro desiderio più forte dopo un lutto se non quello di cadere in un sonno perpetuo in cui non avvertiamo più nessun dolore ma nemmeno nessun bisogno? E infine l’ansia, l’angoscia non sono tanto simili a quel fastidioso e invisibile folletto Sbranagole che si attacca al collo di Elsbeth?
Quel che si vede da qui è un romanzo lieve, un inno alla vita in tutte le sue sfaccettature:

«(…) e mi accorsi che io fino a quel momento non avevo ancora scelto nulla, che le cose mi erano capitate e basta, mi accorsi che non avevo mai detto davvero “sì” a niente, semplicemente non avevo detto “no”. Pensai che non bisogna lasciarsi intimidire da un borioso addio, che gli si può sfuggire eccome, perché tutti gli addii sono negoziabili finché nessuno muore.»

Mariana Leky ha studiato Giornalismo culturale presso l’Università di Hildesheim, dopo aver svolto un tirocinio in una libreria. Oggi la sua vita si divide tra Berlino e Colonia. Il romanzo Quel che si vede da qui, pubblicato in Germania nel luglio del 2017, è rimasto per diverse settimane nei primi posti dei best seller e da allora a oggi è stabilmente tra i libri più venduti nelle librerie tedesche. È stato tradotto in più di quattordici lingue e al momento è in corso l’adattamento per il grande schermo.

Source: libro del recensore.

:: Il nero è un colore di Grisélidis Réal (Keller editore 2019) A cura di Viviana Filippini

3 giugno 2019

web-07-nero-frIl nero è un colore” è il romanzo autobiografico di Grisélidis Réal, autrice nata a Losanna nel 1929 e scomparsa a causa del cancro nel 2005. La storia narrata dalla Réal è una vicenda autobiografica che ha al centro la fuga della narratrice con un amante pazzo di origine afroamericana (Bill), che lei è riuscita a far dimettere da una clinica psichiatrica. Con la coppia ci sono i due figli della donna e tutti e quattro si dirigono a Monaco per sfuggire alla miseria, alla fame e alla povertà. Per il quartetto comincerà una vera e propria lotta alla sopravvivenza per poter mangiare qualcosa e per avere un tetto da riparo sulla testa. Pagina dopo pagina ci addentriamo nella vita della scrittrice svizzera che ci trascina nel suo mondo, complicato sì, ma dove l’amore per i figli è quello che domina e che la spinge la Réal a fare il possibile per tenere unita la famiglia. Ed ecco che nelle pagine, al tanto amore materno, si alternano momenti più cupi dove la protagonista conosce da vicino il male, la violenza, lo spaccio per droga, la fame, il carcere e quella sensazione di vita vissuta sempre sul filo del rasoio. Dalla strada, ad un certo punto, la protagonista finirà a lavorare come attrice in piccoli film, come modella per la scuola di pittura e nella Casa Rossa, un bordello gestito da Mamma Shakespeare. Non mancherà nemmeno un altro amante che la trascinerà in un losco giro di traffico di droga e tante altre dure prove che renderanno l’esistenza di Grisélidis una lotta per la sopravvivenza, la sua, per garantire quelle dei suoi bimbi. “Il nero è un colore” è una vicenda autobiografica di forte impatto emotivo, nella quale il sopruso, la violenza, il cinismo umano sono qualcosa di impressionante, perché la protagonista incontra persone con atteggiamenti così meschini, cattivi e brutali da sembrare usciti da un film, mentre in realtà sono la nuda e cruda verità vissuta in prima persona dall’autrice. Chi racconta parla di sé, e lo fa con dolcezza alternata a rabbia e furore, ponendo però al centro di tutto, e sempre, quell’ amore profondo per i figli, un legame così intenso da indurla a vendere il suo copro pur di dare loro un po’ di tranquillità e cibo. Nelle pagine di “Il nero è un colore” si susseguono depravazione e le richieste più assurde di clienti che possiamo mettere tra il sadico e il feticista, ai quali la donna si sottomette per avere qualche spicciolo, ma la Réal ci fa conoscere anche qualcosa di davvero speciale nel suo vissuto: le sue passioni potenti. Oltre ai due figli, Girsélidis ha una profonda e palpitante attrazione per gli uomini dalla pelle color ebano, in particolare per i militari presenti nelle caserme americane in Germania. Quei soldati che attirano la protagonista per la loro prestanza fisica, per quella pelle così liscia e levigata da sembrare scolpita e per le loro automobili luccicanti. Altro elemento importante della vita della Réal sono i suoi amici zingari, quell’etnia che per lei è una vera e propria famiglia, che la ama e accudisce, senza pregiudizi, come se fosse una figlia, anche se figlia loro non lo è. “Il nero è un colore”, Grisélidis Réal è un libro lucido, nel quale l’autrice ripercorre passo dopo passo la sua vita, le sensazioni e le emozioni che l’hanno caratterizzata, in un ritratto chiaro di sé nel quale ogni singola cosa o gesto compiuto è portato avanti, nonostante le difficoltà, dalla forza e dal sentimento dell’amore. Traduzione dal francese Yari Moro.

Grisélidis Réal è nata a Losanna nel 1929. Ha trascorso la sua infanzia in Egitto e in Grecia, prima di intraprendere gli studi in Arti decorative a Zurigo. Presto madre di quattro figli, si prostituisce in Germania nei primi anni Sessanta, poi diventa la famosa “puttana rivoluzionaria” dei movimenti delle prostitute nel decennio che segue e cofondatrice di un’associazione di tutela nei loro confronti (ASPASIE). È morta il 31 maggio 2005.

Source: inviato dall’editore. Grazie a tutto lo staff di Keller Editore.

:: Il grande amore di mia madre di Urs Widmer (Keller Editore 2019) a cura di Viviana Filippini

17 Maggio 2019

2Al centro della storia di “Il grande amore di mia madre” di Urs Widmer, ci sono Clara e Edwin. Lei appartiene ad un ricca famiglia borghese, lui è uno squattrinato direttore d’orchestra. La ragazza segue il giovane nella sua vita giù e sul palco, dove si cimenta con la musica dei compositori moderni. Lei è innamorata di lui a tal punto da essere certa che Edwin sia l’uomo perfetto e lo segue in giro per l’Europa – Parigi è una delle tappe- dove lui e la sua orchestra vanno a suonare. Poi il destino comincia a girare in modo diverso e mentre Edwin diventa un famoso direttore d’orchestra di fama mondiale, Clara deve affrontare lo sfacelo economico della sua famiglia scatenato dalla crisi del 1929, unito all’amore non ricambiato del ragazzo per lei. Un sentimento non corrisposto che darà il tormento per tutta la vita a Clara. Dopo aver narrato la figura del padre, Urs Widmer, in “Il grande amore di mia madre”, racconta con maestria e delicatezza la figura della madre che si innamorò davvero di uno dei più importanti direttori d’orchestra svizzeri, senza esserne ricambiata. Nel libro, oltre a dove affrontare un sentimento che la porterà pian piano alla totale consunzione ed esaurimento nervoso, Clara si ritroverà senza più un soldo, senza un casa, senza una famiglia (il padre muore e i parenti piemontesi che ha, ad un centro momento, cominciano a tenerla a debita distanza) e senza più nulla che le permetta di avere delle certezze. La giovane descritta da Widmer si rimboccherà le maniche per ritrovare un po’ di stabilità, ma questa rinascita sarà più ardita del previsto, non solo perché per la protagonista sarà difficile trovare un lavoro, ma perché in Europa, sul finire degli anni Venti, si radicheranno sempre più i regimi totalitari. Pagina dopo pagina, Widmer ci fa conoscere una donna che si creò una famiglia anche se del marito non si dice nulla, che ebbe un figlio – l’autore- con nel cuore sempre lui, quell’ Edwin concentrato tutto sulla musica e sulla necessità personale di diventare un figura importante e di successo in ambito musicale e sociale. Il sentimento per il maestro d’orchestra è così intenso da gettare la donna in un profondo male di vivere seguito da ricoveri in istituti di cura con elettroshock e ritorni a casa con l’intenzione di dimenticare il passato coltivando, più che fiori, verdura. Il narratore si pone testimone impotente del processo distruttivo della mamma che, nelle pagine, opera nel tentativo -vano- di dimenticare un uomo che non l’amò mai davvero. Ogni cosa fatta da Clara, come ci racconta la voce narrante con garbo e ironia, viene messa in atto per trovare un pizzico di sana pace e stabilità. “Il grande amore di mia madre” di Urs Widmer, tradotto da Roberta Gado, è il ritratto lucido ed emotivo di una donna che amò in modo sincero e che soffrì molto per questo sentimento non compreso. Allo stesso tempo Widmer, attraverso la figura della madre, affronta un tema universale: la fragilità dell’animo umano. Clara ha sogni, ha delle aspettative, ha dei progetti e dei desideri, ma i fatti narrati, il caso o il fato, la prenderanno di mira mettendo in crisi il coraggio e ogni tentativo della donna nel provare a perseguire i propri obiettivi per ritrovare un pizzico di vera felicità.

Urs Widmer (1938-2014), figlio del traduttore e critico letterario Walter Widmer, studiò germanistica e romanistica a Basilea, Montpellier e Parigi, conseguendo il dottorato nel 1966 con una tesi sulla letteratura tedesca del dopoguerra. Prima di dedicarsi interamente alla scrittura lavorò per brevi periodi come editor presso importanti case editrici. Oltre che scrittore fu docente universitario, traduttore (Joseph Conrad, Raymond Chandler) e autore teatrale di successo. Le sue numerose opere sono tradotte in una trentina di lingue e fu insignito di vari premi. Nel catalogo Keller sono presenti anche Il sifone blu e Il libro di mio padre, sempre nella traduzione di Roberta Gado.

Source: inviato dall’editore al recensore. Grazie a tutto lo staff di Keller editore.

:: Il silenzio dei satelliti di Clemens Meyer (Keller 2019) a cura di Viviana Filippini

24 aprile 2019

Il silenzio dei satellitiClemens Meyer lo avevamo conosciuto con Eravamo dei grandissimi, il romanzo del 2016 con protagonista la squattrinata combriccola adolescente a Lipsia. Ora il narratore tedesco torna in libreria con un nuovo lavoro letterario che Keller ha pubblicato per noi in Italia. Il silenzio dei satelliti è un raccolta di racconti (12) ambientai in Germania, nei quali la protagonista è una umanità varia, ritratta nelle sue diverse sfaccettature. O meglio, nel libro si trovano nove racconti intervallati da tre momenti (uno-due-tre). Tre sezioni di storie dove l’importanza è quella di mantenere vive le reazioni umane, dove c’è la paura ad accettare e a manifestare i sentimenti che animano il cuore e i desideri umani, uniti al passato che torna per non essere dimenticato. Ogni racconto è poi una storia a sé, dove sono messi in gioco valori esistenziali, ricordi, emozioni, gioie, dolori e paure che rendono le creature letterarie di Meyer tipi narrativi molto simili alle persone reali. Queste diverse tipologie di esseri umani e di storie si muovono in grandi architetture e appartamenti che hanno il ruolo integrante di scenari di ambientazione. Tanti racconti, per tanti individui che danno vita ad un’opera corale della quale Meyer diventa uditore-testimone, che rendiconta a noi lettori queste esistenze frammentate, fatte di sconfitte e di piccole rivincite, diverse e, allo stesso tempo, anche simili alle nostre. C’è allora il poliziotto guardiano che si innamora della ragazzina che vive nel campo profughi. La donna ossessionata dai nocciolini delle ciliegie e la sua amicizia con un’altra anima solitaria come la sua. I due amici che prendono il padre malato di uno di loro e lo portano sulla ruota panoramica. Accanto al trio, il sottoufficiale che torna a casa a trovare la nonna. Con lui, in un’altra storia, il gestore di un chiosco innamorato della fidanzata musulmana del migliore amico e del tutto incapace di accettare tale sentimento. Ci sono fantini che vanno a cavallo e quelli che sognano di gareggiate a St. Moritz e poi arrivano i sopravvissuti ai campi di concentramento, che pensano a quante ne hanno passate e sopportate. La scrittura di Meyer è dinamica, veloce e denota una volontà precisa di mettere in scena alcuni temi attuali come il contrasto fra culture, fra usi e costumi differenti che convivono in uno stesso spazio anche in modo forzato e sulle contrapposizioni generazionali. Non mancano l’amore provato e non ricambiato, la povertà, la sofferenza e la solitudine che annientano alcuni dei protagonisti presenti nella narrazione. Non tutto è perduto, perché poi arriva lei, è non è un persona vera e propria, ma è la Speranza e la ritroviamo in molte delle creature che, nonostante tutte le ammaccature e imprevisti della vita, sono pronte a non mollare mai e a guardare avanti per un domani migliore. Il silenzio dei satelliti di Clemens Meyer, edito da Keller, è una sorta di grande condominio nel quale ogni finestrella illuminata è la storia di vita di ognuno dei personaggi in esso presenti. Frammenti di vissuto che ci vengono incontro, che si raccontano per quello che sono e che chiedono di rivivere grazie alla lettura e all’ascolto. Traduzione, sapiente e ben fatta, di Roberta Gado e Riccardo Cravero.

Clemens Meyer è uno scrittore tedesco nato a Halle, in Germania, nel 1977 e residente a Lipsia. Il suo esordio è stato segnato nel 2006 con Eravamo dei grandissimi (Als wir träumten) dal quale, nel 2015, è stato tratto anche il film di Andreas Dresen, presentato alla 65esima Berlinale. In seguito ha pubblicato altri due romanzi e una raccolta di racconti ed è considerato uno dei più importanti esponenti della letteratura contemporanea tedesca. Tra i premi ricevuti il Premio Salerno Libro d’Europa 2017. Finalista al Premio Gregor Von Rezzori 2017. Longlist Man Booker International Prize 2017. Bremer Literaturpreis 2013. Premio della Leipziger Buchmess 2008 e Clemens – Brentano- Preis der Stadt Heidelberg 2007.

Source: inviato dell’editore al recensore. Grazie all’ufficio stampa e staff Keller.

:: La professione del padre di Sorj Chalandon (Keller 2019) a cura di Viviana Filippini

7 aprile 2019

La professione del padreSorj Chalandon con La professione del padre, edito da Keller ci porta a conoscere un ragazzino e la sua vita da incubo con un padre troppo concentrato su se stesso e sulle sue ossessioni, per rendersi conto della vera natura della realtà. Il romanzo di Chalandon ha una struttura circolare, nel senso che comincia con il presente recente nel quale il protagonista è adulto, poi parte un lungo flashback nel passato e si torna nell’oggi, dove la storia trova il suo compimento. Nel tempo andato, il lettore si trova nella Francia del 1950, quella di De Gaulle, dove il piccolo Émile (sette anni) è costretto dal padre André Choulans a vivere nel suo mondo di paranoie da adulto che hanno al centro la scena politica della Francia di quel periodo. Il padre manipolatore inculca nella testa del figlio che loro due sono nell’ OAP, un’associazione segreta e di terroristi, pronta a tutto pure di far cadere Charles De Gaulle e liberare l’Algeria dal domino francese. Émile e la madre vivono sotto il controllo totale dal padre/marito padrone/dittatore e la vita della famiglia diventa un incubo, nel senso che quella che per il padre André viene considerata una trasgressione o un errore che rischia di mettere a repentaglio i suoi piani contro il governo, viene punita in mondo brutale. Sì, perché l’uomo non esita a castigare quelli che per lui sono sbagli, e lo fa con tremende punizioni corporali e fisiche, trasformando il focolare domestico in un luogo di estrema violenza fatta di allenamenti estremi, botte ripetute e insulti verso la moglie – vittima consapevole e incapace di reagire-, e il figlio, ancora troppo piccolo per comprendere la natura deviata e mentalmente malata del genitore. Madre e figlio non hanno via di scampo e possono solo assecondare e obbedire al capofamiglia, nascondendo ben bene i lividi agli occhi del mondo esterno. Poi, ad un certo punto Émile cresce e prende le distanze dai genitori, perché ha capito che quell’individuo che doveva proteggerlo e aiutarlo a trovare il suo posto nel mondo, è una minaccia pericolosa per gli altri e per sé. Ne Il mestiere del padre ciò che caratterizza la vita del piccolo protagonista è il peso delle violenze fisiche e piscologiche che lui e la madre subiscono per mano di un uomo insano, contro il quale mai nessuno si schiera o prende posizione. Émile non ha amici, non ha nessuno a cui confidare il dramma che vive a casa, può contare solo sulle sue forze. E saranno esse ad aiutarlo ad andare via, lontano dai genitori, per trovare, da solo, il giusto equilibrio del vivere, diventando restauratore e aggiustando le cose. Sorj Chalandon ne Il mestiere del padre utilizza un linguaggio coinvolgente per portarci in una storia nella quale il piccolo protagonista è succube della mente malata del capofamiglia e delle sue ossessioni maniacali, le stesse che gli di dare il via ad un rapporto sano e costruttivo con il figlio Émile. Interessante e ben fatta è anche la traduzione di Silvia Turato la quale, pagina dopo pagina, riesce a far arrivare ai lettori lo stato di disagio e le fragilità piscologiche presenti in ognuno dei personaggi della storia.

Sorj Chalndon è nato nel 1952. È stato giornalista per «Libération» prima di passare a «Le Canard Enchaîné». I suoi reportage sull’Irlanda del Nord e il processo di Klaus Barbie gli valsero il Prix Albert-Londres nel 1988. Tra i suoi romanzi precedenti Le Petit Bonzi (2005), Une promesse (2006, Prix Médicis), Il mio traditore (Mondadori, 2009) Chiederò perdono ai sogni (Grand Prix du Roman de l’Académie Française, Keller 2014). La quarta parete (Prix Goncourt des lycéens, Premio Terzani, Keller 2016). Le sue opere sono state tradotte in numerosi Paesi.

Source: inviato dall’editore al recensore. Grazie a tutto lo staff Keller.

:: Dalla parte del bene di Martin Fahrner (Keller editore, 2018) a cura di Viviana Filippini

19 febbraio 2019

unoDalla parte del bene” è un viaggio nella vita di un uomo, nei suoi ricordi d’infanzia in un piccolo paese al confine con la Polonia. Un località piazzata lì sul valico tra due montagne, dove la vita scorre in modo pacifico, lontana da ogni paura e preoccupazione. Non a caso, per il protagonista e per chi è nato al paesello, fondamentali come indice della crescita sono i passaggi di mezzo a due pedali. Dal triciclo quando si è piccoli piccoli, passando per una Pionýr, nella speranza di avere una Eska, una bicicletta alla quale tutti mirano, perché la si trova in tanti colori e con le marce. In realtà, queste sono le tappe intermedie per l’arrivo all’età adulta, perché il traguardo finale, quello che sancisce l’ingresso nell’età adulta e che in pochi hanno il privilegio di avere è lei: la Favorit. A raccontare la storia c’è un bambino, il figlio del capitano delle squadra di calcio del Kostelec. Pagina dopo pagina, la voce narrate cresce diventando adulta e, nell’arco di tempo che trascorre (circa una ventina di anni), chi narra ci porta nella vita di un uomo (il padre) che ha sperimentato sulla sua propria pelle, esperienze di vita che hanno lasciato segni indelebili. Dall’essere un grande calciatore di successo osannato da tutti, al dover fare i conti con problemi fisici che costringeranno l’uomo ad attaccare gli scarpini da calcio al chiodo e trovare un altro lavoro per mantenere la famiglia. Vita quotidiana, fatta di lavoro, di affetti e anche di piccole incomprensioni familiari sulle quali gravano, nel 1968, le tensioni della Primavera di Praga e, nel 1989, un ulteriore cambiamento: la caduta del muro di Berlino. In “Dalla parte del bene” di Fahrner però l’io narrante, quel bambino che cresce diventando un uomo, espone anche il proprio vissuto personale tra sport amati (la bicicletta) e tenuti a distanza (anche se è figlio di un calciatore il narratore non ama il gioco del calcio). E non solo, perché il figlio dell’ex capitano del Kostelec adora il teatro, lo studia, ci lavora e in barba a tutte le difficoltà fa ogni singola cosa con passione, fino all’incontro con la donna amata. Tra i ricordi, accanto alle imprese del padre ex calciatore, ma sempre eroe, si innestano la nascita dei due figli della voce protagonista e il suo rimettersi in gioco come artigiano con un forno per cuocere ceramiche. In “Dalla parte del bene”, Martin Fahrner, come Ota Pavel, con uno stile ricco di ironia e sentimento si rivela uno dei migliori esponenti della letteratura ceca. Uno scrittore che scava nei meandri della memoria, ripescando i ricordi del e dal passato personale, per intrecciarli con i fatti storici della propria terra d’origine. Il tutto per modellare, pagina dopo pagina, una narrazione nella quale si rendono straordinaria la quotidianità di una famiglia e la sua capacità di non abbattersi mai e di reinventarsi sempre nel corso del tempo. Traduzione dal ceco Laura Angeloni.

Martin Fahrner è nato nel 1964. È laureato alla Facoltà di Scienze dell’educazione di Ústí nad Labem e alla Facoltà di teatro di Praga (DAMU). Ha lavorato come drammaturgo, addetto agli impianti di riscaldamento, vasaio, guida turistica. Ora è scrittore, traduttore e autore di spettacoli teatrali.

Source: inviato dall’editore al recensore. Grazie a Roberto Keller e allo staff dell’ufficio stampa.

:: Tutto è Jazz di Lili Grün (Keller 2018) a cura di Viviana Filippini

29 gennaio 2019
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Tutto è jazz” è un piccolo capolavoro letterario recuperato. L’autrice è Lili Grün, viennese di origine ebraica deportata e uccisa nel 1942. “Tutto è jazz”, pubblicato da Keller ha per protagonista Elli, una ragazza partita da Vienna e diretta a Berlino in cerca di fortuna. La giovane, che in certi giorni si sente ragazzina e in altri donna matura, si troverà nella capitale tedesca negli anni Trenta e sarà travolta dal rutilante ritmo e dalla sferzante vitalità che anima il luogo. Elli è in cerca di riscatto e come lei il gruppo di amici che vogliono lavorare nel mondo delle spettacolo, però non è per loro così semplice. Provini, incontri, promesse fasulle sono quelle con le quali Elli e gli altri si dovranno scontrare e, allora, in loro nascerà un’idea: aprire un kabarett. Prenderà forma il Jazz dove la simpatica combriccola farà tutto: scriveranno le musiche, plasmeranno le scenografie, creeranno i testi, canteranno e balleranno per prepararsi al debutto. Poi, il grande giorno arriva e tutto sembra perfetto, tanto è vero che si affacceranno all’orizzonte figure come Fritz Lang, Max Reinhardt, René Clair e altri importanti registi interessati- a quanto sembra- a scovare qualche talento. Ellie, Hullo e i suoi amici vivranno nella trepidante attesa dell’evento che possa cambiare per sempre, e in meglio, le loro vite. In netto contrasto con le aspirazioni di Elli troviamo la figura di Robert, il suo fidanzato, un po’ apatico e tutto serioso, che non riesce a capire perché Ellie e gli amici, ma soprattutto lei, si ostinino a voler lavorare nel mondo dello spettacolo. “Tutto è jazz” è un romanzo frizzante, pieno di entusiasmo e di aspettative, ma non mancano in esso e nei suoi personaggi le preoccupazioni per le incertezze, i timori e le inquietudini per un futuro che all’inizio sembra chiaro, solo che che con il passare del tempo esso sembrerà diventare un po’ troppo incerto e precario. Questo accadrà perché Elli e i suoi compagni di avventura dovranno scontrarsi con la realtà nella quale, a volte, i sogni vengono traditi da false promesse e da improvvisi ostacoli che pregiudicheranno il fare dei protagonisti. Elli di “Tutto è jazz” ricorda molto da vicino la figura di Lili Grün, perché come la protagonista del romanzo ad un certo punto della sua vita – verso la fine degli anni Venti- Lili decise di trasferirsi a Berlino in cerca di fortuna e lavoro nel mondo del teatro. Solo che nella vita vera gli eventi non vanno come nei libri dove è chi scrive a decidere il destino dei personaggi. Nella realtà la povera Lili non ebbe vita facile, nel 1933 pubblicò questo suo romanzo d’esordio, ma la salute cagionevole e il poco lavoro la costrinsero a tornare a Vienna. Il tutto precipitò nel 1938 quando l’Austria venne annessa al Reich e nel 1942 la povera Lili venne deportata e uccisa. Dopo la sua morte, la Grün e le sue opere finirono nel dimenticatoio per ottanta anni e solo la recente e fortunata riscoperta di “Tutto è jazz”, permetterà a noi lettori di oggi di conoscere la piacevole scrittura di Lili Grün. Traduzione dal tedesco Enrico Arosio.

Lili Grün nasce a Vienna nel 1904 in una famiglia ebrea e perde precocemente sia la madre sia il padre. Dopo aver effettuato l’apprendistato come impiegata segue la propria vocazione per il teatro fino a spostarsi a Berlino sul finire degli anni Venti. Vi rimane fino al 1933, anno in cui per problemi economici e di salute ritorna a Vienna, ma nel quale pubblica anche il suo sorprendente libro d’esordio Tutto è Jazz. L’annessione al Reich nel 1938 e la conseguente adesione al nazionalsocialismo dell’Austria segnano il suo drammatico destino: nel 1942 viene rastrellata e uccisa.

Source: inviato dall’editore al recensore, grazie all’ufficio stampa Keller.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: I felici, Kristine Bilkau (Keller, 2018) a cura di Viviana Filippini

15 novembre 2018
I felici

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“I felici” è il romanzo d’esordio di Kristine Bilkau e quella felicità del titolo si scoprirà essere un qualcosa di costantemente ricercato dai due protagonisti. Loro sono Isabell e Georg, una violoncellista e un giornalista. La loro vita è fatta di musica, parole, concerti, articoli di giornale e di una casa che sperano di rendere dolce e calorosa, proprio come le abitazioni dei loro vicini. La situazione per i due cambia in modo improvviso quando diventano genitori del piccolo Matti. Il frutto del loro amore li conforta, ma la pace e l’armonia in famiglia comincia a vacillare in modo irreparabile. A mettere la crisi nella coppia non ci sono amanti o spasimanti, ma arrivano una serie di eventi esistenziali che destabilizzeranno la tranquillità, per altro già fragile, dei due. Isabell ad un certo punto smetterà di suonare perché minata da un tremore che la colpisce ogni volta che prende tra le mani il suo violoncello per fare prove o concerti. La giovane si prenderà del tempo per riposarsi e curarsi dal disturbo, ma esso sembrerà non volerla lasciare. La situazione non va molto meglio a Georg, in quanto il giornale per il quale lavora, con molta probabilità, sarà venduto e per lui, come per i suoi colleghi, il futuro diventerà qualcosa di molto incerto, nel senso che Georg e gli altri non sanno se avranno ancora il posto di lavoro o se saranno obbligati a cercare qualcosa d’altro da fare. Le incertezze relative al lavoro avranno una ricaduta nella vita di coppia e unite anche all’aumento dell’affitto e delle spese di gestione dell’appartamento dove la famiglia vive, porteranno Isabell e Georg a vivere con tormento. Il domani diventerà sempre più incerto e Isabel e Georg si renderanno conto che anche le cose più scontate- bersi un caffè o fare una passeggiata al parco- rischiano di diventare impossibili da fare senza una stabilità economica. Ecco che la coppia si incrina, nel senso che i due giovani vivono sotto lo stesso tetto sviluppando due esistenze dove la solitudine, la paura del domani, il sentirsi incompresi e incapaci lo sperimentano in modo del tutto personale, isolandosi nei loro mondi dove pensano e progettano cosa mettere in atto per trovare la vera felicità. “I felici” della Bilkau sono due giovani-adulti dell’era contemporanea le cui vite incarnano lo specchio di una parte della generazione di oggi chiamata a confrontarsi con precarietà lavorativa, alla quale si collega spesso quella esistenziale. Isabell e Georg sono quindi felici solo in apparenza, nel senso che nella vita che stanno cercando di creare arrivano intoppi vari, i quali allontaneranno sempre più la felicità da loro tanto desiderata. La crisi crea nella coppia incomunicabilità, incomprensioni, profondi stati di malinconia per qualcosa perso per sempre e difficoltà a parlarsi in modo chiaro e deciso per trovare una soluzione. Nonostante tutto questo, non mancano momenti di speranza, durante i quali il rimuginare e il riflettere su cosa fare evidenzia come Isabell e Georg siano pronti a mettersi in gioco per il figlio Matti, per loro stessi, per essere davvero, e forse per la prima volta, felici. Traduzione dal tedesco Fabrizio Cambi.

Kristine Bilkau è nata nel 1974. È stata finalista all’Open Mike nel 2008 e ha ricevuto numerose borse di studio letterarie e premi come la borsa di studio per la letteratura del Colloquium Berlin, l’Hamburger Föderpreis für Literatur, il Franz- Tumler- Prize e il Klaus-Michel- Kühne- Prize. Vive ad Amburgo con la sua famiglia.

Source: inviato dall’editore al recensore. Grazie a tutto lo staff di Keller editore.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

Il confine dell’oblio, Sergej Lebedev, (Keller 2018) A cura di Viviana Filippini

3 agosto 2018

“Il confine dell’oblio” di Segej Lebedev, edito da Keller, è un romanzo ammantato da un senso di claustrofobia e dal costante bisogno da parte del protagonista di mettere assieme i pezzi di vita altrui per dare una senso anche alla propria. Sì perché lo scrittore russo mette in forma un romanzo nel quale l’intento principale è quello di salvare la Storia e i fatti (compresi quelli dolorosi) che l’hanno caratterizzata, proprio per evitare che essa finisca nel dimenticatoio: nell’oblio. Oblio KellerAl centro delle trama c’è un rapporto indissolubile, più potente dei legami di sangue, tra il protagonista e l’anziano vicino di casa soprannominato Nonno due. L’uomo è solo, cieco e di lui non si sa nulla, né da dove venga, né cosa abbia fatto nel suo passato. Un individuo misterioso attorno al quale ci sono tante dicerie dalle quali il piccolo protagonista non si lascia influenzare. Il ragazzino si affeziona molto all’anziano e l’empatia tra i due è reciproca, a tal punto che nei primi anni Novanta (siamo nel 1991) Nonno due sacrificherà la sua vita per salvare quella del suo piccolo amico. Il bambino, diventato adulto, inizierà una vera e propria indagine, che non solo lo porterà a viaggiare in lungo e in largo per la terra russa. La sua ricerca gli permetterà di dare sempre più forma al passato di quel vecchio cieco e burbero da lui chiamato Nonno due. Il viaggio compiuto dal protagonista di Lebedev è rivolto sempre più verso il Nord della Russia (Siberia) e addentrandosi nelle pagine si ha come la sensazione di compiere una vera e propria discesa agli inferi in un mondo dove, ad un certo punto, non si riesce più a comprendere chi sia davvero la vittima e chi il carnefice. Il protagonista troverà lettere, incontrerà persone e scoprirà indizi che gli permetteranno di mettere assieme la vera identità di Nonno due. Dati che lo faranno soffrire e riflettere. Nonno due infatti fu per parecchio tempo il capo di un gulag, ebbe una sua famiglia, ma le avversità del Destino e della vita giocarono contro di lui. A fare da sfondo all’indagine c’è il paesaggio siberiano fatto di miniere in disuso, di crepacci naturali pieni di memoria, di caserme un tempo piene di uomini. Luoghi vuoti nel presente, afflitti da un senso di opprimente desolazione sotto la quale ribollono le indicibili violenze che caratterizzarono la vita degli internati e quella dell’anziano. Nel compiere la sua ricostruzione il protagonista del romanzo di Segej Lebedev mette in evidenza la magnifica bellezza delle terre russe, modificate e ferite in modo irreparabile dall’uomo. Allo stesso tempo, la violenza sull’ambiente rispecchia quella che gli esseri umani hanno compiuto verso altri loro simili, con il conseguente annientamento di ogni aspirazione alla libertà del vivere, agire e pensare. “Il confine dell’oblio” di Lebedev è un libro che vuole fare memoria del passato russo, di quell’epoca storica del Novecento dolorosa, già narrata da autori come Aleksandr Solženicyn o Varlam Šalamov. Il tutto per mantenere vivo nel presente il ricordo delle centinaia di migliaia di uomini e donne finiti nei gulag. Traduzione dal russo Rosa Mauro.

Sergej Lebedev è nato a Mosca nel 1981 e ha lavorato per sette anni in spedizioni geologiche nella Russia settentrionale e in Asia centrale. Lebedev è un poeta, saggista e giornalista. Oggi è una delle voci più importanti della nuova letteratura russa.

Source: grazie all’uffcio stampa e allo staff di Keller editore.