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:: Figlio, fratello, marito, amico di Roberto Saporito (Qed 2024) a cura di Giulietta Iannone

13 giugno 2024

Pace a chi resta. O forse no? Cinismo, disillusione, rabbia, tutto pur di sfuggire al dolore di una perdita, di molte perdite, che mettono un uomo devastato davanti alla sua solitudine. Figlio, fratello, marito, amico di Roberto Saporito, scrittore albese di indubbio talento, ci narra la storia di un uomo che un tempo è stato figlio, fratello, marito e amico e ora è solo più un violento, un assassino. Un uomo che perde tutto il suo mondo e pian piano anche se stessso in una voragine di violenza decontestualizzata. Come sempre le storie di Saporito partono da elementi autobiografici per scavare nell’inconsio e creare storie peculiari e arcane, illusioni ottiche, proiezioni parallele di un altrove non sempre definibile. Il protagonista, figlio della buona borghesia albese, si accontenta di un lavoro da bibliotecario, tradendo le alte aspettative di un padre avvocato la cui religione sono i soldi, il lavoro, l’affermazione sociale. Ma ha Lisa, la moglie, il grande amore della sua vita. Lui vive per lei, lei vive per lui, finchè questo incanto, questo equlibrio, si rompe: il suo migliore amico sotto cocaina e alcool provoca un incidente stradale in cui muoiono la moglie e la sorella del protagonista. Dopo poco, di dolore, ma sarà un infarto, anche il padre, lasciandogli una cospicua eredità e la possibilità di vivere senza lavorare. Ma perdere i suoi principali affetti e punti di riferimento lo porta a volere vendetta. Parte per Roma con in mente solo una cosa…

E così si dipana una storia, di cui non svelerò gli ulteriori colpi di scena, ma ce ne sarà uno risolutivo finale, atto a cambiare le prospettive. La violenza come catarsi, come rabbia vendicativa contro la vita immeritevole di rimpianti. Una storia noir, oscura e feroce, che ci porta nel cuore nero di un uomo che da mite e incolore, persona senza qualità, si fa travolgere dalla rabbia, dall’odio e dalla violenza. L’incapacità di metabolizzare il suo passato proietta il protagonista in un mondo senza redenzione, in un vuoto esistenziale in cui neanche alcune storie passeggere riescono a dare calore. Un mondo freddo, algido, incolore si dipana in un vorticoso abisso verso un male di vivere che non è dato sapere se verrà mai fermato. Se c’è una morale in questo libro, che forse morale non ha, è che meglio esorcizzare i propri demoni sulla carta che nella vita reale, e uno scrittore ha il grande dono, o potere, di analizzare se stesso e da questo proiettare storie cannibalizzate dalla realtà. Resta l’amore, il grande mistero, l’unica luce in un mondo di ombre e di buio, che neanche un tradimento può sminuire, può togliere il senso che può dare a tutta una vita. Romanzo amaro, crudele, ma capace di esorcizzare il dolore, il distacco e la morte.

Roberto Saporito è nato ad Alba (CN) nel 1962. Ha studiato giornalismo. Ha diretto per trent’anni una galleria d’arte. Ha pubblicato raccolte di racconti e romanzi, tra le raccolte di racconti ricordiamo Harley-Davidson (1996, Stampa Alternativa Editore, vendendone ventimila copie), e Generazione di perplessi (2011, Edizioni della Sera, quarta di copertina di Marco Vichi) e tra i romanzi ricordiamo: Il rumore della terra che gira (2010, Perdisa Pop, nella collana “Corsari” diretta da Luigi Bernardi), Il caso editoriale dell’anno (2013, come “Anonimo”, Edizioni Anordest), Come un film francese (2015, Del Vecchio Editore), Respira (2017, Miraggi Edizioni), Jazz, Rock, Venezia (2018, Castelvecchi Editore), Come una barca sul cemento (2019, Arkadia Editore) e In nessun luogo (2022, A&B Editrice). Suoi racconti sono stati pubblicati su alcune antologie e su innumerevoli riviste letterarie. A ottobre 2004 è stato invitato al Festival Letterario “Letteraria” a Pistoia, tra gli scrittori invitati: Andrea Camilleri, Carlo Lucarelli, Francesco Guccini, Loriano Macchiavelli, Massimo Carlotto, Luca Crovi. A giugno 2007 è stato invitato al Festival Letterario Lib[e]ri 2007 di Teramo, tra gli scrittori invitati: Marco Lodoli, Erri De Luca, Walter Siti. Ha collaborato con la Rivista Letteraria di Milano “Satisfiction” con una sua personale rubrica. Nel 2013 il suo primo romanzo Anche i lupi mannari fanno surf [2002] diventa oggetto di studio di una delle dieci lezioni del corso di scrittura narrativa “Inchiostro rosso sangue”, per la precisione la settima intitolata “L’hard boiled in salsa italiana: il curioso caso di Anche i lupi mannari fanno surf, di Roberto Saporito”, organizzato dalla Rivista Letteraria “Inchiostro” a Verona, insieme ai romanzi, oggetto di altre lezioni, di Giorgio Scerbanenco, Carlo Lucarelli, Massimo Carlotto e Gianluca Morozzi.

:: La fossa dei lupi di Ben Pastor (Mondadori 2024) di Patrizia Debicke

13 giugno 2024

Tornano in primo piano in scena memorabili personaggi de I promessi sposi, alcuni come comprimari vedi: Renzo, Lucia, Don Abbondio mentre l’Innominato pur fulcro della storia da bandito e taglieggiatore pentito infine diventato un pio un agnellino, è stato messo da Ben Pastor al servizio della fiction e trasformato in vittima designata. Ciò nondimeno in pratica tutti i personaggi del romanzo manzoniano risalgono in scena maliziosamente collegati in qualche modo alle attuali vicende di La fossa dei lupi.
I promessi sposi proprio loro già ? Il capolavoro di Alessandro Manzoni , amato o più spesso odiato e noioso spauracchio di tanti studenti italiani per generazioni e invece, per chi scrive di giallo spesso un libro da infilare nella rosa dei primi rappresentanti italiani del genere .
Intanto ci prova Ben Pastor, fedele lettrice del Manzoni, a far cambiare idea e interessare tanti italiani incuriosendoli soprattutto con una disincantata ma raffinata e perfetta ricostruzione storica dell’epoca. I milanesi riconosceranno le loro vecchie strade, dovranno riscoprire chiese ormai, scomparse e i Corpi Santi, le cascine e i borghi agricoli sorti attorno alla città di Milano, appena oltre le mura spagnole.
Dunque, dicevamo riprende in mano alcuni personaggi, tre anni dopo le loro drammatiche avventure, , a novembre del 1628 mentre Milano si sta ancora assestando dopo i tanti lutti della peste che ha fatto tirare le cuoia anche al loro persecutore Don Rodrigo, e fa ritrovare Renzo e Lucia economicamente ben sistemati, con lui che gestisce con successo in comproprietà, nella bergamasca, una fiorente azienda di filatura. Ma per il capriccio di Lucia che è incinta e vuole che suo figlio venga al mondo dove è nata lei, li fa tornare temporaneamente a Olate, in terra di Lecco nella vecchia casa di famiglia e in un certo senso diciamo sotto la pelosa influenza di Don Abbondio.
Vi abbiamo anticipato che l’Innominato, al secolo Bernardino Visconti è la vittima designata da Ben Pastor nella sua trama. E dunque a Milano il bel luogotenente di giustizia Diego Antonio Olivares, grande famiglia spagnola ma con un ricca madre italiana, uomo d’ordine ma anche di cultura, sta indagando proprio sulla morte dell’Innominato, ucciso in un bosco dove si cacciano i lupi, sui monti sopra Lecco, vicino alla casa di un suo figlio illegittimo. Una morte che ha lasciato alla famiglia, pur pagati i tanti conti in sospeso, una considerevole eredità da dividere ma anche un complesso intrico di interessi.
Olivares, ex studente presso i Gesuiti che lo vorrebbero nel loro ordine, ma lui nicchia ancora dopo la parentesi militare in Svizzera (guerra dei trent’anni) per difendere la fede contro gli eretici con per compagno Grauembart un capitano miscredente, dove il saggio consiglio di frate Pizarro gli ha suggerito di provare anche altro ed è felicemente sopravvissuto alla peste. Ora vive a Milano, ha un importante incarico ben remunerato, ampia libertà d’azione e può muoversi in lungo e largo nei territori del Ducato.
Ma chi ha ucciso l’Innominato ? Cui prodest? Qualcuno per vendicarsi? I parenti? I suoi ex bravi, messi a stecchetto dalla sua improvvisa conversione e, in una Milano ancora traumatizzata dalla peste, rimasti senza lavoro? Ma se i parenti ci guadagnano qualcosa, gli ex bravi no, o almeno pare. Cosa che dovrebbe farli scartare… Il recente e, se non c’entrano, malaugurato trasferimento di Renzo e Lucia Tramaglino, invece li infila pari pari nella rosa dei sospetti, l’assassinato era stato complice nel tentativo di rapimento di Lucia organizzato con Gian Paolo Osio, l’amante di Suor Virginia Levya, monaca in Monza. E si potrebbe ipotizzare anche il nome di Don Abbondio, il curato, magari per antiche ruggini e invidie nei confronti del Visconti?
Olivares, interroga e reinterroga gli sposi manzoniani: hanno qualcosa da nascondere? Renzo è ancora impetuoso, e Agnese sua suocera non è certo cambiata ma pur invadente, saccente e spesso importuna, pare abbia colpito al cuore un vecchio commilitone.
Il luogotenente interroga e reinterroga anche Don Abbondio, il pauroso ma avido e ricco curato?
Son tempi grami per quanti cercano di sopravvivere. La peste che ha spopolato la Lombardia può far serpeggiare esasperazione e volontà di rivolta?
Avvalendosi di precisi particolari “La fossa dei lupi” descrive in dettaglio la società e il potere di quegli anni. L’influenza spagnola,i rapporti tra i nobili, le abitudini della popolazione più misera, sempre condannata a subirne l’arroganza. I signori lombardi spendono e spandono senza riguardo dominando la plebe che spesso mangia poco o niente. Povertà e lusso smodato si confrontano con criminalità contrastata solo con mostruose torture e pene di morte, intessute in un mondo denso di proibizioni e segreti. Mentre la Chiesa, nella persona del Cardinale, sollecitando a ogni costo pronte risposte e accuse è sempre disposta a usare le proprie guardie, malviste dalla Giustizia laica di Milano, per dominare fino a prevaricare.
Ciò nondimeno Don Diego Antonio de Olivares, passo passo ma con determinazione, allargherà le sue indagini a macchia d’olio, spaziando tra i troppi nullafacenti, bisognosi di guadagnarsi da vivere a ogni costo e, messo sulle tracce delle malefatte di Paolo Osio e della Monaca di Monza, complici di Don Rodrigo e dell’Innominato nel tentativo di sequestro di Lucia Mondella ai fini di stupro, verrà a conoscenza di quali orrendi e reiterati delitti la curia milanese imputi loro e della terribile condanna che sta pendendo sulle loro teste. E in caccia della corrispondenza del defunto padre di Don Ottaviano Gallarati, amico e foraggiatore di crimini all’Innominato, che potrebbe aiutare a risolvere il caso del suo omicidio, chiederà udienza alla vedova,la dotta , poetessa curiosa e stravagante scienziata Donna Polissena, una bella signora evasiva e attraente. Con la quale scoprirà di condividere la passione per la letteratura, l’arte e forse altro… Talmente affascinante e seducente, nonostante gli occhiali che porta, un vezzo pare, persino in grado di spingerlo a fare alcune scelte della vita. E a risolvere il suo personale conflitto fra carne e spirito. Conflitto che per lunghi anni, dopo aver pensato a una vita religiosa sulle orme di Ignazio di Loyola, ambendo addirittura a un possibile martirio in terra lontana gli fa invece desiderare oggi l’amore carnale e il piacere condiviso. E sognare un futuro?
Ma prima di bearsi in un finale a potenziali tinte rosa, come un prestigiatore andando anche a scavare nei quartieri malfamati milanesi, Olivares dovrà sbrogliare e risolvere la sua spinosa indagine thriller ,districarsi tra i miracoli veri o inventati, pericolosi attentati e trasversali prezzolate vendette.

Ben Pastor, scrittrice italoamericana, all’anagrafe Maria Verbena Volpi, nata a Roma ma trasferita ben presto negli Stati Uniti, ha insegnato Scienze sociali presso le università dell’Ohio, dell’Illinois e del Vermont. Oltre a Lumen, Luna bugiarda, Kaputt Mundi, La canzone del cavaliere, Il morto in piazza, La Venere di Salò, Il cielo di stagno, – ovvero il ciclo del soldato-detective Martin Bora (pubblicati da Hobby&Work a partire dal 2001 e poi da Sellerio) – è autrice di I misteri di Praga (2002), La camera dello scirocco, omaggi in giallo alla cultura mitteleuropea di Kafka e Roth (Hobby &Work), nonché de Il ladro d’acqua (Frassinelli 2007), La voce del fuoco (Frassinelli 2008), Le vergini di pietra e La traccia del vento (Hobby & Work 2012), una serie di quattro thriller ambientata nel IV secolo dopo Cristo. Nel 2006 ha vinto il Premio Internazionale Saturno d’oro come migliore scrittrice di romanzi storici. Le sue opere sono pubblicate negli Stati Uniti e in numerosi Paesi europei. Nel 2014 esce La strada per Itaca (Sellerio) e nel 2020 Il ladro d’acqua (Mondadori). Nel 2023 esce per Sellerio La finestra sui tetti e altri racconti con Martin Bora.

:: L’estate dei morti di Giuliano Pasini (Piemme 2024) a cura di Massimo Ricciuti

8 giugno 2024

L’estate dei morti è il periodo dell’anno racchiuso tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre. In quei giorni del 1984 una ragazza di nome Sibilla annega in uno stagno in circostanze misteriose. Esattamente due decenni dopo, l’agente scelto Rubina Tonelli, di stanza al commissariato di Case Rosse, sull’Appennino emiliano, riceve una telefonata che annuncia il brutale omicidio di due uomini in un casale della zona. A effettuare la chiamata è una ragazza che dice di chiamarsi proprio Sibilla: secondo lei, le vittime sarebbero state uccise dalla Borda. Quest’ultima, nella tradizione dell’Emilia-Romagna, è una creatura leggendaria rappresentata come una sorta di strega che vive nelle zone paludose e uccide i passanti, soprattutto i bambini. Rubina, come spesso le accade, decide di fare di testa propria e si reca al casale senza il suo superiore, il commissario Roberto Serra. Sul posto trova, in effetti, i cadaveri di due uomini orrendamente massacrati. Il locale sembra appartenere a Luce, amica della ragazza morta nel 1984 e presente anche lei allo stagno venti anni prima. Di Luce, però, si sono perse le tracce da lungo tempo e la telefonata non può essere stata fatta dalla Sibilla del 1984. Sono solo due dei tanti misteri che Roberto e Rubina si troveranno ad affrontare un’indagine destinata a segnarli per sempre.

L’estate dei morti è il quinto romanzo del bravissimo Giuliano Pasini. Al sempre presente commissario Serra, si è aggiunta, dall’avventura precedente, l’agente scelto Tonelli, mandata a Case Rosse per “punizione”. Sono due personaggi complicati, ognuno alle prese con le proprie debolezze e con il proprio, ingombrante passato. Le cicatrici fisiche e morali che si portano addosso faticano a guarire e tutto ciò va a pesare sul loro rapporto, fatto di cose dette e, soprattutto, taciute. In questa indagine saranno costretti a confrontarsi con eventi che di naturale paiono avere davvero poco: Roberto è più scettico al riguardo, mentre Rubina si lascia trascinare da subito. Le tradizioni popolari sono dure a morire e gli abitanti di Case Rosse non fanno eccezione. Serra si sta facendo pian piano accettare, anche se resta comunque uno ed fòra, cioè non del luogo. Il commissario è segnato da una tragedia che l’ha colpito da ragazzo: l’assassinio dei genitori, avvenuto in sua presenza. I responsabili non sono mai stati individuati e lui si è imposto di trovarli. Nel romanzo ritroviamo alcuni personaggi ormai familiari, quali Vito Corazza della Squadra Mobile di Modena e il generale Minimo, comandante del RIS di Parma. Fa capolino una nuova figura, l’invadente giornalista Germana Prilli, che intreccia un inquietante rapporto con Rubina. Proprio quest’ultima assume una maggiore rilevanza, che la porta a essere una vera e propria coprotagonista. Non mancano momenti riservati alla buona musica, al buon cibo e al buon vino. Il tutto nel romanzo sicuramente più “duro” e più cupo dell’autore, una storia davvero forte che, agli elementi del thriller, aggiunge venature noir e soprannaturali.

Giuliano Pasini, nato a Zocca, è un orgoglioso uomo d’Appennino che vive in pianura, a Treviso. Socio di Community, una delle più importanti società italiane che si occupano di reputazione, è presidente del Premio Letterario Massarosa e in giuria di altri concorsi italiani e internazionali. Il suo esordio, Venti corpi nella neve (ora Piemme), diventa subito un caso editoriale. Seguiranno Io sono lo straniero e Il fiume ti porta via (entrambi Mondadori), tutti con protagonista Roberto Serra, poliziotto anomalo e dotato di grande umanità, in perenne fuga da sé stesso e dal male che lo affligge. È così che si muore ne segna il ritorno a Case Rosse dieci anni dopo il primo romanzo.

:: “Il Volto Santo di Gesù. Beata madre Maria Pierina de Micheli” (Edizioni Segno) di Vincenzo Speziale, a cura di Daniela Distefano

8 giugno 2024

Mi si presentò Gesù col volto insanguinato e, dopo avermi comunicato le sue pene, mi disse:’Mia diletta, ti rinnovo l’offerta del mio Santo Volto perché l’offri incessantemente all’Eterno Padre; con questa offerta otterrai la salvezza e la santificazione delle anime. Quando poi la offrirai per i miei sacerdoti, si opereranno meraviglie’”.

Il Signore scelse suor Pierina de Micheli come strumento per diffondere i Suoi Messaggi di Amore e Salvezza.

Giuseppina, questo il suo nome prima della consacrazione, non cercava e non voleva la vocazione da ragazza. La lotta fu tremenda ma alla fine capì che in Gesù c’è la vera libertà, libertà di essere e di sentirsi amati, per cui alla fine decise di dirgli sì. Un giorno, passeggiando con sua madre e dopo aver pregato per avere lumi e scegliere in quale Congregazione entrare così gli disse:

Io entrerò nel convento dove sono le suore vestite di color del cielo!” Tramite il fratello sacerdote, don Riccardo conosce due suore venute dall’Argentina, da Buenos Aires, dove c’erano le Suore Figlie dell’Immacolata Concezione e che vestono veramente l’abito del color del cielo. Giuseppina comprende che è quello l’ordine religioso dove il Signore la chiama. Undici anni dopo, all’età di 23 anni, prende la decisione di farsi suora, era il 15 ottobre 1913. Cominciano le prove, ma lei non vede l’ora di poter “dare a Gesù, dare sempre, dare tutto”.

Il 27 maggio 1938, Gesù le si presenta in uno stato da far pietà anche ai cuori più induriti e le dice: ”Contempla il mio Volto e penetrerai gli abissi di dolore del mio cuore. Consolami, e cerca anime che s’immolino con Me, per la salvezza del mondo”.

Il 21 novembre dello stesso anno, Gesù le appare grondante sangue e oppresso da grande tristezza e gli dice: ”Vedi come soffro? Eppure da pochissimi sono compreso. Quante ingratitudini da parte di quelli che dicono di amarmi! Ho dato il mio Cuore come oggetto sensibilissimo del mio grande amore per gli uomini, e do il mio Volto come oggetto sensibile del mio dolore per i peccati degli uomini: voglio sia onorato con una festa particolare nel martedì di quinquagesima, festa preceduta da una Novena in cui tutti i fedeli riparino con me, unendosi alla partecipazione del mio dolore”.

Nel 1939, Gesù nuovamente le appare e ripete: “Voglio che il mio Volto sia onorato in modo particolare il martedì”.

Prima di concludere, la beata suor Pierina ci parla di tre potenti armi contro Satana: prima il Santo Nome di Gesù. E’ un nome che Satana non sopporta perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi, nei cieli, sulla terra e sottoterra. La seconda arma è il sangue di Cristo. L’invocazione del sangue di Cristo. E’ il sangue di Cristo che rimette i peccati, senza questo non c’è remissione dei peccati.

Terza arma la devozione alla Santa Vergine Maria. Dall’inizio del libro della Genesi si dice che il frutto di una donna avrebbe schiacciato il frutto di Satana.

L’Amore di Gesù per l’umanità è inconcepibile ancora alle nostre menti e ai nostri cuori. Siamo circondati da un filo spinato che ci impedisce di pascolare tra i verdi prati della gioia eterna. Per superarlo, basterebbe amare la Santa Croce e sopportare ogni giorno quella piccola nostra.

Il Signore un giorno le disse: “Non posso essere tolto dalla croce finché ogni uomo, donna e bambino non si saranno uniti a te per tirarmi giù”. Suor Pierina le rispose:”Cosa posso fare? Non posso sopportare il tuo grido!”. Gesù le rispose:

Va’ nel mondo e annuncia a ogni uomo che incontrerai che c’è un uomo sulla croce per lui”.

:: La promessa di Mauro Marcialis – A cura di Valerio Massimo Manfredi (Solferino 2024) a cura di Patrizia Debicke

7 giugno 2024

Primo capitolo di una Tetralogia in quattro volumi, il secondo dovrebbe essere in uscita in questi giorni, La promessa di Mauro Marcialis parte dal 61 d.C. con Nerone saldamente al potere e ormai entrato nella sua seconda tragica decade di governo.
Il prefectus orbi Lucio Pedanio Secondo è stato ucciso nel suo letto. Da uno schiavo al quale dopo aver promesso per anni la libertà, gliel’aveva crudelmente negata…
Il senato su dictat del senatore Gaio Cassio Longino ha deliberato e, nonostante l’aperto dissenso del popolo, secondo il diritto romano, un antico senatus consultum per il quale indistintamente tutti e quattrocento schiavi di sua proprietà, che siano uomini donne o bambini, dovranno essere giustiziati. L’orrendo e macabro rituale prevede che prima verranno lapidati e i pochi superstiti crocefissi.. La legge verrà applicata e sarà un’ecatombe.
Alla fine di quel bestiale massacro, secondo il conteggio riportato al redemptor (il liberto preposto all’incarico )che ha ricevuto l’orrendo compito, risulteranno solo 397 corpi:
“Lascia stare, qualcuno al Senato deve avere arrotondato” risponderà secco il legionario Livio Amanzio che fa parte di un migliaio di soldati destinati a scortare quei poveretti alla morte Ma non è vero che il numero degli schiavi era stato arrotondato e lui sa perchè. Perché lui fatto una promessa, a Hagen lo schiavo che ha assassinato Pedanio, tagliandogli la gola . Hagen lo ha pregato di trovare e salvare i suoi figli … E lui che si è impietosito, l’ha fatto. Tre bambini dai sei agli otto anni … che ha nascosto. Per poi scoprire che solo due erano i suoi figli. Derek e Brynia biondissimi, mentre non lo era Arild il terzo, il più grande, quello bruno. Ora però che la sua pietas l’ha spinto a fare quella scelta che cozza contro ogni logica, deve trovare una soluzione. Non può tenerli con sé perché sta per partire per l’Oriente, tra appena due giorni dovrà raggiungere la sua nuova legione. E allora rimedia per loro delle vesti pulite e visto il poco tempo a disposizione, nonostante il loro strazio, li separa, affidandoli a tre diverse famiglie. Consegna Arild al lanista Ovidio con il quale ha un vecchio debito di gioco, e Derek a Curzio, suo caro amico, un venditore di animali che commercia prevalentemente tra Roma e Portus Ostiensis Augusti (Ostia). Chiede a entrambi che i due piccoli pur da schiavi vengano trattati bene. E promette che al suo ritorno saprà ricompensarli. Lascia invece la bambina nella nobilis domus di Flaminia, sotto la protezione della sua adorata amante segreta, la moglie di Gneo Domizio, un influente politico cittadino. Ai piccoli promette che al suo ritorno, a breve spera due/ tre anni, saprà farli ritrovare. Ma la guerra ai confini dell’impero pare non volersi fermare mai, e nei dieci anni che Livio Amanzio dovrà restare lontano da Roma, combattendo in oriente agli ordini di Tito, fino ad arrivare al grado di centurione primus pilus prior (ovverosia capo dei centurioni) e nei quali riuscirà a ottenere saltuarie ma buone notizie dei suoi protetti, tante cose cambieranno. L’imperatore Nerone, dal governante illuminato dei suo primi anni si è trasformato in un instabile e incontenibile tiranno, tanto da mettersi contro senato esercito e popolo e venir deposto e fatto uccidere per ordine del vecchio console Galba, nel 68. Anche lui eliminato dopo appena sette mesi, nell’anno successivo, detto dagli antichi, dei quattro imperatori. In quel 69 d.C. che, dopo Galba, si vide ascendere al trono Otone , poi Vitellio e infine Vespasiano, comandante delle truppe imperiali dal 66 d.C. impegnate nella repressione in Giudea, acclamato imperatore dalle legioni d’Egitto, Giudea, Siria e Danubio, e che pose fine al lungo periodo d’instabilità. Al suo arrivo nell’Urbe, nel 71 infatti, il Senato lo riconobbe, nominandolo console con il figlio maggiore Tito e gli dedicò il trionfo . E anche Livio Amanzio dopo il lungo assedio e la drammatica e definitiva caduta di Gerusalemme (settembre 70 d.C.) inquadrato nel loro seguito farà finalmente ritorno a Roma.
Nel frattempo i suoi tre protetti, ormai diventati adolescenti, hanno vissuto le loro vite lontani e senza sapere nulla l’uno dell’altro. Arild, forte e robusto come un toro, addestrandosi al combattimento e sognando di diventare gladiatore nelle file del lanista Ovidio; Derek, cresciuto con Curzio, il commerciante di animali, dopo essere sfuggito pur sfigurato alla gelosia del figlio del padrone, è stato da lui mandato a Roma, dove si contraddistinguerà per il suo talento di scultore e per la sua eccezionale capacità nell’addestrare i combattivi cani pugnax; Brynja continua a vivere nella domus del Gneo Domizio, diventato l’ influente senatore che sta ideando per l’imperatore la costruzione dell’anfiteatro più grande del mondo. Anfiteatro che vedrà purtroppo la damnatio memoriae del capolavoro di Nerone, la Domus Aurea.
Derek e Arild, ci lavoreranno entrambi: Derek, in un vasto laboratorio fuori città, sta realizzando le 156 maestose statue di bronzo dorato raffiguranti dei, eroi e semidei, da porre nelle arcate perimetrali del II e del III ordine dell’edificio; Arild impiegato nel cantiere, è impegnato nelle fondamenta spostando e tagliando pietre. Brynja, diventata una vera bellezza bionda, non sa di loro, spera solo di rivedere Arild, suo amore da bambina, ma come schiava, non può nemmeno allontanarsi dalla domus di Domizio che per sua disgrazia l’ha già scelta come gioco sessuale. Può solo contare su Flaminia, la sua padrona , l’amore di Livio ma moglie del senatore e prigioniera quasi quanto lei.
Prevaricazioni e complotti, veri amori e desideri forse impossibili, sacrifici di magia nera, ignorate preghiere agli dèi, crudeli scontri e fatali competizioni nel Circo Massimo daranno orgogliosamente il via alla saga dei tre giovani schiavi decisi a fare di tutto per sopravvivere e rivedersi ancora. Riuscirà a mantenere la sua promessa il loro salvatore Livio Amanzio?
Emerge subito da questo primo capitolo il vero volto di Roma, l’allora capitale dell’Impero. Una enorme città dominata da immani contrapposizioni, dove la sfrenata ricchezza dei patrizi si opponeva alla fame dei plebei, dove i potenti si beavano in orgiastici banchetti e organizzavano, per placare la fame della folla giochi sempre più sanguinari. Una città con le mura tempestate di graffiti che narravano storie del mondo intero, mentre il più grande anfiteatro del mondo pian piano prendeva forma e cresceva.
Una straordinaria ricostruzione ambientale e umana di un mondo, quello romano, incompatibile (per lo meno in occidente) a questa nostra era . Un mondo in cui il libero civis romanus pur rispettoso della legge e del costume sociale doveva confrontarsi quotidianamente con lo sprezzo della libertà, della considerazione, della rispettabilità. Un mondo basato per buona parte infatti su un indiscriminato impiego di mano d’opera gratuita, ovverosia gli schiavi. Esseri senza alcun diritto civile. Da usare a piacimento, peggio di carne da macello, per svago, piacere, o come servitù ma solo talvolta impiegati in compiti domestici come crescere i bambini, insegnare e invece troppo spesso relegati a quelli più infimi, umilianti e per il minimo errore ammazzati e gettati in pasto ai cani.

Mauro Marcialis è nato a Roma nel 1972 e vive a Reggio Emilia. Tra i suoi romanzi di successo, Spartaco il gladiatore (Mondadori 2010), Il sigillo dei Borgia (Rizzoli 2012), Il falco nero (Rizzoli 2014) e Roma calibro zero (SEM 2022).

:: Un’intervista con Emiliano Reali a cura di Giulietta Iannone

6 giugno 2024

In occasione dell’uscita del volume fotografico Pride (Scripta Maneant) intervistiamo uno degli autori dei quattro contributi scritti, Emiliano Reali, e segnaliamo che la Happy Productions ha acquistato i diritti cinematografici del suo romanzo di maggior successo “Bambi. Storia di una metamorfosi” e il Ministero della Cultura ha di recente stanziato un contributo economico per lo sviluppo del film, la cui regia verrà affidata a Mario Sesti.

Benvenuto Emiliano su Liberi di scrivere e grazie di aver accettato questa nuova intervista. E’ in uscita, nei primi giorni di giugno, il volume fotografico bilingue Pride (Scripta Maneant) di cui sei autore assieme a Silvia Ranfagni. Ce ne vuoi parlare?

E’ un progetto meraviglioso e sono stato molto felice quando mi hanno chiesto di parteciparvi. Pride è un volume fotografico che ripercorre momenti significativi e pregnanti del movimento LGBT+ e delle sue rivendicazioni dai moti di Stonewall a oggi.

Oltre alle foto ci sono anche quattro contribuiti scritti, di cui uno tuo dedicato alla tua mamma. E’ un contributo sofferto ma nello stesso tempo molto gioioso, allegro. Tua mamma era una mamma molto combattiva e tenera, quali sono i valori che ti ha trasmesso, quale è il più grande insegnamento che ti ha dato?

Lei mi ha amato, mi ha fatto sentire che quel bene lo meritavo a prescindere dalle mie imperfezioni o dagli errori che commettevo. Mi ha messo davanti a ogni altra cosa. E’ stato un esempio di ciò che davvero significhi amare.

Dignità, gioia, allegria, rispetto, amore, perché pensi che in un mondo ancora segnato da odio, divisioni, guerre, che sono i veri scandali che ci dovrebbero turbare e rattristare, ancora si giudichino i sentimenti, l’amore. Ognuno non dovrebbe essere libero di esprimere se stesso secondo la sua sensibilità?

E’ un momento storico molto difficile, si sta cercando di riportarci indietro, tentando di intaccare anche i diritti che sembravano ormai acquisiti. Siamo molto lontani da una società inclusiva e dobbiamo tenere la guardia alta rispetto ai rigurgiti fascisti che arrivano sempre più frequentemente.

Ho letto il pezzo dedicato a tua madre e mi ha colpito il fatto che morendo non ha pensato a se stessa ma a te, che avrebbe voluto lasciarti con qualcuno che ti amava e si sarebbe preso cura di te. Non pensi sia una delle forme più alte d’amore?

Accipicchia, non volendo, con la risposta precedente ho bruciato questa domanda! Comunque lei non è morta, è libera.

Parlami del libro, come avete raccolto le foto? Chi sono i fotografi che hanno contribuito? Di chi sono gli altri contributi scritti? Essendo bilingue è destinato anche al mercato estero?

Le immagini non hanno lingua, in più il fatto che le parti scritte del volume siano anche in inglese ne sottolinea la natura internazionale. Questo lo si evince anche dai firmatari dei vari contributi. Infatti oltre me e Silvia Ranfagni (autrice insieme a Giovanni Piperno del podcast “Corpi Liberi”) ci sono personalità incredibili. Shrouk El-Attar, attivista per i diritti dei rifugiati LGBTQIA+ nel Regno Unito, dove vive come rifugiata dal 2007, e per i diritti della comunità queer nel suo Paese natale, l’Egitto. Nel 2018 la BBC l’ha inserita tra le 100 donne più influenti del mondo. Sue Sanders, professore emerito dell’Harvey Milk Institute. Attivista per i diritti LGBTQIA+, co-presidente di “Schools Out” per l’uguaglianza delle persone LGBTQIA+ nel sistema scolastico. Il suo impegno concreto è stato riconosciuto con l’assegnazione di numerosi e prestigiosi premi. Non essendomi occupato della raccolta foto ho chiesto alla responsabile di redazione Asia Graziano di cui riporto le parole: “Per la raccolta immagini, vista la natura del volume, ci siamo affidati alla collaborazione con diversi archivi internazionali, per ottenere una documentazione il più variegata possibile, come AGF, Alamy e GettyImages. Più che per fotografi, ci siamo resi conto, per questo progetto editoriale specifico, di dover ricercare per territori: spesso infatti le fotografie dei Pride sono realizzate da giornalisti locali o da partecipanti alla parata stessa. In questo modo siamo riusciti a selezionare interessanti e autentiche testimonianze da ogni continente del mondo. Purtroppo, seppur preziosa, la collaborazione con le diverse associazioni e i circoli LGBTQIA+ nazionali e internazionali, non ha portato alla pubblicazione di materiale fotografico da loro direttamente fornito, perché non incontrava i criteri di alta risoluzione necessari ai fini di una stampa qualitativamente fruibile. I contatti con le associazioni, sono stati comunque vitali nella realizzazione del progetto, sia per l’individuazione delle figure internazionali di rilevanza cui affidare il racconto testuale dei Pride, che per l’attività di divulgazione e promozione del volume”.

Grazie Emiliano della disponibilità e in attesa di sfogliare questo libro, puoi parlarci dei tuoi progetti futuri?

Sono impegnato felicemente con un progetto che più che ‘futuro’ definirei ‘imminente’. Stiamo scrivendo la sceneggiatura per il film tratto dal mio “Bambi. Storia di una metamorfosi” ed è un’emozione che brilla come il cristallo, un progetto che si è fatto largo con forza e che oramai cammina spedito.

Vi raccolgo i brevi profili degli autori del libro:

Emiliano Reali
si occupa da sempre di diri civili e inclusione, autore di libri per ragazzi ulizza anche nelle scuole, ha dato vita alla prima trilogia transgender d’Italia “Bambi. Storia di una metamorfosi” (Avagliano). Dopo la vendita dei diri cinematografici e un finanziamento del Ministero della Cultura, è in lavorazione il film trao dal suddeo romanzo.
Reali ha collaborato alla realizzazione della serie “Refuge LGBT” (Lucky Red), del testo universitario “Manuale di studi LGBTQIA” (UTET) e scrive per Il Mattino, HuffPost , Il Riformista.

Silvia Ranfagni
assistente alla regia per Bernardo Bertolucci e Giuseppe Tornatore, sceneggiatrice per Carlo Verdone, Ferzan Ozpetek e Lamberto Bava, candidata al David di Donatello con “Il mio miglior nemico” (2006) e “La Dea Fortuna” (2020). Docente di Scriura Creava e Sceneggiatura presso la Rome University of Fine Arts (2017-2019). Con Giovanni Piperno, è autrice del Podcast “Corpi liberi”, che racconta la storia di Mark, Alex e Silvia: una persona trans, una non binaria e una madre spiazzata in cerca di risposte.

Shrouk El-Attar
attivista per i diritti dei rifugiati LGBTQIA+ nel Regno Unito, dove vive come rifugiata dal 2007, e per i diritti della comunità queer nel suo Paese natale, l’Egitto. Si esibisce nello speacolo “Dancing Queer” per raccogliere fondi per le spese di difesa legale delle persone LGBTQIA+ in Egitto.
Nel 2018 è stata inserita dalla BBC tra le 100 donne più influenti del mondo.

Sue Sanders
Professore emerito dell’Harvey Milk Instute.
Avista per i diri LGBTQIA+, co-presidente di “Schools Out” per l’uguaglianza delle persone LGBTQIA+ nel sistema scolasco. Il suo impegno concreto è stato riconosciuto con l’assegnazione di numerosi premi importanti, tra cui il Crown Prosecution Award for Equality and Diversity (2012). Nello stesso anno ha ricevuto un encomio dal Metropolitan Police Service per la sua avità nel MPS LGBT Advisory Group, che ha contribuito al miglioramento dei servizi di polizia per la comunità LGBTQIA+ inglese. Nel 2014 è stata candidata per il premio alla carriera nell’ambito dei Naonal Diversity Awards. Nel 2019 le è stato conferito il premio alla carriera dal Rainbow Honours Board e nel 2024 ha ricevuto il premio alla carriera dal Naonal Educaon Union.

:: Premio Letterario Merano Europa 2024 – I vincitori

6 giugno 2024

Premio Letterario Internazionale Merano Europa XV edizione

PROCLAMATI I VINCITORI

Sezione italiana

CRISTINA BATTOCLETTIEpigenetica” – La Nave di Teseo

Sezione tedesca

SEPP MALL “Ein Hund kam in die Küche” – Leykam

Sezione Poesia tradotta dall’italiano al tedesco

CHRISTINE WUNNICKE

Margherita Costa “Die schöne Frau bedarf der Zügel nicht”.

Cristina Battocletti è stata premiata da Marco Galateo, Vice Presidente provinciale e assessore alla cultura italiana e da Angelo Gennàccaro Assessore regionale alle iniziative per la promozione dell’integrazione europea, mentre Sepp Mall è stato premiato da Dario Dal Medicoo, sindaco di Merano con la vicesindaca Katharina Zeller.

A seguire, Stefano Zangrando, coordinatore della Giuria tecnica per la traduzione poetica, ha proclamato la vincitrice di questa speciale sezione: CHRISTINE WUNNICKE, autrice di romanzi storici, uno dei quali nel 2020 è entrato nella shortlist del Deutscher Buchpreis.
Wunnicke, già occupatasi di cultura italiana del ‘600, ha scelto di curare e tradurre una selezione di testi di Margherita Costa dandole il titolo di “Die schöne Frau bedarf der Zügel nicht” – traduzione del verso poetico “a bella donna non richiede freno” della stessa Costa. Wunnicke ha ricostruito con scrupolo critico e verve narrativa l’avventurosa vicenda biografica della controversa figura del ‘600, offrendo al pubblico di lingua tedesca una selezione di testi fra i più sapidi e riusciti dell’autrice: attrice, poetessa e prostituta di professione nella Roma dei papi, Costa ha lasciato raccolte poetiche e testi teatrali che ne attestano una vivacità artistica inscindibile da un’abile cura delle relazioni.

:: La scomparsa di Elisa Ohlsen di Antonio Fusco, (Rizzoli 2024) a cura di Patrizia Debicke

3 giugno 2024

Una segnalazione anonima, proveniente da un telefono non rintracciabile, permette di ritrovare sepolto all’Idroscalo di Ostia il cadavere mummificato di una giovane donna. Al dito di quei poveri resti un anellino con due cuori intrecciati che corrisponderebbe a quello che figura nella denuncia di scomparsa di Elisa Ohlsen, diciassettenne allontanatasi dalla casa di vacanze della famiglia per passeggiare nei boschi intorno al lago di Albano e poi svanita nel nulla sette anni prima.
Il caso aveva fatto scalpore, il fascicolo è ancora aperto e le prime indagini della scientifica si indirizzeranno in quel senso cercando una comparazione certa, con il testo del DNA . Il pensiero infatti degli investigatori va subito a lei. Impossibile poi tenere celato il ritrovamento ai cronisti e all’attenzione dei media visto che le indagini si concentrano subito freneticamente sulla riapertura del fascicolo Ohlsen. Il livello di guardia è al massimo e tutti, nel XVII distretto di polizia, sono coinvolti direttamente nel caso, salvo l’ispettore Massimo Valeri – pecora nera della squadra detto l’Indiano di origini shinti ma adottato e cresciuto come un figlio da un funzionario e sua moglie- , che dopo l’ennesima lite con il suo superiore, il sostituto commissario Tognozzi, è stato destinato con l’assistenza di Matteo Landini ad approfondire il ritrovamento del cadavere di Emilio Bassetti, un anziano professore. Un cadavere rinvenuto per caso pochi giorni prima per colpa del pallone lanciato in aria e atterrato in un balcone del primo piano durante una partitella di calcio tra ragazzi. Il tredicenne Marius, un ragazzino dominicano, che l’Indiano conosce bene, si era arrampicato per ricuperarlo ma, così facendo, notando la porta finestra socchiusa, era entrato per scusarsi e aveva trovato il morto. L’uomo viveva solo non aveva relazioni e non era stata più visto da quando sette anni prima era andato in pensione. E poi essendo privo di famiglia, con l’unica sorella che viveva altrove ed era deceduta, nessuno si era preoccupato per lui. Solo il caso aveva fatto ritrovare il suo corpo mummificato sdraiato in una brandina della sua abitazione. Insomma, almeno a prima vista, per l’Indiano un caso facile e da archiviare in fretta. Un caso che gli consentirebbe di tornare sulla sua casa barca, ormeggiata nel porto turistico di Roma e riprendere la relazione con Giulia, felicemente ricominciata la sera prima dopo troppi anni di lontananza. Secondo le prime ipotesi la morte del vecchio parrebbe un suicidio. Ma l’Indiano si è sempre fidato poco delle apparenze. E poi, signori, beh questo è un romanzo giallo.
E infatti presto la faccenda si complica e di parecchio. In un inspiegabile gioco di incastri che coinvolgono il sostituto commissario Tognozzi, Massimo Valeri dovrà farsi carico anche dell’indagine sulla diciassettenne scomparsa. E là cominciano le prime sorprese. Costretto ad ampliare la sua inchiesta, non potrà ignorare le coincidenze che si presentano una dopo l’altra e paiono voler far incrociare il presunto suicidio del professor Bassetti con la scomparsa di Elisa Ohlsen. Le sue ricerche devono per forza allargarsi, in modo esponenziale senza trascurare ogni possibile e immaginabile pista, tanto che ben presto si capirà quanto stia per diventare coinvolgente, complessa e intricata la trama costruita per noi da Antonio Fusco.
Qualcosa poi ai piani alti della politica e addirittura dei servizi pare volersi interessare al caso. Un qualcosa di condizionato da un diverso interesse ? Perchè? Forse un mistero? Potrebbe? Ciò nondimeno, a conti fatti, l’ispettore di polizia Massimo Valeri, detto l’Indiano, straordinario investigatore, insofferente per natura, menefreghista poco amante delle gerarchie ma che sa collaborare con i colleghi, oltre a riuscirsi ad adeguarsi alle situazioni, pur di venire a capo dell’indagine dovrà servirsi di tutte la sua capacità. Addirittura stavolta per riuscire a fare luce nel marcio, Valeri dovrà districarsi in un sottofondo di segreti e incredibili legami, denso di soprusi, feroci ricatti e inquietanti depravazioni con riferimenti alla massoneria e peggio. Cercando di scoprire come e perché delle vite apparentemente normali siano state coinvolte in erotiche e perverse cerimonie rapportabili ad antichi ordini esoterici.
Una complessa e rischiosa indagine, che andrà a scavare in un tormentoso e sconvolgente passato che continua fatalmente a lambire e contaminare anche il presente.
Un’inchiesta che richiama irrisolti e dolorosi casi di ragazze scomparse avvenuti nel passato, come quelli di Rossana Corazzin, Emanuela Orlandi e Catherine Sherl.
E terza volta in libreria per l’ispettore Massimo Valeri, l’Indiano, secondo personaggio creato da Antonio Fusco, che si muove e opera nella dura e complicata realtà della capitale.
La scomparsa di una persona cara è il peggior evento che ogni familiare debba essere costretto ad affrontare. L’omicidio, l’uccisione di una persona di famiglia provoca choc ed orrore, ma di solito piano piano al dolore subentra un faticoso processo di rielaborazione legato alla perdita e al lutto, al quale fa forzosamente seguito l’accettazione. Altra cosa invece è la scomparsa di una persona che suscita incertezza, inquietudine , nulla di certo a cui appigliarsi come una crudele sospensione nei sentimenti. Senza contare l’ impotente senso di un’angoscia che si rinnova ogni giorno e persino di colpa, se si arriva a immaginare che il proprio caro abbia bisogno di aiuto ma non si possa fare abbastanza o addirittura sia impossibile darglielo.

Antonio Fusco, nato a Napoli nel 1964, vive a Pistoia dove è ancora funzionario della Polizia di Stato.Laureato in Giurisprudenza e Scienze delle pubbliche amministrazioni, dal 2000 si occupa di casi di polizia giudiziaria in Toscana ed è criminologo forense.
Ha esordito nella narrativa nel 2014 con il romanzo noir Ogni giorno ha il suo male introducendo il personaggio del commissario Tommaso Casabona protagonista al 2020 di sei indagini.
Con La pietà dell’acqua ha vinto nel 2016 la quinta edizione del Premio Mariano Romiti.

:: Un colpo di magia by Shanmei

1 giugno 2024

Se solo mi ricordassi cosa viene dopo “abra

farei sparire l’intero pubblico

Harry Houdini

Fissate la mia mano. La velocità del vostro sguardo non supererà mai la velocità della mia mano, questo crea l’illusione e la magia. Perché ho scelto questo lavoro. Perché mi piacciono gli smoking, i cappelli a cilindro e il rullo di tamburi prima della grande esibizione. Mi piacciono i teatri, la gente in platea, gli sguardi dei bambini, le assistenti bellissime, i camerini odorosi di talco, il trucco sul viso, l’adrenalina che scorre nelle vene.

Sin da bambino ho capito che l’ illusione è la porta per i sogni, che la mente la si inganna come i sensi ma non la si offende.

La potenza delle mie magie sta nei tempi. Tutto deve essere fatto al momento giusto, tutto deve essere fatto per strabiliare, incantare, sorprendere, ammaliare. Io so farlo e mi amano.

Non sempre sono felice, è una vita triste la nostra, gli impresari non sempre sono onesti, il pubblico non sempre applaude, a volte il coniglio ti scappa dal cappello e corre in sala tra le sedie spaventato e furibondo.

Però ci sono volte che spruzzi di vera magia ti sorprendono e tu ti trovi a credere alle leggende. Ai fantasmi nascosti nel suggeritore, alle botole misteriose, ai vecchi maghi del passato che tornano per aiutarti.

Cos’è l’illusione se non un arcano piacere antico di avvicinare la realtà al nostro desiderio, di catturare le stelle. Dall’alba dei tempi l’uomo l’ ha capito e io ora su queste umili tavole mentre sego in due l’aria e metto gambe finte dall’altra parte della scatola. Già non si velano i trucchi. Forse ma io lo faccio a volte quando mi distraggo. Anche se è un delitto spiegare il mistero.

Ora passo una mano davanti al mio volto e sparisco.

Cadabra.

:: MARIA TERESA LIUZZO, “PIOGGE VERDI DI SMERALDI”, A.G.A.R. EDITRICE, REGGIO CALABRIA, 2024. S.I.P.

26 Maggio 2024

La prefazione di Mauro D’Castelli, studioso serio ed attento, a questo nuovo romanzo di Maria Teresa Liuzzo è ampia ed articolata. L’autore dimostra tutta la sua profondità d’analisi e il suo acume critico. Sarei tentato di non aggiungere nulla, se dentro di me non fossero maturate nel tempo tutta una serie di riflessioni sull’opera della Liuzzo che incalzano e impongono di essere esplicitate, perché ci troviamo di fronte a una svolta nella letteratura italiana (e non solo) che non può essere taciuta, come lo è stata, purtroppo, fino a questo momento. Troppo isolata nella sua Calabria, troppo estranea ai circuiti letterari dominanti è l’autrice perché il suo «caso» possa imporsi alla critica cosiddetta «ufficiale».

Certo, l’originalità della Liuzzo non è sfuggita a studiosi come Antonio Piromalli, ma siamo in presenza di un critico che non si accontenta (o, meglio, non si accontentava, finché era in vita e operava culturalmente) dei «canoni» consolidati, che cerca e trova l’originalità nel vasto panorama delle lettere con l’entusiasmo che deve animare il vero ricercatore, se è vero, com’è vero, che la ricerca, secondo la felice definizione di Giuseppe Baretti, ripresa da Piero Gobetti, è «frusta culturale e civile», ansia conoscitiva che non può trovare appagamento definitivo. Per dirla, ancora, con Pavese, la cultura umanistica non è una comoda «poltrona» sulla quale adagiarsi, godendo i risultati ormai conseguiti, ma studio inesausto, che si pone continuamente nuovi orizzonti.

Maria Teresa Liuzzo ‒ dicevamo ‒ segna una svolta. E’ rischioso parlare di una «letteratura al femminile», perché ci si scontra con le opposte resistenze delle femministe di professione e dei benpensanti di sempre che, con motivazioni contrastanti, negano questa “specificità”. A noi non interessa la “logomachia definitoria”. Basta inquadrare un fenomeno, individuarne i caratteri in termini di poetica e di estetica, nonché di sociologia letteraria, e lasciare che sia poi il lettore a giudicare, dopo essersi misurato con l’opera in questione.

Il «caso» di Maria Teresa Liuzzo ha una sua originalità e specificità nell’ambito di quello che, solo per intenderci, definiamo «filone femminile» della letteratura. Abbiamo dei precedenti illustri, che meritano tutti la fama e la stima che li circonda. A partire da Saffo, il cui esempio letterario, a nostro avviso, non è stato sinora studiato in tutte le sue implicazioni. L’esperienza del tiaso è multiforme. Si tratta di una scuola d’arte, di formazione ed educazione, di mistica religiosa, impastata di erotismo legato al culto di divinità. Saffo assomma in sé tutti questi aspetti. Ma si muove sempre in una dimensione aristocratica, anche se trasgressiva, e letteraria, nel significato elitario del termine. L’esperienza di Maria Teresa Liuzzo, per converso, non può essere circoscritta entro questi confini, travalica i limiti della posa letteraria, che, che nell’ambito del «filone femminile» che abbiamo individuato, caratterizzano altre esperienze artistico-letterarie novecentesche.

A proposito di Sibilla Aleramo, Antonio Piromalli ha parlato, con riferimento al volume autobiografico Una donna (1906), di «un libro che è una confessione, sul piano dell’arte, di una vita femminile lucidamente e coraggiosamente combattente». Ma anche qui lo “scandalo” è rimasto circoscritto al campo delle lettere, magari allargato a quel settore della cosiddetta «società civile» che lo circonda. In più, va sottolineato il percorso accidentato seguito dalla Aleramo in termini di poetica e di estetica, con l’adesione alle più disparate correnti artistico-letterarie, aventi pur esse carattere elitario, se si esclude lo sbocco neorealista dell’ultima fase, e in campo politico, passando da una posizione estrema all’altra, a seconda dei momenti storici.

A proposito di Alda Merini, Daniele Piccini ha evidenziato «il destino esemplare di una vocazione alla parola d’amore, al canto». Ed ha aggiunto: «Lei stessa parla e scrive di una poesia che si “detta”, come se sorgesse da dentro, da profondità remote, quasi inaccessibili alla stessa coscienza». Ma nella Merini, sempre a nostro avviso, finisce per prevalere, a livello di poetica, una confusa e contraddittoria dimensione mistico-religiosa, nella quale viene ingabbiata a forza la stessa esperienza amorosa, anche nei suoi aspetti trasgressivi e “scandalosi”. Giovanni Raboni, che pure è stato tra gli scopritori del “caso Merini”, parla di una poesia destinata a rimanere oscura.

Se in Maria Teresa Liuzzo esiste una componente religiosa, si tratta di una religiosità di matrice popolare, profondamente radicata nei sentimenti del popolo calabrese, senza connotati mistici, né, tantomeno, “scandalosi”. Così come manca l’esito oscuro, il “mistero” fine a se stesso, che rientra nell’ampio arco ermetico descritto dalla poesia italiana, carico di quella artificiosità che in esso ha ravvisato Cesare Pavese nello scritto teorico Due poetiche, nel quale ha ben evidenziato come i poeti “ermetici” si beino dell’ “arcano” col quale, per la loro forza medianica, hanno avuto il privilegio di venire in contatto e si fermino a questo godimento misticheggiante, guardandosi bene dall’approfondirlo. Essi esibiscono il loro “stupore” e chiamano il lettore a parteciparvi. Tutto si trasferisce sul piano dell’irrealtà, di un “mistero” e di un misticismo artificioso.

La figura femminile che più si accosta a Maria Teresa Liuzzo è Alba Florio, anche lei calabrese. Antonio Piromalli ha rivalutato questa poetessa in pagine molto limpide che meritano di essere citate. In esse leggiamo: «La sua poesia solitaria e drammatica, nella quale si ritrovano motivi psicologici e ontologici della tradizione calabrese: il sentimento dell’assoluto, della giustizia, della vita come frattura e come scacco […].

Nel mondo della Florio i motivi del dolore, della distruzione, della morte si coloravano di mistero, la natura era trasfigurata in un sentimento cosmico. Spesso la morte oscurava l’immenso spazio del paesaggio, nubi di silenzio si diffondevano nel mondo devastato, l’amore esisteva ma come elemento vitale perduto per sempre, l’esilio, il limbo diventano la terra di nessuno nella quale l’umano era costretto a vivere, i fatti e le occasioni si succedevano come per inesorabile svolgimento che si pativa senza potervi contrastare. […]

La sofferenza del dualismo in cui si agita la vita, il rimpianto dell’innocenza e il senso di colpa che la vita ci comunica con le cose incompiute e caduche allargava l’orizzonte etico ed estetico della Florio, senza lasciare adito ad alcuna speranza».

La sofferenza esistenziale della donna calabrese, che investe anche la sfera amorosa, è pure presente nell’opera di Maria Teresa Liuzzo, ma non sfocia mai, a differenza di quel che accade nella poesia di Alba Florio, nel pessimismo assoluto, senza speranza, che ha una componente decadente e, perciò, prettamente letteraria. Ben più complesso è il rapporto della Liuzzo con il destino e questa complessità ci rimanda ‒ come vedremo ‒ a Cesare Pavese. In lei il critico armato di filologismo deteriore (ben diverso dalla filologia, come ha sottolineato Concetto Marchesi) potrà individuare al microscopio qualche “imperfezione”, ma si tratta di un elemento che arricchisce la sua opera, non la impoverisce, ne dimostra l’originalità creativa.

Leonardo Sciascia, in una nota breve ma penetrante contenuta in Nero su nero, sottolinea con acuta ironia come la perfezione stia alla «cretineria» più che all’«intelligenza», la quale, per l’appunto, «ha sempre, come i tessuti dei navajos, una qualche imperfezione o fuga». Le opere «perfette» sono spesso il risultato di sottile plagio, ben dissimulato, dello scimmiottamento di scritti altrui, abilmente mascherati: «Se una scimmia si mettesse a battere sui tasti di una macchina da scrivere, alla fine verrebbe fuori un sonetto di Shakespeare (variante: dodici scimmie, tutti i libri del Museo Britannico)».

E’, allora, il caso di assaporare la preziosa “imperfezione” dell’opera di Maria Teresa Liuzzo, che è, ad essere precisi, una falsa imperfezione, perché, in realtà, si tratta del salutare allontanamento dai «canoni» consolidati, anche a livello stilistico, oltre che contenutistico ed ideologico. La Liuzzo non scrive solo per se stessa, per ammirarsi allo specchio, assumendo pose letterarie e richiamandosi a correnti e scuole estranee al flusso reale della vita, come lo sono state quella ermetica e quella decadente, che hanno avuto tanti epigoni e che sono state riproposte in mille salse. Esprime la vera «gioia» di scrivere, che risiede, come ha ben evidenziato Pavese in un pensiero del suo diario, Il mestiere di vivere (1935-1950), datato 4 maggio 1946, nel «parlare da soli» e, contemporaneamente, «a una folla». Non considera l’arte un «mestiere», che, per l’appunto, è fatto di pose, di atteggiamenti, della recita di una «parte». Anche qui la scrittrice dà inconsapevolmente (cioè spontaneamente) concretizzazione a un pensiero pavesiano, pur esso contenuto nel diario e datato 7 maggio 1949: «In qualunque mestiere e professione si può vivere il cliché del mest[iere] o profess[ione], “facendo” quella parte. Da scrittori e artisti no. Si sarebbe bohémiens, fessi e insopportabili. Perché? Perché l’arte e lo scrivere non sono mestieri. Almeno in quest’epoca».

Un altro elemento accosta Maria Teresa Liuzzo a Pavese: il voler scrivere «da morta». Leggiamo, ancora, in una pagina diaristica di Pavese datata 10 aprile 1949: «In fondo, tu scrivi per essere come morto, per parlare da fuori del tempo, per farti a tutti ricordo». Anche Maria Teresa Liuzzo scrive come «da morta». Infatti, in questo nuovo romanzo, Mary è morta e rivive da questa dimensione la propria, tragica esperienza esistenziale. Il testo narrativo è costruito su un continuo susseguirsi di prolessi ed analessi: si passa da quel che succede a Mary «da morta» alla rievocazione di ciò che le è accaduto da viva. Scrivere «da morta» serve all’autrice per trovare il distacco necessario ad analizzare razionalmente ciò che ha vissuto e patito, non solo «per farsi a tutti ricordo», cioè per proiettare nell’eternità la propria storia, in modo che i posteri (soprattutto le donne che verranno) possano trarne insegnamento per la loro vita, se è vero, com’è vero, che la vera letteratura, come quella della Liuzzo per l’appunto, ha foscolianamente funzione eternatrice dei valori umani.

Mary è proiezione autobiografica dell’autrice, ma va precisato che opera nel romanzo una trasfigurazione letteraria degli avvenimenti della sua vita, che vengono plasmati artisticamente, rielaborati, arricchiti di una componente “fantastica” che contribuisce ad assegnare ad essi funzione simbolica. La capacità artistica sta nel realizzare l’equilibrio tra realtà e simbolo. Scrive Pavese ne Il mestiere di vivere in data 12 dicembre 1939: «Ci vuole la ricchezza d’esperienze del realismo e la profondità di sensi del simbolismo». E conclude: «Tutta l’arte è un problema di equilibrio fra due opposti». Maria Teresa Liuzzo dà il meglio di sé quando riesce a districarsi tra due polarità opposte, conciliandole dialetticamente, ad un livello di sintesi superiore. Questo meccanismo dialettico le consente di superare continuamente se stessa, di rinnovare la propria opera, superando quelle precedenti e, nel contempo, inglobandole. Così il presente romanzo è il punto d’arrivo, anch’esso provvisorio, di un percorso artistico-letterario sempre in fieri. Non una «saga» tradizionale, né un’opera «seriale», nel senso abusato (ed usurato) del termine, bensì una storia viva che, per l’appunto, attinge questa vitalità dal reale, visto nel suo processo dialettico, e lo trasforma in arte, trasfigurandolo in una dimensione «simbolica». Da questa narrazione fondata sul rapporto dialettico tra realtà e simbolo nasce il «mistero», non costruito artificiosamente, come negli ermetici e nei loro “epigoni”, che abbiamo menzionato, ma reinventato continuamente grazie alla forza rigenerante dell’«angoscia creativa», che è la sofferenza, effettivamente sentita, non simulata, dallo scrittore, nel rivivere una «seconda volta» (anche qui in termini pavesiani) gli eventi della propria vita, nell’avvolgerli nel simbolo, combinando razionale ed irrazionale, conscio e inconscio. Una tecnica narrativa che non imita pedissequamente né i canoni estetici ermetici e decadenti, né il «flusso di coscienza», il «monologo interiore», anch’esso abusato, ma si fonda ‒ come abbiamo già detto ‒ sul sottile equilibrio tra realtà e simbolo, razionalità ed irrazionalità, conscio ed inconscio. Individuiamo qui lontane scaturigini nell’ «ultrafilosofia» del Leopardi, fondata, per l’appunto, sull’equilibrio tra sentimento e ragione, ben individuato da Remo Bodei nel prezioso volume Leopardi e la filosofia, che segna una svolta nella critica, che ha oscillato a lungo nel considerare il Recanatese un «romantico», legato alla «poesia pura», espressione diretta dei sentimenti, oppure, sul fronte opposto, un «filosofo», che distrugge con la ragione le «illusioni» umane, create dalla natura.

Su questo continuo rinnovarsi e “superarsi” dell’artista, sul suo rimettere progressivamente in discussione se stesso e la propria opera, all’infinito, non solo sotto l’aspetto eminentemente “tecnico”, bensì in una visione «estetica» più ampia e «complessa», che implica una genesi non artificiosa del «mistero», che sgorga, per converso, dalla forza vivificante dell’«angoscia creativa», nel suo rapporto dialettico con la realtà effettivamente vissuta, «storica», così si esprime Cesare Pavese in una densa pagina diaristica datata 22 dicembre 1939: «Ogni artista cerca di smontare il meccanismo della sua tecnica per vedere com’è fatta e per servirsene, se mai a freddo. Tuttavia, un’opera d’arte riesce soltanto quando per l’artista essa ha qualcosa di misterioso. Naturale: la storia di un artista è il successivo superamento della tecnica usata nell’opera precedente, con una creazione che suppone una legge estetica più complessa. L’autocritica è un mezzo di superare se stessi. L’artista che non analizza e non distrugge continuamente la sua tecnica è un poveretto». E ancora: «Così è in tutte le attività. E’ la dialettica della vita storica. Ma tanto nell’arte che nella vita, da quando esiste il romanticismo esiste in questa dial[ettica] un pericolo sempre vivo: quello di proporsi deliberatamente il campo del mistero per garantirsi la creazione vogliosa. Nell’arte, l’ermetismo.[…]

Smontare il mistero per servirsene a freddo nell’opera (senza l’angoscia creativa) è lo sforzo di tutta la storia dello spirito. Qui è la dignità dell’uomo ma anche la sua tentazione».

Maria Teresa Liuzzo non «smonta» «a freddo» il «mistero», né se ne serve per «maravigliare», come fecero gli ermetici, in un ritorno di «secentismo», denunciato da Gramsci in una nota breve ma profonda contenuta nei Quaderni del carcere. Lo fa scaturire spontaneamente dalla narrazione, dalla dialettica tra realtà e simbolo, razionale ed irrazionale, conscio ed inconscio. Il lettore rimane “impigliato” nella trama del racconto, coinvolto nel «mistero», non esplicitato dalla scrittrice, ma circondato da quel pizzico di «indeterminatezza» che deve caratterizzare l’opera letteraria, cosicché egli si trova sollecitato ad assumere un ruolo attivo, non meramente ricettivo, a collaborare alla “costruzione” della storia narrativa, ad interpretarla in modo personale e creativo, divenendo, in un certo senso ed entro certi limiti, «coautore», pur senza indulgere all’estremismo di talune «teorie della ricezione».

L’esistenza di Mary è dolorosa, anzi tragica. Anche qui è possibile una lettura «intertestuale» tra l’opera di Maria Teresa Liuzzo e quella di Cesare Pavese. Leggiamo ne Il mestiere di vivere in data 20 aprile 1936: «La lezione è questa: costruire in arte e costruire nella vita, bandire il voluttuoso dall’arte come dalla vita, essere tragicamente». E’ stato Italo Calvino, l’allievo prediletto da Pavese, tanto da essere da lui definito «scoiattolo della penna» per l’agilità e vitalità frenetica della sua scrittura, a dirci che cosa significava per il maestro «essere tragicamente» nella vita e nell’arte. Le riflessioni acute di Calvino sono contenute in uno scritto commemorativo del 1960 intitolato significativamente Essere e fare. Lo «scoiattolo della penna» richiama, per l’appunto, la pagina diaristica da noi testé citata e così la spiega e commenta: «Essere tragicamente vuol dire condurre il dramma individuale ‒ anziché spenderlo come moneta spicciola ‒ a una forza concentrata che impronti di sé ogni tipo d’azione, d’opera, ogni fare umano, vuol dire trasformare il fuoco d’una tensione esistenziale in un operare storico, fare della sofferenza o della felicità privata, queste immagini della nostra morte (ogni felicità individuale, in quanto porta in sé la sua fine, ha una controparte di dolore), degli elementi di comunicazione e di metamorfosi, cioè delle forze di vita». E conclude: «Trasferimento di valori dell’essere nel fare, dalla vita nell’opera, dall’esistenza nella storia. Pavese appartiene a una stagione della cultura mondiale tesa a integrare l’esperienza esistenziale con l’etica della storia». E ancora: «Pavese ci sollecita a un modo di lettura di cui purtroppo la letteratura contemporanea ci dà occasioni più uniche che rare: cioè vuole essere letto come si leggono i grandi tragici, che in ogni rapporto, in ogni movimento dei loro versi condensano una pregnanza di motivazioni interiori e di ragioni universali estremamente compatta e perentoria, E’ un modo di inserirci nel reale e viverlo e giudicarlo che abbiamo completamente perduto; e nell’averlo ‒ per sue vie laboriose e solitarie ‒ raggiunto, sta il valore unico di Pavese nella letteratura mondiale».

Maria Teresa Liuzzo non si limita a “piangersi addosso”, a rappresentare il suo dramma esistenziale, attraverso il personaggio di Mary, pur filtrato ‒ come abbiamo già detto ‒ per mezzo della trasfigurazione letteraria, come un unicum da vivere nel proprio isolamento e nella propria inazione, come hanno fatto (e fanno) gli epigoni nostrani dell’ermetismo e del decadentismo. Lo trasforma in un impulso all’azione, all’«operare storico» ‒ per dirla, ancora una volta, con Pavese ‒ , cioè in slancio vitale, che diventa «elemento di comunicazione», non va tenuto per sé, ma trasmesso agli altri, per determinare in se stessa e nella collettività una rivolta etica. S’inserisce, in tal modo, al pari di Pavese, nella migliore tradizione letteraria mondiale, sfuggendo alle deformazioni imitative, agli “scimmiottamenti” dei modelli d’oltralpe che ne hanno sminuito il valore artistico.

Come i tragici greci, la nostra scrittrice ingaggia un “corpo a corpo” con la realtà, con il «mondo grande e terribile» ‒ per dirla con Gramsci ‒ e dal conflitto nasce l’opera letteraria, che è un’opera di denuncia altamente etica.

Dicevamo che il rapporto di Maria Teresa Liuzzo col «destino» è complesso ed articolato. Anche qui ci viene spontaneo citare un altro pensiero diaristico pavesiano, datato 18 ottobre 1942: «L’ubris è il conoscere un oracolo e non tenerne conto». Pavese usa il termine greco ubris nel significato particolare di «sfrontatezza», «rivolta». Maria Teresa Liuzzo, così come lo scrittore langarolo, è ben consapevole dell’esistenza di un «destino», che incombe sugli uomini e sulle donne del mondo, ma non intende accettarlo passivamente, si «ribella» ad esso. La sua è una ribellione etica, affidata alla denuncia letteraria, che ben si distingue dal cosiddetto «impegno» gridato da tanti intellettuali italiani per motivi di successo e poi contraddetto nei comportamenti concreti.

L’inserirsi della Liuzzo nella più feconda tradizione letteraria mondiale spiega il suo successo all’estero, dove è ben conosciuta e apprezzata da studiosi di valore, di contro ad una sottovalutazione colpevole in Italia, che abbiamo stigmatizzato.

Maria Teresa Liuzzo è scrittrice poliedrica e fantasiosa. Assistiamo nel suo romanzo al superamento delle distinzioni artificiali tra «generi» e «sottogeneri», desunti da una lettura schematica di Aristotele, segnatamente tra poesia e prosa, perché siamo in presenza di un testo narrativo molto lirico nelle sue movenze e nella sua musicalità interna, e tra i diversi codici linguistici, in particolare tra la lingua nazionale e il dialetto. Troviamo decine di versi in un dialetto siciliano che va studiato a fondo. Intanto i versi dell’incipit rappresentano una delle più dure condanne letterarie della condizione di miseria, morale e materiale, nella quale le classi dirigenti italiane hanno tenuto il Meridione e, nel caso specifico, la Calabria, che è rimasta quello «sfasciume pendulo sul mare» di cui parlava Giustino Fortunato. Ma per avere una denuncia così forte ed incisiva dobbiamo andare ai versi ormai “remoti” e dimenticati di un altro poeta dialettale, un altro calabrese, Pasquale Creazzo, comunista libertario che scrive ed opera a cavallo tra Ottocento e Novecento.

Quest’ultimo usa, per l’appunto, il dialetto calabrese. Maria Teresa Liuzzo, pur essendo nata e vissuta in Calabria, ricorre al dialetto siciliano, che è la lingua della madre, originaria di Messina. Pasolini ci ha insegnato quanto sia importante per tutti noi questa forma princeps di comunicazione, che è il tramite con le nostre lontane origini, con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano del nostro essere, fino al profondo della sua intimità, conscia ed inconscia. Ma la Liuzzo non si limita a questo ritorno alla «lingua della madre». Essa rappresenta la lingua di fondo dei suoi versi, sulla quale si è innestato, non in una semplice sovrapposizione, ma nell’ambito di un processo di “mescidanza”, di reciproci prestiti ed “interazioni”, di “consonanze” e “dissonanze”, il dialetto calabrese, e, segnatamente, quello parlato nell’area geografica e culturale che circonda, sull’altra sponda, lo Stretto di Messina. Ne è venuta fuori una lingua molto originale, che, però, non costituisce un “idioletto”, una lingua artificiale ed artificiosa, tutta “letteraria”, nata per partenogenesi, senza alcun rapporto fecondativo con la realtà, bensì una lingua viva e creativa, ricca di umori e sapori strettamente legati al territorio geografico di riferimento, che abbraccia i due versanti. Un’operazione certamente “artistica”, quella compiuta dalla Liuzzo, ma che non perde i suoi connotati “reali”.

La scelta del dialetto ha un suo significato specifico. Non è un caso che i poeti, nel corso dei secoli, quando hanno voluto protestare, abbiano fatto ricorso al dialetto: da Giuseppe Gioacchino Belli a Carlo Porta, a Delio Tessa, al già citato Pasquale Creazzo, al siciliano Santo Calì, che ha voluto utilizzare la lingua dei braccianti e dei boscaioli di Linguaglossa, sulle pendici dell’Etna. Anche per Maria Teresa Liuzzo il dialetto ha una funzione di protesta e di denuncia delle condizioni di miseria e di corruzione dilagante che dominano la sua terra di Calabria, come emerge chiaramente ‒ dicevamo ‒ dai versi di esordio (ma non solo da essi).

A differenza di quanto avviene in altri scrittori dello Stretto, come Stefano D’Arrigo, autore di Horcynus Orca, nei versi di Maria Teresa Liuzzo i due codici linguistici, nazionale e dialettale, rimangono su piani irrelati, ma non contrapposti, perché l’autrice, pur senza mescolarli, riesce ad armonizzarli. Il risultato è estremamente musicale e gradevole per l’orecchio del lettore, tanto che il romanzo andrebbe letto ad alta voce, ricordando, lungo la scia di Borges, che la poesia, dapprincipio, fu musica e canto.

Maria Teresa Liuzzo piega il dialetto a tutti gli stili e i registri: dal tragico al comico, all’elegiaco. E’ tragico nel racconto della violenza subita da Mary sin da bambina. E’ sottilmente ironico nella descrizione delle profferte amorose fatte al Principe da un esercito di popolane per il tramite delle rispettive madri. Qui troviamo pure una componente erotica, anch’essa sottile, con l’ostentazione di organi sessuali al vento, nella speranza che il Principe scelga qualche donzella in cambio di adeguata ricompensa.

Siamo in presenza di un erotismo che non è mai volgare, mai esibito per far colpo sul pubblico dei lettori e sulle sue fantasie represse. Maria Teresa Liuzzo non “civetta” mai col lettore, non indulge a «strategie comunicative» funzionali al successo, così come non insegue le mode, né assume pose letterarie, che sconfinino nell’«estetismo» deteriore. C’è in lei uno scambio continuo tra vita ed arte, nel senso buono, in quanto le esperienze esistenziali nella sua opera diventano letteratura, senza perdere, però, il sapore della realtà, che, pur nella trasfigurazione simbolica, rimane attaccata al vissuto come polpa ad nocciolo. In questo senso la sua arte è vita e la sua vita è arte, con una semplicità che, al di là della trasfigurazione e transcodificazione letteraria, rappresenta la cifra fondamentale del suo essere ontologicamente e, nel contempo, del suo “farsi” scrittrice di cose, non di parole vuote. Ci viene da richiamare la distinzione fatta da Pirandello tra Verga come «scrittore di cose», per l’appunto, e D’Annunzio, come «scrittore di parole» (puro “pirotecnico della parola”, aggiungiamo noi). E Maria Teresa Liuzzo s’inserisce a pieno titolo, con le sue peculiarità e con la sua originalità, naturalmente, nella migliore tradizione letteraria meridionale, perché ‒ vogliamo ricordarlo con Sciascia ‒ la realtà del Meridione è così tragica che s’impone allo scrittore, anche a quelli che sembrano distaccarsene, per dar vita ad un mondo tutto “letterario”, anzi “teatrale”, come lo stesso Pirandello.

Maria Teresa Liuzzo ci dimostra che la poesia è davvero principio e, insieme, momento culminante di ogni civiltà (e qui ha ragione Benedetto Croce, laddove riconduce tutta la «letteratura» a «poesia», anche se non condividiamo la definizione restrittiva che il filosofo dà di quest’ultima, prettamente neo-idealistica e neo-romantica, visto che restringe la «poesia» ad «intuizione lirica», espressione immediata dei sentimenti umani). Attraverso la metafora compie il “miracolo” di trasformare le vicende individuali in vicende collettive.

E Maria Teresa Liuzzo, attraverso il suo romanzo, ha fatto vera poesia, ha saputo cogliere quella che Lukács ha definito «eterna umanità ideale», vale a dire, al di là delle concretizzazioni contingenti ed epocali, la vera essenza dell’umanità, così come si articola nei secoli, nella sua gioia e nel suo dolore: quella che Leopardi ‒ da noi già citato ‒ ha chiamato «varietà della natura».

Perciò possiamo dire, in conclusione, che la sua opera varca i confini nazionali e diventa un esempio di letteratura mondiale. E’ bene che la critica italiana ne acquisti consapevolezza, colmando un ritardo inammissibile ed adeguandosi a quella internazionale, che è stata giustamente generosa con Maria Teresa Liuzzo, che merita la sua (e la nostra) attenzione.

:: Minerva in fiamme di Susanna Raule (Mondadori 2024) a cura di Patrizia Debicke

26 Maggio 2024

Una bella storia, dai toni squisitamente rosa e da cosy crime uhm… anche se forse in realtà non un giallo vero e proprio ma sicuramente disporremo di una trama interessante e intelligente con questo Minerva in fiamme.
Intanto come prima cosa rassicuriamo i lettori non è che una preziosa statua o un celebre dipinto che raffigurano la dea vergine guerriera ma considerata anche la dea della sapienza, simbolo dell’ingegno e dell’intelligenza siano stati distrutti dalle fiamme. No per fortuna, anche se il nome è giusto: proprio quello della antica divinità italica passata a far parte della ricca mitologia etrusca per poi innestarsi nella mitologia romana e di là poi essere equiparata alla greca Atena, nata con addosso tutta l’armatura dalla testa dolorante di Giove in virtù dell’ascia bipenne di Efesto. Ma non è il nostro caso. La Minerva del romanzo infatti è solo la brava psicologa e psicoterapeuta quarantenne in forza al Centro per adolescenti della Spezia, per suo dispiacere da quindici anni di (più o meno) vive un’ educata convivenza con la sclerosi multipla che, durante una leggera ricaduta, presenta alcuni dei classici sintomi: intorpidimento di un arto nel suo caso la gamba destra con forte senso di bruciore (di qui le fiamme) e naturalmente maggior senso di fatica incrementato a dismisura dal gran caldo. Prima mossa: telefonata in ospedale, evitando di svegliare il compagno bello e dotato pittore di qualità , per fissare un immediato appuntamento e passare il suo paziente un ragazzo di sedici anni, primo incontro terapeutico della mattinata a suo carico, a un’amica collega e via di corsa all’ASL per una visita di controllo.
Sappiamo tutti che il lunedì da sempre è la peggior giornata per chi lavora e in particolare quel lunedì a La Spezia fa un caldo boia… Una giornata insomma che per lei si sta annunciando nefasta in tutti i sensi e ohimè alla mercè di un afa’ quasi insopportabile.
Alla ASL la neurologa che la segue da anni e la conosce come le sue tasche, organizzerà subito per lei una prima settimana di flebo di cortisone e programma una risonanza da fare prima possibile secondo i tempi, li conosciamo purtroppo , da lumaca della Sanità italiana.
Ma quando dopo la visita, ecc. ecc. , un paio d’ore più tardi circa, schiacciandosi come una sardina dentro un autobus affollato riesce finalmente ad arrivare al suo posto di lavoro al Centro Adolescenza, verrà accolta dalla brutta notizia, spauracchio di ogni terapeuta: Angel Batista il suo paziente sedicenne non si è visto, insomma non si è presentato perché è morto per un incidente. . Il ragazzo di origine sudamericana e in terapia obbligata dopo l’arresto per spaccio, era soltanto alla seconda seduta con lei. Lo aveva valutato poco comunicativo e diffidente. Faceva parte di un complessino rap… Ma in quel loro primo incontro aveva cavato ben poco da lui. Ciò nondimeno le successive notizie sull’accaduto chiariscono che non si è trattato di un incidente stradale, che so con il motorino come poteva essere prevedibile a quell’età. No il ragazzo è morto di notte in un supermercato, e Minerva scoprirà trattarsi di uno piccolo e da lei frequentato, inesorabilmente schiacciato da una catasta di bottiglie di acqua minerale. Apparentemente solo un fortuito e disgraziato incidente . Ma cosa era andato a fare di notte Angel in quel posto. A rubare? Ma cosa ? L’armadietto dei liquori chiuso a chiave non presenta segni di effrazione E allora? Oddio, a ben guardare parrebbe un incidente un po’ strano, pensa Minerva. E istintivamente non ci crede, per lei c’è qualcosa che non va, poi riflettendoci e considerando meglio i particolari diventa addirittura sospetto. Insomma gatta ci cova. E quando questa sua sensazione si trasforma in certezza, suo malgrado si troverà coinvolta in una personale indagine sulla morte del ragazzo. Epperò appena comincia a muoversi e a provare ad approfondire la storia, questa diventa più misteriosa Sorgono nuove domande… La polizia sembra accettare per buona la tesi dell’incidente ma Minerva e i suoi colleghi covano dubbi. Tanto che la carovana di psicoterapeuti e collaboratori della protagonista vedi: Celeste Aicardi l’amica psicologa senior, Damiano Testa pelo rosso e barba luciferina, Glenda Fontana psichiatra che vive in salopette e Daria Peverini la tirocinante affannata come una foca , e persino la neurologa di Minerva si mettono in caccia di particolari. E neppure il capo in testa del Centro Adolescenza, l’elegantissimo e rompiscatole Pier Boero (giovanile e insopportabile ex marito di Minerva) pur all’inizio riluttante, riuscirà ad esimersi dal ficcare il naso. E quando collaudati professionisti del settore come loro decidono di fare i detective… le faccende si complicano. E la loro diventerà una passeggiata obbligata tra delinquenza, spaccio, microcriminalità che opera agli incerti confini, spesso superandoli , della legalità. Ma alla fine i risultati si vedranno, è garantito, anche se non saranno quelli di una gettonata serie TV. Tutt’altra cosa. Persino la polizia finirà con starli a sentire…
In una città arroventata dalla calura di giugno che distrugge quasi Minerva sul piano fisico, la teorica sfida mentale diventa presto sempre più un casino e anche ohimé molto pericolosa. Giostrando tra orde barbariche di turisti che poco più che in costume da bagno invadono le strade sopraffacendo la popolazione locale, pazienti muniti di coltelli, allarmi bomba, uno strano spacciatore forse disposto a dare una mano e gli arcigni dirigenti dell’ASL il cui unico pensiero pare sia la paura di venire coinvolti in rischi penali e possibili, per Minerva non sarà facile barcamenarsi e arrivare in fondo al caso con ancora un po’ di fiato e quasi risanata. O, per lo meno, sempre viva…
In Minerva in fiamme si toccano con colta disinvoltura spinosi argomenti quali: salute mentale, inclusione, parità di genere, problematiche della nuova generazione di giovani che non sanno ancora cosa vogliono e stentano a inserirsi nella difficile quotidianità e malattia …
Susanna Raule parla della sclorisi multipla con tono volutamente ironico, sdrammatizzando una situazione a lei ben nota perché coinvolta personalmente, ma una patologia che oggi per fortuna gli studi più recenti, salvo rari drammatici casi, hanno reso curabile e con la quale, controllandosi, si riesce a convivere bene per decenni.
Un romanzo piacevole, veloce, arricchito da un modo di scrivere naturale, mai dottrinale anche quando tratta temi in cui descrive il quotidiano dei pazienti e del personale di ogni centro pubblico ospedaliero al giorno d’oggi, tutti uniti contro un comune nemico battendosi ogni giorno con burocrazia, mancanza di personale e di fondi. E un romanzo che rappresenta anche la testimonianza della vita privata di Minerva, la sua serena lotta contro la malattia, con per sua fortuna sempre al suo fianco la forza, l’intelligenza e lo spirito di un compagno straordinario.

Susanna Raule, psicologa e psicoterapeuta, nota al pubblico come scrittice di fantathriller, sceneggiatrice di fumetti e vincitrice di alcuni prestigiosi premi. È tra le fondatrici del collettivo per la parità di genere nel fumetto Moleste (www.moleste.org). Il suo sito è http://www.susannaraule.com.

:: Quando cala la nebbia di Giancarlo Vitagliano a cura di Massimo Ricciuti

21 Maggio 2024

Emilio Severi, più semplicemente Milo, si è da tempo laureato in Criminologia e cerca di lasciarsi alle spalle quello che lui chiama il fatto, ovvero l’omicidio della madre. Seppur ragazzino, Milo aveva avviato una personalissima indagine per scoprire il colpevole, dando una grossa mano alla soluzione del caso. Diventato adulto, il nostro protagonista era tornato sul campo una seconda volta, insieme agli amici di sempre: Giorgio, capitano del Reparto Analisi Criminologica dei Carabinieri e Clelia, magistrato dai solidi principi. I tre erano venuti a capo del cosiddetto “mistero delle ragazze dai grandi occhi”. Da allora Milo ha giurato a se stesso di limitarsi a tenere corsi universitari e a scrivere saggi. Una sera, però, riceve l’angosciante telefonata di Vittoria, sua ex fidanzata, la cui sorella Nadia è deceduta in seguito a quella che è stata classificata come morte bianca, ossia un incidente sul lavoro. Vittoria e i suoi genitori non credono alla versione ufficiale, ritenendo che la ragazza sia stata uccisa e, perciò, chiedono aiuto a Milo. Quest’ultimo, all’inizio refrattario, prova a coinvolgere Giorgio e Clelia, ma tutto porta in direzione dell’incidente. Milo, allora, s’intestardisce, anche per le pressanti richieste di Vittoria e cerca di ricostruire l’accaduto, parlando più volte con i superiori e i colleghi della vittima. Una brillante e inaspettata intuizione del protagonista capovolgerà la situazione, portando a una verità sconvolgente.

Quando cala la nebbia è il terzo romanzo di Giancarlo Vitagliano incentrato sulla figura di Milo, detective per amore. Insieme a lui ritroviamo Giorgio, Clelia e la sua esuberante figlia, Daniela. C’è anche Francesca, collaboratrice di Giorgio: con lei stava nascendo una forte simpatia, ma proprio alla fine del secondo romanzo ci viene spiegato il perché Milo si sia sentito tradito dalla ragazza. Gli unici familiari rimasti al protagonista sono la zia Lucy e lo zio Mario, sempre pronti ad accoglierlo in casa loro. Centrale è il ricordo della mamma del protagonista, che spesso gli appare in sogno. Una parte rilevante è riservata alla musica, come sempre accade nei romanzi dell’autore: potete trovare, infatti su Spotify la Playlist dei CD citati nell’opera in questione. A Giancarlo Vitagliano va rivolto, inoltre, un particolare plauso per il modo ingegnoso e degno dei migliori giallisti con cui conduce Milo alla soluzione del caso. Anche per il difficile tema trattato, quello delle morti sul lavoro, l’autore dimostra una volta di più la sua profonda conoscenza dell’animo umano e delle relazioni fra le persone. Aspettiamo, dunque, la quarta avventura di Milo, sicuri che non ci deluderà.